Capitolo 5
Confessioni di
un malandrino
Buona notte alla
falce della luna
Sì
cheta mentre l'aria si fa bruna,
Dalla finestra
mia voglio gridare
Contro il disco
della luna
La notte
è così tersa,
Qui forse anche
morire non fa male,
Che importa se
il mio spirito è perverso
E dal mio dorso
penzola un fanale
(Confessioni di
un malandrino, Angelo Branduardi)
Sigyn
pensò che varcare la soglia di quella stanza, qualora avesse
trovato la chiave,
sarebbe stato un errore fatale. Fu un pensiero lucido e assoluto, che
spazzò
via tutti i dubbi possibili, ma che si legava anche a
un’altra considerazione:
sarebbe entrata, in un modo o nell’altro. Sfiorò
la maniglia e l’abbassò di
nuovo. Quasi senza alcun dubbio era lo studio nascosto di Loki,
l’uomo che
amava nonostante la tenebra che avvolgeva il suo passato oscuro, quello
che
conteneva i libri proibiti di cui tutta Londra vociferava.
Dov’era, lui? Le
aveva parlato di un appuntamento necessario e improrogabile, e lei non
aveva
fatto domande per non dover ascoltare qualche menzogna. Si
allontanò misurando
i passi e tormentando il ciondolo d’agata; si sentiva viva
come non era mai
stata, protagonista del suo destino, eppure sul suo cuore gravava il
peso di
una consapevolezza senza nome: aveva la sensazione di stare assistendo
a
qualcosa di già visto o scritto, d’ineluttabile,
capace di stringerla
con lacci di seta stretti e impossibili da sciogliere[1].
Le avevano presentato lord Odinson una sera piovosa e tetra: era uscita
con sua
cugina e la zia Freya per partecipare a una seduta spiritica indetta da
una
famosa medium, ma la donna, un’anziana dalle labbra tremanti
e le pupille
acquose, pochi minuti dopo averle incontrate aveva manifestato un
improvviso e
destabilizzante malessere, tanto invalidante da spingerla ad annullare
l’incontro
che, per una serie di coincidenze, non si era ripetuto mai
più. Un’ora dopo,
gli occhi chiari e indagatori di lord Loki Odinson l’avevano
spogliata di ogni
sua difesa, scrutandola come se dovesse valutarla. Ricordò
che, in
quell’occasione, l’alchimista aveva parlato con
perfida ironia dell’arte di
interrogare gli spiriti[2].
Si era divertito definendola una pratica incerta e troppo facilmente
manipolabile, usata da ciarlatane di dubbia fama. Lei, punta sul vivo,
si era
difesa accusandolo di aver intrapreso una serie di lunghi viaggi in
giro per il
mondo allo stesso scopo: la conoscenza
dell’insondabile. A
quell’affermazione, gli occhi verdi di Loki scintillarono di
soddisfazione. Era
irriverente. Affascinante. Astuto. Capace di farla avvampare con una
battuta
salace, ma sempre nei limiti della cortesia necessaria tra un uomo e
una
giovane donna. Confini che lui si era divertito a lambire molte volte,
ma non all’inizio.
Nel primissimo periodo della loro conoscenza, Sigyn si era convinta che
Loki la
giudicasse costantemente, soppesando il suo modo di rispondere,
vestire,
parlare. La teneva d’occhio e rispondeva in maniera faceta
alle sue battute, ma
con la stessa grazia sfacciata che tributava agli altri ospiti. Erano
attenzioni
fredde, le sue, figlie di calcoli impossibili da immaginare che la
spingevano
inesorabilmente verso di lui, in un insieme di attrazione e repulsione
che
aveva la sua origine in un punto così nascosto di lei da
vivere solo nell’ombra
dei sogni. Quando erano cambiate le cose? Quale era stato il momento in
cui Loki
Odinson si era trasformato da spettatore a cacciatore? La prima volta
che
avevano ballato insieme, le sue dita le avevano sfiorato la schiena
facendola tendere
e sussultare proprio come l’ultima?
