No time for Regrets
Like a film action
«Jungkook… ehi, Jungkook?
Sicuro di stare bene?»
Dal momento in cui il ragazzino aveva deciso di aprirsi e vuotare anni interi
di dissapori interni e umiliazioni personali, aveva sentito qualcosa
stringergli il petto in una morsa dolorosa e sempre più opprimente. No, non
andava bene affatto, stava per dirgli. Avrebbe voluto gridarglielo in realtà, urlargli
addosso sfogando tutto quanto; non l’aveva mai fatto prima, mai aveva palesato
tutto quel malessere se non con la madre stessa. Lei assimilava, per poi
sbottare e rincarare la dose.
Mai una volta fosse stata dalla sua parte.
Tacque invece, accasciandosi sulle ginocchia, per poi nasconderci la testa.
S’era chiuso nel mutismo, spaventato all’idea di una eventuale reazione d’urto.
Aveva paura di cosa avrebbe potuto dirgli Jimin?
No, assolutamente no.
Non ne aveva, aveva già quindici anni, si trovava teletrasportato nella
Capitale all’interno di un dormitorio mezzo cadente con altre persone
sconosciute con cui condividere la vita; tutte più grandi di lui, e riteneva
fossero pure più talentuose. Di cosa avrebbe dovuto avere paura? Del vedere
materializzarsi tutte quelle sensazioni di come aveva gridato, imprecato,
pianto chiuso solo dentro una stanza nella totale mancanza di conforto? O
forse… forse Jimin lo riteneva uno stupido immaturo, un bambino appena
cresciuto che non era capace di fare i conti con la realtà. Quel no che si era
ripetuto svariate volte nella testa stava svanendo. Aveva paura. Certo. Una
fottuta paura di affrontare non solo chi gli stava davanti, ma qualsiasi cosa –
qualsiasi altra – che gli si sarebbe parata di fronte.
Per questo se ne stava lì, immobile.
Attendeva una sorte imprecisa, delle parole ancora mute, probabilmente una
risata di scherno. O forse peggio. Avrebbe voluto reagire attivamente in
qualche modo ma sentiva soltanto la forza di reggere la fronte con i palmi
aperti, a nascondere invano nuove lacrime.
Jimin lo osservava immobile, non sapeva cosa fare: non lo sentiva nemmeno
singhiozzare, aveva intuito stesse piangendo dal sobbalzare aritmico della
schiena curva. Si sentiva terribilmente in colpa, sentiva di non appartenere a
niente delle sensazioni che stavano pesantemente ricadendo su di lui.
Senza aver fatto nulla.
Eppure la testa vorticava confusa. Sembrava così fragile Jungkook,
tanto da rischiare di rompersi in milioni di frammenti. Se non fosse
intervenuto, avrebbe dovuto tentare di raccogliere solo cocci sparsi
dell’emotività dell’altro. Dunque fece l’unica cosa che
avrebbe fatto chiunque – o forse soltanto lui – in una situazione simile: gli
si inginocchiò accanto, poggiando la propria testa sulla sua e stringendogli
l’avambraccio con fare imbarazzato, sperando di cedergli tutta la forza di
volontà che ancora possedeva. Non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto
trascorrere in quella posizione: si trovavano soli, ormai la sera stava calando
e le serrande ancora sollevate mostravano il buio procedere quieto verso il
traffico di Seoul. Jin li aveva chiusi a chiave senza
dargli la possibilità di uscire in alcun modo, e ogni speranza di ritrovarsi
fuori in breve tempo svaniva ad ogni minuto passato osservando il vuoto. Voleva
dire qualcosa, doveva forse, ma cosa avrebbe potuto aggiungere? Non poteva
dispiacersi e scusarsi con lui per dei traumi non suoi.
Se l’avesse fatto poi, Jungkook avrebbe accettato
comunque le sue parole?
Era una situazione di stallo assurda, ma valeva la pena tentare con un’arma che
Jimin riteneva non fallire mai: la gentilezza. Certo, affiancata ad una buona
dose di pazienza. Inspirò. Aveva imparato ad accumularne parecchia e ad
utilizzarla con chiunque, era sempre un buon modo per farsi degli amici; aveva
funzionato in più occasioni, persino con gli altri membri del gruppo in cui era
stato incluso poco tempo prima. Tranne che con Yoongi
e il compagno che ora stava accarezzando impercettibilmente. Lo trovava buffo,
era alto quasi quanto lui nonostante la differenza di età, anche se minima; i
capelli ricadevano scompigliati, avrebbe volentieri passato le dita tra di essi
per poterglieli sistemare in un’altra maniera.
