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Autore: Cladzky    11/08/2020    0 recensioni
Un cavaliere di ventura, dell'inizio del XII secolo, di ritorno dalle crociate, s'imbarca per andare a chiedere un feudo tutto per sé dopo il servizio reso in Terrasanta. Ma svariate figure sembrano frapporsi al suo cammino, fra cui un bel balivo biondo ligio al dovere e un cavaliere d'argento senza voce, che sembra deciso a reclamargli la testa. Ma la trama, in verità, è solo una scusa per la messa in scena di baruffe, complicazioni, intrecci d'amore, creature fantastiche, visioni celestiali e grandi mangiate. Un'opera anacronistica che si propone come un poema epico cavalleresco, buffonesco e cialtrone, che prende a piene mani dai capisaldi del genere per il solo gusto di giocare con i tópoi e rigirarli per far ridere o, si spera, anche emozionare.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Alla locanda si festeggiava come non si festeggiava da tempo, con brocche che passavano più tempo piene che empie tanto veloce venivano rifornite dagli sguatteri di Giorgione. Lui stesso andava da una tavolata all'altra, come una trottola impazzita, con due fiaschi stappati differenti per mano, agitando le guaciotte da molosso, arrossate dalla bevanda infernale, quasi dovesse prendere il volo come un coleottero.

"Questo è Malvasia delle Lipari!" Declamava, spillandone un po' ad Ettore che tendeva la brocca "Questo il Greco di Napoli!" Continuava, versandone a Gilberto, che non l'aveva affatto chiesto e si trovò senza volerlo sotto una fontana rossa "E per te, Giminiano, la tua Vernaccia omonima!"

Giminiano era dall'altra parte del salone e, sentendo il suo nome, agitò le orecchie come un pastore tedesco e si voltò appena in tempo per vedere Giorgione prendere slancio e lanciargli addosso il fiasco.  Pareva un dardo da guerra di quelli che avevano abbattuto le mura di Cartagine, ma quando Giminiano sollevò la mano sinistra aperta e la richiuse, ecco che, come per magia, si ritrovò stretto in pugno il collo d'anatra del fiasco di Vernaccia. Predata la preda con presa perentina, ringraziò l'oste con un cenno dei suoi occhi delicati e adagiò le labbra, tanto rosse che parevano cresciute su un ciliegio, all'orlo del fiasco di Vernaccia, sfiorandolo appena, come baciasse una dama di vetro dormiente.

Giminiano non era stato partecipe alla ressa di poco fa. Era il novello capo delle guardie del paese, un ventenne biondo e riccio, talmente privo di barba e baffi che alcuni dicevano non gli crescessero affatto, quasi avesse pelle di donna; gli occhi di un azzurro delicato che sembrava sarebbero andati in frantumi da un momento all'altro e le mani tanto lisce e le unghie pulite, che si sarebbe detto non avesse lavorato mai in vita sua. Questo ragazzo di porcellana era stato mandato a chiamare, dal figlio dell oste, per venire a festeggiare un grande avvenimento. Pareva, da quanto gli avevano detto, che un prepotente gigante, dalla criniera di fuoco, avesse fatto irruzione nella locanda e avesse seminato panico manco fosse grano ad ottobre. Il racconto confuso continuava parlando di come, con fame mostruosa, si fosse avventato sulla dispensa, divorandola in meno di un pater nostro, e che avesse poi tentato di fare lo stesso con gli avventori. Ma, come in ogni racconto, le forze del male furono piegate, stavolta non da spada ma dalla buona cucina che il gigante tanto bramava, incorporata nel fendente decisivo di una mattarellata sul capocollo, opera d'arte di Giorgione. Il gigante corazzato fu reso gigante stramazzato e, spogliato del suo terribile arsenale dai magnanimi paesani che, invece di spaccargli la testa in due come un'albicocca ancora aspra, lo avevano mandato a farsi un giro giù al confine, in groppa al suo cavallo imbizzarrito, quest'ultimo bardato di tutto punto e il cavaliere nudo e dormiente come un neonato.

