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Autore: shilyss    11/07/2020    26 recensioni
Fable! AU Barbablù
Dal cap. 5: La notte, quando lui e Thor erano bambini, lei si sedeva tra i loro letti raccontando le storie degli dèi del Nord, condannati da una profezia oscura a morire dopo un inverno fatto di sette lunghi inverni che si erano avvicendati l’uno all’altro, facendo sprofondare il mondo nel caos e nel terrore.
Londra, 1857.
L'oscurità ha una sfumatura color smeraldo. L'inganno ha il sapore di una pozione. La morte è un urlo raccolto dal buio. Loki sa che il suo piano è perfetto, come l'abito che Sigyn non dovrebbe sfoggiare.
Lo pagherò anche io, il prezzo. Avrebbe desiderato dirglielo svelando quanto costasse quell’inganno e ricordarle come l’unica certezza stesse nella formula che gli era servita per tingere la stoffa di un colore vivo e vibrante. Tutto il resto, erano vaghe pratiche apprese nel corso dei viaggi troppo lunghi che aveva passato alle estremità del mondo, mentre suo fratello ereditava la tenuta e il titolo, com’era nell’ordine delle cose che fosse.
Genere: Angst, Dark, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heimdall, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, Soulmate!AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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  Capitolo 5

Confessioni di un malandrino

 

 

Buona notte alla falce della luna

Sì cheta mentre l'aria si fa bruna,

Dalla finestra mia voglio gridare

Contro il disco della luna

La notte è così tersa,

Qui forse anche morire non fa male,

Che importa se il mio spirito è perverso

E dal mio dorso penzola un fanale

(Confessioni di un malandrino, Angelo Branduardi)

 

 

Sigyn pensò che varcare la soglia di quella stanza, qualora avesse trovato la chiave, sarebbe stato un errore fatale. Fu un pensiero lucido e assoluto, che spazzò via tutti i dubbi possibili, ma che si legava anche a un’altra considerazione: sarebbe entrata, in un modo o nell’altro. Sfiorò la maniglia e l’abbassò di nuovo. Quasi senza alcun dubbio era lo studio nascosto di Loki, l’uomo che amava nonostante la tenebra che avvolgeva il suo passato oscuro, quello che conteneva i libri proibiti di cui tutta Londra vociferava. Dov’era, lui? Le aveva parlato di un appuntamento necessario e improrogabile, e lei non aveva fatto domande per non dover ascoltare qualche menzogna. Si allontanò misurando i passi e tormentando il ciondolo d’agata; si sentiva viva come non era mai stata, protagonista del suo destino, eppure sul suo cuore gravava il peso di una consapevolezza senza nome: aveva la sensazione di stare assistendo a qualcosa di già visto o scritto, d’ineluttabile, capace di stringerla con lacci di seta stretti e impossibili da sciogliere[1]. Le avevano presentato lord Odinson una sera piovosa e tetra: era uscita con sua cugina e la zia Freya per partecipare a una seduta spiritica indetta da una famosa medium, ma la donna, un’anziana dalle labbra tremanti e le pupille acquose, pochi minuti dopo averle incontrate aveva manifestato un improvviso e destabilizzante malessere, tanto invalidante da spingerla ad annullare l’incontro che, per una serie di coincidenze, non si era ripetuto mai più. Un’ora dopo, gli occhi chiari e indagatori di lord Loki Odinson l’avevano spogliata di ogni sua difesa, scrutandola come se dovesse valutarla. Ricordò che, in quell’occasione, l’alchimista aveva parlato con perfida ironia dell’arte di interrogare gli spiriti[2]. Si era divertito definendola una pratica incerta e troppo facilmente manipolabile, usata da ciarlatane di dubbia fama. Lei, punta sul vivo, si era difesa accusandolo di aver intrapreso una serie di lunghi viaggi in giro per il mondo allo stesso scopo: la conoscenza dell’insondabile. A quell’affermazione, gli occhi verdi di Loki scintillarono di soddisfazione. Era irriverente. Affascinante. Astuto. Capace di farla avvampare con una battuta salace, ma sempre nei limiti della cortesia necessaria tra un uomo e una giovane donna. Confini che lui si era divertito a lambire molte volte, ma non all’inizio. Nel primissimo periodo della loro conoscenza, Sigyn si era convinta che Loki la giudicasse costantemente, soppesando il suo modo di rispondere, vestire, parlare. La teneva d’occhio e rispondeva in maniera faceta alle sue battute, ma con la stessa grazia sfacciata che tributava agli altri ospiti. Erano attenzioni fredde, le sue, figlie di calcoli impossibili da immaginare che la spingevano inesorabilmente verso di lui, in un insieme di attrazione e repulsione che aveva la sua origine in un punto così nascosto di lei da vivere solo nell’ombra dei sogni. Quando erano cambiate le cose? Quale era stato il momento in cui Loki Odinson si era trasformato da spettatore a cacciatore? La prima volta che avevano ballato insieme, le sue dita le avevano sfiorato la schiena facendola tendere e sussultare proprio come l’ultima?

