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Autore: Lapiuma    14/06/2020    0 recensioni
"Attrazione.
Tutti almeno una volta la sperimentiamo. É un formicolio delle dita, una corrente inarrestabile, i due capi di un elastico che dopo essere stati tesi allo spasimo, improvvisamente non possono fare a meno di ricongiungersi. È antica come il mondo, si intreccia alla nostra natura da sempre. È calamità magnetica, offuscamento della ragione, risveglio dell'animale. È tormento ed estasi, dolcezza di miele e sapido di lacrime.
È ciò che regola i nostri rapporti, che ci spinge a perpetuare la specie, che fa scoccare quel mostro chiamato amore. Sembriamo creati apposta per esserne interessati.
Ma a volte, l'attrazione va repressa, soffocata, condannata ad affogare in zone della nostra anima di cui non sappiamo il nome. Allora diventa afasia, tremore, rabbia, gelosia, instabilità. È un acido che corrode le viscere e un immenso roveto con cui imprigionare il cuore. È contraria alla nostra natura, aliena ai nostri istinti, morte dell'animale sotto la ragione. È squilibrio, violenza silenziosa; repressione dell'attrazione."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2.
Strido. 
Strido in modo acuto e deliberato, un groviglio scuro di rovi in una distesa di papaveri in boccio, inconsapevole se gli altri se ne accorgano o meno. Impacchettata in uno dei vestitini sgargianti di Alice, ho affogato nei liquidi l’insopprimibile impressione, che striscia e si arrampica lungo il mio esofago, di essere un’impostora sul punto di essere scoperta. Il solo fatto che lo percepisca, nero e magnetico, un posto più in là, mi urtica la pelle, fa sbocciare creste di brividi lungo la mia spina dorsale. Sofia, accanto a me, sta ridendo, il gomito puntato tra le mie costole perché le faccia da eco e, almeno, nasconda il mio livore funereo. Io ci provo, tento di forzare i miei muscoli in quella maschera divertita e sarcastica che indosso la maggior parte del tempo; ma forse ho bevuto troppo e non sono in grado di far altro se non sciogliermi, fondermi pian piano nelle pozze di birra sul tavolo. Per quanto possa apparire piuttosto disgustosa come sorte, confido che apprezzerò l’insensibilità degli amici luppoli: essere insensibile ai picchi e alle valli delle sue risate, alle tortuosità delle vene e dei tendini delle sue mani, al modo in cui la luce taglia, come una lama, la sua fisionomia imperfetta mi pare l’unica via di fuga possibile.
Questa volta ha portato un amico, il cui nome devo averlo smarrito tra i fumi dell’alcol e del desiderio; immagino Alice che lo prega di trovare l’amico perfetto per me e Sofia. Mi raffiguro la selezione che deve aver affrontato il poveretto e sorrido, impietosita. Sofia mi scocca un’occhiata, mi interroga con un cenno del mento, che hai da ridere? Io indico il ragazzo e poi ammicco verso Alice, sto pensando a cosa gli deve aver fatto passare. Lei stringe le labbra, nascondendo il riso, poi mormora “La fedina penale gliel’ha già controllata, secondo te?”. Reprimo un ghigno, “Sicuro, la prendi per una principiante? Tessera sanitaria, diploma, certificato di nascita... la stronza ha già tutto...mi chiedo solo se si è già fatta presentare i suoi” “Come se ce ne fosse bisogno… scommetto che sa già quanto guadagnano, se vogliono dei nipoti e se preferiscono essere cremati o meno”. 
A questo punto, scoppiamo a ridere sguaiatamente, collassando l’una sull’altra. Alice ci guarda, fa per dirci qualcosa, ma la precedo, con la lingua improvvisamente sciolta e un fuoco dentro, che si mangia tutto l’alcool che ingerisco da tre ore: “Ma la macchia nera l’hai già trovata o ce l’hai sottoposto ancora candido e perfetto?” Alice sbuffa, smascherata, ma sorride, impenitente: “Guarda che mica l’ho obbligato io a venire… e poi per ora è ancora immacolato e pronto ad essere accasato, vero…?” La lingua le inciampa sul finale, mentre una scintilla di panico le accende lo sguardo: o Gesù, si è dimenticata pure lei il suo nome. Per fortuna Sofia salva la situazione, interpellando il diretto interessato: “Allora hai qualcosa da dichiarare o sei davvero immacolato e pronto ad essere accasato?” 
