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Autore: Deruchette    10/08/2020    2 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 13

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

13.

 

Ci alleniamo.
Il nuovo regime di allenamento che abbiamo deciso di seguire ci aiuta a non pensare. Ha assunto un significato duplice: distrazione, e preparazione all’arena. Anche se ogni volta questi significati si vanno ad intrecciare, inevitabilmente. È impossibile non pensare agli Hunger Games imminenti quando ti alleni al tuo meglio per poterli affrontare. È impossibile non pensare a cosa lascerai indietro quando, ogni giorno, osservi la realtà che hai davanti agli occhi.
Il piano di preparazione è scattato la mattina dopo l’annuncio dell’Edizione della Memoria. Peeta, come promesso, ha chiesto ad Effie i nastri dei vecchi Hunger Games; io, mentre lui era ancora impegnato al telefono con la nostra accompagnatrice, sono sgattaiolata via. Sono andata da Haymitch per metterlo al corrente delle mie intenzioni. Ho dovuto svegliarlo a forza, come accade spesso, e anche se non era nelle condizioni migliori per ascoltarmi gli ho detto tutto. Gli ho chiesto di salvare Peeta. Gli ho chiesto di ignorare la richiesta che gli aveva fatto la sera prima. Lui, ancora sbronzo, mi ha rivolto uno sguardo pieno di dolore.
- Vuoi che muoia al posto del ragazzo?
- No, Haymitch, no. Sarò io l’unica a morire stavolta. Peeta vive, io muoio. E l’altro tornerà a casa da vincitore, con l’altro come mentore.
Haymitch ha sospirato, si è passato una mano sui capelli luridi, ha afferrato una bottiglia ed ha cominciato a bere. Ha ripreso a bere, mi correggo. Ripper deve essere di nuovo in affari. – Non posso garantirti nulla, dolcezza, ma posso provarci – ha detto alla fine. – Se uscirà il suo nome, mi offrirò volontario per sostituirlo. Ma non posso fare nulla se esce il mio nome. Non potrò fare nulla per salvarlo, in quel caso.
Ho deglutito, annuendo. Ho mormorato un “Grazie” in risposta nello stesso momento in cui Peeta è comparso nella cucina. Mi ha guardata storto, ma non ha detto nulla. Forse ha intuito cos’è che stavo provando a fare, ma non ha indagato ulteriormente. Ha cominciato, invece, a fare una cosa che ha fatto uscire letteralmente dai gangheri Haymitch: ha preso tutte le bottiglie di liquore che è riuscito a radunare in casa e le ha svuotate nel gabinetto.
- Dobbiamo iniziare ad allenarci e a comportarci da Favoriti – ha annunciato, senza dar peso alla serie di insulti e parolacce che gli ha lanciato l’uomo mezzo ubriaco. – Non possiamo permetterci di sottovalutare nulla, stavolta.
E così facciamo, anche Haymitch. Corriamo, solleviamo pesi, ci alleniamo a lanciare coltelli. La domenica si aggiunge anche Gale e ci mostra come fare i lacci delle trappole. A me non è che serva poi molto, ma per gli altri è un’arte che può tornare utile.
Io e Peeta non abbiamo detto a nessuno della tostatura. Non che ci vergogniamo a rivelarlo, ma inconsapevolmente entrambi abbiamo deciso di tenere per noi questo matrimonio: è una cosa nostra, e solo nostra deve rimanere. Siamo sposati solo per noi, non per chi ci circonda. Non per Panem, non per il presidente.