All’inizio,
fascino e timore si erano mescolati, rivelandole, solo mentre dormiva,
che quel
perenne sospetto in grado di morderla quando lui la fissava per un
secondo di
troppo l’infiammava di sdegno e non solo.
Poi, una sera, Loki aveva
stretto tra le dita un bicchiere colmo di whisky e si era messo a
parlare dei
suoi viaggi col tono che avrebbe usato per raccontare una fiaba. Non
erano
soli, nella sala, ma era come se lo fossero e il mondo attorno a loro
non
esistesse più.
Un
rumore la distrasse dal flusso dei suoi pensieri. Lo sentì
rientrare e ragionò
sul fatto che non aveva completato la lettera da spedire a suo padre.
Mentre gli
andava incontro, comprese che non c’erano parole giuste per
spiegare una fuga
d’amore. La sua famiglia avrebbe dovuto convincersi che il
patrimonio ereditato
dal duca d’Asgardshire era abbastanza ingente da garantirle
per sempre una vita
agiata, prendendo atto che lei e Loki vivevano sotto lo stesso tetto
come un
uomo e una donna, come due amanti, come marito e moglie, anche se
nessun
contratto o cerimonia li aveva resi tali, se non i baci ansiosi e le
carezze
sfacciate e intense che si erano scambiati mentre la notte lasciava il
posto
all’alba. Ma Loki non le aveva promesso nulla se non di
salvarla dalle mire di
un altro. Un uomo che, per Sigyn, era un’ombra venuta
direttamente dal passato
della sua famiglia, ma da cui si sentiva estranea. L’aveva
mai incontrato? Come
poteva aver organizzato il suo assassinio e da quando lord Odinson
sapeva? Il
piano per salvarla era nato nel momento stesso in cui gli era stato
proposto di
avvelenarla, come diretta conseguenza di un sentimento che
l’affascinante
alchimista già provava per lei?
Non
aveva risposte, ma solo domande. E Loki era davanti a lei, col suo
ghigno
perenne.
♥
Non
c’era traccia di Loki e Sigyn nella grande tenuta di famiglia
fuori Londra.
Erano svaniti nel nulla, inghiottiti nella nebbia, scomparsi in mezzo
alle vie
trafficate e un po’ grigie della città o nella
brughiera aspra e ventosa,
dominata da un cielo metallico e dall’erica ostinata. Il duca
di Asgardshire,
però, non ne era affatto sorpreso. Aveva accompagnato il
padre e il fratello di
Sigyn fino alla tenuta ben sapendo che mai, per nessuna ragione, Loki
si
sarebbe rifugiato nella dimora preferita del loro defunto padre. Anzi,
osservando le torri austere della grande casa pensò che, con
tutta probabilità,
quella caccia intrapresa nella direzione sbagliata non aveva fatto
altro che
favorire i piani di suo fratello. Forse Loki era ancora a Londra o lui
e Sigyn
si erano imbarcati su un piroscafo alla volta di Calais. Quando il
pomeriggio
aveva lasciato il posto alla sera, si era offerto di ospitare lord
Vanir e suo
figlio nella tenuta per la notte, ma quelli avevano rifiutato;
così, i tre si
erano rimessi in viaggio verso Londra, fermandosi unicamente
all’ufficio
postale per telegrafare i loro spostamenti. Era stato lì che
Thor aveva mandato
un messaggio nella propria casa londinese indirizzato, però,
a suo fratello.
C’era una remota possibilità che Loki bussasse
alla sua porta o che qualche
servitore, fedele a entrambi, gli recapitasse in un modo o
nell’altro il
messaggio. Aveva scritto poche parole, secche e perentorie; sperava
suscitassero
nel destinatario una sola reazione: quella giusta per lui, per Sigyn,
per il
vecchio tormentato dagli occhi lacrimosi che gli sedeva di fronte.
Lord
Vanir raccontò a Thor Odinson una storia, quella sera. Lo
fece nonostante le
rimostranze di Theo, stringendo il suo bastone da passaggio con tanta
violenza
da farsi sbiancare le nocche ossute. Disse che le donne della sua
famiglia
erano maledette, perseguitate, e che c’era una ragione se si
era sempre opposto
all’idea che Loki Odinson frequentasse sua figlia, la sua
delicata Sigyn che
assomigliava tanto alla defunta madre tragicamente scomparsa.