All’inizio, fascino e timore si erano mescolati, rivelandole, solo mentre dormiva, che quel perenne sospetto in grado di morderla quando lui la fissava per un secondo di troppo l’infiammava di sdegno e non solo. Poi, una sera, Loki aveva stretto tra le dita un bicchiere colmo di whisky e si era messo a parlare dei suoi viaggi col tono che avrebbe usato per raccontare una fiaba. Non erano soli, nella sala, ma era come se lo fossero e il mondo attorno a loro non esistesse più.

 

Un rumore la distrasse dal flusso dei suoi pensieri. Lo sentì rientrare e ragionò sul fatto che non aveva completato la lettera da spedire a suo padre. Mentre gli andava incontro, comprese che non c’erano parole giuste per spiegare una fuga d’amore. La sua famiglia avrebbe dovuto convincersi che il patrimonio ereditato dal duca d’Asgardshire era abbastanza ingente da garantirle per sempre una vita agiata, prendendo atto che lei e Loki vivevano sotto lo stesso tetto come un uomo e una donna, come due amanti, come marito e moglie, anche se nessun contratto o cerimonia li aveva resi tali, se non i baci ansiosi e le carezze sfacciate e intense che si erano scambiati mentre la notte lasciava il posto all’alba. Ma Loki non le aveva promesso nulla se non di salvarla dalle mire di un altro. Un uomo che, per Sigyn, era un’ombra venuta direttamente dal passato della sua famiglia, ma da cui si sentiva estranea. L’aveva mai incontrato? Come poteva aver organizzato il suo assassinio e da quando lord Odinson sapeva? Il piano per salvarla era nato nel momento stesso in cui gli era stato proposto di avvelenarla, come diretta conseguenza di un sentimento che l’affascinante alchimista già provava per lei?

Non aveva risposte, ma solo domande. E Loki era davanti a lei, col suo ghigno perenne.

 

Non c’era traccia di Loki e Sigyn nella grande tenuta di famiglia fuori Londra. Erano svaniti nel nulla, inghiottiti nella nebbia, scomparsi in mezzo alle vie trafficate e un po’ grigie della città o nella brughiera aspra e ventosa, dominata da un cielo metallico e dall’erica ostinata. Il duca di Asgardshire, però, non ne era affatto sorpreso. Aveva accompagnato il padre e il fratello di Sigyn fino alla tenuta ben sapendo che mai, per nessuna ragione, Loki si sarebbe rifugiato nella dimora preferita del loro defunto padre. Anzi, osservando le torri austere della grande casa pensò che, con tutta probabilità, quella caccia intrapresa nella direzione sbagliata non aveva fatto altro che favorire i piani di suo fratello. Forse Loki era ancora a Londra o lui e Sigyn si erano imbarcati su un piroscafo alla volta di Calais. Quando il pomeriggio aveva lasciato il posto alla sera, si era offerto di ospitare lord Vanir e suo figlio nella tenuta per la notte, ma quelli avevano rifiutato; così, i tre si erano rimessi in viaggio verso Londra, fermandosi unicamente all’ufficio postale per telegrafare i loro spostamenti. Era stato lì che Thor aveva mandato un messaggio nella propria casa londinese indirizzato, però, a suo fratello. C’era una remota possibilità che Loki bussasse alla sua porta o che qualche servitore, fedele a entrambi, gli recapitasse in un modo o nell’altro il messaggio. Aveva scritto poche parole, secche e perentorie; sperava suscitassero nel destinatario una sola reazione: quella giusta per lui, per Sigyn, per il vecchio tormentato dagli occhi lacrimosi che gli sedeva di fronte.

