Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: _Unmei_    16/09/2020    1 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Giardini di Pietra
 
Capitolo 7

 
__________ 
 

Un mattiniero raggio di sole si faceva strada fra i tendaggi di broccato, illuminando la stanza di una luce gentile. Florent dormiva quieto fra le lenzuola, con le labbra socchiuse e le ciglia tremanti per chissà quale sogno; io gli sedevo accanto, accarezzandogli con delicatezza i capelli, beandomi della quiete del mattino.
Fumavo una sigaretta francese, un piccolo vizio che mi concedevo raramente; ancor meno da quando vivevo con Florent, che non apprezzava il loro aroma dolciastro, e che arricciava il naso quando tentavo di baciarlo dopo averne fumata una. Quando l’ebbi terminata mi alzai, indossai una vestaglia e andai a scostare le tende; fuori dalla finestra c’era Venezia.
 
Ci trovavamo lì da una settimana, eravamo arrivati di sera, in tempo per vedere il tramonto infuocare la città, e il cielo riempirsi di colori accesi, per poi scurirsi, mentre l’acqua dei canali si faceva sonnolento inchiostro.
Soggiornavamo al Danieli, in uno splendido alloggio riccamente arredato che comprendeva un salotto e due camere da letto, e balconcini affacciati sulla laguna. Poltrone barocche rivestite di damasco, vetri artistici e soffitti affrescati, mobili preziosi e lucidi marmi… era una sistemazione costosa anche per le mie tasche benestanti, ma volevo che Florent avesse il meglio, che i nostri giorni in quella città fossero memorabili sotto ogni punto di vista.
Era stato proprio Florent a chiedermi di recarci in quella città, all’inizio senza nemmeno spiegarmi il perché.
Accadde una sera, dopo un concerto al Carlo Felice. La musica, immancabilmente, lo rapiva, e io ne approfittavo per spiare di tanto in tanto il suo viso, l’espressione intenta, gli occhi brillanti. Ma a un certo punto, quella volta, sembrarono luccicare di lacrime trattenute e non di delizia, e intanto stringeva le labbra fra i denti.
Ne fui turbato, quasi spaventato. Il brano era di Vivaldi, ‘La Tempesta di Mare’; era splendido, irrequieto, davvero acque agitate in musica, con un intermezzo quieto come l’occhio di un ciclone… ma perché tanta energia travolgente avrebbe dovuto mettere quell’espressione addolorata sul suo viso?
Mi sedeva accanto a teatro, e anche sulla carrozza che ci riportava a casa, ma si fece così assorto e indifferente a tutto da sembrare lontanissimo. E poi, ancora, la sofferenza nei suoi occhi, la piega amara delle sue labbra, come fosse sull’orlo del pianto. Florent, sempre risplendente di serenità e di gioia di vivere, che dava l’idea di una forza quieta e resistente che non temeva nulla, ora sembrava sperduto e fragile. Mi straziava il cuore a vederlo così, ma il mio stupore e la mia preoccupazione erano tali da non sapere che fare per consolarlo, per rassicurarlo. Non ero abituato a consolare le persone… se almeno avessi saputo cosa non andasse, forse avrei trovato le parole giuste, ma mi trovavo nell’ignoranza. Gli chiesi spiegazioni, sperando che con i segni,almeno, mi dicesse qualche parola, o che scrivesse nel taccuino qualche frase che mi illuminasse, ma lui scosse la testa, senza nemmeno guardarmi in viso. Compresi che era inutile insistere, che dovevo pazientare, e sperare che prima o poi decidesse da solo di sciogliere i lacci del suo cuore.
Nella notte lo sentii rigirarsi a lungo, mentre nel letto si teneva lontano dalle mie braccia; rivoltarsi, ricercare vanamente il sonno, sospirare, arrendersi.
Accese il lume sul suo comodino, e le sue mani danzarono.
 
“Portami a Venezia.”
 