“Quale?
Se mio fratello ha rischiato tanto per lei, se si è esposto,
è per fare la sua
mossa e impedirvi di ostacolarlo,” precisò Thor.
Era una questione d’onore.
Sigyn era bella e possedeva un’intelligenza vivace, ma suo
fratello senz’altro
la meritava, era degno di lei. Nelle sue vene
scorreva il sangue feroce dei
valorosi cavalieri normanni che avevano accompagnato Guglielmo nella
conquista
della Gran Bretagna e quello, persino più feroce, dei conti
magiari che
galoppavano nelle steppe dell’Europa più
selvaggia. C’era, in lui, qualcosa di
oscuro e imprevedibile, un caos senza nome che i mari del sud avevano
sicuramente
esasperato, ma la spregiudicatezza che gli scintillava negli occhi
discendeva
direttamente dai fieri guerrieri che, dal continente, avevano raggiunto
le
coste inglesi. La domanda era: l’aveva spinta a fuggire con
lui? Ripensò al
modo in cui si guardavano, fatto di occhiate lunghe e avide, alla
tensione che
sembrava scuoterli non appena le distanze si accorciavano, ai sorrisi
trattenuti, al desiderio nascosto dietro un mezzo inchino e uno
sventagliare
rapido. Si cercavano e si volevano – erano
senz’altro insieme. Dovevano
esserlo.
“L’oscurità,”
disse lentamente il vecchio, levando la voce oltre il rumore della
carrozza e riportando
Thor al presente. “La passione per l’occulto. Certe
frequentazioni intollerabili,”
sibilò infine, distogliendo lo sguardo dal duca e volgendolo
altrove, verso il
buio che si scorgeva oltre il finestrino. Sarebbero arrivati a notte
fonda.
Asgardshire aggrottò la fronte altrimenti serena. Gli era
parso di scorgere un
lampo di vergogna nello sguardo del padre di Sigyn. Gli nascondeva
qualcosa. Si
chiese se Loki ne fosse a conoscenza e fino a che punto si spingesse la
verità
su quelle voci già sentite – con quale feccia si
intratteneva suo fratello?
Certe maldicenze si intrecciavano alla verità e traevano la
loro linfa vitale
proprio da quest’ultima, distorta eppure, in qualche maniera,
presente. E Thor
sapeva, non poteva negare, di conoscere, almeno in parte, lo scopo
delle
ricerche di Loki, perché erano le stesse che aveva condiviso
con Odino Odinson
in persona prima che quest’ultimo, avvicinandosi alla morte,
le rinnegasse quasi
del tutto.
“Mio
fratello è uno scienziato, uno studioso. Come nostro
padre,” ribadì con
decisione.
Vanir
sospirò. “Un alchimista, un mago. Come vostro
padre.”
♥
“Come
mai hai acquistato proprio questa casa?” domandò
Sigyn giocando con quanto
rimasto nel piatto. Loki stirò le labbra in un sorriso breve
e laterale. Non
era la prima domanda che gli rivolgeva quella sera. Per tutta la durata
della
cena, l’aveva bersagliato con una raffica di quesiti volti a
soddisfare una
curiosità necessaria, questo Odinson lo capiva, ma
terribilmente pericolosa.
Eppure, se Sigyn non si fosse dimostrata arguta, se nei suoi occhi
grigi grandi
e rotondi la dolcezza non si fosse accostata a una scintilla di
consapevolezza,
Loki non avrebbe rischiato ogni cosa per lei.
Bevve
un sorso di vino e si leccò le labbra. “Mi serviva
un posto dove nessuno mi
avrebbe disturbato.”
“Ma
tu non vivi qui.”
“Non
ufficialmente,” ammise. “I miei conoscenti mi
cercano altrove. Andremo via
presto.”
Sigyn
schiuse le labbra, fissandolo in attesa. Andremo.