Che pensiero scemo, si disse sorridendo: s’era immaginato a scuotere l’altro
per le spalle e veder la chioma muoversi in tutte le direzioni come nei cartoni
animati che tanto amava guardare. Un quadro semplice, quotidiano, tra buoni
colleghi di lavoro. Un modo efficace per strappare una risata e forse pure un
insulto.
Qualsiasi cosa, sempre meglio di vederlo in quello stato.
«Ti faccio tanto ridere…?»
L’aveva sentito davvero? Era così sottile il filo di voce che aveva pronunciato
quella domanda… il silenzio nella stanza però aveva acuito i suoi sensi, e gli
si avvicinò ancora.
«No, sono stupido io a pensare a cose stupide.»
«Ti sei ripetuto, genio della scuola.» Jungkook aveva
sollevato di poco il capo, rivelando parte di quello sguardo che stava
scrutando Jimin da sotto in su, nascondendo ancora le labbra imbronciate tra i
polsi incrociati. Il naso colava.
Jimin scoppiò a ridere tenendosi il torace con la mano. Rideva tanto da non
riuscire più a trattenere la tensione.
«Sembri un bambino!»
«E tu un idiota.»
Però un sorriso era riuscito a strapparglielo finalmente.
«Dove sono andati questi adesso?»
Jin si ritrovò solo di fronte alla porta sbarrata.
Aveva preso una decisione.
L’avrebbe buttata giù a calci. In fondo, lo facevano pure nei film, sarebbe
stata una cosa facile; era una porta vecchia, sarebbe andata in pezzi in poco.
Già si immaginava il titolo di “Eroe” cucito addosso per il resto
dell’esistenza, gli applausi dei presenti – che al momento non c’erano – e la
stima profonda e incrollabile dei due rinchiusi dall’altra parte. Gonfiò il
torace come gonfio era il suo orgoglio, e si diede la giusta carica.
Avrebbe salvato tutti.
E gli avrebbero voluto bene, sempre bene. Gli avrebbero dedicato le più sentite
attenzioni, ed i sorrisi più sinceri. Era il ragazzo più grande, meritava
rispetto e riconoscimento, in fondo.
Prese la rincorsa e chiuse gli occhi. Partì, alzando le braccia e colpendo una
prima volta la superficie dura con la suola della scarpa da ginnastica.
Niente.
Sbuffò allargando le gambe e facendo due piegamenti. Non poteva arrendersi
così, avrebbe dovuto riprovare, ne andava della salvezza di qualcuno. Tornò
indietro, stavolta contò cinque falcate piene dall’alto del suo quasi metro e
ottanta, e ripartì.
Secondo colpo, stavolta la carica era superiore ma non ancora abbastanza. I
piegamenti furono più profondi, il conteggio dei metri maggiore, fino ad
arrivare a metà della lunghezza totale del corridoio. Soffiò fuori dai polmoni
tutta l’aria possibile. Era pronto, sentiva sarebbe stata la volta buona. Non
udì da lontano il richiamo di Namjoon, certo che no:
era troppo concentrato su ciò che stava facendo, e questo lo portò a non dare
la minima attenzione a Yoongi che stava indicando la
signora Choi accanto a sé. Lei stringeva tra le mani il bicchierino di caffè di
un distributore automatico, quello accanto ai bagni della sala prove dove erano
soliti trascorrere il tempo.
L’unico angolo dove Jin non aveva controllato, il
primo, il più plausibile. Quello più ovvio.
«Caro, mi hanno detto che mi stavi cerc-»
Il tonfo interruppe la donna, che fece cadere ciò che stava tenendo tra le dita.
Corse, insicura sui suoi passi e con la corporatura morbida che non permetteva
grande velocità; corse più che poteva, mentre i ragazzi raggiungevano il
compagno che era steso a terra, le lacrime agli occhi e le dita tremanti
strette attorno al piede.
Solitamente la custode manteneva un tono ed un sorriso cordiale, un certo
parlare formale con gli altri dipendenti, ma il “che cazzo hai combinato” non
glielo levò nessuno.