Dunque, eccoci.
Si era nel pieno dell’estate, e Venezia splendeva. Ne restai incantato; ne avevo visto illustrazioni, dipinti, avevo osservato da vicino le opere del Canaletto nella loro miracolosa precisione, ma la realtà restava inarrivabile e magica, e provai il desiderio irrealizzabile di vederle la Serenissima ai tempi del suo massimo splendore. Non conoscevo per niente la città, nemmeno lontanamente immaginavo che più avanti ci avrei vissuto per vent’anni, e che ogni calle e ogni campo mi sarebbe divenuto familiare. Florent, però… lui si muoveva sicuro in quel dedalo, senza perdersi mai; mi fece da guida, mostrandomi chiese ed eleganti palazzi, scivolando in gondola lungo i canali, o passeggiando senza fretta. Glielo chiesi, se fosse di lì, e lui annuì, ma non aggiunse altro.
Quel giorno, dopo una lunga passeggiata a Castello, ci dirigemmo alle Procuratie Nuove per bere qualcosa al Caffè Florian. Quanto tempo passai in quel luogo, nei miei anni veneziani! Quasi ogni giorno, d’inverno nelle sue belle sale dipinte e dorate, sui divani di velluto rosso… o nella bella stagione, seduto all’aperto, a guardare la vita scorrere in Piazza san Marco.
Sto divagando.
Sedevamo al Florian, dicevo, davanti a due calici di vino bianco e fresco, e sollevai l’argomento che ormai non mi lasciava pace; non solo il motivo del turbamento di Florent quella sera a teatro, il motivo che ci aveva condotti fin lì, ma anche l’ormai ovvio fatto che il suo passato fosse legato a Venezia. Solo quello avevo capito, e non mi bastava.
 
“Siamo qui ormai da giorni, e ancora non mi hai voluto rivelare perché siamo venuti. Né perché eri tanto inquieto quando me lo hai chiesto.”
 
Mi guardò, e sorrise; un sorriso con cui sembrava voler ignorare le mie domande, far finta di nulla, come non le ritenesse importanti. O come se qualche paura lo frenasse dal rispondere.
 
“Eri agitato – insistei – e non lo sei mai. Mi sembravi così infelice, e persino spaventato… come puoi credere che io non mi preoccupi, per questo? Che non soffra nel vederti soffrire?”
 
Florent non mi guardava più, teneva gli occhi fissi sul bicchiere, e io continui, amareggiato.
 
“E che non soffra anche nell’apprendere che non ti fidi abbastanza di me da confidarti.”
 
Lui rialzò gli occhi, spalancati, l’espressione stupita, quasi l’avessi colpito. Dovette comprendere quello che provavo, e annuì.
 
“Domani saprai tutto.”
 
Disse.
Certo non usò la voce, ma i gesti, ma anche quello era parlare, e visto che solo io lo potevo capire, mi sentivo onorato e speciale: condividevamo qualcosa da cui tutti gli altri erano esclusi. Ero felice di aver ottenuto quella specie di promessa, ma lui si fece così mesto e adombrato che quasi mi pentii della mia insistenza.
Quasi.
Volevo sapere. Dovevo sapere. Come avrei potuto aiutarlo, altrimenti? Come avrebbe potuto essere completamente mio, se mi avesse tenuto nascosto qualcosa?
Vedendolo così pensieroso, cercai di distrarlo: parlai e parlai, mentre continuavamo la nostra passeggiata, Probabilmente dissi molte sciocchezze, tanto che non rammento quasi nulla. Ricordo però la frase che scacciò la tristezza dai suoi occhi.
 
“Sei un veneziano, Florent, e io un genovese. Vecchi nemici. Non è splendido il modo in cui abbiamo risolto un tale conflitto storico?”
 
Allora lui sorrise, e mi strinse fugacemente la mano.
 