È per questo che non dico nulla a Gale, né a mia madre e a Prim. È per questo che Peeta non lo dice ai suoi familiari. È per questo che non lo diciamo nemmeno ad Haymitch. Lui, poi, è talmente preso a sopportare la fatica, il fisico che dopo decenni di abusi non riesce ad affrontare neanche la corsa, da non far caso a noi. Quasi nessuno fa più caso a noi, in realtà.
A nessuno interessano più due ragazzi che di lì a pochi mesi non ci saranno più. Quelle poche volte che andiamo in piazza, che giriamo per il Distretto, non ci guardano neanche. Siamo come fantasmi, persone evanescenti ed invisibili la cui presenza è divenuta terribilmente semplice da ignorare. Ma tutto ciò che non sia doloroso è facile da ignorare. Dopo l’annuncio dell’Edizione della Memoria sono arrivati altri Pacificatori, raddoppiando il numero di quelli che erano già presenti e raddoppiando, di conseguenza, il numero dei soprusi e delle angherie sugli abitanti, sui cittadini indifesi.
Non c’è più nessun rischio di rivolta. Non c’è mai stato davvero. Spero che anche Gale lo abbia capito finalmente. Non parliamo molto, ad essere sincera, quindi non so a cosa pensa tutte le volte che rimane in silenzio. L’ultima, vera discussione che abbiamo avuto insieme risale alla prima domenica dopo l’annuncio degli Hunger Games, quando è venuto ad offrirci il suo aiuto: in quell’occasione mi ha abbracciata stretta ed ha mormorato un “Mi dispiace” al mio orecchio.
- Non fa niente – ho detto io, ricambiando il suo abbraccio.
- Avevi ragione, Catnip. Dovevamo andare via settimane fa, quando potevamo – ha aggiunto.
Scuoto la testa quando mi allontano da lui. – Non avremo mai potuto davvero farlo.
Cosa mi era passato per la mente? Scappare? Dovevo essere impazzita, non c’è altra spiegazione. La paura non mi faceva ragionare, ero troppo presa dalla paura per guardare lucidamente a ciò che stava accadendo. Avevo troppa paura per coloro a cui voglio bene per sapere che, agendo come avrei voluto agire, li avrei messi solo in pericolo. Avrei solamente rischiato di peggiorare la situazione, situazione che già stava crollando a picco, e ad una velocità vertiginosa.
Adesso non ho più tutta questa paura. Perché dovrei averne? I miei timori più accecanti si sono avverati la sera del quattro aprile, ed è impossibile correre ai ripari. Ora come ora, so solo che alla fine di tutto ci sarà la pace. Pace per la mia famiglia, che avrà un peso in meno da sopportare: staranno meglio senza di me, che ho causato loro così tanta pena e dolore nell’ultimo anno. Cosa se ne fanno di una figlia e sorella capace solo di rovinare la vita a chi la circonda? Sono solo un peso per loro, e Capitol City sta facendo loro un favore a rimandarmi nell’arena per la seconda volta.
Non ho paura di morire. Sogno spesso di morire, ultimamente. I sogni nei quali sto morendo sono i migliori che abbia mai avuto1. Quando mi sveglio, sono allo stesso tempo sollevata e irritata: sollevata perché nel sogno io morivo e Peeta viveva, ed irritata perché scopro che quel momento non è ancora arrivato.
