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Autore: blackjessamine    25/06/2020    15 recensioni
[Ole Nissen (OC), Homer Landmann (OC)]
Certi legami hanno lo stesso calore del sole: tracciano scie luminose che rimangono impresse negli occhi anche quando la notte sembra aver impiastricciato di nero una vita intera.
Sono i legami che sanno rinsaldarsi anche negli spazi vuoti creati dalla distanza, quei legami che un nome non lo vogliono nemmeno trovare, perché sono tenuti in piedi da sorrisi che negli anni non cambiano mai.
Un Guaritore figlio del mondo.
Uno psichiatra schiavo di un'empatia fuori controllo.
Sotto lo stesso cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Capitolo 6


 
 
Non dissero più niente, Ole e Homer, ma si addormentarono l'uno accanto all'altro.
O meglio, Homer si addormentò così com'era, prono, le braccia incrociate sotto il volto e il capo girato in direzione di Ole: era già successo qualche volta che Homer si addormentasse nel letto di Ole, dopo le notti di chiacchiere che si protendevano più a lungo del previsto – sei davvero impossibile, Homer! Prima mi rubi il letto e mi esili in questo qui vicino ai bagni, e poi mi rubi anche questo! – costringendo Ole a ore di veglia, rannicchiato in un angolo con la paura continua di svegliare Homer, se si fosse addormentato e avesse ceduto al suo solito sonno disordinato, fatto di continui avvoltolii nelle coperte, di lotte con il cuscino e di posizioni sempre più scomode.
Era rimasto sveglio ad ascoltare il respiro lento e regolare di Homer, e a cercare di scacciare dalla testa l’immagine di Eloise tutta ciglia sbatacchianti e labbra protese.
“E io che ne so se sono davvero interessato?”, aveva chiesto Homer. Lo aveva chiesto, e a dispetto di quei pensieri gridato nel silenzio del dormitorio, a dispetto di quell'inopportuna migrazione di giaciglio, Ole sapeva che Homer non avrebbe mai lasciato cadere la questione così. Lo sapeva perché aveva sedici anni, e a sedici anni non si voltano facilmente le spalle a una ragazza graziosa e perfettamente disponibile a farsi baciare. E lo sapeva perché, in fondo, Homer Landmann non era capace di deludere le persone, e forse Homer poteva ancora pensare che avrebbe potuto trasformare un appuntamento in una normalissima uscita di gruppo gra amici, ma non lo avrebbe mai fatto.
Non lo avrebbe mai fatto, perché Ole avrebbe preferito di gran lunga finire in punizione nell'ufficio di Gazza, piuttosto che essere costretto a sedere allo stesso tavolo di Homer ed Eloise.


 
***


“E io che ne so se sono davvero interessato?”
Quella domanda Homer continuò a porsela per il resto dell’anno scolastico, dando a Eloise risposte evasive, prendendo tempo, mettendo le mani avanti e continuando a ribadire che per lui le relazioni erano fatte solo di attimi, e che non era capace di fare grandi progetti. 
Eppure, dopo quell’appuntamento che Homer si rifiutava di ritenere un appuntamento, ma che c'era stato e si era concluso con un altro bacio sporco di torrone di Mielandia, ce n’erano stati altri. Pochi, non abbastanza perché loro si potessero considerare una coppia a tutti gli effetti, ma nemmeno così sporadici da essere solo il frutto di un caso, di un bacio dato al termine di una festa deludente così, per vedere l’effetto che fa.
E c’erano state lunghe serate in cui Homer e Ole avevano discusso di tutto questo, con Homer che continuava a ripetere che non voleva una relazione con Eloise, perché in fondo in fondo interessato forse non lo era, per quanto non potesse negare che alcuni dei loro non-appuntamenti più appartati avevano avuto un certo fascino, e Ole che insisteva affinché Homer fosse chiaro con lei, allora.
Homer, però, per la prima volta nella sua vita aveva dovuto fare i conti con un tratto del proprio carattere che sino a quel momento gli era sempre parso un punto di forza, scovandone tutte le debolezze: Homer non aveva mai incontrato una persona a cui non piacesse. Amava essere apprezzato, amava godere di ogni istante senza porsi troppe domande, prendendo tutto il buono del mondo e cancellando con una scrollata di spalle ciò che per lui non aveva importanza. E così si era ritrovato a gestire una situazione sempre più in bilico, dall’equilibrio precario, dove non aveva alcun interesse a coltivare una relazione che si sarebbe potuta definire tale sotto ogni punto di vista con Eloise, ma non vedeva nemmeno la necessità di chiarirlo in modo definitivo, rinunciando a quel poco di piacevole che trovava in questi incontri privi per lui di alcuna importanza. La sua non era cattiveria: non lo faceva per approfittarsi di lei – non lo avrebbe mai fatto, non consapevolmente – ma era solo ingenuità. Una sconcertante, infinita ingenuità fuori luogo. Per lui Eloise non era importante, era solo una persona con cui era capitato qualche volta di darsi un bacio o due, e aveva sempre dato per scontato che la stessa leggerezza esistesse anche per la ragazza. Per di più, l’imminente trasferimento era per lui motivo sufficiente per non aver bisogno di mettere un punto fermo a una relazione che era comunque destinata a infrangersi contro la lontananza, dunque affrontare imbarazzi e discorsi dolorosi era una seccatura doppiamente inutile. 