Per la prima volta da quando siamo stati presentati, soffermo la mia attenzione su di lui, scrutandolo senza troppa delicatezza. Ha un viso affilato, il naso dritto e gli occhi scuri, color onice. Se è imbarazzato o sorpreso, lo tradisce solo la piega della bocca sottile, che a sinistra scarta e cade improvvisamente di lato. Il silenzio perdura un attimo di troppo, mi offre l’occasione per incalzarlo: “La seconda casa dove l’avete? Mare o montagna?” Sofia ridacchia, mentre Alice fa un cenno come a dire d’ignorarmi. Di Andrea rifiuto di esaminare la reazione, mentalmente lo riduco al silenzio, alla non esistenza. 
“Mare” è come se la parola gli sfuggisse, eludesse il controllo di quelle labbra serrate.
“Riviera o Porto Cervo?” “Porto Cervo” questa volta il controllo è meno stringente, le sillabe si lasciano dietro un mezzo sorriso. Sofia emette un fischio, ammirata, e io rivolgo un piccolo applauso ad Alice, “Complimenti signora, ha dei gusti raffinati”. Lei accenna un inchino, soddisfatta, lisciandosi pieghe immaginarie sul vestito. “E il conto in banca?” giustifico la mia maleducazione nei luppoli, ma una bruciante impertinenza mi prude sulla lingua e non riesco a trattenermi. “Cosa?” questa volta quasi si strozza e la spuma della birra gli si arriccia bianca sulle labbra, come i ricami che le onde lasciano sui lidi scuri. “Il conto in banca, quanti zero?” Mi ritrovo il ginocchio di Sofia puntato contro lo stomaco, ma non riesce a trattenersi e mi dà corda: “Sei, sette?” Mi rivolgo scandalizzata direttamente ad Alice: “Non dirmi che è come l’ultimo! A quanto arrivava quello?” “Nemmeno a cinque credo” risponde Sofia. Emettendo un verso disgustato, riporto la mia attenzione su di lui, lo sollecito con un gesto della mano: “Allora?” Lui per un attimo tace, ingolla un altro sorso di birra, poi spara: “Nove”. Sofia inizia a farsi aria con la mano, mentre io scoppio a ridere di gusto. Quando lo guardo, sul suo volto è rimasta impressa la traccia di un sorriso. 
Quando usciamo dal locale, tira un vento gelido, che si insinua fra le anse dei vestiti senza lasciare via di scampo. Alice e Andrea ci salutano subito, dileguandosi nel buio, avvolti in una felicità così abbagliante da non accorgersi dell’imbarazzo che si lasciano dietro. Noi tre ci guardiamo ed esitiamo tutti un secondo a parlare, finendo per accavallarci l'uno sull'altro. In ogni caso, salta fuori che io e il ragazzo senza nome dobbiamo incamminarci nella stessa direzione. Mi propone di fare il tragitto insieme, non riesco a capire se per pura educazione o meno; sto quasi per accampare una scusa, ma Sofia mi precede: “Ottima idea, così almeno una delle due non concluderà la serata sgozzata in un cassonetto”. “Guarda che so cavarmela benissimo da sola e poi non è nemmeno così tardi...” bofonchio, mezza infastidita dalla sua premura, ma mi sottometto docile alla sua occhiata imperiosa, lasciandomi abbracciare e indugiando un istante a guardarla mentre si allontana. Quando mi volto di nuovo verso di lui, si sta accendendo una sigaretta e la fiamma dell’accendino si agita esile nell’aria, sfidata dal vento. Nonostante l’accanimento della natura, porta a termine l’operazione con gesti secchi e veloci, che istintivamente mi sorprendono. Prende una prima boccata, aspirando profondamente, trattenendo dentro di sé il fumo il più possibile, e poi espira, partecipando con tutto il corpo: spalle, collo, testa, tutto sembra espellere da sé una tensione impossibile da trattenere oltre. Mi chiedo, sorpresa, se ne siamo state noi la causa o come mai se aveva così tanto bisogno di fumare abbia atteso fino ad ora. Quando si volta verso di me, un sorriso soddisfatto gli aleggia sul volto, ingentilendo quelle linee di rasoio. Fa per offrirmene una, ma rifiuto con un cenno del capo. È lui ad essere sorpreso ora, mentre mi scruta con la testa inclinata, come se fosse impensabile ricusare una simile offerta. Poi scrolla le spalle, contenta te, ed indietreggia di un passo, facendo cenno di incamminarmi: “Prego”. Gli scocco un’occhiata, stranita, senza sapere se mi prenda in giro o meno. Lui, in tutta risposta, inarca allusivamente le sopracciglia, uno scintillio negli occhi e la sigaretta irta tra le labbra. Non so perché, ma mi viene da ridere, mentre mi incammino mezzo passo davanti a lui. 