Ora, il motivo per cui i paesani festeggiavano, non erano certo tutti i denti persi e i lividi trovati nella rissa, ma del bottino che si erano fatti, stavolta è il caso di dirlo, in barba al cavaliere di fattura gradassica. Corazza di placche sporche ma integre e sonanti come campane; cotta di maglia intessuta con tale precisione che pareva seta prodotta da un bruco che filava ferro; un elmo tanto resistente ed elastico che neppure la sferzata di legno di Giorgione l'aveva scalfito e fatturato per una testa tanto grande che se ci si urlava dentro si sentiva l'eco lontano d'una caverna. La spada poi! Pesava quasi dieci libbre ed era lunga poco meno di sei piedi: la si fosse posta accanto ad un uomo lo avrebbe superato di una testa e forse di più. Il traverso era corto come il prepuzio di un ebreo e il manico, dal pomolo tinto d'oro, era tanto spesso quanto quasi la lama, già di per sé ampia, segno che, l'unico che potesse brandirla, fosse qualcuno che avrebbe potuto benissimo stringere nel palmo della mano la testa di un uomo, un vero e proprio gorilla fattosi bipede perenne. E lo scudo? Non c'era. Né su di lui, né sul suo cavallo. E d'altro canto ne avrebbe mai avuto bisogno un bestione simile che, seppur svenuto, servirono cinque uomini per spostarlo appena? Un bestione simile che avrebbe potuto venire alle mani con Golia e uscirne vincitore?

Giorgione e gli altri speravano di trovargli addosso anche il portamonete, ma il gigante diceva il vero, non l'aveva. Un barbaro come lui, dopotutto, che se ne faceva del denaro quando poteva mettere a soqquadro trattorie, locande e fattorie a mani nude, come aveva per poco fatto lì?

Ma i paesani erano contenti lo stesso. Portavano in cerchio, in parata, sopra le loro teste, gli scintillanti e pesanti trofei, inneggiando canti all'irreprensibile Giorgione, loro salvatore locale.

Ma l'allegria generale, che si diramava da un villico all'altro con tale rapidità ch'era seconda solo alla peste di Atene, non contagiava Giminiano. In un angolo beveva piano il suo fiasco di Vernaccia, muto e assorto accatastato al muro, circondato da gente che divorava spezzatini di cinghiale, affondati nella polenta bollente e granulosa, condita con sugo sfizioso e sfrigolante di cinghiale stesso, sedano, cipolla e aglio. O ancora, in altre tavolate, altra selvaggina, con solide costine di capriolo in umido, belle salate e speziate da rosmarino e altre erbe profumatissime. Al centro del cerchio della parata dei ferri del cavaliere battuto e messo in rotta stava una piccola orchestra di suonatori di paese, uomini e donne con la cetra o il liuto che pizzicavano le corde, altri che soffiavano a perdifiato in cornetti diritti o serpentini, chi percuoteva un tamburo basco e chi invece agitava le nacchere. La gente ballava indipendentemente che si trovasse per terra o sui tavoli e si intonavano canti, tutti quelli che gli passavano per la testa, fossero canzoni popolari, di chiesa, satira sull'imperatore e il papa, ballate di eroi, non aveva alcuna importanza.

Giorgione era ora in testa al piccolo corteo, con lo spadone da dieci libbre sollevato per aria, fra il plauso generale. Goffredo, pesto ma incosciente del dolore, s'innalzò su un tavolo, con in mano un calendario. La sua voce stridula era tanto potente che si udiva pure fra le risa, i canti e la musica.

"Sant'Ignazio, Santa Vereburga, San Nicezio, via, tutti via questi balordi!" E nel dire gettò via il calendario al vento "Hanno forse abbattutto un gigante questi timorati? Sentite come suona bene invece San Giorgione!"

"Bevete e mangiate, mangiate e bevete!" Raccomandó Giorgione a destra e manca "Oggi sia fatta gran festa e crepi l'avarizia, poiché domattina stessa ci recheremo al castello a rallegrare il nostro signore!"