C’è un giorno che arriva, un giorno che avevo totalmente cancellato dalla memoria e dal calendario, ed è il giorno del mio compleanno. È l’8 maggio, compio diciassette anni. La giornata trascorre come al solito, e nessuno accenna alla ricorrenza. Nessuno sembra essersene ricordato, forse nemmeno io. Cinque anni fa avevo atteso questo giorno con trepidazione, perché avevo finalmente raggiunto l’età adatta per avere le tessere e il cibo che avrebbe permesso alla mia famiglia di sopravvivere. Erano passati pochi mesi dalla morte di mio padre. Era il giorno in cui avevo cominciato a ricoprire, in qualche modo, il ruolo di capofamiglia. Adesso, invece, nessuno presta caso al mio compleanno. È l’ultimo della mia vita, l’ultimo che compirò, e non c’è davvero nulla da festeggiare.
Ed invece, quella sera, trovo una sorta di rinfresco allestito nella mia cucina. Quando torno al piano di sotto, dopo aver fatto il mio bagno serale, trovo una piccola folla riunita ad aspettarmi: la mamma, Prim, Haymitch – come hanno fatto a convincerlo?! -, Gale, che in qualche modo è riuscito a non farsi beccare, ancora sporco dopo il lavoro alle miniere, e Peeta, naturalmente. Peeta è sempre presente. Sul tavolo, in bella vista, c’è una torta di compleanno candida ricoperta di fiori di lillà. Quei fiori li riconoscerei ovunque.
È l’ultimo compleanno della mia vita. È l’ultimo che compirò. È l’ultimo compleanno di cui avrò memoria. Ma è il primo compleanno che sembra davvero un compleanno. E vorrei che non fosse così difficile da ammettere.
Peeta mi viene incontro, mi abbraccia e mi augura buon compleanno. Lo trattengo a me per tanto, tanto tempo, nascondendo il mio viso in modo che non lo possa vedere. Non voglio che mi veda piangere. Perché è un compleanno che non vale la pena di essere festeggiato. Perché è triste, festeggiare una ragazza che compie diciassette anni appena e che ha già una data di morte prefissata.
Come un prodotto, ho una data di scadenza. È così vicina. È sempre più vicina. Mi aggrappo a Peeta ogni volta che posso, e cerco di scacciarla via.
Spesso, la sera, vado a dormire da lui. Non cerco di nascondermi quando esco di casa, non tento in alcun modo di nascondere le mie intenzioni: lo faccio e basta. E, quasi lo speravo, nessuno dice nulla. Alcune volte accade perché abbiamo terminato di vedere i nastri, altre volte invece lo faccio di proposito. E ogni volta, finiamo col fare l’amore. Sembriamo dei disperati ogni volta. Ed in effetti lo siamo: disperati. Prendiamo e regaliamo a vicenda l’amore ed il piacere che proviamo, ogni volta. Immagazziniamo quei ricordi e quegli istanti che ci fanno andare avanti. Io lo faccio per avere qualcosa di bello da ricordare nel momento in cui la morte mi porterà via con sé. Non conosco il motivo per cui lo fa Peeta, e spero con tutta me stessa che non sia lo stesso. Io ho ancora intenzione di salvarlo. Mi aggrappo a quel cinquanta per cento di probabilità in cui Peeta vive, ed io muoio. Non voglio pensare a lui con me nell’arena, non voglio e basta.
Siamo tornati su questa discussione varie volte, e tutte le volte si è risolta in un buco nell’acqua: sempre la stessa situazione di stallo. Io non cambio idea, lui non cambia idea. Per metterci a tacere l’un l’altro, allora, facciamo l’amore. Siamo sempre così arrabbiati quando accade, e i graffi e i lividi che ci ritroviamo addosso ne sono la dimostrazione.
Ormai non serve più inventarsi scuse per stare insieme nel modo in cui desideriamo, non serve. Anche un cieco capirebbe. Nessuno tenta di separarci.
Ma, sapendo ciò che so adesso, forse avrei dovuto provarci io stessa.

