In the still of the night
13.
Ci
alleniamo.
Il
nuovo regime di allenamento che abbiamo deciso di seguire ci aiuta a non pensare.
Ha assunto un significato duplice: distrazione, e preparazione all’arena. Anche
se ogni volta questi significati si vanno ad intrecciare, inevitabilmente. È
impossibile non pensare agli Hunger Games imminenti quando ti alleni al tuo
meglio per poterli affrontare. È impossibile non pensare a cosa lascerai
indietro quando, ogni giorno, osservi la realtà che hai davanti agli occhi.
Il
piano di preparazione è scattato la mattina dopo l’annuncio dell’Edizione della
Memoria. Peeta, come promesso, ha chiesto ad Effie i nastri dei vecchi Hunger
Games; io, mentre lui era ancora impegnato al telefono con la nostra
accompagnatrice, sono sgattaiolata via. Sono andata da Haymitch per metterlo al
corrente delle mie intenzioni. Ho dovuto svegliarlo a forza, come accade
spesso, e anche se non era nelle condizioni migliori per ascoltarmi gli ho
detto tutto. Gli ho chiesto di salvare Peeta. Gli ho chiesto di ignorare la
richiesta che gli aveva fatto la sera prima. Lui, ancora sbronzo, mi ha rivolto
uno sguardo pieno di dolore.
-
Vuoi che muoia al posto del ragazzo?
-
No, Haymitch, no. Sarò io l’unica a morire stavolta. Peeta vive, io muoio. E
l’altro tornerà a casa da vincitore, con l’altro come mentore.
Haymitch
ha sospirato, si è passato una mano sui capelli luridi, ha afferrato una
bottiglia ed ha cominciato a bere. Ha ripreso a bere, mi correggo. Ripper
deve essere di nuovo in affari. – Non posso garantirti nulla, dolcezza, ma
posso provarci – ha detto alla fine. – Se uscirà il suo nome, mi offrirò
volontario per sostituirlo. Ma non posso fare nulla se esce il mio nome. Non
potrò fare nulla per salvarlo, in quel caso.
Ho
deglutito, annuendo. Ho mormorato un “Grazie” in risposta nello stesso momento
in cui Peeta è comparso nella cucina. Mi ha guardata storto, ma non ha detto
nulla. Forse ha intuito cos’è che stavo provando a fare, ma non ha indagato
ulteriormente. Ha cominciato, invece, a fare una cosa che ha fatto uscire
letteralmente dai gangheri Haymitch: ha preso tutte le bottiglie di liquore che
è riuscito a radunare in casa e le ha svuotate nel gabinetto.
-
Dobbiamo iniziare ad allenarci e a comportarci da Favoriti – ha annunciato,
senza dar peso alla serie di insulti e parolacce che gli ha lanciato l’uomo
mezzo ubriaco. – Non possiamo permetterci di sottovalutare nulla, stavolta.
E
così facciamo, anche Haymitch. Corriamo, solleviamo pesi, ci alleniamo a
lanciare coltelli. La domenica si aggiunge anche Gale e ci mostra come fare i
lacci delle trappole. A me non è che serva poi molto, ma per gli altri è
un’arte che può tornare utile.
Io
e Peeta non abbiamo detto a nessuno della tostatura. Non che ci vergogniamo a
rivelarlo, ma inconsapevolmente entrambi abbiamo deciso di tenere per noi questo
matrimonio: è una cosa nostra, e solo nostra deve rimanere. Siamo sposati solo
per noi, non per chi ci circonda. Non per Panem, non per il presidente.
È
per questo che non dico nulla a Gale, né a mia madre e a Prim. È per questo che
Peeta non lo dice ai suoi familiari. È per questo che non lo diciamo nemmeno ad
Haymitch. Lui, poi, è talmente preso a sopportare la fatica, il fisico che dopo
decenni di abusi non riesce ad affrontare neanche la corsa, da non far caso a
noi. Quasi nessuno fa più caso a noi, in realtà.
A
nessuno interessano più due ragazzi che di lì a pochi mesi non ci saranno più.