Lord Vanir raccontò a Thor Odinson una storia, quella sera. Lo fece nonostante le rimostranze di Theo, stringendo il suo bastone da passaggio con tanta violenza da farsi sbiancare le nocche ossute. Disse che le donne della sua famiglia erano maledette, perseguitate, e che c’era una ragione se si era sempre opposto all’idea che Loki Odinson frequentasse sua figlia, la sua delicata Sigyn che assomigliava tanto alla defunta madre tragicamente scomparsa.

“Quale? Se mio fratello ha rischiato tanto per lei, se si è esposto, è per fare la sua mossa e impedirvi di ostacolarlo,” precisò Thor. Era una questione d’onore. Sigyn era bella e possedeva un’intelligenza vivace, ma suo fratello senz’altro la meritava, era degno di lei. Nelle sue vene scorreva il sangue feroce dei valorosi cavalieri normanni che avevano accompagnato Guglielmo nella conquista della Gran Bretagna e quello, persino più feroce, dei conti magiari che galoppavano nelle steppe dell’Europa più selvaggia. C’era, in lui, qualcosa di oscuro e imprevedibile, un caos senza nome che i mari del sud avevano sicuramente esasperato, ma la spregiudicatezza che gli scintillava negli occhi discendeva direttamente dai fieri guerrieri che, dal continente, avevano raggiunto le coste inglesi. La domanda era: l’aveva spinta a fuggire con lui? Ripensò al modo in cui si guardavano, fatto di occhiate lunghe e avide, alla tensione che sembrava scuoterli non appena le distanze si accorciavano, ai sorrisi trattenuti, al desiderio nascosto dietro un mezzo inchino e uno sventagliare rapido. Si cercavano e si volevano – erano senz’altro insieme. Dovevano esserlo.

“L’oscurità,” disse lentamente il vecchio, levando la voce oltre il rumore della carrozza e riportando Thor al presente. “La passione per l’occulto. Certe frequentazioni intollerabili,” sibilò infine, distogliendo lo sguardo dal duca e volgendolo altrove, verso il buio che si scorgeva oltre il finestrino. Sarebbero arrivati a notte fonda. Asgardshire aggrottò la fronte altrimenti serena. Gli era parso di scorgere un lampo di vergogna nello sguardo del padre di Sigyn. Gli nascondeva qualcosa. Si chiese se Loki ne fosse a conoscenza e fino a che punto si spingesse la verità su quelle voci già sentite – con quale feccia si intratteneva suo fratello? Certe maldicenze si intrecciavano alla verità e traevano la loro linfa vitale proprio da quest’ultima, distorta eppure, in qualche maniera, presente. E Thor sapeva, non poteva negare, di conoscere, almeno in parte, lo scopo delle ricerche di Loki, perché erano le stesse che aveva condiviso con Odino Odinson in persona prima che quest’ultimo, avvicinandosi alla morte, le rinnegasse quasi del tutto.

“Mio fratello è uno scienziato, uno studioso. Come nostro padre,” ribadì con decisione.

Vanir sospirò. “Un alchimista, un mago. Come vostro padre.”