Era fuggita con Loki
Odinson perché lui l’aveva stretta a sé
sussurrandole di fidarsi, se non voleva
morire, e lei, che non aspettava altro che un gesto da parte sua, lo
aveva
seguito anche se non le aveva promesso niente. Nel giro di una notte,
la
ragazza aristocratica che si divertiva a intrecciare conversazioni
giocose e
vivaci si era trasformata in una donna, e non solo perché
quella mattina si era
risvegliata tra le braccia dell’uomo che le sedeva di fronte,
ma perché sentiva
di essere fuori dall’ala protettiva della propria famiglia e
di pagare il
prezzo di un desiderio che l’aveva consumata per settimane e
mesi, spingendola,
a volte, a osare fino ai limiti della decenza pur di vederlo,
incontrarlo,
scambiare una battuta o uno sguardo. Eppure lo aveva temuto,
all’inizio.
La prima volta che si erano incontrati era stata scossa da un tremore
figlio di
un presentimento antico, più vecchio di lei, di Londra, del
tempo stesso, che
solo dopo si era trasformato nel languore capace di stringerle il petto
e mozzarle
il respiro. Significava qualcosa?
“Che
progetti abbiamo?” gli chiese.
Gli
occhi verdi dell’alchimista la trapassarono una volta di
più, facendole battere
più forte il cuore nel petto, come quando, la sera prima, lo
aveva visto
comparire nel salotto pieno di gente della sua casa e lei indossava lo
stupendo
abito di raso verde che era sparito.
“Uno
in
grado di mettere al sicuro entrambi,” le ripose con voce
roca.
Per Sigyn
quella frase era una promessa pericolosa: forse voleva sposarla,
legandola a sé
con un matrimonio segreto che avrebbe trasformato la loro fuga folle e
sconsiderata in un gesto che sarebbe stato raccontato con qualche
risata
allusiva in un salotto. S’immaginò per sempre sua,
la notte trascorsa insieme
moltiplicata per cento e per mille, stretta tra le sue braccia forti,
accarezzata dalle mani che l’avevano fatta sussultare,
risvegliando una parte
di lei che la ragazza aveva solo intuito esistere nell’ombra.
Ma appartenere a
Loki Odinson voleva dire anche convivere con la sua
oscurità, con i segreti
nascosti dietro il suo sorriso affascinate e beffardo, che gli scopriva
i denti
bianchi e ben fatti.
“C’è
una stanza chiusa a chiave,” iniziò, cambiando
argomento.
L’alchimista
non si scompose. “Ah sì?”
“Quella
al piano superiore, in fondo al corridoio,”
proseguì Sigyn. Le vennero in mente
certe fiabe antiche che le raccontava sua madre, dove principesse
fuggiasche
finivano in castelli incantati. Erano destinate sempre a violare
l’ala o la
stanza proibita, e poi.
Loki scosse
la testa e rise. “Lì non c’è
niente di interessante.”
“Credevo
fosse uno studio privato o qualcosa del genere.”
“No.
Quello è accanto alla biblioteca.” Si riferiva
alla stanza curiosa ed elegante dove
Sigyn aveva visto l’antico manoscritto che riportava la
leggenda della strega.
“Allora
mostramela.”
“Non
stasera. Ci sono solo vecchi libri, qualche mobile da
buttare.”
Lei
sorrise, ma sapeva che nessuno chiude a chiave una stanza dove non
viene tenuto
nulla d’importante, e il suo pericoloso e astuto amante non
era da meno. Di
nuovo, le aveva mentito con una naturalezza spiazzante che dava ragione
alle
molte dicerie sul suo conto. È un pirata, un mago,
un pazzo. Se non fosse
per il sangue che gli scorre nelle vene, penzolerebbe già da
una forca. Era un
brillante e promettente studente, no, l’assistente di un
professore, ma
qualcosa, in lui, a un certo punto si è spezzato. Colpa di
suo padre, dicono.