Nella sua speranza di non dover davvero salutare Eloise, Homer non aveva fatto i conti con la determinazione da bambina viziata della ragazza: per lui la loro non-storia era finita quando lui aveva fatto finta di non sentire il suo richiamo, a King’s Cross, e aveva lasciato la stazione assieme ai suoi genitori e a Ole senza voltarsi indietro, ma Eloise sembrava ben decisa ad avere l’ultima parola.
E l’aveva quasi avuta, in mezzo al tramonto di Brighton, fingendo di ignorare l’imbarazzo e il modo in cui Homer cercava di evitare ogni contatto fisico con lei, non degnando Ole nemmeno di uno sguardo e proponendo di fare un giro sulla ruota panoramica del Brighton Pier – quella con i cestelli piccoli, dove possono salire due persone alla volta.
Solo allora Homer, dopo aver gettato uno sguardo carico di scuse a Ole, si era fermato, aveva guardato Eloise negli occhi e le aveva detto che sì, apprezzava moltissimo il suo gesto, ma purtroppo doveva esserci stata una grossa incomprensione tra di loro (certo anche per colpa sua), e probabilmente lei si era fatta un’idea molto diversa da quella che lui aveva del loro rapporto.
Era stato orribile.
Ole si era fatto piccolo piccolo, poggiandosi al parapetto del pontile e fingendosi molto interessato alla tecnica di volo dei gabbiani, anche se ogni sua cellula era tesa ad ascoltare la conversazione che si svolgeva alle sue spalle.
Era stato orribile, perché dapprima Eloise aveva fatto finta di niente, cercando di camuffare la delusione con una risata e un chiacchiericcio vivace. Homer allora si era sentito costretto ad essere più preciso, e a dire esplicitamente che non desiderava passare il suo ultimo giorno in Inghilterra assieme a lei. Ole, pur senza guardarli, aveva avvertito chiaramente il momento in cui il cuore di Eloise si era spezzato, e quello in cui Homer avrebbe voluto avere la possibilità di scomparire.
Eloise era rimasta in silenzio a lungo, e Ole aveva quasi percepito il flusso impazzito dei suoi pensieri mentre lei passava in rassegna un’argomentazione dopo l’altra per cercare di convincere Homer a cambiare idea. Eloise era delusa, era arrabbiata e si sentiva anche un po’ umiliata, e Ole, al di là di tutta la sua irritazione all’idea che la ragazza fosse giunta a rovinare ogni cosa, non poté fare a meno che provare un po’ di pietà per lei. Di pietà, e di ammirazione, perché alla fine Eloise mise da parte tutta la sua rabbia e la sua voglia di frignare, scelse di non fare scenate, e mormorò solo, con la voce appena un poco incrinata dal pianto:
“Mi sono fatta accompagnare qui da mia sorella, e credevo… speravo che saresti stato tu a riportarmi a casa. Se mi insegnate a usare un telegrafo, posso provare a contattare la moglie del cugino di mia madre, che è babbana, e…”
“Ma no, ti riporto a casa io, se vuoi”, si offrì Homer, tenendo gli occhi bassi, pieno di vergogna. Eloise, che diciassette anni li avrebbe compiuti solo ad agosto, non aveva ancora potuto fare l’esame per ottenere la licenza di Materializzazione. E Homer, in fondo, non le avrebbe mai permesso di vagare per mezza Inghilterra senza essere sicura di come fare per tornare a casa.


Fu Ole a guidare il piccolo gruppetto alla volta di casa sua: c’erano troppi turisti in giro per Brighton, e non c’erano luoghi abbastanza appartati perché Homer ed Eloise potessero smaterializzarsi senza destare sospetti. Fu una passeggiata miserabile, condita da un silenzio grondante imbarazzo: Ole, in testa al gruppo, non osava nemmeno voltarsi verso i due ragazzi che lo seguivano a capo chino, facendo i conti con il proprio dolore.
Quando svoltarono nella stretta via che portava alla casa di Ole – una via su cui si affacciavano abitazioni modeste, che poco avevano a che fare con lo sfarzo del centro – Ole si ritrovò a fare i conti con un’irritazione tutta nuova: non solo Eloise li aveva interrotti, non solo aveva gettato un’ombra scura sulla loro giornata spazzando via ogni residuo di divertimento che potesse esserci prima di un addio, ma ora Ole era anche costretto a lasciare che quella ficcanaso dall’occhio lungo e la lingua rapida si infilasse a casa sua. Se quella mattina si era sentito in imbarazzo facendo strada a Homer, ora era soltanto irritato. Homer ed Eloise sarebbero stati gli unici compagni di scuola ad essere mai entrati in casa sua, e l’idea che Eloise, quella che lui non avrebbe mai invitato, a settembre sarebbe stata ogni giorno sotto i suoi occhi, mentre Homer sarebbe stato dall’altra parte del mondo gli era semplicemente insopportabile, troppo dolorosa anche solo per darle un corpo concreto.