Gli fu subito accanto il figlio, Frederico, che si era messo in testa l'elmo di Gattapelata, ma era così grosso e così piccola la sua testa, che quando cercò di parlare uscì un rimbombo incomprensibile da troll scandinavo. Il padre poggiò un momento la spada per assestargli un sonoro coppino sulla nuca metallica, che gli fece alzare di scatto la visiera. Ripresosi dal colpo riprese anche il discorso di Frederico.

"Gli racconteremo di come fummo assaliti da un furente cavaliere ch'egli stesso aveva esiliato e tornato per saccheggiare le sue terre! Gli racconteremo di come da soli lo abbiamo assalito e disarmato! Gli racconteremo della fine grama che gli abbiano fatto fare senza disturbare la milizia! Sarà così riconoscente che ci siamo occupati del suo vecchio nemico che ci ricompenserà, poiché è magnanimo il nostro signore, Pipino il lungo!"

"Troppe parole figliolo" Esclamò Giorgione dandogli un altro coppino, che gli fece ricascare la visiera "Ma egualmente apprezzate. E non scordatevi, signori miei, del gruzzolo che ci rifaremo a rivendere tutta questa argenteria!"

E portò al cielo di nuovo lo spadone. La musica, le risa e i canti ripresero. Giminiano strinse forte il fiasco fra le dita eleganti che quasi gli scoppiò in mano. Che umiliazione. Da quando era stato eletto balivo, pensava, e lo avevano spedito in questo paese dimenticato da dio a far valere la legge, non era successo proprio un bel niente. Il fatto che non succedesse niente era assai grave, perché significava che senza alcun bandito da scacciare, ladri da incarcerare e adulteri da mettere alla gogna, non ci sarebbe stata occasione per lui di poter carriera impressionando i suoi superiori in città. Aveva già fatto richiesta di trasferimento per andare da qualche parte più turbolenta del feudo, ma fu respinta. Gli avevano scritto che da quando era arrivato i crimini erano scesi quasi a zero e sarebbe stato un peccato privare i paesi della valle di un così bravo tutore della legge.

Smacco ancor più grave, l'occasione buona di farsi valere e occuparsi di un tremendo bandito gli era sgusciata via dalle dita perlacee quando gli abitanti stessi del paese lo avevano scacciato via a suon di sganassoni senza rendere conto alle autorità, cioè lui, se non a fatti avvenuti. E ora, quelle iene, lo avevano invitato solo per brindare alla faccia sua.

Non voleva passare il resto della sua giovinezza bloccato in questo paese di sub-umani buzzurri a girarsi i pollici. Si sarebbe voluto mangiare le mani, ma si trattenne: il suo sangue non era certo rosso.

"Lode a Giorgione!" Gridò Goffredo, steso su un tavolo adoperato come un divanetto etrusco, alzando una coppa di legno in suo onore.

"A Giorgione, che stroncò il gigante Crapapelata!" Fece eco Frederico, imitando il brindisi sollevando l'elmo del gigante rosso, riempito di Ippocrasso addolcito con miele.

"Gattacolata!" Lo corresse una voce da vecchio

"Grattasuolata!" Propose ancora una voce nasale.

"Checcarosata!" S'intromise una voce squillante.

"GATTAPELATA!" Diruppe una voce potente e chiara, che soverchiò tutte le altre.

A chi suonava il liuto saltarono le corde. A chi beveva andò di traverso. Chi mangiava si morse la lingua. A chi cantava mancò l'aria. Chi ballava incespicò. Chi si baciava trasalì e diede una testata all'altro. La sala si fece silenziosa mentre tutte le pupille guardavano l'ombra che si schierava fra il buio della notte nella cornice della porta. Era un plantigrado che aveva molto più in comune con un orso che un umano. Tutti nella sala si tramutarono come statue di sale, meno che Goffredo, Giorgione e Giminiano. Il trio di siffatti diversi coraggiosi si fece avanti alla figura torreggiante di Gattapelata.