Per qualche minuto proseguiamo in silenzio, senza avvertire la necessità di dire alcunché. Mentre attraversiamo i vicoli serpentini del centro, mi lascio vagabondare tra gli stralci di voci e di musica che filtrano fuori dai locali, osservando di soppiatto le vite che palpitano intorno a me. Solo a quest’ora della notte, la miseria e la grandezza del mondo si schiudono veramente davanti ai nostri occhi: amici, amanti, ubriachi, prostitute, drogati, imperversano per le glorie della città storica, vomitano dove una volta abitava un duca, amano dove una volta si impiccavano i ladri. È un prodigio quest’involuzione di epoche e uomini, sempre diversi, eppure sempre uguali a se stessi. 
Solo quando usciamo dalla zona più affollata e la notte torna ad avvolgerci, il ragazzo accanto a me sembra riacquistare consistenza e il suo mistero divenire allettante, impellente. Gli rivolgo un’occhiata di sbieco, incrociando il suo sguardo imprevisto: non pensavo mi stesse osservando e soprattutto non con quell’interrogativo ironico e curioso luccicante negli occhi. Per un attimo, vorrei sottrarmi a questo cono di luce e sfuggire alle sue iridi scure. Ma in esse sembrano aleggiare un senso di sfida e una certa pretesa di superiorità, che risvegliano all'istante il mio orgoglio sopito. Così mi risolvo a contraccambiare il suo sguardo. Quando se ne accorge, quasi s’arresta e pare stupito; io cerco di rivolgergli una smorfia beffarda, ma forse qualcosa va storto, un muscolo, un tendine, un labbro che rifiutano di fare il loro lavoro, perché lui sorride, divertito. Poi si guarda, aprendo le braccia come per farsi scrutare, “La vista è di tuo gradimento?” mi chiede ammiccando. Mi esce un risolino idiota, che spero suoni più mordace di quanto mi sembri: “Stavo solo cercando di capire se i nove zeri fossero fondati”. Le sue labbra hanno un guizzo, fremono come vibrisse, prima che anche lui rida: “Mi dispiace, ma temo proprio di doverti deludere”. Mi porto una mano sul cuore, prima di declamare sconvolta: “Ma non ti vergogni? Prendere così per il culo delle povere fanciulle… scommetto che non siamo nemmeno le prime!” Mi aspetto l’eco di una risata, ma inspiegabilmente è come se appassisse, mentre il sorriso gli muore sul viso e un’ombra scura gli attraversa lo sguardo. Improvvisamente mi sento goffa, inadeguata ed indelicata: in fondo non so nulla di lui, del suo carattere e della sua vita e forse certe schiettezze non dovrei ancora permettermele. Mi affretto a scusarmi, maledicendomi nella mia testa: “Scusa battuta pessima… lascia perdere…” “No no, figurati… non è colpa tua…” si sforza di rispondermi e prende un respiro, sorridendo mesto “...sono solo brutti ricordi”. Annuisco, silenziosa, perché le sue parole hanno un odore familiare, quello delle ferite non ancora rimarginate. “Tutti li abbiamo” sotto il suo sguardo mi sento inquisita e le mie parole improvvisamente mi paiono superflue e banali, avvizziscono. Ma lui pare soppesarle prima di rispondere: “Sì, presumo di sì… solo che i miei penso siano più neri di quelli degli altri”.  