 

 

“Come mai hai acquistato proprio questa casa?” domandò Sigyn giocando con quanto rimasto nel piatto. Loki stirò le labbra in un sorriso breve e laterale. Non era la prima domanda che gli rivolgeva quella sera. Per tutta la durata della cena, l’aveva bersagliato con una raffica di quesiti volti a soddisfare una curiosità necessaria, questo Odinson lo capiva, ma terribilmente pericolosa. Eppure, se Sigyn non si fosse dimostrata arguta, se nei suoi occhi grigi grandi e rotondi la dolcezza non si fosse accostata a una scintilla di consapevolezza, Loki non avrebbe rischiato ogni cosa per lei.

Bevve un sorso di vino e si leccò le labbra. “Mi serviva un posto dove nessuno mi avrebbe disturbato.”

“Ma tu non vivi qui.”

“Non ufficialmente,” ammise. “I miei conoscenti mi cercano altrove. Andremo via presto.”

Sigyn schiuse le labbra, fissandolo in attesa. Andremo. Era fuggita con Loki Odinson perché lui l’aveva stretta a sé sussurrandole di fidarsi, se non voleva morire, e lei, che non aspettava altro che un gesto da parte sua, lo aveva seguito anche se non le aveva promesso niente. Nel giro di una notte, la ragazza aristocratica che si divertiva a intrecciare conversazioni giocose e vivaci si era trasformata in una donna, e non solo perché quella mattina si era risvegliata tra le braccia dell’uomo che le sedeva di fronte, ma perché sentiva di essere fuori dall’ala protettiva della propria famiglia e di pagare il prezzo di un desiderio che l’aveva consumata per settimane e mesi, spingendola, a volte, a osare fino ai limiti della decenza pur di vederlo, incontrarlo, scambiare una battuta o uno sguardo. Eppure lo aveva temuto, all’inizio. La prima volta che si erano incontrati era stata scossa da un tremore figlio di un presentimento antico, più vecchio di lei, di Londra, del tempo stesso, che solo dopo si era trasformato nel languore capace di stringerle il petto e mozzarle il respiro. Significava qualcosa?

“Che progetti abbiamo?” gli chiese.

Gli occhi verdi dell’alchimista la trapassarono una volta di più, facendole battere più forte il cuore nel petto, come quando, la sera prima, lo aveva visto comparire nel salotto pieno di gente della sua casa e lei indossava lo stupendo abito di raso verde che era sparito.

“Uno in grado di mettere al sicuro entrambi,” le ripose con voce roca.

Per Sigyn quella frase era una promessa pericolosa: forse voleva sposarla, legandola a sé con un matrimonio segreto che avrebbe trasformato la loro fuga folle e sconsiderata in un gesto che sarebbe stato raccontato con qualche risata allusiva in un salotto. S’immaginò per sempre sua, la notte trascorsa insieme moltiplicata per cento e per mille, stretta tra le sue braccia forti, accarezzata dalle mani che l’avevano fatta sussultare, risvegliando una parte di lei che la ragazza aveva solo intuito esistere nell’ombra. Ma appartenere a Loki Odinson voleva dire anche convivere con la sua oscurità, con i segreti nascosti dietro il suo sorriso affascinate e beffardo, che gli scopriva i denti bianchi e ben fatti.

“C’è una stanza chiusa a chiave,” iniziò, cambiando argomento.

L’alchimista non si scompose. “Ah sì?”

“Quella al piano superiore, in fondo al corridoio,” proseguì Sigyn. Le vennero in mente certe fiabe antiche che le raccontava sua madre, dove principesse fuggiasche finivano in castelli incantati. Erano destinate sempre a violare l’ala o la stanza proibita, e poi.

Loki scosse la testa e rise. “Lì non c’è niente di interessante.”

“Credevo fosse uno studio privato o qualcosa del genere.”

“No. Quello è accanto alla biblioteca.” Si riferiva alla stanza curiosa ed elegante dove Sigyn aveva visto l’antico manoscritto che riportava la leggenda della strega.

“Allora mostramela.”

“Non stasera. Ci sono solo vecchi libri, qualche mobile da buttare.”