Il cavaliere aveva un aspetto terribile, ancor peggiore della prima volta che ci avevano avuto a che fare. Era nudo e crudo come lo avevano lasciato, avvolto solo di una pelliccia di peli tanto rossi e folti da far credere andasse a fuoco. Non aveva neanche la tovaglia in cui lo avevano fasciato a mo' di sudario a parare la vista dei presenti dal suo membro di una certa importanza.

Giminiano gli si era fatto incontro, pur non avendolo mai visto pria di allora, proprio in ragion della sua stazza tremebonda. Il fisico pachidermico del possente Gattapelata non tradiva le aspettative di tutti resoconti inverosimili e concitati che gli avevano fatto, che, seppur contradditori in più punti, concordavano che il gigante rossiccio avesse una mole da montagna. Il novello balivo non fu affatto deluso da quelle spalle larghe, una schiena che avrebbe trascinato un giogo ed un collo da quercia. I suoi occhi, piegati sotto delle sopracciglia infuocate, brillavano quasi di luce propria. Non c'erano dubbi, era lui la bestia di cui gli avevano parlato pocanzi, e ora, giubilio dei giubili, si era ripresentata di sua spontanea volontà, pronta per essere catturata e portata alla giustizia. Finalmente avrebbe avuto modo di impressionare quelli giù in città.

Giorgione invece aveva solo voglia di cambiargli i connotati per bene questa volta. La prima, nonostante avesse sfasciato mezzo locale e si fosse avventato sugli avventori, si era trattenuto e gli aveva dato, tutto sommato, una punizione ben leggera. Ma giacché all'impudente era balzata la malaugurata idea di far rivedere il suo brutto muso da diavolaccio, non lo avrebbe lasciato uscire dall'osteria se non un pezzo alla volta. Aveva quindi riposto al sicuro lo spadone e aveva tirato fuori il mattarello in legno di stagione.

Goffredo invece era balzato all'attacco solo perché sopravvalutava le sue reali capacità.

"Ho un conto in sospeso con voi" Annunciò Gattapelata. Solo ora si notavano, su tutto il corpo, graffi, morsi, lividi, strappi e ferite varie fresche e sanguinanti. Menzione meritano anche strane chiazze gialle viscose e ribollenti che andavano a colare e confondersi con la sua linfa vitale, creando una strana pozzanghera sul pavimento ai suoi piedi color arancio.

"Io pure!" Fu il grido di guerra del baldo Goffredo, scattato all'attacco, tirandosi dietro un fiasco vuoto per riempire di bernoccoli la testa del cavaliere.

Non ne ebbe il tempo però, che si ritrovò sommerso da un corpo gigantesco di un essere più grande anche di Gattapelata. Un corpo ancora caldo, disarticolato, dalla pancia molle, peloso, irsuto e che puzzava di zolfo, magnesio e carbone tutti insieme. Se vi dovesse riuscire difficile immaginarvi qualcosa del genere, cari lettori, immaginatevi lo sgomento di Goffredo quando si trovò schiacciato da una mostruosità simile. Cadde a terra di schiena, con il corpo mostruoso, che Gattapelata gli aveva gettato addosso, riverso su di lui, che non poteva alzarsi tanto era pesante. Goffredo alzò un poco il capo, stordito dal colpo, studiando che razza di meteora gli fosse piombata a terra. Per poco non urlò quando si vide sul petto un viso lupesco dal naso lungo e squamato, la bocca semiaperta, ricoperta di denti gialli a doppia fila, due lingue violastre, quasi blu a penzoloni e che pendevano da delle fauci prive di labbra. I tre occhi gialli a lama di coltello erano ancora aperti, più o meno, con le palpebre solo un poco abbassate, quasi l'animale stesse svegliandosi. Ma l'animale non si sarebbe svegliato più, era morto e il suo sangue giallo ricadeva dalla sua bocca su Goffredo, inzuppandolo.

Ebbene sì, era il drago Alemanno, che Gattapelata si era trascinato dietro per chissà quante miglia tirandolo per la coda pelosa e serpentesca. Nessuno osava preferire parola di fronte ad uno spettacolo simile.