Quelle poche volte che andiamo in piazza, che giriamo per il Distretto, non ci
guardano neanche. Siamo come fantasmi, persone evanescenti ed invisibili la cui
presenza è divenuta terribilmente semplice da ignorare. Ma tutto ciò che non
sia doloroso è facile da ignorare. Dopo l’annuncio dell’Edizione della Memoria
sono arrivati altri Pacificatori, raddoppiando il numero di quelli che erano
già presenti e raddoppiando, di conseguenza, il numero dei soprusi e delle
angherie sugli abitanti, sui cittadini indifesi.
Non
c’è più nessun rischio di rivolta. Non c’è mai stato davvero. Spero che anche
Gale lo abbia capito finalmente. Non parliamo molto, ad essere sincera, quindi
non so a cosa pensa tutte le volte che rimane in silenzio. L’ultima, vera
discussione che abbiamo avuto insieme risale alla prima domenica dopo
l’annuncio degli Hunger Games, quando è venuto ad offrirci il suo aiuto: in
quell’occasione mi ha abbracciata stretta ed ha mormorato un “Mi dispiace” al
mio orecchio.
-
Non fa niente – ho detto io, ricambiando il suo abbraccio.
-
Avevi ragione, Catnip. Dovevamo andare via settimane fa, quando potevamo – ha aggiunto.
Scuoto
la testa quando mi allontano da lui. – Non avremo mai potuto davvero farlo.
Cosa
mi era passato per la mente? Scappare? Dovevo essere impazzita, non c’è altra
spiegazione. La paura non mi faceva ragionare, ero troppo presa dalla paura per
guardare lucidamente a ciò che stava accadendo. Avevo troppa paura per coloro a
cui voglio bene per sapere che, agendo come avrei voluto agire, li avrei messi
solo in pericolo. Avrei solamente rischiato di peggiorare la situazione,
situazione che già stava crollando a picco, e ad una velocità vertiginosa.
Adesso
non ho più tutta questa paura. Perché dovrei averne? I miei timori più
accecanti si sono avverati la sera del quattro aprile, ed è impossibile correre
ai ripari. Ora come ora, so solo che alla fine di tutto ci sarà la pace. Pace per
la mia famiglia, che avrà un peso in meno da sopportare: staranno meglio senza
di me, che ho causato loro così tanta pena e dolore nell’ultimo anno. Cosa se
ne fanno di una figlia e sorella capace solo di rovinare la vita a chi la
circonda? Sono solo un peso per loro, e Capitol City sta facendo loro un favore
a rimandarmi nell’arena per la seconda volta.
Non
ho paura di morire. Sogno spesso di morire, ultimamente. I sogni nei quali sto
morendo sono i migliori che abbia mai avuto1. Quando mi sveglio,
sono allo stesso tempo sollevata e irritata: sollevata perché nel sogno io
morivo e Peeta viveva, ed irritata perché scopro che quel momento non è ancora
arrivato.
C’è
un giorno che arriva, un giorno che avevo totalmente cancellato dalla memoria e
dal calendario, ed è il giorno del mio compleanno. È l’8 maggio, compio
diciassette anni. La giornata trascorre come al solito, e nessuno accenna alla
ricorrenza. Nessuno sembra essersene ricordato, forse nemmeno io. Cinque anni
fa avevo atteso questo giorno con trepidazione, perché avevo finalmente
raggiunto l’età adatta per avere le tessere e il cibo che avrebbe permesso alla
mia famiglia di sopravvivere. Erano passati pochi mesi dalla morte di mio
padre. Era il giorno in cui avevo cominciato a ricoprire, in qualche modo, il
ruolo di capofamiglia. Adesso, invece, nessuno presta caso al mio compleanno. È
l’ultimo della mia vita, l’ultimo che compirò, e non c’è davvero nulla da
festeggiare.
Ed
invece, quella sera, trovo una sorta di rinfresco allestito nella mia cucina.