 

Sono passati pochi giorni dal mio compleanno. Mi trovo nello studio di casa mia: seduta alla scrivania, c’è Prim impegnata coi suoi compiti di scuola. Accanto a lei c’è la mamma intenta a fare il lavoro a maglia. È strano vederla impegnata in un’attività così tranquilla e per niente pericolosa, totalmente diversa da quelle che si ritrova a fare da una manciata di mesi a questa parte. Io, leggermente in disparte, cerco di ricordare il modo in cui ottenere la serie di nodi che ho imparato l’anno scorso al Centro di Addestramento. Ho diversi pezzi di corda accanto a me, sul divanetto, con cui provare tutto il pomeriggio.
Per oggi, l’allenamento si è svolto solo durante la mattinata. Peeta aveva in programma, nel pomeriggio, di andare alla panetteria per decorare alcune torte da mettere in esposizione nella vetrina. È il più bravo con le decorazioni, quindi è ovvio che i suoi si siano rivolti a lui per realizzarle. Non ci vuole un genio, però, per capire che è un modo per trascorrere alcune ore tranquille con la sua famiglia. Ore in cui non pensare al futuro, ai giochi, alla possibilità di tornare nell’arena. E, inevitabilmente, alla morte che potrebbe sopraggiungere. Anche io sto trascorrendo delle ore piacevoli con la mia, di famiglia, anche se faccio nodi di corda e non foglie in pasta di mandorle. Neanche volendo riuscirei a fare qualcosa di più delicato.
La giornata è calda e piacevole, una classica giornata primaverile in cui si possono già assaporare i primi sentori dell’estate. Abbiamo aperto la finestra per far entrare un po' di brezza; accanto alla tenda, che si muove smossa dall’aria, ronza un’ape. Un raggio di sole illumina la superficie in mogano della scrivania, ad una spanna dal braccio di Prim.
È esattamente come una giornata di quasi metà maggio dovrebbe essere: tranquilla. Così come stanno le cose, nessuno penserebbe che ci sia qualcosa che non va. All’esterno, sembriamo una normale famiglia felice, che gode della reciproca compagnia. Ma non è così.
Stringo la corda, ed il nodo che stavo provando a fare si scioglie del tutto. Un verso di disappunto mi sale in gola: non dovrebbe sciogliersi. Dov’è che ho sbagliato? Cerco di rivedere i vari passaggi nella mente, eppure sembrano tutti giusti. Ricomincio daccapo. Almeno questo nodo entro sera vorrei riuscire ad ottenerlo. Alle brutte, penso, farò una capatina alla sezione dei nodi una volta che sarò al Centro di Addestramento.
Bella prospettiva.
Quando sono così impegnata in qualcosa, mi distraggo facilmente e non presto caso a ciò che mi circonda. Anche adesso, non do molto peso alle chiacchiere di Prim. Un discorso, però, attira la mia attenzione. Mia sorella sta raccontando alla mamma che una sua compagna di classe, Daisy Miller, sta per avere un altro fratellino. Sua madre è incinta.
- Ma Daisy non ha già quattro fratelli più piccoli? – chiedo, senza distogliere gli occhi dalla corda.
- Sì, ed è per questo che è molto preoccupata. L’ultima gravidanza della signora Miller è stata difficile, e lei non è più così giovane. Ha paura per lei – mi spiega. Le sue parole, però, sono rivolte più a nostra madre che a me. È lei il medico di casa.
- Potrei andare a visitarla se ce ne sarà bisogno – dice lei, infatti. Sta ancora parlando quando si alza per andare a preparale la cena, e Prim la segue.
Scuoto la testa, demoralizzata. Riprendo il mio nodo. La famiglia di Daisy vive nel Giacimento e non se la passa molto bene. Con solo il padre che lavora nelle miniere, e cinque figli da sfamare. E con un sesto in arrivo. Non riuscirò mai a capire cosa porta un genitore a mettere al mondo un figlio proprio nel mondo in cui viviamo, e soltanto per vederlo, lentamente, morire di fame. Specialmente adesso, in cui la situazione e la vita nel Distretto è peggiorata drasticamente…
La corda mi cade dalle mani. Trattengo il respiro. Un macigno sembra essersi appena posato sul mio cuore. È come ricevere un pugno in pieno viso. Tutto nel giro di un istante. Meno male che sono rimasta da sola nello studio: come giustificare questa mia reazione? Devo, inoltre, avere una faccia orribile.
La mia mente corre veloce, a ritroso, cerca di riportare a galla gli eventi passati. Cerca di ricordare l’ultima volta in cui ho avuto il ciclo mestruale. Due mesi. Sono due mesi che non ho le mestruazioni.
La mia faccia deve essere tutta un programma. Parlo tanto degli altri, parlo tanto di chi mette al mondo i bambini quando non può garantirgli con nessuna sicurezza un futuro felice… ed io, che parlo a fare?
Sono incinta, e sono condannata a morire negli Hunger Games!