Theo le aveva ripetuto quelle frasi decine di volte, eppure lei non ci
aveva
mai creduto, perché Loki Odinson era ferocemente lucido
quando parlava delle
persone che aveva incontrato, dei viaggi intrapresi nelle zone
più remote e
lontane del mondo. Sigyn aveva letto anche alcuni suoi articoli
scientifici e
li aveva trovati brillanti, figli di una mente acutissima e moderna,
desiderosa
di svelare i misteri del mondo. Quale che fosse il fuoco destinato a
corroderlo,
non era la follia a spingerlo ad agire. Forse Loki era in cerca della
gloria
personale o della conoscenza fine a se stessa; in questa prospettiva,
anche le
ricerche più ambiziose e spregiudicate assumevano un taglio
nuovo.
Sigyn
sorrise e decise che avrebbe trovato la chiave ed esplorato la stanza
perché doveva
sapere. Più tardi lasciò che
l’alchimista la spogliasse con infinita
lentezza, s’imprimesse nella mente ognuna delle sue curve,
esplorasse con le
labbra il collo che lei gli offriva come un dono, scendendo
giù, fino alle
punte dei seni tremanti, al ventre piatto che si tendeva al suo tocco,
al
bacino proteso. Non avrebbe dovuto abbandonarsi così a lui,
non finché non le
avesse mostrato la stanza chiusa a chiave, non fintantoché
tra loro c’erano
segreti, ma le carezze della notte prima erano diventate necessarie a
entrambi.
Non era come lo raccontavano sottovoce amiche più esperte o
cameriere
ridanciane; lord Odinson, a letto, la trascinava in un gioco fin troppo
serio
in cui dettava regole che poi le insegnava a infrangere. Sapeva farla
fremere
mentre le slacciava il corsetto e conosceva il modo per convincerla a
sfilarsi
piano le calze. Era una danza fatta di sguardi e di baci, in cui Sigyn
soffriva
di gelosia, perché l’inesperienza di lei era pari
solo alla sfacciata abilità
di lui nel trascinarla in un caos in cui smetteva di essere la figlia
perbene
di un gentiluomo per trasformarsi nell’amante ansiosa di un
alchimista che le
toglieva i vestiti citando con malizia evidente Ovidio e Catullo.
E
Sigyn lo voleva. Desiderava sentire di nuovo sulla sua pelle
l’odore di quella
di lui e lasciar scivolare le dita sui muscoli tesi e scattanti; le si
stringeva lo stomaco all’idea delle mani di Loki che
percorrevano le linee del
suo corpo facendolo vibrare in maniera sconveniente, in una maniera che
si
addiceva più all’ultima delle sgualdrine che
popolavano i romanzi stampati
sulla carta di poco prezzo che a una ragazza aristocratica come lei[3].
Era condannata, era pazza – lei, non Loki, ma ormai era sua,
voleva essere sua;
si erano lasciati incatenare a un desiderio cui non sapevano
né volevano
resistere, e Sigyn credeva di ravvisare, nell’impazienza con
cui Loki la
cercava dopo averla spogliata, la stessa sensazione di disperato
bisogno.
Ricordò
che le aveva mentito, mentre le loro mani
si stringevano e i loro corpi si cercavano, ansiosi di allacciarsi in
una danza
che avrebbe annullato il tempo e lo spazio. Glielo disse tra un respiro
rotto e
l’altro, graffiandogli la schiena e perdendosi in lui, in
loro, nei sospiri
spezzati, nei baci ansiosi.
“Se
l’ho
fatto,” le soffiò Loki sulla bocca prima di
baciarla un’altra volta ancora[4],
“se ti ho mentito è per evitarti l’orrore.
Non fare domande, non aprire
porte che trovi chiuse.”
Ancora
avvinghiati dopo l’amore, col cuore di lui che batteva contro
il suo petto,
Sigyn nascose il viso nell’incavo del suo collo inebriandosi
col profumo della
sua pelle, trovando conforto tra le braccia virili. Qualunque cosa ci
fosse tra
di loro, nessuno dei due sapeva né voleva arginarla. E nella
tasca sinistra
della sua giacca, Loki teneva un mazzo di chiavi.