Quando torno al piano di sotto, dopo aver fatto il mio bagno serale, trovo una
piccola folla riunita ad aspettarmi: la mamma, Prim, Haymitch – come hanno
fatto a convincerlo?! -, Gale, che in qualche modo è riuscito a non farsi
beccare, ancora sporco dopo il lavoro alle miniere, e Peeta, naturalmente. Peeta
è sempre presente. Sul tavolo, in bella vista, c’è una torta di compleanno candida
ricoperta di fiori di lillà. Quei fiori li riconoscerei ovunque.
È
l’ultimo compleanno della mia vita. È l’ultimo che compirò. È l’ultimo
compleanno di cui avrò memoria. Ma è il primo compleanno che sembra davvero un
compleanno. E vorrei che non fosse così difficile da ammettere.
Peeta
mi viene incontro, mi abbraccia e mi augura buon compleanno. Lo trattengo a me
per tanto, tanto tempo, nascondendo il mio viso in modo che non lo possa vedere.
Non voglio che mi veda piangere. Perché è un compleanno che non vale la pena di
essere festeggiato. Perché è triste, festeggiare una ragazza che compie
diciassette anni appena e che ha già una data di morte prefissata.
Come
un prodotto, ho una data di scadenza. È così vicina. È sempre più vicina. Mi
aggrappo a Peeta ogni volta che posso, e cerco di scacciarla via.
Spesso,
la sera, vado a dormire da lui. Non cerco di nascondermi quando esco di casa,
non tento in alcun modo di nascondere le mie intenzioni: lo faccio e basta. E,
quasi lo speravo, nessuno dice nulla. Alcune volte accade perché abbiamo
terminato di vedere i nastri, altre volte invece lo faccio di proposito. E ogni
volta, finiamo col fare l’amore. Sembriamo dei disperati ogni volta. Ed in
effetti lo siamo: disperati. Prendiamo e regaliamo a vicenda l’amore ed il
piacere che proviamo, ogni volta. Immagazziniamo quei ricordi e quegli istanti
che ci fanno andare avanti. Io lo faccio per avere qualcosa di bello da
ricordare nel momento in cui la morte mi porterà via con sé. Non conosco il
motivo per cui lo fa Peeta, e spero con tutta me stessa che non sia lo stesso. Io
ho ancora intenzione di salvarlo. Mi aggrappo a quel cinquanta per cento di
probabilità in cui Peeta vive, ed io muoio. Non voglio pensare a lui con me
nell’arena, non voglio e basta.
Siamo
tornati su questa discussione varie volte, e tutte le volte si è risolta in un
buco nell’acqua: sempre la stessa situazione di stallo. Io non cambio idea, lui
non cambia idea. Per metterci a tacere l’un l’altro, allora, facciamo l’amore.
Siamo sempre così arrabbiati quando accade, e i graffi e i lividi che ci
ritroviamo addosso ne sono la dimostrazione.
Ormai
non serve più inventarsi scuse per stare insieme nel modo in cui desideriamo,
non serve. Anche un cieco capirebbe. Nessuno tenta di separarci.
Ma,
sapendo ciò che so adesso, forse avrei dovuto provarci io stessa.
Sono
passati pochi giorni dal mio compleanno. Mi trovo nello studio di casa mia:
seduta alla scrivania, c’è Prim impegnata coi suoi compiti di scuola. Accanto a
lei c’è la mamma intenta a fare il lavoro a maglia. È strano vederla impegnata
in un’attività così tranquilla e per niente pericolosa, totalmente diversa da
quelle che si ritrova a fare da una manciata di mesi a questa parte. Io,
leggermente in disparte, cerco di ricordare il modo in cui ottenere la serie di
nodi che ho imparato l’anno scorso al Centro di Addestramento. Ho diversi pezzi
di corda accanto a me, sul divanetto, con cui provare tutto il pomeriggio.
