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Autore: Tenar80    04/09/2020    1 recensioni
2032
Victor e Yuuri gestiscono un'accademia di pattinaggio in Giappone.
Otabek e Yurio si sono da poco accasati in Inghilterra.
La vita scorre, non sempre sui binari che erano stati progettati.
Questa storia conclude la serie "Stagioni".
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Hasetsu

 

    – Quindi non sei del tutto convinto di prenderla? – chiese Victor.

    – Non ho detto questo. È che ci sono delle criticità che è bene considerare.

    Che fosse un sì o un no, non si poteva far tornare la ragazza in Polonia senza che avesse pattinato davanti a Victor. Così, dopo aver affidato i bambini a Yvonne e rassicurato Chris sul fatto che poteva tornare a dormire fino all’ora di pranzo, si stavano dirigendo verso l’Ice Castle.

    Era uno dei momenti che Yuuri preferiva, quando andavano insieme al palazzetto, a piedi, percorrendo il lungomare. Ark trotterellava con la sua andatura caracollante al loro fianco. Ormai non era possibile immaginare una sessione di allenamento senza si lui che correva avanti e indietro nel cortile o faceva irruzione in sala danza. Hyobe, il loro junior più promettente, terzo alla JGP Final dell’anno prima, si era fatto fare un Ark peluche in miniatura che si portava nelle trasferte come anti stress. Adesso, però, il cane sembrava quasi una guardia del corpo, il garante di quel loro momento di privacy attraversato dalla brezza marina.

    – I problemi alimentari? – chiese Victor.

    – Ad esempio – disse Yuuri.

    Il russo alzò le spalle.

    – Chi di noi non ha avuto problemi alimentari? – mormorò.

    Yuuri si guardò le scarpe. Non era il suo argomento preferito. In modo esplicito con Victor non ne aveva mai parlato, ma qualcuno doveva averlo fatto per lui perché poco prima della finale del Grand Prix, l’anno in cui la loro relazione era cominciata, di colpo il russo aveva smesso di chiamarlo «maialino». Durante il primo anno negli USA Yuuri aveva vomitato così tante volte che si era rovinato lo smalto dei denti. Col senno di poi, era stato fortunato ad uscirne con poco più di qualche otturazione aggiuntiva. Lo aveva salvato Pich, supponeva. Diventava difficile vomitare di nascosto in bagno con un compagno di stanza che teneva a te.

    – Otabek – disse infine, per allontanare i ricordi.

    Victor emise qualcosa a metà tra un sospiro e una risata.

    – Probabile. Mai stato convinto che sia del tutto umano, quello. Dopo tutto sta con Yurio. Ma è un’eccezione.

    – Tu?

    Questa volta quella di Victor fu davvero una risata.

    – Siamo sposati da dieci anni e ancora credi che ci sia una singola cazzata del nostro ambiente che io non abbia fatto?

    – Ma tu sei l’unica persona che conosca che segue le diete al grammo senza soffrire! – disse Yuuri, sorpreso.

    A Victor piaceva mangiare bene, quando lo facevano fuori casa. Digeriva qualsiasi cosa e ancora adesso era in grado di mangiare prima di un’esibizione cibi per cui il giapponese sarebbe stato male tre giorni. Però nella vita di ogni giorno era del tutto inconsapevole di ciò che ingurgitava. Se non era un’occasione di condivisione il cibo serviva solo a nutrirlo, mangiava quello che gli dicevano di mangiare, pesando il cibo senza rammarico e se stesso senza ansia. Ogni tanto sgranocchiava foglie di insalata, lattuga della varietà iceberg, guardando la tv. Era il sogno di ogni nutrizionista.

    Adesso, però, il russo guardava i gabbiani che veleggiavano sul mare con quel suo mezzo sorriso tipico dei ricordi.

    – Ho iniziato a considerare il cibo un premio ben prima di iniziare a pattinare – raccontò, con tono sommesso. – Quando sono andato a vivere con Yakov,  Lilia ha incentivato la cosa. Un cioccolatino per ogni traguardo raggiunto.

    – Non ti ho mai visto mangiare troppo o troppo poco per il tuo fisico.

    Per questo, nei primi anni, Yuuri lo aveva invidiato con un’acrimonia che era quasi odio.

