Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
Segui la storia  |       
Autore: _aivy_demi_    07/10/2020    9 recensioni
Era stato l’ultimo ad essere accolto all’agenzia di ricerca di nuovi talenti nel mondo della musica, l’ultimo di conseguenza ad essersi unito al gruppo.
Park Jimin, questo il suo nome: un nome che Jeon Jungkook, neppure con tutta la forza di volontà del mondo avrebbe potuto dimenticare. Un nome che già conosceva, e che aveva imparato a detestare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Park Jimin
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



N
o time for Regrets
Like a film action




«Jungkook… ehi, Jungkook? Sicuro di stare bene?»
Dal momento in cui il ragazzino aveva deciso di aprirsi e vuotare anni interi di dissapori interni e umiliazioni personali, aveva sentito qualcosa stringergli il petto in una morsa dolorosa e sempre più opprimente. No, non andava bene affatto, stava per dirgli. Avrebbe voluto gridarglielo in realtà, urlargli addosso sfogando tutto quanto; non l’aveva mai fatto prima, mai aveva palesato tutto quel malessere se non con la madre stessa. Lei assimilava, per poi sbottare e rincarare la dose.
Mai una volta fosse stata dalla sua parte.
Tacque invece, accasciandosi sulle ginocchia, per poi nasconderci la testa. S’era chiuso nel mutismo, spaventato all’idea di una eventuale reazione d’urto.
Aveva paura di cosa avrebbe potuto dirgli Jimin?
No, assolutamente no.
Non ne aveva, aveva già quindici anni, si trovava teletrasportato nella Capitale all’interno di un dormitorio mezzo cadente con altre persone sconosciute con cui condividere la vita; tutte più grandi di lui, e riteneva fossero pure più talentuose. Di cosa avrebbe dovuto avere paura? Del vedere materializzarsi tutte quelle sensazioni di come aveva gridato, imprecato, pianto chiuso solo dentro una stanza nella totale mancanza di conforto? O forse… forse Jimin lo riteneva uno stupido immaturo, un bambino appena cresciuto che non era capace di fare i conti con la realtà. Quel no che si era ripetuto svariate volte nella testa stava svanendo. Aveva paura. Certo. Una fottuta paura di affrontare non solo chi gli stava davanti, ma qualsiasi cosa – qualsiasi altra – che gli si sarebbe parata di fronte.
Per questo se ne stava lì, immobile.
Attendeva una sorte imprecisa, delle parole ancora mute, probabilmente una risata di scherno. O forse peggio. Avrebbe voluto reagire attivamente in qualche modo ma sentiva soltanto la forza di reggere la fronte con i palmi aperti, a nascondere invano nuove lacrime.
Jimin lo osservava immobile, non sapeva cosa fare: non lo sentiva nemmeno singhiozzare, aveva intuito stesse piangendo dal sobbalzare aritmico della schiena curva. Si sentiva terribilmente in colpa, sentiva di non appartenere a niente delle sensazioni che stavano pesantemente ricadendo su di lui.
Senza aver fatto nulla.
Eppure la testa vorticava confusa. Sembrava così fragile Jungkook, tanto da rischiare di rompersi in milioni di frammenti. Se non fosse intervenuto, avrebbe dovuto tentare di raccogliere solo cocci sparsi dell’emotività dell’altro. Dunque fece l’unica cosa che avrebbe fatto chiunque – o forse soltanto lui – in una situazione simile: gli si inginocchiò accanto, poggiando la propria testa sulla sua e stringendogli l’avambraccio con fare imbarazzato, sperando di cedergli tutta la forza di volontà che ancora possedeva. Non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto trascorrere in quella posizione: si trovavano soli, ormai la sera stava calando e le serrande ancora sollevate mostravano il buio procedere quieto verso il traffico di Seoul. Jin li aveva chiusi a chiave senza dargli la possibilità di uscire in alcun modo, e ogni speranza di ritrovarsi fuori in breve tempo svaniva ad ogni minuto passato osservando il vuoto. Voleva dire qualcosa, doveva forse, ma cosa avrebbe potuto aggiungere? Non poteva dispiacersi e scusarsi con lui per dei traumi non suoi.
Se l’avesse fatto poi, Jungkook avrebbe accettato comunque le sue parole?
Era una situazione di stallo assurda, ma valeva la pena tentare con un’arma che Jimin riteneva non fallire mai: la gentilezza. Certo, affiancata ad una buona dose di pazienza. Inspirò. Aveva imparato ad accumularne parecchia e ad utilizzarla con chiunque, era sempre un buon modo per farsi degli amici; aveva funzionato in più occasioni, persino con gli altri membri del gruppo in cui era stato incluso poco tempo prima. Tranne che con Yoongi e il compagno che ora stava accarezzando impercettibilmente. Lo trovava buffo, era alto quasi quanto lui nonostante la differenza di età, anche se minima; i capelli ricadevano scompigliati, avrebbe volentieri passato le dita tra di essi per poterglieli sistemare in un’altra maniera.
Che pensiero scemo, si disse sorridendo: s’era immaginato a scuotere l’altro per le spalle e veder la chioma muoversi in tutte le direzioni come nei cartoni animati che tanto amava guardare. Un quadro semplice, quotidiano, tra buoni colleghi di lavoro. Un modo efficace per strappare una risata e forse pure un insulto.
Qualsiasi cosa, sempre meglio di vederlo in quello stato.
«Ti faccio tanto ridere…?»
L’aveva sentito davvero? Era così sottile il filo di voce che aveva pronunciato quella domanda… il silenzio nella stanza però aveva acuito i suoi sensi, e gli si avvicinò ancora.
«No, sono stupido io a pensare a cose stupide.»
«Ti sei ripetuto, genio della scuola.» Jungkook aveva sollevato di poco il capo, rivelando parte di quello sguardo che stava scrutando Jimin da sotto in su, nascondendo ancora le labbra imbronciate tra i polsi incrociati. Il naso colava.
Jimin scoppiò a ridere tenendosi il torace con la mano. Rideva tanto da non riuscire più a trattenere la tensione.
«Sembri un bambino!»
«E tu un idiota.»
Però un sorriso era riuscito a strapparglielo finalmente.