Lei sorrise, ma sapeva che nessuno chiude a chiave una stanza dove non viene tenuto nulla d’importante, e il suo pericoloso e astuto amante non era da meno. Di nuovo, le aveva mentito con una naturalezza spiazzante che dava ragione alle molte dicerie sul suo conto. È un pirata, un mago, un pazzo. Se non fosse per il sangue che gli scorre nelle vene, penzolerebbe già da una forca. Era un brillante e promettente studente, no, l’assistente di un professore, ma qualcosa, in lui, a un certo punto si è spezzato. Colpa di suo padre, dicono. Theo le aveva ripetuto quelle frasi decine di volte, eppure lei non ci aveva mai creduto, perché Loki Odinson era ferocemente lucido quando parlava delle persone che aveva incontrato, dei viaggi intrapresi nelle zone più remote e lontane del mondo. Sigyn aveva letto anche alcuni suoi articoli scientifici e li aveva trovati brillanti, figli di una mente acutissima e moderna, desiderosa di svelare i misteri del mondo. Quale che fosse il fuoco destinato a corroderlo, non era la follia a spingerlo ad agire. Forse Loki era in cerca della gloria personale o della conoscenza fine a se stessa; in questa prospettiva, anche le ricerche più ambiziose e spregiudicate assumevano un taglio nuovo.

Sigyn sorrise e decise che avrebbe trovato la chiave ed esplorato la stanza perché doveva sapere. Più tardi lasciò che l’alchimista la spogliasse con infinita lentezza, s’imprimesse nella mente ognuna delle sue curve, esplorasse con le labbra il collo che lei gli offriva come un dono, scendendo giù, fino alle punte dei seni tremanti, al ventre piatto che si tendeva al suo tocco, al bacino proteso. Non avrebbe dovuto abbandonarsi così a lui, non finché non le avesse mostrato la stanza chiusa a chiave, non fintantoché tra loro c’erano segreti, ma le carezze della notte prima erano diventate necessarie a entrambi. Non era come lo raccontavano sottovoce amiche più esperte o cameriere ridanciane; lord Odinson, a letto, la trascinava in un gioco fin troppo serio in cui dettava regole che poi le insegnava a infrangere. Sapeva farla fremere mentre le slacciava il corsetto e conosceva il modo per convincerla a sfilarsi piano le calze. Era una danza fatta di sguardi e di baci, in cui Sigyn soffriva di gelosia, perché l’inesperienza di lei era pari solo alla sfacciata abilità di lui nel trascinarla in un caos in cui smetteva di essere la figlia perbene di un gentiluomo per trasformarsi nell’amante ansiosa di un alchimista che le toglieva i vestiti citando con malizia evidente Ovidio e Catullo.

E Sigyn lo voleva. Desiderava sentire di nuovo sulla sua pelle l’odore di quella di lui e lasciar scivolare le dita sui muscoli tesi e scattanti; le si stringeva lo stomaco all’idea delle mani di Loki che percorrevano le linee del suo corpo facendolo vibrare in maniera sconveniente, in una maniera che si addiceva più all’ultima delle sgualdrine che popolavano i romanzi stampati sulla carta di poco prezzo che a una ragazza aristocratica come lei[3]. Era condannata, era pazza – lei, non Loki, ma ormai era sua, voleva essere sua; si erano lasciati incatenare a un desiderio cui non sapevano né volevano resistere, e Sigyn credeva di ravvisare, nell’impazienza con cui Loki la cercava dopo averla spogliata, la stessa sensazione di disperato bisogno.

 Ricordò che le aveva mentito, mentre le loro mani si stringevano e i loro corpi si cercavano, ansiosi di allacciarsi in una danza che avrebbe annullato il tempo e lo spazio. Glielo disse tra un respiro rotto e l’altro, graffiandogli la schiena e perdendosi in lui, in loro, nei sospiri spezzati, nei baci ansiosi.