♥
Laufey
aveva fatto uccidere i propri uomini. I loro corpi erano stati trovati
nel
Tamigi. Loki Odinson lesse la notizia senza alcuna particolare
emozione: era
responsabile della loro fine orrenda, ma non provava alcun senso di
colpa. Lui
aveva suggerito al vecchio e disgustoso mentore che, probabilmente,
quei due
avanzi di galera erano colpevoli della sparizione di Sigyn e quello, il
giorno
dopo, li aveva fatti ammazzare dopo un interrogatorio che
l’alchimista non
dubitava fosse stato orrendo. Erano morti per un crimine che non
avevano
commesso, ma non erano innocenti e nel figlio del defunto duca Odino
d’Asgardshire non c’era spazio per sentimentalismi
o rimorsi di coscienza. Lui
e Laufey combattevano una guerra di più ampio respiro: come
in tutti i
conflitti, c’era un prezzo da pagare anche in vite umane.
Sigyn era al sicuro
nella sua casa e, presto, sarebbe potuta uscire persino dalla sua
necessaria
reclusione: questo contava. Lei, che in quel momento dormiva dopo
averlo
accolto nel suo letto, era più importante di due farabutti
qualsiasi indegni di
qualsiasi sentimento di pietà – era sua,
come era stata quella sera e le
notti prima ancora. Si riempì un bicchiere di whisky
adagiandosi contro la
poltrona imbottita su cui era rimasto inchiodato nelle lunghe notti
passate a
studiare fino a consumarsi gli occhi. Bevve e si leccò le
labbra pensando,
però, che al liquore mancava qualcosa d’indefinibile.
Lentamente, aprì
un cassetto laterale della scrivania e ne trasse una piccola scatola
nera.
C’era un anello, al suo interno. Un gioiello antico,
appartenuto alla nervosa e
altera contessa ungherese che suo padre aveva sposato e da cui lui
aveva
ereditato il sangue selvaggio. Lo prese in mano, valutando la bellezza
della
montatura, lo splendore della pietra. La notte, quando lui e Thor erano
bambini, lei si sedeva tra i loro letti raccontando le storie degli
dèi del
Nord, condannati da una profezia oscura a morire dopo un inverno fatto
di sette
lunghi inverni che si erano avvicendati l’uno
all’altro, facendo sprofondare il
mondo nel caos e nel terrore. Con un sussurro di voce e il suo accento
per
sempre straniero, passava poi alla storia della strega danese che aveva
portato
alla dannazione un conte normanno vissuto prima ancora che gli Odinson
ottenessero l’Asgardshire. Sorrise, immaginandosi la bionda
incantatrice
sedurre il guerriero e pensando che, forse, l’agata indossata
da Sigyn fosse
proprio un regalo dell’uomo alla veggente. Ma queste erano
fiabe, racconti
sfilacciati che non si accostavano l’uno all’altro,
parentesi in cui era
possibile evadere mentre l’orologio segnava, implacabile, la
fine di un altro
giorno in cui il suo piano aveva retto.
Ma
l’indomani sarebbe stato altrettanto fortunato? Laufey presto
avrebbe capito
l’inganno, Thor lo cercava, lord Vanir pure, e la bella Sigyn
era a casa sua da
tre giorni e lo fissava con quei suoi incantevoli occhi grigi,
chiedendogli
silenziosamente il conto delle sue azioni passate, presenti e future.
Ammirò
ancora l’anello e buttò il capo
all’indietro. Avrebbe dovuto sposarla quella
notte stessa. Pagare un prete compiacente, rimediare un paio di
testimoni,
pronunciare i voti.
Rise
di se stesso e della follia che stava accarezzando, ma che forse non
era poi
così assurda. Forse doveva davvero ingannare le intenzioni,
correggere
definitivamente il passato e rendere onesta e pura quella passione
divorante,
magnifica e crudelissima che lo legava a doppio filo con Sigyn. Nome
ripetuto
di notte, maledetto come malediceva se stesso ogni volta che
l’amava, la cercava,
la corrompeva facendole scoprire cos’era il desiderio, per
poi lasciarsi corrodere
irrimediabilmente da lei. La sera prima aveva ricevuto un biglietto
allarmato
da parte di suo fratello – se è con te,
sii un gentiluomo e chiedi la sua
mano. Lady Odinson le donerebbe, come nome[5].