"Oste!" Richiamò Gattapelata, indicandolo con l'indice e guardandolo fisso "Ti chiedo di perdonare il mio comportamento di stasera. Mi sono comportato in maniera oltremodo disgustosa e ho recato grave danno a te, la tua dispensa, i tuoi mobili e le facce dei tuoi clienti. Siete stati nel giusto, tutti voi, a mettervi contro di me e vi ringrazio per essere stati così compresivi e misericordiosi da risparmiarmi la vita, soprassedendo la vostra giusta collera. Io, vagabondo che non sono altro, ho trovato conforto direi quasi materno nelle vostre randellate premurose. Mi avete fatto tornare alla mente i dolci ricordi dell'infanzia, di come mia madre adoperasse lo stesso vostro fare amorevole nel deliberare nespole, batoste, scapaccioni e manorovesci al me infante. Io, che mi meritavo pienamente questo ed altro, non chiedo se non di accettare questo mio dono. In cambio spero solo di avere il vostro perdono e, così, giusto per dire, magari, forse, se proprio ne avete voglia, ridarmi indietro ciò che era mio e ora vostro bottino".

Giorgione lo guardò, prima incerto, poi confuso, poi commosso e ancora infuriato. Per tutto il discorso, Gattapelata aveva abbassato l'indice e il capo sempre di più, fino a mettersi in ginocchio. Ad un certo punto aveva preso a piangere e frignare,mosso dal suo stesso discorso, che si dovette asciugare le lacrime con la ruvida coda di Alemanno. Giorgione era indeciso su cosa dire. Poi guardò la bella carne di drago, con cui avrebbe potuto farci delle bistecche che sarebbero bastate per la prossima sagra di paese. La pelle, con cui si potevano fare vestiti caldissimi ed eleganti per la prossima collezione autunno/inverno. I denti, per collane, utensili, portafortuna e chiodi. Il sangue, come combustibile per le lampade. I draghi dopotutto non erano troppo diversi dal maiale: non si butta via nulla.

Giorgione gli si fece incontro e gli poggiò il mattarello infarinato sulla spalla, quasi lo volesse nominare suo vassallo.

"Gattapelata, voi siete un leccaculo eccezionale" commentò il saggio oste "ma a dragon donato non si guarda in bocca. Alzatevi dunque e sedetevi. Perché stasera anche voi siete invitato a questa festa".

Gattapelata si rimise in piedi. Aveva smesso immediatamente di piangere.

"Posso servirmi anch'io quindi?"

"Gattapelata, io il drago lo accetto e vi perdono, ma neppure se mi portaste qui il corpo di cristo io potrei permettermi di farvi cenare di nuovo. E poi ho bisogno che abbiate la bocca asciutta, che a quella del drago, come ho detto prima, non gli posso guardare dentro, ma dalla vostra sono curioso di sentir narrare la storia di come diavolo ve la siete trovato una bestiaccia del genere, a quest'ora di notte".

Gattapelata si trascinò su uno sgabello davanti al caminetto, che, per miracolo, non si sfasciò sotto il suo peso gravoso. Altri commensali presero e sollevarono a fatica il corpo di Alemanno per metterlo sotto sale, mentre Goffredo sgusciò via dolorante da sotto quel cadavere antico e freschissimo, andandosi ad pulire da tutto quel sangue ricco di ferro e minerali.

Giminiano invece restò in un angolo, di nuovo adagiato al muro come una farfalla, a rigirarsi fra le dita un pugnale e tendendo le orecchie appuntite. Gattapelata iniziò a narrare, fra un sospiro e l'altro.

***

Ricorderete, cari lettori, di come Gattapelata, ruzzolato giù dal fido Baldobracco, si fosse trovato, nella sua disperata ricerca di liberarsi dai nodi che lo insidiavano come spire di serpe, a tu per tu con l'infido drago Alemanno, i suoi tre occhi, sei zampe e i suoi diciotto artigli. La bestia avanzava lentamente, protendendo le zampe anteriori come braccia umane verso il povero cavaliere e allargando la bocca sempre di più. Poi, improvviso come una folgore, fece uno scatto in avanti da aspide, serrando le fauci, ma Gattapelata riuscì ad eludere la sua mossa, gettandosi di lato con un balzo e ricadendo dolorosamente su un fianco. Non poteva neppure attutire la caduta mettendosi le mani davanti il volto.