«Dove sono andati questi adesso?»
Jin si ritrovò solo di fronte alla porta sbarrata.
Aveva preso una decisione.
L’avrebbe buttata giù a calci. In fondo, lo facevano pure nei film, sarebbe stata una cosa facile; era una porta vecchia, sarebbe andata in pezzi in poco. Già si immaginava il titolo di “Eroe” cucito addosso per il resto dell’esistenza, gli applausi dei presenti – che al momento non c’erano – e la stima profonda e incrollabile dei due rinchiusi dall’altra parte. Gonfiò il torace come gonfio era il suo orgoglio, e si diede la giusta carica.
Avrebbe salvato tutti.
E gli avrebbero voluto bene, sempre bene. Gli avrebbero dedicato le più sentite attenzioni, ed i sorrisi più sinceri. Era il ragazzo più grande, meritava rispetto e riconoscimento, in fondo.
Prese la rincorsa e chiuse gli occhi. Partì, alzando le braccia e colpendo una prima volta la superficie dura con la suola della scarpa da ginnastica.
Niente.
Sbuffò allargando le gambe e facendo due piegamenti. Non poteva arrendersi così, avrebbe dovuto riprovare, ne andava della salvezza di qualcuno. Tornò indietro, stavolta contò cinque falcate piene dall’alto del suo quasi metro e ottanta, e ripartì.
Secondo colpo, stavolta la carica era superiore ma non ancora abbastanza. I piegamenti furono più profondi, il conteggio dei metri maggiore, fino ad arrivare a metà della lunghezza totale del corridoio. Soffiò fuori dai polmoni tutta l’aria possibile. Era pronto, sentiva sarebbe stata la volta buona. Non udì da lontano il richiamo di Namjoon, certo che no: era troppo concentrato su ciò che stava facendo, e questo lo portò a non dare la minima attenzione a Yoongi che stava indicando la signora Choi accanto a sé. Lei stringeva tra le mani il bicchierino di caffè di un distributore automatico, quello accanto ai bagni della sala prove dove erano soliti trascorrere il tempo.
L’unico angolo dove Jin non aveva controllato, il primo, il più plausibile. Quello più ovvio.
«Caro, mi hanno detto che mi stavi cerc
Il tonfo interruppe la donna, che fece cadere ciò che stava tenendo tra le dita. Corse, insicura sui suoi passi e con la corporatura morbida che non permetteva grande velocità; corse più che poteva, mentre i ragazzi raggiungevano il compagno che era steso a terra, le lacrime agli occhi e le dita tremanti strette attorno al piede.
Solitamente la custode manteneva un tono ed un sorriso cordiale, un certo parlare formale con gli altri dipendenti, ma il “che cazzo hai combinato” non glielo levò nessuno.


   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS) / Vai alla pagina dell'autore: _aivy_demi_