No. Non posso essere incinta, penso. Ci sono una miriade di motivi per cui il ciclo non arriva. Io stessa, li ho subiti sulla mia pelle per anni questi motivi.
A causa della malnutrizione, della fiacchezza, della preoccupazione: ci sono davvero delle spiegazioni accurate per cui non avere il ciclo. Ed il mio è stato incostante sin dalla prima volta che l’ho avuto. Non c’è mai stato un vero motivo per cui preoccuparsi, quindi quando accadeva, dovevo solo aspettare che arrivasse il mese giusto per vederlo di nuovo. Il poco cibo e la preoccupazione costante hanno sempre fatto sì che il mio ciclo tardasse o sparisse, a cadenze irregolari.
Nell’ultimo anno la condizione non è cambiata, sebbene il mio stile di vita sia migliorato considerevolmente. A causa di tutto il resto, ho continuato a vedere le mestruazioni un mese sì e tre no. Ricordo benissimo di averle avute a inizio marzo. Ma sono solo due mesi, e lo stress che ho provato da allora, e che sto ancora provando, può aver inciso sulla loro assenza. Può benissimo essere un falso allarme. Non vuol dire che sono incinta.
Mi aggrappo a questa speranza. È solo stress, mi dico, solo stress. Prendo di nuovo in mano la corda e cerco di ricordare il nodo che stavo facendo. Le mie mani tremano. Non sono incinta, mi dico. Non posso esserlo, perché non ho nulla, a parte l’assenza delle mestruazioni, che mi faccia pensare ad un possibile bimbo in arrivo. Non ho la nausea. Non ho il vomito. Non ho nessun’altra serie di sintomi legati alla gravidanza. Non sto male.

Però hai fatto l’amore con Peeta. E non una volta sola.
La corda cade di nuovo a terra.
Mi copro il viso con le mani.

 

Decido di tenere per me ciò che provo. Decido di tenere nascosto per una notte il mio segreto. Sto sbagliando e ne sono più che consapevole, perché vivo con una donna che sarebbe in grado di dare una risposta negativa o positiva alle mie domande e ai miei dubbi nel giro di pochi minuti, ma non voglio farlo. Spero che nel giro di una notte possa cambiare tutto quanto. E invece non cambia nulla. Il mattino dopo, delle mestruazioni non ce n’è ancora traccia. Se è stress, sta andando davvero alla grande: a quello per gli Hunger Games si è andato ad aggiungere quello per il bambino. Ecco perché non arrivano.
No, non arrivano perché aspetti proprio un bambino. Metto a tacere la voce.
Anche oggi niente allenamento: Peeta è ancora in panetteria a fare dolci. Non che mi dispiaccia, in fondo. Ho del tempo in più a disposizione per capire come devo comportarmi, come devo muovermi. Posso ragionare senza pressioni… no, quelle ci sono lo stesso.
Mentre mi vesto, presto più attenzione del solito al mio corpo. Solo con la biancheria addosso, mi osservo allo specchio e non mi sembra di essere così diversa: non sembra esserci nulla che non vada. Sono sempre magra, ma un po' più muscolosa a causa degli allenamenti. Non sembra esserci nulla di strano, o di sospetto. Le ossa del bacino non sono così sporgenti come un tempo, questo perché ho più cibo da consumare. Con timore, sollevo l’orlo della canotta ed osservo le mie mani che vanno a posarsi sulla pancia, nel punto in cui, in teoria, dovrebbe esserci il bambino. Non sento nulla, a parte un leggero gonfiore. Gonfiore che, se lo osservo di profilo, si nota appena. Eccola, l’unica nota stonata.
Potrebbe essere gonfiore intestinale.