    – Non mi hai mai visto in un momento in cui ritenevo di dovermi punire – puntualizzò Victor. – Le olimpiadi del 2006 sono state un discreto disastro, altro che la tua GP Final dopo cui volevi ritirati.

    – Ah…

    La stagione 2006-2007 per Victor era stata una sequela di infortuni ed errori. Aveva coinciso anche con il divorzio di Yakov, il russo doveva essere andato a vivere da qualche parte di cui raccontava molto poco…

    – Cosa…?

    – Odio vomitare. Non mangiare è più diretto.

    Nonostante tutto, Yuuri sorrise. Anche quella per Victor era stata una questione di eleganza.

    – Come ne sei uscito?

    – Rapidamente. La mia tolleranza al masochismo è scarsa. Yakov mi ha recuperato e mi ha offerto di installarmi nel suo appartamento fino a che non avessi vinto un titolo mondiale, all’epoca era una scommessa piuttosto azzardata.

    Yuuri mandò un silenzioso ringraziamento a quel sant’uomo di Yakov che aveva permesso a suo marito di arrivare vivo fino al giorno in cui si erano conosciuti. Rapidamente, però, lo sapeva, non era sinonimo di facilmente. 

    – Lavoriamo con i corpi e con le anime degli atleti, sono materiali altamente instabili – continuò Victor. – Non c’è nessuno di noi che non abbia commesso errori o attraversato periodi bui.

     Yuuri annuì.

    – A questa ragazza, però, serve qualcosa di più di un buon centro di allenamento, ma non saprei dire cosa.

    Avrebbe lavorato con loro psicologo. Era una delle condizioni che mettevano agli atleti, che fossero disposti ad accettare nello staff anche uno psicologo dello sport, il che faceva sorridere, considerando che non erano mai riusciti a far avvicinare Yurio a uno specialista e anche Yuuri ci aveva sempre voluto avere a che fare il meno possibile. Ma poteva essere che l’essenza della maturità stesse nel cercare di impedire ai giovani gli errori della propria giovinezza. Eppure, pensò Yuuri, non era neppure di questo che Mira aveva bisogno.

 

    Lei li aspettava già sulla pista. 

    Al giapponese faceva sempre impressione quanto potesse sembrare piccolo un atleta da solo nell’anello di ghiaccio. Un po’ il trucco era quello. Al di là della tecnica, c’erano personalità in grado di riempire il ghiaccio e altri che rimanevano minuscoli.

    – Ci presenti il corto della tua ultima stagione? – chiese Victor.

    Mira annuì.

    Proprio come durante il colloquio con Yuuri sembrava volersi accartocciare su se stessa e sparire come carta usata nel cestino. Era assurdo come una ragazza di sedici anni, bella, con un inglese stupefacente, con già le abilità per poter campare tutta la vita come allenatrice, se avesse voluto, potesse sentirsi un’errore di stampa sul libro della vita. Eppure il giapponese sapeva fin troppo bene che poteva accadere.

    Lui e Victor avevano visto e rivisto i video della sua ultima esibizione, la bimbetta magrissima e sicura di sé che si era mangiata le avversarie. La musica era un brano classico, uno Stravinsky visto e rivisto, uno di quei pezzi per cui Victor voleva proporre il veto per sovrautilizzo. Adesso, mentre Mira si toglieva la felpa e andava verso il centro della pista con l’espressione di una vittima condotta al patibolo, il giapponese pensò che sarebbe finita schiacciata dal peso di tutte quelle esibizioni precedenti.

    Già ai primi movimenti Yuuri vide che aveva cambiato la coreografia. Non in modo sostanziale, solo leggeri movimenti, una questioni di postura ed espressione più che di tecnica. La stava portando sul ghiaccio, la sua desolazione. Mira si abbandonava alla musica come un relitto alla corrente, annullandosi e diventandone parte. I salti non erano meravigliosi. La crescita era stato un problema oggettivo. La ragazza era sempre un po’ sbilanciata, leggermente fuori asse e un triplo divenne addirittura un doppio. Ma l’impressione generale… Cercando di non farsi scoprire, Yuuri cercò di spiare la reazione di Victor. Magari solo a lui piaceva quell’esibizione per motivi più personali che oggettivi. Empatizzare troppo con un atleta non era un dono per un allenatore. Suo marito, però, la stava guardando del tutto rapito, con le dita che tamburellavano a tempo sulle braccia e la fronte che si corrugava solo agli atterraggi sporchi dei salti. 