***
 
Il giorno dopo, la mattina prestissimo, uscimmo; nel cielo c’erano le striature rosate dell’alba. Mi trattenni dal fare domande a Florent e mi limitai a seguirlo, sentendomi euforico e agitato, soddisfatto e spaventato… e nemmeno sapevo bene da cosa. Forse dalla consapevolezza che era doloroso, quel che stavo per scoprire. Però, condividendo il suo dolore, avrei potuto alleggerirgliene il peso.
Florent ingaggiò dei barcaioli; consegnò loro un foglio, su cui doveva aver scritto dove desiderava essere condotto, e mostrò il denaro che era disposto a sborsare.
Io osservavo a qualche passo di distanza, ma vidi bene l’espressione incerta sul volto dei due uomini che avrebbero dovuto remare. Si scambiarono uno sguardo, qualche parola in dialetto, e Florent fece un gesto spazientito; si riprese il foglio e a matita aggiunse qualcosa, lo ricacciò in mano a uno dei due. Di nuovo mostrò i soldi, e io immaginai che avesse aumentato la sua offerta, pur di essere condotto dove voleva; il denaro è sempre un ottimo metodo di persuasione: quelli infine accettarono, e potemmo salire sul loro sandolo.
Fu una traversata piuttosto lunga, effettuata un po’ a remi, un po’ a vela; provai a chiedere il nome della nostra meta, ma i due uomini si volsero a Florent, e lui scosse la testa. Compresi che non avrei ottenuto risposta e che potevo solo attendere; in silenzio osservavo Florent, che di nuovo si era fatto mesto… e teso, avrei detto.  
Avrei voluto prendergli una mano, tenerla per tutto il tempo; avrei voluto accarezzargli i capelli, e rassicurarlo, stringerlo a me, ma niente di tutto ciò ci era consentito, in pubblico. Mi accontentai di sfiorargli una spalla, di sorridergli rassicurante, e lo lasciai, sperando che quel gesto bastasse a esprimergli la mia vicinanza.
Raggiungemmo un isolotto, infine. La barca attraccò in un piccolo molo, e scendemmo; i nostri due accompagnatori ci avrebbero atteso lì, e io mi augurai che lo facessero davvero: una parte di me temeva che ci derubassero e abbandonassero in quel posto isolato. Florent invece non sembrava preoccupato, e s’incamminò lungo il sentiero lastricato che si inoltrava all’interno. Vedevo, in lontananza, una villa, seminascosta dagli alberi.
Attraversammo un giardino, e notai l’erba alta, le siepi non potate e gli alberi che sembravano incustoditi da tempo… qualche anno, forse; erbacce in abbondanza spuntavano anche fra i lastroni del sentiero. Incontrammo statue e panchine di pietra lungo il percorso, e fontane tristemente asciutte.
Raggiungemmo la villa, ed era grande, bella, di pregevole architettura, ma anche su di essa gravava un’atmosfera spettrale di abbandono; nel silenzio si udiva solo il cinguettare di qualche uccello, ma ciò non portava allegria allo scenario. Al contrario sembrava, per contrasto, sottolineare la desolazione di quel luogo.
Florent si fermò un istante, poi riprese a camminare, stringendosi le braccia al petto come se sentisse freddo. Giunse alla scalinata che conduceva al portone, e iniziò a salire lentamente i gradini, mentre io mi fermai, restando a guardare; mi costava, ma lo consideravo un gesto di rispetto, perché ormai avevo intuito cosa fosse quel posto, e pensavo che lui desiderasse un po’ d’intimità, qualche momento per governare le emozioni.
Florent giunse al portone, e vi posò le mani e la fronte; rimase così, immobile, per lunghissimi secondi, poi si lasciò scivolare giù, di colpo, inginocchiandosi a capo chino, le spalle curve, come se avesse perso ogni energia.
Mi precipitai da lui, dimenticando ogni parvenza di riservatezza; mi accucciai al suo fianco e lo circondai con le braccia, lo baciai su una tempia e finalmente potei tenerlo stretto a me.
 
“Questa era casa tua? Vivevi qui?”
 