“Se l’ho fatto,” le soffiò Loki sulla bocca prima di baciarla un’altra volta ancora[4], “se ti ho mentito è per evitarti l’orrore. Non fare domande, non aprire porte che trovi chiuse.”

Ancora avvinghiati dopo l’amore, col cuore di lui che batteva contro il suo petto, Sigyn nascose il viso nell’incavo del suo collo inebriandosi col profumo della sua pelle, trovando conforto tra le braccia virili. Qualunque cosa ci fosse tra di loro, nessuno dei due sapeva né voleva arginarla. E nella tasca sinistra della sua giacca, Loki teneva un mazzo di chiavi.

 

 

 

Laufey aveva fatto uccidere i propri uomini. I loro corpi erano stati trovati nel Tamigi. Loki Odinson lesse la notizia senza alcuna particolare emozione: era responsabile della loro fine orrenda, ma non provava alcun senso di colpa. Lui aveva suggerito al vecchio e disgustoso mentore che, probabilmente, quei due avanzi di galera erano colpevoli della sparizione di Sigyn e quello, il giorno dopo, li aveva fatti ammazzare dopo un interrogatorio che l’alchimista non dubitava fosse stato orrendo. Erano morti per un crimine che non avevano commesso, ma non erano innocenti e nel figlio del defunto duca Odino d’Asgardshire non c’era spazio per sentimentalismi o rimorsi di coscienza. Lui e Laufey combattevano una guerra di più ampio respiro: come in tutti i conflitti, c’era un prezzo da pagare anche in vite umane. Sigyn era al sicuro nella sua casa e, presto, sarebbe potuta uscire persino dalla sua necessaria reclusione: questo contava. Lei, che in quel momento dormiva dopo averlo accolto nel suo letto, era più importante di due farabutti qualsiasi indegni di qualsiasi sentimento di pietà – era sua, come era stata quella sera e le notti prima ancora. Si riempì un bicchiere di whisky adagiandosi contro la poltrona imbottita su cui era rimasto inchiodato nelle lunghe notti passate a studiare fino a consumarsi gli occhi. Bevve e si leccò le labbra pensando, però, che al liquore mancava qualcosa d’indefinibile. Lentamente, aprì un cassetto laterale della scrivania e ne trasse una piccola scatola nera. C’era un anello, al suo interno. Un gioiello antico, appartenuto alla nervosa e altera contessa ungherese che suo padre aveva sposato e da cui lui aveva ereditato il sangue selvaggio. Lo prese in mano, valutando la bellezza della montatura, lo splendore della pietra. La notte, quando lui e Thor erano bambini, lei si sedeva tra i loro letti raccontando le storie degli dèi del Nord, condannati da una profezia oscura a morire dopo un inverno fatto di sette lunghi inverni che si erano avvicendati l’uno all’altro, facendo sprofondare il mondo nel caos e nel terrore. Con un sussurro di voce e il suo accento per sempre straniero, passava poi alla storia della strega danese che aveva portato alla dannazione un conte normanno vissuto prima ancora che gli Odinson ottenessero l’Asgardshire. Sorrise, immaginandosi la bionda incantatrice sedurre il guerriero e pensando che, forse, l’agata indossata da Sigyn fosse proprio un regalo dell’uomo alla veggente. Ma queste erano fiabe, racconti sfilacciati che non si accostavano l’uno all’altro, parentesi in cui era possibile evadere mentre l’orologio segnava, implacabile, la fine di un altro giorno in cui il suo piano aveva retto.

Ma l’indomani sarebbe stato altrettanto fortunato? Laufey presto avrebbe capito l’inganno, Thor lo cercava, lord Vanir pure, e la bella Sigyn era a casa sua da tre giorni e lo fissava con quei suoi incantevoli occhi grigi, chiedendogli silenziosamente il conto delle sue azioni passate, presenti e future.   

Ammirò ancora l’anello e buttò il capo all’indietro. Avrebbe dovuto sposarla quella notte stessa. Pagare un prete compiacente, rimediare un paio di testimoni, pronunciare i voti.