Per
oggi, l’allenamento si è svolto solo durante la mattinata. Peeta aveva in
programma, nel pomeriggio, di andare alla panetteria per decorare alcune torte
da mettere in esposizione nella vetrina. È il più bravo con le decorazioni,
quindi è ovvio che i suoi si siano rivolti a lui per realizzarle. Non ci vuole
un genio, però, per capire che è un modo per trascorrere alcune ore tranquille
con la sua famiglia. Ore in cui non pensare al futuro, ai giochi, alla possibilità
di tornare nell’arena. E, inevitabilmente, alla morte che potrebbe
sopraggiungere. Anche io sto trascorrendo delle ore piacevoli con la mia, di
famiglia, anche se faccio nodi di corda e non foglie in pasta di mandorle.
Neanche volendo riuscirei a fare qualcosa di più delicato.
La
giornata è calda e piacevole, una classica giornata primaverile in cui si
possono già assaporare i primi sentori dell’estate. Abbiamo aperto la finestra
per far entrare un po' di brezza; accanto alla tenda, che si muove smossa
dall’aria, ronza un’ape. Un raggio di sole illumina la superficie in mogano
della scrivania, ad una spanna dal braccio di Prim.
È
esattamente come una giornata di quasi metà maggio dovrebbe essere: tranquilla.
Così come stanno le cose, nessuno penserebbe che ci sia qualcosa che non va.
All’esterno, sembriamo una normale famiglia felice, che gode della reciproca
compagnia. Ma non è così.
Stringo
la corda, ed il nodo che stavo provando a fare si scioglie del tutto. Un verso
di disappunto mi sale in gola: non dovrebbe sciogliersi. Dov’è che ho
sbagliato? Cerco di rivedere i vari passaggi nella mente, eppure sembrano tutti
giusti. Ricomincio daccapo. Almeno questo nodo entro sera vorrei riuscire ad
ottenerlo. Alle brutte, penso, farò una capatina alla sezione dei nodi una
volta che sarò al Centro di Addestramento.
Bella
prospettiva.
Quando
sono così impegnata in qualcosa, mi distraggo facilmente e non presto caso a
ciò che mi circonda. Anche adesso, non do molto peso alle chiacchiere di Prim.
Un discorso, però, attira la mia attenzione. Mia sorella sta raccontando alla
mamma che una sua compagna di classe, Daisy Miller, sta per avere un altro
fratellino. Sua madre è incinta.
-
Ma Daisy non ha già quattro fratelli più piccoli? – chiedo, senza distogliere
gli occhi dalla corda.
-
Sì, ed è per questo che è molto preoccupata. L’ultima gravidanza della signora
Miller è stata difficile, e lei non è più così giovane. Ha paura per lei – mi
spiega. Le sue parole, però, sono rivolte più a nostra madre che a me. È lei il
medico di casa.
-
Potrei andare a visitarla se ce ne sarà bisogno – dice lei, infatti. Sta ancora
parlando quando si alza per andare a preparale la cena, e Prim la segue.
Scuoto
la testa, demoralizzata. Riprendo il mio nodo. La famiglia di Daisy vive nel
Giacimento e non se la passa molto bene. Con solo il padre che lavora nelle miniere,
e cinque figli da sfamare. E con un sesto in arrivo. Non riuscirò mai a capire
cosa porta un genitore a mettere al mondo un figlio proprio nel mondo in cui
viviamo, e soltanto per vederlo, lentamente, morire di fame. Specialmente
adesso, in cui la situazione e la vita nel Distretto è peggiorata
drasticamente…
La
corda mi cade dalle mani. Trattengo il respiro. Un macigno sembra essersi
appena posato sul mio cuore. È come ricevere un pugno in pieno viso. Tutto nel
giro di un istante. Meno male che sono rimasta da sola nello studio: come
giustificare questa mia reazione? Devo, inoltre, avere una faccia orribile.
La
mia mente corre veloce, a ritroso, cerca di riportare a galla gli eventi
passati. Cerca di ricordare l’ultima volta in cui ho avuto il ciclo mestruale.
Due mesi. Sono due mesi che non ho le mestruazioni.
La
mia faccia deve essere tutta un programma. Parlo tanto degli altri, parlo tanto
di chi mette al mondo i bambini quando non può garantirgli con nessuna
sicurezza un futuro felice… ed io, che parlo a fare?