Le pensi a tutte pur di non guardare in faccia la realtà.
Già, perché la realtà fa soltanto male. Metto di nuovo a tacere la voce, e comincio a soppesare le opzioni.
Che fare? Parlarne alla mamma? Lei potrebbe aiutarmi… ma come faccio a confessarle che potrei essere incinta del bambino di Peeta? Come faccio a dirglielo? Come posso anche solo guardarla negli occhi mentre glielo chiedo? No, è fuori discussione.
C’è la moglie del farmacista, Lana. Potrei rivolgermi a lei, dato che in quanto a competenza è quasi allo stesso livello di mia madre, ma anche questa soluzione sembra sbagliata. Voglio che la cosa rimanga il più segreta possibile, per questo andare da una persona estranea mi sembra errato. Così come è errato non dire nulla alla mamma per paura della sua reazione. Grugnisco, e infilo il primo paio di pantaloni pulito che mi capita sottomano. Non posso continuare a pesare i pro e i contro all’infinito. Devo darmi una mossa e alla svelta, perché se quel che ho toccato non è semplice gonfiore, può essere solamente un bambino in fase di sviluppo. E non di due mesi soltanto.
Alla fine, scelgo di andare da Lana. Non impazzisco all’idea, ma non ho molte opzioni tra cui scegliere. E poi, devo sapere. Se lasciassi passare altro tempo, potrei avere la certezza sui miei dubbi solo quando la pancia comincerà a crescere – se crescerà - e al momento non è il massimo delle prospettive. Non posso permettermi il lusso di aspettare.
Entro nella piccola bottega con la scusa di prendere le bende e le tinture per medicare le ferite, anche se devo ammettere che può passare tranquillamente per realtà, e non solo come scusa, vista la situazione in cui verte il Distretto. In qualche modo credo di dovermi ritenere fortunata, perché sono l’unica cliente ed a servirmi è proprio la persona di cui ho un così disperato bisogno.
- Jon è dovuto uscire per delle commissioni – mi riferisce quando le chiedo dove si trovi suo marito. È una donna molto gentile, ho avuto modo di conoscerla già da diverso tempo, quando ancora per racimolare qualcosa vendevo e barattavo la selvaggina che cacciavo. Adesso, anche per via dello stato delle cose, i nostri rapporti si sono stabilizzati nel classico commerciante/cliente. – Hai bisogno di altro, cara?
Deglutisco, sento la bocca improvvisamente secca. – Potrebbe darmi una mano?
Al sicuro nel retrobottega, le spiego con molto timore i miei dubbi e lei, dopo avermi ascoltata, mi fornisce il suo aiuto. Mi rassicura sul fatto che non dirà nulla a nessuno, sa essere una persona molto discreta. Non mi fa sentire a disagio, mi fa alcune domande un po' più approfondite, mi visita.
Ma soprattutto, mi dà le risposte che cercavo.

 

 

 

 

 

 

________________________

1  And I find it kind of funny/I find it kind of sad/The dreams in which I’m dying are the best I’ve ever had…
Mentre scrivevo questo capitolo ho rivisto Donnie Darko (lo avete visto, sì?) e, come succede ogni volta che lo guardo, non ci ho capito un cazzo mi sono persa nella struggente sequenza finale accompagnata dalle note di Mad World. Questa frase è tratta dal ritornello: ma quanto può essere azzeccata per la situazione? Ne sono rimasta stupita.

 

Well, well, well.
È ignobile da parte mia lasciarvi così in sospeso: inizialmente questo capitolo aveva un’altra pagina a concluderlo, ma l’ho spostata all’inizio del 14 perché… beh. Capitemi: conteneva le risposte che Katniss sta cercando, e so che avete già capito qual è la risposta – non è un mistero! Avrei potuto benissimo lasciarvele in questo, ma un po' di suspence non fa mai male. E sì, sono perfida. Voglio farvi aspettare.
Quindi: si sta per realizzare l’altro what if? per eccellenza? Lo saprete lunedì prossimo.
Un abbraccio e un bacione a tutti voi!

D.

   
 
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