Florent annuì, si girò nel mio abbraccio e restò appoggiato a me, premuto contro il mio petto come in cerca di un rifugio, le mani strette al bavero della mia giacca. Tremava un po’, e solo quando smise di farlo si svincolò dalla mia stretta, alzandosi su gambe malferme. Compì solo qualche passo e andò a sedere su uno scalino, inclinandosi per poggiare la spalla contro una colonna. Senza guardare, con una mano, mi indicò una targa di marmo scolpita sopra il portone.  Recava uno stemma, e il nome di famiglia; mi sorrise, triste e rassegnato, come se fosse certo che da quello avrei capito tutto.
Aggrottai le sopracciglia, osservando la targa. Lo stemma non mi diceva nulla, ovviamente, ma il nome, Grimani Renier, mi sembrava di averlo già sentito. Lo ripetei a bassa voce, scavai nei miei ricordi, e d’un tratto rammentai.
I Grimani Renier!
Boccheggiai, e tornai a guardare Florent; mi stava osservando, ma in quel momento distolse gli occhi.
Era una notizia di quattro anni prima, e aveva fatto scalpore anche lontano da Venezia.
Umberto Grimani Renier; il suo nome ricordavo con precisione, quelli di tutti gli altri no. Apparteneva a una famiglia che aveva radici nell’antico patriziato veneziano; era un armatore, un grande proprietario terriero, un noto collezionista d’arte. Ma una serie di sventure in mare e di investimenti sbagliati gli causò ingentissime perdite; si buttò in imprese rischiose e dissennate nella speranza di recuperare i capitali perduti, ma ottenne solo nuovi tracolli. E una certa passione per il gioco d’azzardo fece il resto.
Cercò di mantenere le apparenze, ma fu costretto a vendere una dopo l’altra navi e proprietà, ville e terre… dovette anche mettere all’asta i pezzi della sua preziosa collezione, tutto per pagare i debiti e salvare almeno l’onore. Ignoro se fosse riuscito a saldarli tutti, ma so che amici e soci gli avevano voltato le spalle, e immagino che a un certo punto la sua sanità mentale non doveva più essere integra.
Perché un giorno d’estate… forse ubriaco, forse disperato, di certo impazzito, uccise la moglie, una bellissima e colta donna francese, soffocandola. Uccise, sparando loro, il figlio maggiore e quello più giovane. Uccise persino l’anziano e fedele domestico che era rimasto al suo servizio anche nella disgrazia, e infine… si impiccò. Lasciò dietro di sé poche righe in cui spiegava il proprio gesto, la paura, la disperazione e la vergogna, e in cui chiedeva perdono.
Solo il figlio di mezzo era scampato al massacro, un giovane di diciotto anni appena compiuti di cui non si trovò più traccia.
Sentivo come un ronzio nella testa, e un peso sul petto che mi impediva di respirare liberamente. Mi sembrava che quel caldo mattino d’estate fosse diventato gelido, che se avessi provato a muovermi la vertigine mi avrebbe inghiottito. Florent guardava il prato davanti a sé con occhi vacui, e fu su gambe malferme che andai sedermi accanto a lui; non sapevo cosa dirgli, perché sentivo che ogni parola sarebbe stata vuota e insulsa. Era talmente spaventoso, ciò che avevo appena scoperto… come si può confortare qualcuno che ha vissuto una mostruosità del genere?
 
“Tu sei… tu sei il figlio che si salvò.”
 
Dissi, come uno stupido, e il suo assentire fu così leggero da essere quasi impercettibile.
 
“Come facesti a… cosa ti successe?”
 
Florent trasse di tasca taccuino e matita, e scrisse.
 
“Ero andato in città. Ero uscito all’alba, tutti ancora dormivano… un mio buon amico, Gabriele, era venuto a prendermi. Nel pomeriggio c’era un concerto all’aperto in piazza San Marco a cui desideravo assistere... volevo passare una giornata serena, lontana dalle angosce della mia famiglia. Avevo intenzione di rincasare di sera, ma lo feci solo la mattina successiva. E trovai ”
 
Lasciò cadere matita e taccuino; le mani gli tremarono, e le congiunse, intrecciando le dita e raccogliendole al petto. Il respiro ansante, il capo chino.
Capii che si stava dominando per non cedere alla commozione e ai ricordi, alla schiacciante pressione emotiva che quel posto esercitava su di lui. Per anni doveva aver cercato di dimenticare, di seppellire quel dolore il più profondamente possibile, e ora…
 
Mio amato Florent, non è necessario mostrarsi sempre forti, incrollabili anche quando la sofferenza ci strazia e reclama le nostre lacrime. Se desideri piangere, piangi… non ti farà male. E se vuoi che non ti veda, chiuderò gli occhi, ma intanto ti stringerò fra le braccia, e ti chiederò scusa, perché tante volte ti avevo chiesto del tuo passato, senza sapere quanti brutti ricordi, quanti incubi, nascondesse.
 