Ole aprì la porta di casa con rabbia, e se la richiuse alle spalle con un suono secco, rimpiangendo un pochino di non averla utilizzata come ghigliottina per mozzare l’invadente coda di cavallo di Eloise.
“Ecco, fate pure, qui non vi vedrà nessuno”, mormorò laconico, lasciando Homer ed Eloise nella penombra dell’ingresso, deciso a dirigersi a passi rapidi in cucina, senza voltarsi: non aveva granché voglia di guardare Homer prendere la mano di Eloise per smaterializzarsi – nonostante tutto, Homer era troppo beneducato per pensare di stringerle semplicemente un braccio e trascinarsela dietro come un sacco di patate.
“Ole, mi aspetti qui, vero?”  
La voce di Homer lo rincorse, venata di preoccupazione. Erano le prime parole che pronunciava da quando si era costretto ad essere esplicito con Eloise.
Ole gettò un’occhiata all’orologio appeso accanto alla minuscola finestra: erano da poco passate le diciotto e trenta. Stringendo le mani in due pugni contratti, annuì:
“Va bene, ma fai in fretta: mio padre potrebbe tornare da un momento all’altro, e…”
Ole non concluse la frase: non ne parlava volentieri, ma Homer aveva domandato quanto bastava per non insistere mai per passare del tempo con Neil Nissen.
“Ah, certo, fai in fretta a cacciar via la ragazza che hai appena scaricato, mi raccomando!”
Eloise, che fino a quel momento era riuscita a trattenere la sua rabbia e la sua delusione, aveva picchiato un piede per terra, proprio come avrebbe fatto una bambina viziata.
“Eloise…”
“Eloise un cazzo, Homer!”
Quella, rifletté Ole, doveva essere la prima volta che lui sentiva Eloise Pearson pronunciare ad alta voce una parolaccia.
“Mi hai presa in giro per mesi, e io sono stata una stupida, stupida stupida! Lo avrei dovuto capire subito che mi stavi prendendo in giro, perché tu non mi hai mai, mai mai messa al primo posto!”
Ole cercò di ritirarsi in un angolo, confuso: sapeva che sarebbe stato chiedere troppo, veramente troppo se avesse continuato a sperare che Eloise accettasse tutta la situazione in silenzio. Ma Eloise non era mai stata una persona capace di restarsene in silenzio quando ciò che aveva desiderato per tre anni le veniva strappato via a quel modo.
“Io non… non ti ho davvero presa in giro, e lo sai. Ti ho sempre detto che per me era solo questione di attimi, che riuscivo a vivere le cose solo giorno per giorno…”
Ole, prima ancora che Eloise ricominciasse a urlare con quella sua voce troppo acuta e piagnucolosa, seppe che Homer non aveva affatto detto la cosa giusta. 
“Be’, le vivevi giorno per giorno con me, perché invece per quello lì” – e il suo indice munito di artigli Tassorosso-cromati pose sotto accusa Ole – “per quello lì sei sempre stato pronto a muovere mari e monti, senza mettere in dubbio niente”.
E se la prima risposta di Homer non era stata quella giusta, la sua reazione successiva non avrebbe potuto essere più sbagliata. Perché, dopo aver seguito con lo sguardo l’unghia giallo polenta, Homer scoppiò a ridere.
“Ma che cosa c’entra Ole?”
Rise anche Eloise, ora, una risata acuta e vagamente isterica, che cercava di fare il verso a quella di Homer.
“C’entra che io sono sempre venuta dopo di lui, ecco cosa c’entra. E anche adesso che mi stai scaricando, t’importa comunque solo di tornare in fretta da lui! Nemmeno quando mi lasci riesci a mettermi al primo posto”.
Ole, dentro di sé, non riuscì a trattenere un pensiero che lo fece sentire vagamente in colpa: se Homer la stava lasciando, era ovvio che non potesse metterla al primo posto. E forse sì, non l’aveva mai davvero messa al primo posto: una brava persona, rifletté Ole, non avrebbe mai sorriso davanti a quella prospettiva, eppure lui non riuscì a fare a meno di provare una briciola di soddisfazione.
Quello che invece non stava sorridendo, e nemmeno sembrava sentirsi più particolarmente in colpa, era Homer, che parlò con voce bassa e risoluta:
“Tu e Ole siete due cose completamente diverse, e lo sai”.
“Già, lo so”, rispose Eloise sarcastica, gettandosi dietro le spalle la lunga coda di cavallo, “eccome se lo so! Però sai una cosa, Homer? Io davvero non l’ho mai capito com’è che uno come te possa perdere così tanto tempo dietro uno come lui. Avrei capito se si fosse trattato di qualcuno di più intelligente, di più sveglio, ma Nissen…”
Avrebbe dovuto far male. Avrebbe dovuto fare un male del diavolo, perché le parole di Eloise affondavano esattamente fra le radici dell’insicurezza di Ole: quante volte lui stesso si era ritrovato a domandarsi per quale motivo una persona come Homer trovasse tanto interessante passare il suo tempo libero assieme a Ole, quando avrebbe potuto avere decine  e decine di amici migliori? 
Le parole di Eloise avrebbero dovuto ferirlo, ma non ne ebbero il tempo, perché la rabbia di Homer – una rabbia che Ole non aveva mai conosciuto, ma che ora gli sembrava di sentir crepitare sulla pelle, come se Homer gliela stesse asserragliando addosso in forma di  corazza – si riversò su Eloise, creando una barriera fra il suo veleno e Ole.
“Sta’ zitta. Non l’hai mai capito perché di Ole non hai mai capito un cazzo”.
Homer gettò uno sguardo ardente in direzione dell’amico: era uno sguardo che sembrava dire una sola cosa: perdonami, perdonami, perdonami. Si strinse nelle spalle, Ole: non era Homer quello che aveva qualcosa da farsi perdonare.
“Ah, ma guardalo come si inalbera, appena gli tocchi quello sfigato del suo amichetto!”
“Lascia Ole fuori da questa storia, Eloise”.
La voce di Homer era un sibilo basso, minaccioso e freddissimo: Ole non lo aveva mai, mai sentito parlare a quel modo. Avrebbe dovuto intervenire, probabilmente: non aveva bisogno di essere difeso, non dalle parole intrise di rancore di una ragazza ferita, che stava riversando su di lui la rabbia che provava per Homer.
“Non sia mai che qualcuno ti tocchi Nissen, eh? Ma guardati! In tre anni che ti conosco, non ti ho mai visto arrabbiato una sola volta, ma basta dire qualcosa su quello lì che scatti peggio di un fidanzato geloso!”
Homer trasse un profondo respiro, fece un passo avanti e strinse con un gesto deciso il polso di Eloise.
“Adesso basta”, mormorò, senza però guardare la ragazza: i suoi occhi erano fissi in quelli di Ole. 
“Adesso basta davvero: puoi prendertela con me quanto vuoi, ma Ole devi lasciarlo fuori da questa storia. Ti riporto a casa”.
Aspettami, Ole. Aspettami.
E improvvisamente ci fu silenzio. Un piccolo pop, e poi silenzio, perché Homer era scomparso, ed Eloise, trascinata come un sacco di patate, con lui.
Ole rimase immobile, le braccia ciondoloni lungo il corpo, a fissare la porzione di moquette ormai lisa dove fino a pochi istanti prima Homer era stato ritto in piedi: quell’improvviso silenzio gli rimbombava nelle orecchie, più forte ancora delle parole di Eloise. Il silenzio, e tutti i silenzi che per tre anni Ole aveva inghiottito, le parole che non aveva pronunciato e quelle che anche Homer – perché Ole lo sapeva, lo sapeva benissimo che anche Homer lo aveva fatto – aveva soffocato. Perché era più facile non farsi domande, non mettere niente in discussione, non cercare di indagare fra i significati di quelle notti trascorse con la testa china sullo stesso libro a ignorare l’inchiostro e a parlare di tutto e di niente, a essere leggerissimi, a imparare a conoscersi come e meglio di sé stessi, a essere bussola e àncora allo stesso tempo…
Era più facile, e non c’era alcun rischio di spostare l’ago della bilancia verso un futuro dove le domande avrebbero preteso delle risposte, dove l’amicizia avrebbe potuto crollare sotto i colpi di un futuro incerto, che a stento affondava le unghie in implicazioni che sarebbero solo riuscite a farlo tremare.
Ci avevano creduto entrambi, al silenzio. Avevano davvero pensato che tutto sarebbe andato bene, che avrebbero continuato a vivere giorno per giorno un rapporto sempre più stretto, senza fare domande e senza ascoltare  risposte. Ci avevano creduto nonostante l’imminente partenza di Homer, nonostante la distanza che avrebbe comunque cambiato ogni cosa.
Non credevano che sarebbe bastata la voce acuta di Eloise Pearson a far scoppiare la bolla della loro illusione.
 