Aveva bruciato la lettera ed era entrato nella stanza di lei. Senza
dirle una
parola, si era inginocchiato affondando la testa tra le sue gambe
finché Sigyn
non aveva gridato, incapace di trattenersi oltre, disposta a essere
sua, di
nuovo.
Aveva
bisogno di quella ragazza; bruciava per lei, che gli infiammava
l’anima con i
suoi occhi grigi e rotondi, ammiccanti, dolci, liquidi.
L’aveva resa la sua
amante trascinandola con sé dentro l’ampia vasca,
per strapparle il virginale
pudore che la faceva sentire a disagio quand’era senza
vestiti addosso,
rivelandole il piacere di sfiorarsi e toccarsi finché il
tempo non si dilatava
o annullava.
Sposarla,
sebbene di nascosto, significava aderire a una convenzione necessaria.
Era il
giusto passo riparatore che lo avrebbe messo al riparo da qualsiasi
futura
accusa; persino l’omicidio di Laufey gli sarebbe stato
perdonato: avrebbe
raccontato la storia del marito innamorato che protegge la sua
incantevole e
sensuale sposina dalle grinfie di un mostro che la voleva usare per
degli
oscuri esperimenti. Chi lo avrebbe mai condannato, con queste premesse?
Lo
avrebbero chiamato eroe, perché quale uomo non avrebbe fatto
altrettanto, per
difendere chi amava? Sì, sposandola sarebbe riuscito a
ottenere ogni cosa –
Sigyn e gli appunti di quel pazzo di Laufey. Riflettendo su come
un’idea
assurda si era trasformata in un colpo di genio, fu preso da una fitta
d’indescrivibile esaltazione. Era come se ogni tassello della
sua esistenza
fosse appena andato nel posto giusto, nell’incastro che
qualche entità al di
fuori del tempo e dello spazio aveva previsto in un altro luogo, in un
mondo
diverso. Sul momento, però, l’astuto lord Odinson
non poté cogliere la portata
di quella riflessione tanto netta. Lo avrebbe fatto, poi.
Nonostante
l’ora tarda, decise di organizzare immediatamente il suo
piano. Mise l’anello nella
tasca destra e uscì senza contare quante chiavi erano appese
al mazzo che gli
tintinnava nell’altra. Il rumore della porta
d’ingresso che si chiudeva dietro di
lui svegliò Sigyn. La ragazza si tirò su a
sedere, rabbrividendo per il freddo.
Aveva preso la chiave dell’ipotetico studio – non
era stato difficile: era
l’unica identica a quelle delle altre stanze, ma ora che
poteva finalmente
soddisfare la sua curiosità, fu morsa dal dubbio. Era giusto
entrare in una
stanza che Loki l’aveva invitata a dimenticare? Si era
addormentata tra le sue
braccia: sulle labbra sentiva ancora il sapore dei suoi baci, il suo
corpo
infreddolito ricordava le loro carezze urgenti, l’intrusione
che l’aveva fatta
gridare fino a perdere il controllo. Varcando la soglia del presunto
studio,
Sigyn avrebbe tradito la fiducia dell’uomo che amava e
l’aveva salvata,
dell’alchimista oscuro con cui era fuggita, ma che continuava
a nasconderle parte
della verità. Pensò che voleva sapere ogni cosa
di lui. Era pronta ad
affacciarsi nell’abisso, perché si era messa nelle
sue mani abbandonandosi a
lui e meritava di sapere. Per essergli davvero fedele, come la moglie
che era
solo di notte, aveva bisogno di conoscere la verità. Le
parve di udire un
rumore provenire dalla camera in fondo al corridoio. Si mise una
vestaglia di
Loki sulle spalle e, girando la chiave nella toppa, disse ad alta voce
che non
avrebbe trovato nulla. Sobbalzò quando la luce del lume
illuminò il vestito:
l’aveva scambiato per una presenza oscura, un fantasma,
eppure, dopo l’iniziale
spavento, dovette ammettere che una parte di lei aveva sempre saputo
che
l’abito era lì. Non era uno studio, su questo
Odinson era stato sincero: si
trattava di un laboratorio. Muovendosi come in un
sogno, illuminò la
moltitudine di appunti, i libri proibiti, la corrispondenza. Fu
quest’ultima a
spingerla ad afferrare la pistola posata sulla scrivania – e
scoprì che era
pesante, molto più di quanto non immaginasse.