Parole che pensai, ma non pronunciai; lo presi però fra le braccia. Lo strinsi, muovendomi piano come per cullarlo, per avvolgerlo completamente nel mio calore e nel mio amore, e farlo sentire meglio, così come io mi ero sentito sereno e al sicuro sfogandomi fra le sue braccia, la nostra prima notte d’amore insieme. E so che le mie pene non erano paragonabili alle sue, ma in quel momento stavo soffrendo insieme a lui, e il mio unico desiderio era farlo stare meglio.
Lo strinsi ed accarezzai finché fu lui ad alzarsi, a occhi ancora asciutti, perché nonostante tutto non aveva versato nemmeno una lacrima; mi tese una mano, e tenendoci così facemmo il giro della villa. Camminammo fino a raggiungere un piccolo frutteto; gli alberi, seppur trascurati da anni, erano carichi di pesche, piccole e bruttine, ma dolcissime, come scoprii dopo averne colta qualcuna. C’era anche un gazebo, ed è lì, seduti all’ombra su una delle panchine di pietra, che venni a sapere il resto.
Florent non era cresciuto in quella villa. Vi trascorreva qualche settimana d’estate, da bambino e da ragazzino, ma la sua famiglia abitava in un bel palazzo antico che dava sul Canal Grande. In quella casa solitaria la sua famiglia si era trasferita quando lui aveva sedici anni, perché il palazzo era stato venduto per far fronte ai debiti. Florent pativa quell’isolamento, e quando poteva fuggiva in città e vi trascorreva qualche giorno, ospite del suo amico Gabriele. Come quella volta fatale. Non aveva avuto il permesso di andare, perciò si era allontanato di nascosto.
Quando era rientrato e aveva trovato il massacro, al proprio fianco aveva quell’amico con cui aveva passato ore spensierate in città, felice e ignaro del destino che aveva scampato. Era stato quel giovane a sorreggerlo e a portarselo via, lontano dalla morte e dal sangue; fu attento che nessuno lo vedesse e lo portò in casa propria, poi diede l’allarme.
Per quasi due mesi Florent era rimasto nascosto nell’alloggio di Gabriele, sconvolto, insonne, sperduto, poco più di un ragazzino. Ricordo la notizia della strage, e ricordo vagamente le ipotesi che si fecero sulla scomparsa del figlio di mezzo: a volte assurde, a volte vergognose e crudeli. Ma non vi badai più di tanto, a quei tempi: perché mai avrei dovuto?
Poi, una notte di luminosa luna piena, Florent si fece riaccompagnare alla villa; i morti giacevano sepolti al cimitero, il sangue era stato lavato via, ma niente altro era cambiato. Il portone era aperto, ma nessuno era più entrato, nemmeno gli sciacalli, per rubare i pochi pezzi di un qualche valore rimasti in casa; la disgrazia era recente, ma molto in fretta si era sparsa la superstizione che quel luogo portasse male, che le anime degli assassinati lo infestassero. Florent non rimase molto: ficcò alcuni abiti in una sacca da viaggio, un pettine, uno specchio, e una boccia di profumo. Taccuini e matite, un piccolo libro di poesie, del denaro datogli dal suo amico. E, naturalmente, il suo amato, inseparabile violino.
Un paio di giorni dopo partì, con l’aiuto di Gabriele, che gli diede altro denaro e provvide a metterlo su una nave. Sbarcò in Emilia, senza sapere ancora dove sarebbe andato e cosa avrebbe fatto, sicuro solo di doverci riuscire con le proprie forze.
C’erano tante cose che non capivo, e glielo dissi: perché andarsene così, per vivere nella miseria e nell’incertezza? Doveva pur avere qualche parente che potesse accoglierlo!
Scrisse la sua risposta, nella quale riuscii a percepire tutta la sua rabbia, come l’avesse espressa a voce.
 
“Parenti? Quali? Quelli che non avevano aiutato mio padre, che gli avevano voltato le spalle? Quelli che mi consideravano un minorato perché non posso parlare? Quelli che probabilmente mi avrebbero rinchiuso in un istituto per tarati?”
 