        

    *

 

Newcasle

 

    Yuri suonò il clacson e imprecò in russo.

    Dal marciapiede, un’anziana col deambulatore lo guardò male. Vecchia malefica. Anche se, forse, poteva darsi che fosse il caso di darsi una regolata. I vigili inglese erano di una pesantezza insopportabile.

    Non era colpa sua. Era quello davanti che dormiva al semaforo. Certo, c’era la pura ipotesi, fantascienza in verità, che l’allenamento di merda della mattinata stesse interferendo con il suo umore. E anche il dolore all’anca. Tanto ormai lo aveva accettato che doveva farsi operare. Aveva persino già parlato con l’ortopedico. A tutti i pattinatori cede l’anca, tranne a quelli a cui cede prima qualcos’altro. Però, cazzo, almeno le esibizioni di quell’estate poteva fargliele fare. Poi il suo corpo avrebbe riposato fin quasi a metà autunno. Invece avrebbe trascorso tutto il tour in Giappone inebetito dagli antidolorifici. Doveva fare in modo, in qualsiasi modo, che Victor non se ne accorgesse. Yuri aveva il terrore di come il suo ex allenatore avrebbe potuto approfittarne! Se non altro adesso avrebbe caricato il suo manipolo di sbandati contro cui sbraitare. Era a quello che serviva allenare, no? Ad avere qualcuno su cui sfogarsi…

    

    La prima che raccoglieva era Kamalika, che abitava con un padre di ventisette anni, la nuova compagna di lui e i suoi due fratellastri in un palazzone che non aveva niente da invidiare alla peggio architettura popolare sovietica.

    Che qualcosa non tornasse, Yuri lo vide dalla presenza di una volante della polizia proprio davanti all’ingresso. Poteva essere che avesse bruciato un rosso, ma era improbabile che le forze dell’ordine lo avessero preceduto per arrestarlo lì. E poi la bambina seduta sul marciapiede era Kamalika. A onor del vero, Yuri riconobbe per primo il peluche che stringeva, una lontra stazzonata. Il russo e il kazako, benché ne avessero devoluto in beneficienza la maggior parte, avevano ancora un numero impressionante di peluche. Anche tenendone solo uno o due per ogni competizione, dopo diciassette anni di carriera internazionale, contando anche le stagioni junior, il numero diventava ragguardevole. A Natale avevano pensato di regalarne qualcuno ai ragazzi dell’associazione ed erano andati a ruba, anche tra i più grandicelli. Kamalika, che la sera della festa attraversa una delle sue fasi di mutismo transitorio, se ne era stata in disparte fino a che Otabek non si era avvicinato con la lontra.

    – Si chiama quasi come me – le aveva detto. – Ti presento Mister Ottarbek. 

    Kamalika l’aveva presa senza neppure ringraziare.

    Adesso la stringeva al petto come se non avesse nient’altro.

    A qualche metro da lei, la sua matrigna, con il figlio più piccolo in braccio e l’altro tenuto per mano, stava avendo una discussione piuttosto accesa con i tutori dell’ordine.

    

    Stando ben attento a farlo a norma di legge, Yuri parcheggiò il pulmino e vi scese. 

    Vedendolo arrivare Kamalika non disse nulla ma, silenziosa, si alzò, sempre con la lontra in braccio e si mise proprio dietro di lui. Il russo non provò neppure a chiedere a lei cosa stesse accadendo.

    – Cosa succede? – chiese, avvicinandosi abbastanza per sentire gli improperi, metà in inglese e metà in chissà quale dialetto del sud est asiatico, della donna.

    – Succede che quello stronzo buono a nulla si è fatto mettere dentro e adesso secondo loro dovrei tenermi anche la sua bastarda – ruggì la donna.

    – Lei chi è, il magnaccia? – chiese senza giri di parole uno dei poliziotti.

    Yuri sbatté le palpebre.