Così la trovò Loki: una figura
pallida con i capelli color dell’oro sciolti sulle spalle e
gli occhi che
scintillavano di terrore. Si appoggiò allo stipite stirando
le labbra in un sorriso
beffardo. Era bella, incantevole, e, come sempre,
maledettamente capace
di distruggere ogni suo piano.
Sigyn,
tremante, gli puntò l’arma contro. “Tu
chi sei?” gli gridò. Sulle labbra salate
aveva ancora il sapore dei baci dolci, urgenti, disperati, che si erano
scambiati solo poche ore prima.
L’angolo
di Shilyss
Care Lettrici e
cari
Lettori,
Vi ho fatto
penare un
po’ con questo aggiornamento, ma sono state giornate faticose
e impegnative e
scrivo ritagliandomi il tempo, quindi mi scuso in anticipo per
eventuali refusi
– ho veramente poco tempo per scrivere e ancora meno per
revisionare. È
possibile che gli aggiornamenti passeranno da settimanali a ogni dieci
giorni,
ma non temete, non sparisco ♥, anzi, ho in mente nuove cose
e porterò a
conclusione le vecchie.
Un paio di cose
sul
capitolo: l’Ottocento e l’epoca vittoriana sono dei
periodi molto particolari
che però conosco piuttosto bene. Anche se le gambe dei
tavoli venivano coperte
per decenza le pulsioni delle donne esistevano. Il fatto che qualcosa
non sia
socialmente accettato non significa che non esisteva, tanto che la
storia della
fuga e della passione tra Loki e Sigyn in questa storia è
vagamente ispirata a
una più o meno coeva, quella tra Mary Godwin Shelley e Percy
B. Shelley (quella
Shelley). Per esempio, è considerato non accettabile e non
da bravi studenti
marinare la scuola, eppure la sottoscritta l’ha fatto
più volte (però poi
studiavo e mi impegnavo per prendere voti decenti). Idem qui. Sigyn
è una brava
ragazza, ma anche le brave ragazze fanno cose che non dovrebbero. Sulla
lunghezza della storia… vi confesso che questo doveva essere
il penultimo
capitolo, ma non sono sicura che riuscirò a chiuderla
così in fretta.
Voglio
ringraziare
coloro che recensiscono/ leggono/seguono/ricordano e
preferiscono – ogni
volta che listate o vi palesate
m’illumino d’immenso, per voi sembrerà
una cretinata ma io che ne so che non la aprite perché vi fa
schifo? C’è gente
che guarda le carogne agli angoli delle strade, mica sempre uno legge
cose
belle. A questa storia poi ci tengo per un sacco di motivi.
Prossima
settimana
vorrei aggiornare di nuovo questa storia, ma mi conoscete. Dipende
molto
dall’ispirazione del momento.
Ricordo che il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia,
è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
A presto e
grazie per
tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi
lovviate me).
Shilyss
[1]
Ricorda il titolo della mia raccolta “Lacci stretti tra
Fedeltà e Inganno.”
[2]
Le sedute spiritiche erano un vezzo della nobiltà e della
borghesia vittoriane.
[3]
Anche in passato non tutto quello che veniva stampato era di pregio o
da
considerarsi alta letteratura. Esistevano collane, romanzi a puntate
sui
giornali, ecc.
[4]
Ebbene sì, è il titolo di una mia shot, leggetela
^^.
[5]
È il messaggio che Thor fa avere di ritorno dalla tenuta.