Sono
incinta, e sono condannata a morire negli Hunger Games!
No.
Non posso essere incinta, penso. Ci sono una miriade di
motivi per cui il ciclo non arriva. Io stessa, li ho subiti sulla mia pelle
per anni questi motivi.
A
causa della malnutrizione, della fiacchezza, della preoccupazione: ci sono
davvero delle spiegazioni accurate per cui non avere il ciclo. Ed il mio è
stato incostante sin dalla prima volta che l’ho avuto. Non c’è mai stato un
vero motivo per cui preoccuparsi, quindi quando accadeva, dovevo solo aspettare
che arrivasse il mese giusto per vederlo di nuovo. Il poco cibo e la
preoccupazione costante hanno sempre fatto sì che il mio ciclo tardasse o
sparisse, a cadenze irregolari.
Nell’ultimo
anno la condizione non è cambiata, sebbene il mio stile di vita sia migliorato
considerevolmente. A causa di tutto il resto, ho continuato a vedere le
mestruazioni un mese sì e tre no. Ricordo benissimo di averle avute a inizio marzo.
Ma sono solo due mesi, e lo stress che ho provato da allora, e che sto ancora
provando, può aver inciso sulla loro assenza. Può benissimo essere un falso
allarme. Non vuol dire che sono incinta.
Mi
aggrappo a questa speranza. È solo stress, mi dico, solo stress. Prendo di
nuovo in mano la corda e cerco di ricordare il nodo che stavo facendo. Le mie
mani tremano. Non sono incinta, mi dico. Non posso esserlo, perché non
ho nulla, a parte l’assenza delle mestruazioni, che mi faccia pensare ad un
possibile bimbo in arrivo. Non ho la nausea. Non ho il vomito. Non ho
nessun’altra serie di sintomi legati alla gravidanza. Non sto male.
Però
hai fatto l’amore con Peeta. E non una volta sola.
La
corda cade di nuovo a terra.
Mi
copro il viso con le mani.
Decido
di tenere per me ciò che provo. Decido di tenere nascosto per una notte il mio
segreto. Sto sbagliando e ne sono più che consapevole, perché vivo con una
donna che sarebbe in grado di dare una risposta negativa o positiva alle mie
domande e ai miei dubbi nel giro di pochi minuti, ma non voglio farlo. Spero
che nel giro di una notte possa cambiare tutto quanto. E invece non cambia
nulla. Il mattino dopo, delle mestruazioni non ce n’è ancora traccia. Se è
stress, sta andando davvero alla grande: a quello per gli Hunger Games si è
andato ad aggiungere quello per il bambino. Ecco perché non arrivano.
No,
non arrivano perché aspetti proprio un bambino.
Metto a tacere la voce.
Anche
oggi niente allenamento: Peeta è ancora in panetteria a fare dolci. Non che mi
dispiaccia, in fondo. Ho del tempo in più a disposizione per capire come devo
comportarmi, come devo muovermi. Posso ragionare senza pressioni… no, quelle ci
sono lo stesso.
Mentre
mi vesto, presto più attenzione del solito al mio corpo. Solo con la biancheria
addosso, mi osservo allo specchio e non mi sembra di essere così diversa: non
sembra esserci nulla che non vada. Sono sempre magra, ma un po' più muscolosa a
causa degli allenamenti. Non sembra esserci nulla di strano, o di sospetto. Le
ossa del bacino non sono così sporgenti come un tempo, questo perché ho più
cibo da consumare. Con timore, sollevo l’orlo della canotta ed osservo le mie
mani che vanno a posarsi sulla pancia, nel punto in cui, in teoria, dovrebbe
esserci il bambino. Non sento nulla, a parte un leggero gonfiore. Gonfiore che,
se lo osservo di profilo, si nota appena. Eccola, l’unica nota stonata.
Potrebbe
essere gonfiore intestinale.
Le
pensi a tutte pur di non guardare in faccia la realtà.