Rise di se stesso e della follia che stava accarezzando, ma che forse non era poi così assurda. Forse doveva davvero ingannare le intenzioni, correggere definitivamente il passato e rendere onesta e pura quella passione divorante, magnifica e crudelissima che lo legava a doppio filo con Sigyn. Nome ripetuto di notte, maledetto come malediceva se stesso ogni volta che l’amava, la cercava, la corrompeva facendole scoprire cos’era il desiderio, per poi lasciarsi corrodere irrimediabilmente da lei. La sera prima aveva ricevuto un biglietto allarmato da parte di suo fratello – se è con te, sii un gentiluomo e chiedi la sua mano. Lady Odinson le donerebbe, come nome[5]. Aveva bruciato la lettera ed era entrato nella stanza di lei. Senza dirle una parola, si era inginocchiato affondando la testa tra le sue gambe finché Sigyn non aveva gridato, incapace di trattenersi oltre, disposta a essere sua, di nuovo.

Aveva bisogno di quella ragazza; bruciava per lei, che gli infiammava l’anima con i suoi occhi grigi e rotondi, ammiccanti, dolci, liquidi. L’aveva resa la sua amante trascinandola con sé dentro l’ampia vasca, per strapparle il virginale pudore che la faceva sentire a disagio quand’era senza vestiti addosso, rivelandole il piacere di sfiorarsi e toccarsi finché il tempo non si dilatava o annullava.

Sposarla, sebbene di nascosto, significava aderire a una convenzione necessaria. Era il giusto passo riparatore che lo avrebbe messo al riparo da qualsiasi futura accusa; persino l’omicidio di Laufey gli sarebbe stato perdonato: avrebbe raccontato la storia del marito innamorato che protegge la sua incantevole e sensuale sposina dalle grinfie di un mostro che la voleva usare per degli oscuri esperimenti. Chi lo avrebbe mai condannato, con queste premesse? Lo avrebbero chiamato eroe, perché quale uomo non avrebbe fatto altrettanto, per difendere chi amava? Sì, sposandola sarebbe riuscito a ottenere ogni cosa – Sigyn e gli appunti di quel pazzo di Laufey. Riflettendo su come un’idea assurda si era trasformata in un colpo di genio, fu preso da una fitta d’indescrivibile esaltazione. Era come se ogni tassello della sua esistenza fosse appena andato nel posto giusto, nell’incastro che qualche entità al di fuori del tempo e dello spazio aveva previsto in un altro luogo, in un mondo diverso. Sul momento, però, l’astuto lord Odinson non poté cogliere la portata di quella riflessione tanto netta. Lo avrebbe fatto, poi.

 

Nonostante l’ora tarda, decise di organizzare immediatamente il suo piano. Mise l’anello nella tasca destra e uscì senza contare quante chiavi erano appese al mazzo che gli tintinnava nell’altra. Il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva dietro di lui svegliò Sigyn. La ragazza si tirò su a sedere, rabbrividendo per il freddo. Aveva preso la chiave dell’ipotetico studio – non era stato difficile: era l’unica identica a quelle delle altre stanze, ma ora che poteva finalmente soddisfare la sua curiosità, fu morsa dal dubbio. Era giusto entrare in una stanza che Loki l’aveva invitata a dimenticare? Si era addormentata tra le sue braccia: sulle labbra sentiva ancora il sapore dei suoi baci, il suo corpo infreddolito ricordava le loro carezze urgenti, l’intrusione che l’aveva fatta gridare fino a perdere il controllo. Varcando la soglia del presunto studio, Sigyn avrebbe tradito la fiducia dell’uomo che amava e l’aveva salvata, dell’alchimista oscuro con cui era fuggita, ma che continuava a nasconderle parte della verità. Pensò che voleva sapere ogni cosa di lui. Era pronta ad affacciarsi nell’abisso, perché si era messa nelle sue mani abbandonandosi a lui e meritava di sapere. Per essergli davvero fedele, come la moglie che era solo di notte, aveva bisogno di conoscere la verità. Le parve di udire un rumore provenire dalla camera in fondo al corridoio. Si mise una vestaglia di Loki sulle spalle e, girando la chiave nella toppa, disse ad alta voce che non avrebbe trovato nulla. Sobbalzò quando la luce del lume illuminò il vestito: l’aveva scambiato per una presenza oscura, un fantasma, eppure, dopo l’iniziale spavento, dovette ammettere che una parte di lei aveva sempre saputo che l’abito era lì. Non era uno studio, su questo Odinson era stato sincero: si trattava di un laboratorio. Muovendosi come in un sogno, illuminò la moltitudine di appunti, i libri proibiti, la corrispondenza. Fu quest’ultima a spingerla ad afferrare la pistola posata sulla scrivania – e scoprì che era pesante, molto più di quanto non immaginasse. Così la trovò Loki: una figura pallida con i capelli color dell’oro sciolti sulle spalle e gli occhi che scintillavano di terrore. Si appoggiò allo stipite stirando le labbra in un sorriso beffardo. Era bella, incantevole, e, come sempre, maledettamente capace di distruggere ogni suo piano.