***
 
Homer si lasciò cadere sulla sabbia umida all’ombra del pontile, affondando il viso tra le mani.
Non aveva detto molto dopo essersi nuovamente materializzato nel salotto di Ole. Si era limitato a un laconico ho bisogno di aria, aveva afferrato Ole per un polso e lo aveva trascinato in un peregrinare senza meta in mezzo al caos di Brighton. Avevano girato in tondo per un poco, senza una direzione, senza dire una parola, fino a quando erano giunti in vista del pontile e Homer vi si era diretto con passo sicuro, quasi fosse attirato dal mare come un cucciolo di tartaruga.
“Stai bene?”
Ole lo domandò con aria titubante, sedendo accanto all’amico: forse avrebbe dovuto sfiorargli una spalla, o fare una domanda più intelligente, qualsiasi cosa, ma si trattenne. Non aveva mai visto Homer in quelle condizioni, e sospettava che Eloise avesse qualche responsabilità solo fino ad un certo punto.
“Sì. Cioè, è stato orribile, perché alla fine ha anche pianto, ma insomma… mi sarebbe dispiaciuto sicuramente di più, se almeno non fosse stata così meschina da insultarti”.
“Non importa”.
Homer lanciò a Ole uno sguardo leggermente esasperato, ma nei suoi occhi caldi si era riaccesa l’ombra della sua abituale risata.
“Sì che importa, Ole, importa a me. Non credevo fosse così… così stronza”.
Ole, nonostante tutto, si ritrovò a sorridere.
“Lo ha fatto solo per ferirti”, mormorò, cercando di ricacciare indietro quel calore che gli allargava il petto all’idea che l’unico modo che Eloise avesse trovato per ferire Homer fosse proprio insultare Ole.
“Non credevo se la sarebbe presa tanto”.
“Ma come fai a essere così ingenuo? Era ovvio che se la sarebbe presa tanto. Io te l’ho detto che tu le piacevi un po’ troppo”.
Homer chinò appena la testa di lato, senza mai distogliere lo sguardo da quello di Ole. I suoi riccioli, illuminati dal sole che cominciava a calare, erano accesi di un riflesso caldo e avvolgente.
“Mi sa che non sono bravo a capire quando piaccio davvero alle persone”.
C’era una domanda inespressa fra quelle parole, e Ole lo sapeva. Lo sapeva, lo avvertiva sotto la pelle, lo intuiva come se Homer gliel’avesse sussurrata all’orecchio, così piano che quelle parole, più che l’udito, solleticavano il tatto. Forse Ole avrebbe dovuto rispondere, ma non era certo di esserne in grado.
“No, decisamente non ne sei capace”, si limitò a mormorare, così piano che dubitava che l’amico sarebbe riuscito a sentirlo.
Homer si riscosse, come se lui per primo volesse cancellare quel momento di imbarazzo: balzò in piedi con un gesto rapido, e fece un cenno verso la spiaggia che stava cominciando a svuotarsi dalle famiglie in villeggiatura, lasciando il posto a pochi gruppetti sparsi di ragazzi giovani o a qualche passeggiatore solitario. Poco lontano da loro c’era un piccolo chiosco che vendeva bibite e gelati, e Homer vi si diresse con passo sicuro, chiedendo a Ole di aspettarlo.
Ole, la schiena appoggiata a uno dei pali umidi del pontile, rimase a osservare Homer chiacchierare per un po’ con il venditore, ridendo apparentemente sereno e annuendo più volte, per poi frugarsi in tasca, gettare sul ripiano di legno una manciata di monete e lasciare che fosse l’uomo a prendersi i soldi giusti – Homer era un genio, ma non aveva mai imparato nemmeno a contare decentemente i galeoni: le sterline, per lui, rimanevano un mistero insondabile – e voltarsi a rivolgere a Ole un sorriso soddisfattissimo, stringendosi al petto quattro lattine colorate.
“Birra!”, esclamò, porgendo una lattina a Ole con la stessa soddisfazione che avrebbe provato nell’offrire una prelibatezza introvabile.
“Tecnicamente, qui saresti ancora minorenne, lo sai?”
“E quindi?”
“E quindi niente, Prefetto Landmann. Per lavarti di dosso le lacrime della Pearson ti meriteresti anche di fartici il bagno, nella birra”.
Ole sollevò la linguetta di metallo della sua lattina, svogliato: qualche volta, la sera, suo padre gli versava un mezzo bicchiere dalla propria bottiglia. Probabilmente, quello per Neil Nissen era un modo per avvicinarsi la figlio, per tendergli una mano: fare qualcosa che qualsiasi altro genitore avrebbe vietato, e farlo assieme. E Ole cercava di sorridere, e prendeva qualche sorso, cercando di continuare a sorridere nonostante l’amarezza che lo invadeva – un’amarezza che non aveva niente a che fare con la bibita nel suo bicchiere.
 