La notte intorno a noi si fa più pesante, ci avvolge nella sua cappa di silenzio e solitudine, che ora sono timorosa di infrangere. Forse è sorpreso dal mio tacere, perché quando rivolge lo sguardo verso di me, nei suoi occhi c’è un’intensità che prima non c’era. Ma per quanto mi scruti, per quanto si spinga a scandagliare il fondale, c’è una cautela in lui, una delicata reticenza, che quando la riconosco, quasi mi spezza. E la riconosco perché è anche la mia, perché questa sua, mia, nostra cautela è l’istintivo e circospetto timore davanti a una fiamma di chi una volta è rimasto bruciato. È l’ardire perduto del funambolo che una volta è caduto, la fiducia spezzata del bambino dopo che gli è stato mentito. È l’inevitabile scudo che nasce con il rifiuto, la snaturante consapevolezza che potresti essere tu, proprio tu, che ora increspi la mia pelle di baci, a farmi del male. È l’amore negato. 
“Mmm... allora proseguiamo?” la sua voce mi riscuote, nemmeno mi ero accorta che ci fossimo fermati. Ma il tono non è sprezzante o seccato, e anzi pare quasi indugiare sulle sue stesse parole, mentre si scompiglia i capelli scuri. “Ah, mi pareva ti fossi incantato” la mia lingua, come un aspide, articola la risposta prima del cervello, e subito vorrei ricacciarmela giù in gola, tanto mi pare dissonante con la delicatezza di qualche istante fa. Lui sorride, ma con un ghigno ironico e distante, come se non ci fossimo appena scoperti intimamente simili, pericolosamente affini. Aspira l’ultima boccata di fumo, rabbrividendo di piacere lungo tutto il corpo, espira, getta via il mozzicone, “E a guardare cosa? Te?” Non so se la sua replica mi stupisca o meno; c’è un’aggressività latente in lui, un’ironia acida che non mi pare emerga sempre in superficie; nel locale, mi era sembrato quasi timido. “A meno che tu non abbia un’oscura fascinazione per i topi, suppongo di sì”. Questa volta il sorriso è più uno stiramento delle labbra serrate, come se, di nuovo, le sue parole per essere pronunciate dovessero eludere il loro controllo.  
Il resto del tragitto lo compiamo in silenzio, se non per scambiarci qualche indicazione. Cerco di rifiutare quando insiste per allungare il suo percorso in modo da accompagnarmi fino a casa: detesto le pure formalità o la condiscendenza e temo che siano queste a dettare il suo comportamento. Ma lui è fermo, irremovibile, e finisco per acconsentire.
Quando scorgo il mio portone in fondo alla via, è come se una fremente agitazione mettesse radici dentro di me: titubante, mi chiedo se dovrei dirgli qualcosa. Esitando, mi chiedo che cosa. Infine, stizzita, mi chiedo perché diamine me lo stia chiedendo. Abbiamo passato insieme mezza serata e già mi ronzano in testa infiniti problemi. 
Comunque sia, quando siamo davanti al portone e mi fermo, il fremito è ormai dilagato in un impacciato imbarazzo. “Ecco, abito qui” non so perchè ma le parole mi escono in un sussurro. Mi schiarisco la gola. Guardo i miei piedi, la porta ed infine lui. Deve aver concluso un percorso analogo, perché i nostri sguardi si incontrano a metà strada. Stira le labbra. Io probabilmente mi produco in un ghigno. Mi aspetto una risposta, ma lui tace. “Beh… allora grazie… per avermi accompagnata” la banalità delle mie parole quasi mi delude: non so perché mi sento in dovere di pronunciare qualcosa di brillante. “Ah figurati… dovere” agita una mano nell’aria, poi si scompiglia i capelli, infine la ficca in tasca. Constatare che l’imbarazzo non è unilaterale, mi fa sorridere: mi scopro a provare verso di lui un’istintiva tenerezza. “Allora ciao… buonanotte” biascico le parole nella sciarpa, quasi a volerle nascondere. “Sì… buonanotte” si esibisce in un buffo commiato, l’accenno di un saluto militaresco e di un inchino, che mi fa sorridere. Mi volto, come a celare il mio riso, sentendomi improvvisamente esausta e sveglissima insieme. Sto per chiudermi la porta alla spalle, quando nel vicolo deserto risuona la sua voce: “Ci rivedremo?” Quando mi volto, lui è in mezzo alla strada, le mani in tasca, tagliato a metà dalla luce di un lampione. Ma il suo viso è limpido, disteso, come se quell’istintiva affinità aleggiasse di nuovo tra di noi. “Sì, suppongo di sì”. Gli impedisco di scorgere il mio sorriso e mi chiudo la porta alle spalle. 
   
 
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