    Certo, poteva essere che il suo abbigliamento quel giorno non fosse proprio sobrio. Il suo fan club gli aveva regalato un orologio vistoso che forse non avrebbe dovuto indossare il quel quartiere e la tuta Dolce e Gabbana con le decorazioni dorate si faceva un po’ notare. Però, insomma, per pappone non l’aveva mai preso nessuno. Colpa delle scarpe rosse e e blu elettrico, senza dubbio.

    – Collaboro con l’associazione In corsa per il futuro. Alleno la ragazzina – cercò di darsi un contegno.

    Lo sguardo del tutore dell’ordine fu una delle cose meno convinte che avesse mai visto e per un istante Yuri fu indeciso se dargli un pugno o tirar fuori un documento che dimostrasse la veridicità delle sue parole. Optò per una ferma immobilità.

    – Che succede? – chiese.

    – Il padre dei marmocchi è stato arrestato e lei non vuole tenersi la più grande – riassunse l’uomo.

    Yuri lanciò uno sguardo alla signora.

    – Già non so come sfamare i miei – si giustificò lei.

    – Per cosa è dentro? Spaccio? 

    – Omicidio. Una rapina in villa finita male.

    Cazzo.

    – E la bambina?

    Il poliziotto si strinse nelle spalle.

    – Se non è figlia sua mica possiamo obbligarla. Chiamiamo i servizi sociali.

    Yuri si girò verso Kamalika e si trovò inchiodato dal suo sguardo nero e silenzioso. Se se ne fosse andato in quel momento, ne era sicuro, sarebbe stato tormentato a vita da un mostro a forma di peluche stazzonato di lontra.

    – Posso aspettare con la bambina e vedere cosa succede? – chiese.

    Il poliziotto, già attaccato al cellulare, gli diede a malapena uno sguardo di sbieco.

    Faccia un po’ come crede.

 

    *

Hasetsu

 

     Victor si lasciò cadere, più che sdraiarsi, sulla sabbia.

    Non si sarebbe mai, mai più lamentato di quanto fosse stancante seguire gli allenamenti sul ghiaccio reggendo la canna, quando i ragazzi provavano i salti più difficili. Se non altro, al momento, i due disgraziati sembravano aver ingaggiato Ark che, dal canto suo, correva dietro al pallone con lodevole impegno. 

    – Spero non mi sfianchino il cane – borbottò. – Anche se sembra magro non ho nessuna voglia di portarlo in braccio fino a casa.

    – Non abbiamo più l’età. Chi l’avrebbe detto che saremmo arrivati a superare i quaranta? – disse Chris.

    Aveva già bevuto in un sorso metà della sua bottiglietta d’acqua da mezzo litro.

    – Questa mattina io e Yuuri abbiamo visto Mira Novak – iniziò Victor.

    In realtà non voleva parlarne con Chris.

    Non voleva parlarne affatto. Era solo che adesso la capiva quell’inquietudine che aveva sentito in Yuuri, quella mattina.

    – Quindi è vero che verrà da voi? Posso scrivere un articolo in anteprima?

    – No. Sei in vacanza.

    L’aggettivo «autorevole» a fianco di Chris era surreale. Eppure era quello che era, per tante persone. Giacometti, la voce più autorevole in fatto di sport invernali indoor. Roba da non credere.

    – Non ti ha convinto? – indagò Chris.

    – I salti sono un po’ un disastro, tutti sbilanciati, il Lutz non lo si può neppure chiamare tale. Ci vorrà almeno un anno per sistemarli. Le trottole però sono le più belle che abbia mai visto, la pattinata, poi, è morbidissima… È un’atleta che deve crescere. Anche se non recuperasse mai i quadrupli, si può lavorare su altri elementi.

    – Ma?

    Victor si prese un attimo per guardare il mare.

    Maggio era il mese migliore per andare in spiaggia. La distesa di sabbia era tutta per loro, mentre le onde giungevano dolci sulla battigia, lasciando ciottoli e conchiglie che nessuno raccoglieva. Per quanto continuasse amare viaggiare, molto più di Yuuri, e adorasse passare del tempo in Europa, bastavano pochi giorni lontano dallo sciabordio delle onde per sentirne la mancanza.

     – Dà l’idea di essere una ragazza complicata – disse, cercando di riordinare le idee. – Potrei non sapere come prenderla.