Homer gli si sedette accanto, allungando le gambe davanti a sé e abbandonando la testa contro il palo di legno.
Rimasero in silenzio a lungo: un silenzio finalmente leggero, privo di imbarazzi. Mentre la luce lentamente scemava, non dissero nemmeno una parola. Sembrava assurdo trascorrere nel silenzio quegli ultimi brandelli di tempo che avrebbero potuto passare assieme, ma a Ole non importava: qualsiasi altra parola sarebbe stata inutile.
Allungò anche lui le gambe davanti a sé, e Homer ne approfittò per dargli un colpetto amichevole, quasi affettuoso. Quando Ole si voltò a guardare l’amico, trovò sul suo viso un’espressione seria e determinata, che non si addolcì nemmeno davanti alla domanda silenziosa cucita sulla fronte aggrottata di Ole.
“Ce l’hai ancora il mio maglione di Novosibirsk?”
Ole si ritrovò a lottare fra la sorpresa e il sorriso, ripensando a quel maglione di lana grigia che Homer davvero gli aveva regalato durante la prima settimana che aveva trascorso a Hogwarts, per assicurarmi di avere davvero sempre a disposizione una bussola umana.
“Mi pare di sì, da qualche parte dovrei averlo tenuto”.
In realtà, Ole sapeva benissimo di averlo ancora, quel maglione, ben piegato fra le divise di scuola degli anni passati nell’anta destra dell’armadio della sua stanza.
Homer rimase ancora in silenzio, così Ole si decise ad aggiungere:
“Guarda che se anche lo rivolessi indietro, non ci entreresti più”.
In effetti, quel maglione ormai era troppo piccolo anche per Ole: lui e Homer si equivalevano in altezza, ma Homer aveva una corporatura leggermente più robusta. Non avrebbe mai potuto indossare un maglione di quando aveva quattordici anni.
“Non lo rivoglio indietro. Stavo solo pensando…”
Homer si interruppe, e scavò con la punta di un dito una piccola fossa nella sabbia, per infilarci dentro la sua lattina di birra così che non si rovesciasse.
“Vero che continuerai a essere il mio punto di riferimento umano anche quando saremo lontani?”
Ole dovette distogliere lo sguardo, mordendosi le labbra. Tante volte avevano scherzato su quella loro prima conversazione, ma da quando Homer aveva mostrato a Ole i documenti che avrebbe dovuto compilare per fare richiesta d’ammissione a Uagadou, parlare bussole e punti di riferimento non era più sembrato loro tanto divertente.
“Certo, ti sarò utilissimo a mezzo mondo di distanza”.
“Non è una questione di utilità, Ole. È che io non sono fatto per restare fermo in un posto solo, ma con te è come se… come… è come se tu mi tenessi fermo il mondo, e allora io posso andare ovunque e perdermi mille volte, perché tanto non sono davvero perso quando so che tu ci sei… e tu ci sei a prescindere da dove sono io e da dove sei tu”.
Ole continuò a tenere lo sguardo basso, incapace di alzare gli occhi e incontrare quelli di Homer. Sentiva un nodo stringergli il petto come se volesse trattenere lì tutte le sue emozioni, e aveva paura che un solo movimento avrebbe tranciato i lembi di quel nodo sfilacciato, facendo esplodere qualcosa con cui non era certo di saper fare i conti. Sentiva che avrebbe potuto piangere, e se avesse pianto il mondo si sarebbe sciolto assieme alle sue emozioni.
Fu Homer, inaspettatamente, a stringerlo in un abbraccio convulso, affondandogli in viso nel collo e non curandosi di nascondere un sospiro un po’ tremante.
“Homer…”
Era sempre Homer quello che abbracciava, stringeva, sfiorava e ancora abbracciava: lo faceva in maniera istintiva e naturale, dimostrando il proprio affetto in maniera aperta e spontanea, senza curarsi di ciò che gli altri avrebbero potuto pensare. Per Ole, cresciuto con un padre che aveva smesso anche di accarezzargli i capelli, limitandosi a posargli ogni tanto una mano sulla spalla, era stato difficile abituarsi a quella profusione di contatto fisico, ma negli anni aveva imparato ad apprezzare gli abbracci di Homer.
Quello, però, era tutta un’altra cosa, e lo sapevano entrambi.
“Mi mancherai”.
Mi mancherai così tanto che non mi ricordo più come si fa a respirare.
Ole, dopo un attimo di esitazione, si ritrovò a stringere a sua volta, ad aggrapparsi a Homer, a respirare fra i suoi capelli e a tremare un poco.
“Tu mi manchi di già”.
 
Continuerai a tenermi fermo il mondo?
E tu continuerai a volerlo, un mondo che sta fermo mentre tu ti muovi?



Sì.
 