E allora, protestai ancora, perché non aveva chiesto aiuto al suo amico, a Gabriele? E come aveva potuto, lui, consentirgli di andarsene in quelle condizioni disperate? Io mai, mai gli avrei permesso di…
Florent non mi lasciò finire.
 
“So che non puoi capire. Non potevo, non riuscivo a restare a Venezia. Troppo dolore. Così sono… scappato. Anche io sarei dovuto morire quella notte. Pensai che l’essere vivo significasse dover iniziare da zero. Altrove.”
 
Si voltò a guardare da dove eravamo venuti, verso la villa.
 
“Gabriele comprese ciò che provavo. Non fu felice della mia decisione, provò a farmi cambiare idea, ma alla fine mi lasciò libero di scegliere. Mi aiutò ed ebbe fiducia in me.”
 
Non approvavo, e glielo dissi. Era follia. Io non l’avrei lasciato andare, e se non fossi riuscito a trattenerlo, sarei partito insieme a lui. Florent sorrise, quel suo sorriso dolcissimo che mi manca così tanto, e mi accarezzò il viso.
 
“La madre di Gabriele era molto malata, di tisi, e lui non voleva né poteva lasciarla. Né io avrei voluto lo facesse. Mi spostai spesso… prima in Emilia, poi in Lombardia. A Milano rimasi quasi un anno. Poi andai in Piemonte, a Torino, e anche lì restai piuttosto a lungo. Ripresi a vagabondare, e infine giunsi a Genova. Un’altra città di mare, anche se completamente diversa… mi piacque moltissimo. Trovai alloggio in una minuscola soffitta in una viuzza vicino alla cattedrale. Ci stavano a malapena un letto, un tavolo e una sedia. C’era anche un baule, ma tutti i miei averi li portavo sempre con me nella sacca, perché temevo di essere derubato da chi era ancor più povero di me. Lì ho vissuto sei mesi. Poi ho incontrato te.”
 
Posò la matita e con la mano fece i suoi velocissimi segni.
 
Fiorenzo.
 
Sulle prime non capii, quindi lui ripeté e poi si toccò il petto.
 
“Fiorenzo… sei tu?”
 
“Il mio vero nome. Ma mia madre mi ha sempre chiamato Florent. E tutti quelli che mi volevano bene.”
“Allora continuerò a chiamarti Florent per sempre.”
 
Vidi la commozione nei suoi occhi; strinse le labbra in un sorriso tremulo e annuì, tornando fra le mie braccia, forse anche per poter nascondere il viso contro la mia spalla. Restammo nel gazebo per un po’, stretti l’uno all’altro, e poi passeggiammo per il frutteto, mangiando qualche pesca e impiastricciandoci di nettare zuccherino. Era una giornata luminosa e serena, e ancora mi sembrava impossibile che tanto orrore avesse toccato quel luogo.
Mentre tornavamo verso il molo, Florent si fermò a guardare la villa; un brivido gli attraversò le spalle, deglutì, e il suo respiro si fece profondo, tremante, come se stesse trattenendo il pianto. Mio povero Florent. Mio coraggioso, orgoglioso, dolceamaro Florent, che se avesse potuto leggere tutta quella compassione nel mio cuore mi avrebbe forse dato uno schiaffo.
 
“Vuoi… vuoi entrare?”
 
Scosse la testa; feci per prenderlo per mano, ma mi sfuggì come acqua tra le dita. Corse in avanti, diretto al molo, senza fermarsi al mio richiamo, lasciandosi alle spalle il passato e la sua vecchia dimora.

__________

NdA


Ecco svelata la storia di Florent; non finisce qui, altri particolari sul suo passato verranno dati nel capitolo successivo. Spero l’abbiate trovata interessante, perché è una delle parti che più ho amato scrivere; questo sia perché ci tenevo ad approfondire un po’ Florent, o Fiorenzo Grimani Renier, sia perché cominciano a fare capolino certi aspetti del carattere di Riccardo non proprio positivi.
Il nome completo di Florent l’ho scelto fra cognomi importanti, di patrizi e dogi, non c’è nessun caso di cronache familiari sanguinarie che li riporti.
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate… in ogni caso, grazie per aver letto!


 
 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: _Unmei_