    Da quello che aveva saputo, entrambi i suoi genitori erano medici. Il padre era morto quando Mira aveva quattro anni, da allora l’intero mondo di sua madre aveva ruotato intorno a lei e al suo possibile successo sportivo.

    – Si è già spezzata una volta e sta cercando di rialzarsi – concluse. – Potrebbe finire di nuovo in pezzi per un nonnulla.

    – O forse sei tu che hai paura di finire in pezzi, se qualcosa andasse storto – disse Chris, dolcemente.

    – Cosa intendi?

    – Analizziamo i fatti – iniziò lo svizzero, mentre allungava il collo per controllare dove fossero i bambini. – Il tuo primo allievo te lo sei sposato. Yuri è quasi un fratello. Luzt è di famiglia, è stata tua damigella di nozze prima che tu allieva. Anche i due ragazzi junior sono praticamente dei nipotini, li segui da quando hanno dieci anni. Certo, tieni anche i corsi, lavori con altri ragazzi, ma quando inizi a lavorare in modo individualizzato diventano famiglia.

    Victor sospirò, mentre muovendo le dita nella sabbia. Era imbarazzante il modo in cui Chris riusciva a leggerlo.

    – Messa così non suona molto professionale – disse.

    Chris si strinse nelle spalle.

    – Yakov si è preso in casa te e poi Yuri. Abbaiava un sacco, ma non ha mai buttato fuori nessuno perché per una stagione o due non ha ottenuto medaglie. Da qualcuno avrai pur imparato.

 

*

Newcastle

 

    L’ufficio dei servizi sociali di Newcastle aveva arredi di rara tristezza. Una via di mezzo tra la sala d’aspetto di un ospedale e quelle delle visita in un carcere. C’erano mobili in compensato bianchi dagli angoli sbeccati e sbarre a tutte le finestre. Per entrare avevano fatto passare Yuri al metal detector peggio che in aeroporto e gli avevano chiesto dove avesse preso l’orologio, manco lo avessero trovato a fare chissà cosa di illegale.

    Kamalika era stata invitata a giocare in una stanza dove c’erano costruzioni di legno per bimbi di uno o due anni e una cesta di bambole variamente mutilate. Lei se ne stava su una seggiolina di plastica arancione con mister Otterbek sempre ben stretto al petto. Yuri stava aspettando da una ventina di minuti in una stanzetta adiacente, da cui vedeva la bambina attraverso il vetro. Dire che era inquieto forse era troppo. Tuttavia…

    L’estate dopo le ultime Olimpiadi era andato in Russia per una campagna pubblicitaria e per una santa volta Otabek lo aveva accompagnato. Erano andati a fare un servizio fotografico in un posto sperduto, in mezzo alla taiga. Alla sera avevano dormito nella cittadina più vicina. Lui e Otabek erano andati al cinema. Una serata normale. Non erano certo tipi da chissà quali effusioni, loro. Non erano i due pervertiti del Giappone. Non avevano neanche saputo dire, poi, per quale assurdo motivo era sembrata una buona idea baciarsi nella piazza. Forse perché era il tramonto, perché erano tre mesi esatti da… Quella cosa lì. Un solerte poliziotto li aveva fermati per atti osceni. Senza capire bene cosa stesse accadendo, si erano trovati in uno squallido ufficio arredato con un tavolaccio con gli angoli sbeccati. Otabek aveva gestito la cosa con molta calma e molti rubli. Erano tornati in camera nel giro di un’ora, senza neppure dover chiamare l’avvocato. Tuttavia né lui né Otabek avevano davvero voluto chiedersi cosa sarebbe accaduto se avessero avuto cognomi meno famosi, conoscenze meno influenti e sopratutto meno contanti a disposizione. Non c’era davvero un motivo per cui quell’ufficio ben illuminato dovesse ricordare la sordida stazione di polizia di Kalya, salvo l’angolo sbeccato della scrivania. Tuttavia Yuri sobbalzò, quando la porta si aprì.

    Non entrò alcun poliziotto con eccesso di testosterone, ma una donna bassa sulla cinquantina con gli occhiali, la pelle color cappuccino e i capelli ricci venati di grigio.

    – Mi hanno detto che è un volontario dell’associazione con cui Kamalika fa sport e che vuole sapere come sarà sistemata la bambina – disse, mentre appoggiava il proprio tablet al tavolo. – Io sono la dottoressa Alicia Breem.