***


Old Orchard Beach, settembre 1981
 
Se Homer si stupì nel vedere Ole tanto determinato a svuotare quella bottiglia di vino, non lo diede a vedere. Si limitò a sorridere, guardando la linea scura di quello che sarebbe stato l'orizzonte, se solo la notte non fosse stata così scura da confondere cielo e mare in una sola macchia nera.
“Lasciamene un po', per favore! Il tuo fondoschiena non è l'unico che si sta congelando, sai?”
“Sei stato tu a decidere di venire qui, eh".
Ole porse la bottiglia a Homer, che se la accostò alle labbra con un gesto lento e deliberato, fissando l’amico negli occhi. Era buio, ma non abbastanza per nascondere quella luce carica di intenzioni, che sembrava voler imprimere alle parole del giovane tutta una serie di significati che Ole non era certo di saper cogliere.
“In effetti, sul volantino sembrava meglio. Vuoi tornare a casa?”
Ole scosse la testa: come poteva pensare di tornarsene a casa, al silenzio della sua stanza nel dormitorio del campus ad ascoltare la vita dei suoi coinquilini come se niente fosse successo? Come se Homer non fosse appena comparso nella sua vita, prendendo corpo fuori dalle poche lettere che si erano scambiati e concretizzando una verità con cui Ole avrebbe dovuto fare i conti, prima o poi: non importavano gli anni trascorsi, non importava la loro vita che aveva continuato a scorrere su binari ormai separati per portarli in luoghi completamente diversi, fra di loro non era cambiato proprio niente.
Homer continuava ad essere quel vento che improvvisamente si alzava, carico di profumi stranieri, e annunciava che la stagione era mutata: era il vento del cambiamento, intriso di voglia si avventura, quel vento improvviso che sapeva insinuarsi in ogni crepa della vita di Ole, ricordandogli che fuori dalla sua testa c'era un mondo intero che aspettava di essere conosciuto.
E, forse, Ole continuava ad essere un punto fermo nella vita di Homer: avevano parlato poco, quella sera, ma in tutto ciò che si erano detti c'era stata la stessa complicità di quando erano solo due ragazzini che decidevano di chiudere il mondo fuori, costruendo un fortino di tendaggi e parole sussurrate mentre imparavano a scoprirsi capaci di superare con una mezza risata ogni differenza potesse esistere tra di loro.
“Fino a quando resti negli Stati Uniti?”
Ole non voleva fare quella domanda: l'aveva avuta sulla punta della lingua sin da quando Homer era comparso nel suo soggiorno accanto a Mia e a Bruce, ma l'aveva soffocata con la stessa determinazione con cui per tutta la vita aveva sempre soffocato ogni domanda scomoda, ogni domanda a cui non voleva dare risposta. Qualunque fosse stata la risposta di Homer, la sua partenza sarebbe comunque arrivata troppo presto.
“Ho una Passaporta domani, alle tre del pomeriggio, ora di Eugene…”
La voce di Homer era un sussurro stanco, quasi rassegnato, come se anche lui avesse sperato di poter ricacciare in un angolo lontano della sua coscienza la consapevolezza di quel nuovo distacco.
“Allora no, non voglio tornare a casa”.
A quell'affermazione decisa, Homer non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto: era un sorriso ampio, capace di scaldare molto più del vino.
“Bene! Perché il mio piano prevedeva proprio morte per assideramento in questo posto dimenticato da Tosca. Che sul volantino dell'agenzia viaggi sembrava molto più bello”.
Ole si ritrovò a ridere, davanti all'evidente disappunto di Homer: il ragazzo non riusciva proprio ora nascondere la stizza davanti alla delusione che Old Orchard Beach rappresentava.
“Ma ce l'avranno pure un pub, nel caso volessimo evitare di andare in ipotermia, no?”
In realtà, Ole non aveva voglia di rigettarsi in pasto alla confusione: voleva restare solo con Homer, e mettere in fila tutti gli anni che avevano trascorso separati, e farlo su quella spiaggia sferzata dal vento sembrava molto più facile che cercare di farlo nella ressa di un pub il venerdì sera.
“Non ti preoccupare, non sono il tirocinante più giovane accolto al Tang Tock Seng Hospital per niente: nessun paziente può riportare danni da ipotermia accanto alla mia bacchetta”.
Ole alzò gli occhi al cielo, fingendo una stizza che in realtà non provava, mentre ribatteva:
“Ti ricordo che un minimo di competenza nel campo ce l’ho anche io, quindi non fare tanto il superiore".
Homer sorrise, bevve un altro sorso di vino e incrociò le braccia al petto, soddisfatto.
“Be', ma è perfetto! Congeliamo tutti e due, io curo te e tu curi me: cosa vuoi di più dalla vita?”
“Evitare il congelamento all’origine è proprio fuori discussione?”.
Homer rispose solo con una scrollata di spalle, come se Ole stesse andando a cercare di discutere di dettagli sin troppo insignificanti.
“Be’, però è davvero quasi come ai vecchi tempi… questo posto sembra davvero Brighton”.
Ole trattenne a stento una risata sarcastica: sì, quella spiaggia semideserta e spazzata dal vento ricordava davvero Brighton, ma Brighton d’inverno, quando non c’erano più turisti e la cittadina sembrava chiudersi in se stessa. Era Brighton come Homer non l’aveva mai vista, Britghton con la malinconia di quei posti che aspettano solo di tornare ad essere utili, Brighton come Homer forse non l’avrebbe mai vista, perché nei suoi occhi la malinconia sembrava non trovare mai posto.
Però ora le cose – i gesti leggeri di Homer, l’apparente casualità con cui lo aveva trascinato dall’altra parte dell’America solo per vedere di persona l’immagine trovata su un volantino pubblicitario – tutto sembrava addensarsi in un disegno concreto. A Homer Old Orchard Beach era sembrata Brighton,  e aveva sentito il bisogno di andarci, e di andarci assieme a Ole.
Ole chiuse gli occhi, cercando di scacciare la malinconia che invece aveva provato l’ultima volta che era stato su una spiaggia in compagnia di Homer, e li riaprì solo quando qualcosa lo colpì con forza a una tempia, rimbalzandogli in grembo.
Era uno spesso foglio di cartoncino giallo, sapientemente piegato e ripiegato su se stesso fino ad assumere la forma di uno stelo robusto sormontato dalla corolla ampia di un girasole. Confuso, Ole lo prese in mano, ma l’origami cominciò a vibrare e a divincolarsi, cercando di scappare. Lui e Homer si lanciarono uno sguardo stranito, e in quel momento il fiore di carta scivolò via dalle dita di Ole per fiondarsi in grembo a Homer, dove se ne restò immobile come avrebbe fatto un qualsiasi pezzo di carta.
“Ma che diavolo…”
Avvicinando la punta della bacchetta illuminata all’oggetto, entrambi videro delle lettere comparire sul petalo più alto, come se fossero vergate da una mano invisibile, formando una frase che fece scoppiare a ridere Homer e sentire il sapore della sabbia nella gola di Ole:
“Sei stato di gran lunga il miglior ballerino di tutta la festa, e un altro giro di valzer con te lo farei volentieri, ora che non sei più il figlio piccolo di Cecilia. Mi trovi nella stanza 12 del Level Up Hotel.
A.”
Homer cercò di assumere un’espressione seria, ma non riuscì a spegnere la luce divertita – e forse anche un po’ compiaciuta – che gli illuminava lo sguardo. Si scostò i capelli dal viso, senza mai incrociare lo sguardo di Ole, e trattenendo a stento un sorriso piegò in quattro il cartoncino – non ci provò neanche a ripercorrere le linee già tracciate per ricomporre il girasole – e conficcò il rettangolo di carta nella sabbia.