Già,
perché la realtà fa soltanto male. Metto di nuovo a tacere la voce, e comincio
a soppesare le opzioni.
Che
fare? Parlarne alla mamma? Lei potrebbe aiutarmi… ma come faccio a confessarle
che potrei essere incinta del bambino di Peeta? Come faccio a dirglielo? Come
posso anche solo guardarla negli occhi mentre glielo chiedo? No, è fuori
discussione.
C’è
la moglie del farmacista, Lana. Potrei rivolgermi a lei, dato che in quanto a
competenza è quasi allo stesso livello di mia madre, ma anche questa soluzione
sembra sbagliata. Voglio che la cosa rimanga il più segreta possibile, per
questo andare da una persona estranea mi sembra errato. Così come è errato non
dire nulla alla mamma per paura della sua reazione. Grugnisco, e infilo il
primo paio di pantaloni pulito che mi capita sottomano. Non posso continuare a
pesare i pro e i contro all’infinito. Devo darmi una mossa e alla svelta,
perché se quel che ho toccato non è semplice gonfiore, può essere solamente un
bambino in fase di sviluppo. E non di due mesi soltanto.
Alla
fine, scelgo di andare da Lana. Non impazzisco all’idea, ma non ho molte
opzioni tra cui scegliere. E poi, devo sapere. Se lasciassi passare
altro tempo, potrei avere la certezza sui miei dubbi solo quando la pancia
comincerà a crescere – se crescerà - e al momento non è il massimo delle
prospettive. Non posso permettermi il lusso di aspettare.
Entro
nella piccola bottega con la scusa di prendere le bende e le tinture per
medicare le ferite, anche se devo ammettere che può passare tranquillamente per
realtà, e non solo come scusa, vista la situazione in cui verte il Distretto.
In qualche modo credo di dovermi ritenere fortunata, perché sono l’unica cliente
ed a servirmi è proprio la persona di cui ho un così disperato bisogno.
-
Jon è dovuto uscire per delle commissioni – mi riferisce quando le chiedo dove
si trovi suo marito. È una donna molto gentile, ho avuto modo di conoscerla già
da diverso tempo, quando ancora per racimolare qualcosa vendevo e barattavo la
selvaggina che cacciavo. Adesso, anche per via dello stato delle cose, i nostri
rapporti si sono stabilizzati nel classico commerciante/cliente. – Hai bisogno
di altro, cara?
Deglutisco,
sento la bocca improvvisamente secca. – Potrebbe darmi una mano?
Al
sicuro nel retrobottega, le spiego con molto timore i miei dubbi e lei, dopo
avermi ascoltata, mi fornisce il suo aiuto. Mi rassicura sul fatto che non dirà
nulla a nessuno, sa essere una persona molto discreta. Non mi fa sentire a
disagio, mi fa alcune domande un po' più approfondite, mi visita. Ma soprattutto, mi dà le risposte che cercavo.
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1 ♪ And I find it kind of
funny/I find it kind of sad/The dreams in which I’m dying are the best I’ve
ever had…
Mentre scrivevo questo capitolo
ho rivisto Donnie Darko (lo avete visto, sì?) e, come succede ogni volta
che lo guardo, non ci ho capito un cazzo mi sono persa nella struggente
sequenza finale accompagnata dalle note di Mad World. Questa frase è
tratta dal ritornello: ma quanto può essere azzeccata per la situazione? Ne
sono rimasta stupita.
Well, well, well.
È ignobile da parte mia lasciarvi
così in sospeso: inizialmente questo capitolo aveva un’altra pagina a
concluderlo, ma l’ho spostata all’inizio del 14 perché… beh. Capitemi:
conteneva le risposte che Katniss sta cercando, e so che avete già capito qual
è la risposta – non è un mistero! Avrei potuto benissimo lasciarvele in questo,
ma un po' di suspence non fa mai male. E sì, sono perfida. Voglio farvi
aspettare.
Quindi: si sta per realizzare
l’altro what if? per eccellenza? Lo saprete lunedì prossimo.
Un abbraccio e un bacione a tutti
voi!
D.