    Yuri annuì, stringedole la mano.

    – Yuri Plisesky – disse.

    Di solito, quando si presentava, il suo cognome bastava e avanzava. Spesso bastava il nome. Per la prima volta sentì l’assurda mancanza di un titolo da premettere, come se si trovasse in perizoma a un ricevimento formale, circondato solo da persona in giacca e cravatta.

    – Polacco? – chiese la donna.

    – Russo – ringhiò. – Qual è la situazione della bambina?

    La dottoressa, presumibilmente un’assistente sociale, sospirò.

    – Il padre è implicato in una rapina finita con l’omicidio dell’anziano proprietario… A quanto pare lui e i complici pensavano che non fosse in casa e si sono fatti prendere dal panico. Le responsabilità delle persone coinvolte sono ancora da chiarire, tuttavia…

    …Dai dieci ai trent’anni di galera, così a stima, pensò Yuri.

    – La madre non risulta più domiciliata nel Regno Unito, stiamo cercando di rintracciare altri parenti, ma sarà difficile trovare qualcuno disposto a prendersi la bambina – disse la donna.

    Aveva un tono pratico, di chi tratta casi simili tutti i giorni. Aveva un viso simpatico, dava l’aria di una persona a cui piacesse ridere, tuttavia Yuri sentì di odiarla.

    – Quindi?

    – Siamo contattando le case famiglia della zona per vedere dove c’è un posto. Se possiamo, eviteremo di spostarla da Newcastle. Magari potrà continuare a frequentare la vostra associazione…

    Certo, pensò Yuri, perché il problema era continuare a farla arrivare ultima a qualsiasi competizione provassero a iscriverla, dai cento metri al vortex. 

    – Cioè finisce in istituto?

    La Breem si sistemò gli occhiali e tentò un sorriso.

    – Casa famiglia. Ha detto di essere russo? Qui non abbiamo veri e propri istituti come, beh, nel suo paese. I ragazzi vengono seguiti da operatori specializzati in un rapporto di circa uno a tre.

    Lanciò un’eloquente occhiata alla stanza adiacente, dove oltre il vetro si vedeva Kamalika che dava da bere a mister Otterbek in una tazzina giocattolo in plastica stinta.

    – È molto probabile che si troverà meglio lì che dove stava prima.

    Era quasi sicuramente vero. Con ogni probabilità nella casa famiglia nessun fratellino gli avrebbe rigurgitato sui quaderni. Non sarebbe stata obbligata dalla matrigna a fare i lavori di casa. Non sarebbe stata svegliata in piena notte dalla polizia, venuta a cercare la droga che il padre nascondeva. Né avrebbe visto il suddetto padre e la matrigna farsi.

    Dall’altra parte del vetro, Kamalika prese il pupazzo con entrambe le mani e lo alzò per muovergli le zampe, mimando un saluto. Un gesto uguale a quello che aveva visto fare un milione di volte a Victor, con il suo assurdo peluche a forma di barboncino.

    – Non voglio che vada in istituto – disse, senza pensarci.

    – Beh, certo, la soluzione migliore sarebbe l’affido – sospirò la dottoressa Breem. – Ma non è facile trovare da un giorno all’altro famiglie disposte a farsi carico di una bambina già in età scolare.

    Il tablet trillò per una notifica in arrivo.

    – Ecco, la nostra struttura a Newcastle sud ha un posto vacante – annunciò la donna. – Kamalika starà con altri otto ragazzi dai sei ai diciassette anni. Visto che è così legato alla bambina, sarebbe davvero gentile se la potesse accompagnare insieme a me. Vedrà, è una bella casa con un giardino, nulla a che vedere con certi… Beh, con le strutture dell’est Europa.

    Negli ultimi anni Victor aveva curato tutto una serie di progetti con l’istituto in cui era cresciuto, in Siberia. Una volta era persino riuscito a convincerlo ad andare con lui per offrire una settimana di lezioni di pattinaggio gratuite ai bambini. Come ripetevano in modo ossessivo gli operatori e come faceva anche Victor, quando era obbligato a toccare l’argomento, c’erano posti peggiori in cui crescere. 

    – Ma… Se, per dire, volessi prenderla con me?

   
 
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