Quando lo sguardo di Homer cercò quello di Ole, quest’ultimo si ritrovò a sospirare: era un sospiro stanco, privo di ogni traccia di dolore o fastidio che una situazione del genere avrebbe dovuto procurargli.
“Non le rispondi nemmeno?”
Per un attimo, Ole ebbe di nuovo negli occhi le braccia di Homer strette attorno alla vita di Aline Castro mentre i due danzavano al centro della sala, ma scacciò quel pensiero con decisione. Erano passati troppi anni dall’ultima volta che avevano trascorso del tempo assieme, e chissà quanti ancora ne sarebbero trascorsi, dopo che Homer fosse ripartito per Singapore: Ole sapeva che doveva esserci un modo molto più costruttivo di trascorrere quelle ore insieme che contare rimpianti e gelosie.
“Non credo che Aline si aspetti davvero una risposta”.
“Si aspetta semplicemente di sentirti bussare alla sua porta”.
Homer si strinse nelle spalle, gettando una manciata di sabbia umida sul cartoncino ai suoi piedi.
“Be’, mi dispiace, eh, ma stasera ho di meglio da fare”.
Homer avrebbe forse voluto simulare del distacco, ma non ci riuscì, perché le sue labbra continuavano a piegarsi in un sorrisetto soddisfatto.
“Guarda che ce l’hai praticamente scritto in fronte che sei compiaciuto. E, insomma, se preferisci… sì, cioè, è carina, quindi se preferisci andare a ballare il valzer con lei…”
Ole non sapeva perché lo avesse detto: forse perché, sotto sotto, sentiva la necessità di avere una conferma da Homer, in un senso o in quell’altro.
“Ma sì che sono compiaciuto… era carina anche quando io avevo dodici anni, ovvio che sono compiaciuto! Ma sono venuto fin qui per stare con te, non per ballare il valzer con lei”.
“E io che pensavo che fossi venuto per stare con tua madre!”
Ole cercò di scherzare e di essere distaccato, ma non riuscì in alcun modo a negare che il suo petto si stesse allargando, sollecitato da un calore tutto nuovo.
“Ma che c’entra, anche. Ma se l’Accademia non fosse stata proprio in Oregon, non so se ci sarei venuto”.
Homer bevve un altro sorso di vino, poi allungò la bottiglia a Ole, che la svuotò del tutto. L svuotò, e sorrise: la testa stava cominciando ad essere più leggera, ma i contorni delle cose non erano sfumati nella confusione dell’alcool. Sembrava anzi che ogni cosa fosse più reale, più netta, come se una luce nuova ne stesse mettendo in evidenza i contorni.
Quando Homer posò la testa sulla spalla di Ole, quest’ultimo non si sottrasse. Né si sottrasse quando Homer gli si accostò un po’ di più, mormorando pianissimo:
“È bello sapere che il mondo è ancora fermo”.
Non si sottrasse nemmeno quando un braccio di Homer andò a circondargli le spalle, attirandolo un po’ più vicino. Era un gesto che sapeva di consuetudine, che sapeva di tutto l’affetto che non aveva mai smesso di covare sotto le ceneri della lontananza. Perché le loro vite potevano ormai essere avviate su sentieri ben distinti e tracciati con solchi sicuri, ma era bastato loro trascorrere assieme poche ore per ritrovare tutta l’amicizia e l’affiatamento che li aveva uniti da ragazzi.
“Mi sei mancato, Prefetto Landmann”.
Anche tu. Più di quanto tutti e due avremo mai il coraggio di ammettere.
Rimasero un pochino in silenzio, sazi di ricordi e di parole che non volevano pronunciare ad alta voce, fino a quando Homer si raddrizzò un poco, e si voltò a fissare Ole.
“Io e te abbiamo sbagliato tutto”, scandì serio, gli occhi appena un po’ febbricitanti – Ole ebbe la sensazione che il vino avesse dato alla testa a Homer molto più di quanto avesse fatto con lui. Il giovane annuì, senza curarsi del ricciolo scuro che gli ricadde sulla fronte, e proseguì, tutto serio:
“Avremmo dovuto continuare a studiare assieme. Io con la bacchetta, tu col tuo cervello… non lo so, non ho abbastanza dati, ma avremmo potuto cambiare il mondo”.
Homer era così serio che Ole non riuscì a trattenersi, e scoppiò a ridere. Sì, Homer era sempre stato affascinato dalla scienza babbana, ed era convinto che i maghi si stessero precludendo la più grande occasione possibile, non provando nemmeno a sperimentare scienza e magia assieme. Quando era stato a Hogwarts, Homer aveva spesso carezzato l’idea di trarre il meglio da entrambi i mondi, e quando Ole aveva cominciato a pensare all’università, qualcosa si era acceso nella mente di Homer. Qualcosa che poi era stato soffocato dal corso che le loro vite avevano preso: Ole era stato risucchiato dai suoi studi, troppo preso a cercare di riparare alle sue lacune date da un’istruzione magica che di sciocchezze babbane non si curava, e Homer aveva scoperto approcci sino a quel momento sconosciuti alla magia, studiando con i professori di Uagadou.
“Non ridere, sono serio”.
“Hai bevuto troppo”.
Forse non abbastanza.
Ci fu silenzio, di nuovo. Un silenzio che Homer riempì con dei movimenti lenti, fino a quando si ritrovò ad abbracciare stretto Ole, il mento sulla sua spalla.
“Ole?”
“Mmh?”
“Io parto domani pomeriggio alle tre”.
Ole avrebbe voluto ridere, ma non ci riuscì. Qualcosa era cambiato, qualcosa che avvertiva sulla pelle, in quell’abbraccio che non sembrava avere più niente dell’affetto spontaneo e disinvolto con cui Homer lo aveva sempre abbracciato. Era un abbraccio disseminato di tutte le parole che avevano sempre soffocato, di tutte quelle domande a cui non avevano mai dato risposta, troppo presi a rafforzare le fondamenta della loro amicizia: non se l’erano mai detto, ma in ogni loro gesto, in ogni loro risata c’era la consapevolezza che il cambiamento avrebbe potuto distruggere ogni cosa.
E poi era arrivata la distanza, che aveva comunque distrutto ogni cosa, e ora Homer aveva un abbraccio che era fatto solo di punti di svolta.
“Parti alle tre, me lo hai detto”.
“Parto alle tre e tu hai la tua vita e io la mia”.
Ancora silenzio, un silenzio che sembrava tremare.
“E se non ci rivedessimo più per altri dieci anni?”
Homer aveva cercato di infondere leggerezza alle sue parole, ma Ole sapeva, lo sapeva e basta, che quel timore di fondo era poi una certezza.
“Tra dieci anni e un giorno avremo più cose da raccontarci”.
Non credi nemmeno tu.
Il mento di Homer lasciò la spalla di Ole, e furono le loro fronti a trovarsi in uno sfiorarsi lieve.
“Ole”.
“Mmh”.
“Sono tanto stanco”.
Ole si scostò, il petto stretto da una morsa fredda: quella situazione stava sfuggendo loro di mano, e Homer si stava affrettando a riportare le cose alla normalità. Cancellare ogni errore, ricucire ogni strappo, ripristinare lo status quo che era sempre stato abbastanza, per loro.
“V-va bene, andiamo via…”
“Ole!”
Le braccia di Homer si serrarono sulla schiena di Ole, trattenendolo e attirandolo di nuovo vicino a sé.
“Sono stanco di avere paura che ci si rompa tutto tra le dita. Potremmo non vederci per altri dieci anni, o non vederci più… e io non sono venuto fin qui per ballare il valzer con Aline Castro, ma per ballarlo con te”.
Le loro fronti tornarono a sfiorarsi, e Ole avvertì un brivido di paura – suo, o di Homer, non faceva alcuna differenza – e la paura si fece audacia, e poi follia, forse, ma non importava più. Forse era il vino, o forse erano solo le mani di Homer che gli affondavano fra i capelli, o la consapevolezza che quello poteva essere un addio, e gli addii non possono permettersi rimpianti.
Ole smise di pensare quando i ricci di Homer si fecero appiglio sicuro, quando il respiro si fece un atto comune, quando la coscienza si fece un rotolare impazzito dove i confini non esistevano più.
C’era il mare, sulle labbra di Homer, e Ole scelse di annegare.
 