Alemanno addentò l'aria con forza. Una delle sue tre pupille rotonde cadde sulla sua destra, dove, steso nella terra brulla, si era proiettato Gattapelata. Subitaneamente si alzò sulle sole zampe posteriori, sollevando le altre quattro in aria, restò fermo un istante, prendendo la mira e ancor più rapidamente ricadde sulla preda con movenze da falco.

Era convinto che stavolta il pasto avrebbe smesso di agitarsi, ma si sbagliava, perché in situazioni come queste, Gattapelata ridiveniva sobrio tutto d'un tratto e, con un colpo di reni, riuscì a rotolare via in salvo, mentre gli artigli esplosero nel terreno di fianco a lui, in un'ondata di erbacce, sassi e terra. Alemanno rimase incastrato per un secondo di troppo con gli artigli nel suolo e Gattapelata riuscì a rimettersi in piedi.

"Gattapelata!" Lo ammonì il drago, alzando un'estremità del labbro, ridendosela della grossa di beffardesco umorismo "Non t'illudere, questo è solo un gioco per me, un innocuo passatempo per divertirmi fra un pasto e l'altro. Avanti quindi, cavaliere dall'armatura di stoffa, fatti avanti e, se non puoi affrontare me, affronta almeno la morte con coraggio!"

Gattapelata sudava, perché sapeva che anche una creatura infame come lui poteva dire il vero. Ma il suo orgoglio era molto più grande della paura.

"Anche senza braccia e senza gambe, al grande Gattapelata rimane la bocca e le mie fauci valgono più di te tutt'intero! Hai commesso l'errore di metterti contro una bestia più selvaggia di te, Alemanno mio!"

Alemanno ringhiò, facendo risuonare un gorgoglio marino degno di Cariddi e Gattapelata indietreggiò, ma non per spavento, ma guadagnare spazio. Alemanno saltò come un leone sull'antilope, ma le antilopi saltano più a lungo del leone e Gattapelata piegò le ginocchia e zompò a sua volta sotto l'arco circoscritto da Alemanno, portandosi dietro di lui. Alemanno atterrò, di nuovo colpendo a vuoto e si guardò intorno confuso. D'improvviso un dolore lancinante gli si propagò per il corpo, partendo dalla coda. Si voltò lacrimando, letteralmente, lacrime di coccodrillo e si trovò davanti uno spettacolo paradossalmente mostruoso anche per lui.

Gattapelata, come aveva promesso, aveva fatto uso delle sue fauci e aggirandolo con quel salto sotto il suo naso, quelle tagliole che erano i suoi denti, si erano serrate sulla coda pelosa del povero Alemanno. Il morso era tanto poderoso che la pelle si era spaccata e affondò nei muscoli, facendo zampillare via a fontanella un sangue giallo, vischioso, appiccicoso e caldissimo. La carne di Alemanno, cruda com'era aveva un sapore terribile, come addentare della corteccia, ma non era il momento di fare gli schizzinosi nella situazione di Gattapelata.

Alemanno non rimase senza reagire. Fattosi asino per un istante, rispose con un calcio posteriore all'altezza della milza del cavaliere sventurato, che lo fece volare all'indietro per una distanza impressionante, prima di spatafasciarsi di schiena su un albero al ciglio della strada. Alemanno uggiulò per la ferita. Gattapelata non aveva mai mollato la presa, neppure quando era stato staccato a forza dal colpo e gli erano rimasti in bocca un ciuffetto considerevole di peli neri. Il cavaliere gemette, ma stavolta era lui a ridersela.

"Hai visto?" Si vantò, sputando i peli che gli erano rimasti sulla lingua "Prima la tua coda, poi la tua gola. Ti mangerò pezzo per pezzo, animale".