Sigyn, tremante, gli puntò l’arma contro. “Tu chi sei?” gli gridò. Sulle labbra salate aveva ancora il sapore dei baci dolci, urgenti, disperati, che si erano scambiati solo poche ore prima.

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori,

 

Vi ho fatto penare un po’ con questo aggiornamento, ma sono state giornate faticose e impegnative e scrivo ritagliandomi il tempo, quindi mi scuso in anticipo per eventuali refusi – ho veramente poco tempo per scrivere e ancora meno per revisionare. È possibile che gli aggiornamenti passeranno da settimanali a ogni dieci giorni, ma non temete, non sparisco ♥, anzi, ho in mente nuove cose e porterò a conclusione le vecchie.

 

Un paio di cose sul capitolo: l’Ottocento e l’epoca vittoriana sono dei periodi molto particolari che però conosco piuttosto bene. Anche se le gambe dei tavoli venivano coperte per decenza le pulsioni delle donne esistevano. Il fatto che qualcosa non sia socialmente accettato non significa che non esisteva, tanto che la storia della fuga e della passione tra Loki e Sigyn in questa storia è vagamente ispirata a una più o meno coeva, quella tra Mary Godwin Shelley e Percy B. Shelley (quella Shelley). Per esempio, è considerato non accettabile e non da bravi studenti marinare la scuola, eppure la sottoscritta l’ha fatto più volte (però poi studiavo e mi impegnavo per prendere voti decenti). Idem qui. Sigyn è una brava ragazza, ma anche le brave ragazze fanno cose che non dovrebbero. Sulla lunghezza della storia… vi confesso che questo doveva essere il penultimo capitolo, ma non sono sicura che riuscirò a chiuderla così in fretta.

 

Voglio ringraziare coloro che recensiscono/ leggono/seguono/ricordano e preferiscono – ogni volta che listate o vi palesate m’illumino d’immenso, per voi sembrerà una cretinata ma io che ne so che non la aprite perché vi fa schifo? C’è gente che guarda le carogne agli angoli delle strade, mica sempre uno legge cose belle. A questa storia poi ci tengo per un sacco di motivi.

Prossima settimana vorrei aggiornare di nuovo questa storia, ma mi conoscete. Dipende molto dall’ispirazione del momento.

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

 

Shilyss



[1] Ricorda il titolo della mia raccolta “Lacci stretti tra Fedeltà e Inganno.”

[2] Le sedute spiritiche erano un vezzo della nobiltà e della borghesia vittoriane.

[3] Anche in passato non tutto quello che veniva stampato era di pregio o da considerarsi alta letteratura. Esistevano collane, romanzi a puntate sui giornali, ecc.

[4] Ebbene sì, è il titolo di una mia shot, leggetela ^^.

[5] È il messaggio che Thor fa avere di ritorno dalla tenuta.

   
 
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