 
 
 



 

Note:
Le cose non dovevano andare esattamente così. Nella mia testa, fino all’ultimo capitolo il rapporto tra questi due avrebbe dovuto restare molto più sfumato, più confuso (non che ora le cose siano proprio chiarissime, ma insomma, avete capito), lasciando al lettore il compito di trarre le proprie conclusioni. Niente, qualcosa è evidentemente andato storto, ma va bene anche così (cioè, sto cercando di fare la seria e distaccata, ma non credo di essermi mai emozionata tanto nello scrivere una scena del genere – che è un filo cringe e di un fluff fuori luogo per tutto il resto della storia, lo so, ma con loro alzo le mani e li lascio fare, perché sono personaggi testardi come pochi altri).
Ora, il prossimo capitolo (che è quello conclusivo, stavolta per davvero) potrebbe tardare un pochino, perché dobbiamo fare un grosso salto in avanti nel tempo e ci sono tanti fili che devo riannodare, ma la buona notizia (?) è che ho scritto circa un mese fa una cosina breve su, ehm, un certo valzer (applauditemi per la forza di volontà di aver resistito UN MESE senza pubblicarla), e dovrebbe diventare il primo capitolo di una raccolta di momenti sparsi e non troppo coerenti su questi due signorini.
Insomma, smetto di ammorbarvi, ma vi ringrazio davvero di cuore per ogni singolo istante che avete dedicato a questa storia: vi sono davvero grata.
 
 
 

1 In realtà, nonostante sia giusto un po’ ossessionata dalle ricerche sulle ambientazioni (ehm, sì, potrei aver trovato una live-webcam sul Brighton Pier e potrei averla osservata più speso di quanto sia normale), non ho idea se davvero su questa ruota panoramica possano salire due persone per cestello. Insomma, accettate questa piccola forzatura.
 
 

 

 

   
 
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