Alemanno smise subito di contorcersi e tornò all'assalto, caricando il piccolo tronco su cui si era schiantato Gattapelata. Un altro salto di lato e di nuovo le fauci rettiliane morsero il bersaglio sbagliato, chiudendosi su una betulla. Gattapelata se la rise di nuovo e alacramente, agitando i brizzoli della sua barba infuocata, ma fu presto zittito quando si buscò una sberla pesante come il Battistero di Parma che lo fece volare via, una seconda volta, ai piedi di Baldobracco, spaventato. Si chiese, destabilizzato, che razza di torto avesse fatto all'Antelami per meritarsi questo, fino a che non gli si snebbiò la vista e si rese conto che Alemanno si era fatto come propria dell'arma impropria di quella stessa betulla che aveva morso e poi sradicato. La teneva stretta fra le zampe anteriori e si avvicinava al tremante eroe che si rialzò di nuovo a fatica, come il contadino con il falcetto approccia le ortiche per farci i tortelli alle erbette.

"Sbruffoncellesca creatura degna solo di sputi e calci in culo" La ingiuriò Gattapelata, pesto e con una voce che ormai era poco più di un mugugno "Se credi di aver diritto all'ultima parola ti sbagli di grosso. Se avessi le mani libere vedresti dove te lo infilo quell'albero!"

"È proprio questo il punto, caro Gattapelata. Tu non le hai mentre io ne ho ben sei. Sii riconoscente, perché è favorevole essere mangiati morti che vivi".

Sentenziate le ultime parole, il drago sollevò la betulla, con fronde, rami, fusto e radici, sopra la sua testa lupesca. I suoi occhi gialli brillavano al pensiero del purè di cavaliere, condito al vino rosso, che si sarebbe goduto a momenti. Vibrò il corpo mortale e lo assestò centrando in pieno il capo di Gattapelata. Ci fu uno schianto mostruoso, di tali che si sentono solo al cadere una quercia secolare.

La giovane betulla si era rotta in due tronconi. Sotto lo sguardo allibito del drago, la testa di Gattapelata era ancora integra, per la maggior parte. Sanguinava vistosamente da un taglio sulla fronte e tentennó di qui e di là. Ma era vivo.

"Fidati, anche se mi avessi sbattuto addosso la luna io sarei ancora in piedi. Ora è il mio turno, che dici?"

La minaccia di Gattapelata, però, non ebbe seguito perché il mostro gli balzò addosso di nuovo. Stavolta Gattapelata era troppo suonato per capire di spostarsi e vacillò all'indietro, un passo alla volta. Alemanno era fuori di sé. Voleva mettere fuori combattimento, una volta per tutte, questo mostruoso avversario fintanto che era rimbecillito dal colpo. Ora o mai più si diceva e mandava a destra e sinistra delle artigliate micidiali da fendere l'aria. Presto Gattapelata si ritrovò legacci e tovaglia a brandelli e le sue carni insanguinate a fiumi. Ecco che, ancora confuso, provò paura come poche altre volte nella vita. Sentiva la morte vicina e tutto quel sangue gli dava alla testa. Quando, ormai libero dalle corde, si voltò per darsi alla fuga più sfrenata, lo trattenne una grossa zampa che lo afferrò per un braccio e lo costrinse ad affrontare di nuovo il viso profumato di zolfo di Alemanno che spalancava la bocca e si leccava il palato con due lingue viola, quasi blu, luminose di fronte ad un gola senza fine e buia come caverna.
Volle mollargli un cazzotto e andarsene, ma subito anche l'altro braccio fu afferrato. La stretta era dura, ferrea e dolorosa, quasi volesse spezzargli le ossa, ma non lo fece e si ritrovò a venire sollevato per le braccia ad un'altezza considerevole.

Si sentiva come un bamboccio nelle braccia della madre da quanto si sentiva improvvisamente piccolo, almeno nel caso in cui questa madre avesse intenzione di ingoiare il bamboccio in un sol boccone, gesto che Alemanno si appropinquava giusto ora a compiere.

Cari lettori, di nuovo vi chiedo scusa per quello che sto per scrivere, ma sapete cosa si dice quando si ha paura. Che ce la si farebbe sotto e, invero, fu proprio quello che avvenne a Gattapelata. Forse per terrore, forse per tattica anticonvenzionale di lotta o forse ancora come ultimo regalo indigesto prima di farsi inghiottire dal suo avversario, il prode cavaliere pisciò senza ritegno in bocca ad Alemanno. Senza dilungarci in disgustose descrizioni, al sentir il gusto acido dell'urina sulla sua lingua, il famelico drago, autonominatosi uccisore di sbronzi, si risentì tanto che quasi si strozzò per sputare via quel che rischiava di ingoiare al posto di un buon pranzo.

Cogliendo l'occasione e dimenandosi, Gattapelata ricadde al suolo e ritrovato lo spirito guerriero si avventò contro il mastodontico bestio, ancora intento a sputare e lustrarsi la lingua con gli artigli. Caricò un gancio destro e questo si abbatté sullo zigomo da mammifero del drago, seguito presto da un diretto sinistro giusto in mezzo ai tre occhi gialli. Il drago incespicò all'indietro dalla potenza del colpo e si afferrò dolorante il viso in fiamme. Gattapelata non aveva ancora finito però. Gli si avventò di nuovo addosso, rabbioso e generoso di pugni da regalare. Provò un colpo dal basso, un vero e proprio uppercut ante litteram, ma il colpo andò a vuoto. Il drago si era ritratto all'indietro, distribuendo tutto il peso sulle zampe posteriori e afferrando il corpo di Gattapelata, teso in avanti per il colpo, all'altezza del costato, affondando le unghie nella dura carne del cavaliere. Si rotolarono per terra, fino a finire giù dalla strada per un campo d'erba e malva in discesa. In mezzo ai grilli e le cicale lo scontro proseguì ancora più selvaggio, con Alemanno avvinghiato ai fianchi di Gattapelata con quattro delle sue zampe. Provò a liberarsi, ma il cavaliere dovette constatare che parevano uncini da carne e non si sarebbero staccati facilmente.

Toltosi il gusto di piscio dalla bocca, il drago ritentò di nuovo di morderlo alla giugulare, ma le sue fauci dall'alito putrescente vennero fermate dalle dita nodose come rami d'albero di Gattapelata. Il drago affondava sempre di più le unghie delle prime quattro zampe nella carne dell'erculeo avversario, tentando di sfiaccarlo col dolore lancinante e fargli perdere la presa per concludere lo scontro, ma la resistenza al dolore del Gattapelata superava ogni immaginazione. Anzi, fu Gattapelata ad allentare la presa delle fauci di Alemanno sulla sua gola. Anzi, vi dirò di più, ora Alemanno cominciava ad avvertire un dolore lui stesso alla mandibola, come se stesse per spezzarsi. Sì, perché Gattapelata non si limitò ad eliminare la minaccia del morso, ma ora, ignorando le unghie affondate fra le sue costole, mirava a far spezzare la mandibola di Alemanno.

Ora era il drago ad aver paura e presto si fece disperato. Cominciò ad usare anche la quinta e sesta zampa per graffiare le coscie di Gattapelata ripetutamente, come un cane scortica una porta chiusa. Il cavaliere ebbe un sussulto quando sentì questa nuova ferita, quasi cedette e il drago subito ne approfittò per tornare all'attacco e tentò di chiudere la bocca per strappargli le dita con un morso. Ma non ci riuscì perché il cavaliere non si sarebbe arreso proprio ora. Riprese a spingere, più di prima, a divaricare a mani nude quelle fauci salivose e aberranti. Il drago si teneva al corpo martoriato di Gattapelata più di quanto si tenesse alla vita in quel momento, con la fiamma inestinguibile di dolore ai lati del cranio. Infine ci fu uno schiocco.

Il drago si fece rigido come un mattone, poi subito si ammollì. Alemanno era morto e Gattapelata vivo, seppur non vegeto. Respirò a fatica. Non aveva ancora voglia di alzarsi.

 

   
 
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