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Autore: di_smarginature    12/10/2020    2 recensioni
"Sorride, sguincio, sfuggente, un viso difficile da afferrare, da capire. Disarmonico e violento, rassicurante e raccapricciante.
Mi volto e non c’è più. L’odore è sparito, ogni cosa è al proprio posto.
Sono sicuro che lo rivedrò, in trench e borsalino.
Sorriso sghembo e cicatrici.
Lo rivedrò."
Genere: Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se solo avessi qualcosa con cui colpirla.

Forse dovrei allungarmi oltre il bordo del letto, a tastoni cercare la mia ciabatta, afferrarla e poi colpire duro, scagliarla, veloce come un dardo.

Ma rischierei di fare troppo rumore.

Vorrei davvero ridurla in brandelli, in pezzetti miseri, sparsi in giro per la camera da letto.

Rido di me stesso, di questa mia piccola, temporanea pazzia.

Opto per la decisione più equilibrata da vari punti di vista: mi alzo, a piedi scalzi mi avvicino a lei, la afferro e con mani capaci, abili, dalle lunga dita scure, la scuoto - odiosa. La giro, le tolgo le pile.

Ha smesso. Finalmente.

Tiro un sospiro di sollievo.

Le lancette della sveglia sono ferme a mezzanotte in punto; lo saranno per un bel po’, almeno fino a domani mattina.

Il suo preciso ticchettare mi dava ai nervi. Non aiuta la mia insonnia, anzi, ne aumenta il passo, ne scandisce la portata, l’aggrava e la dilata. La sforma, la scassa. Non è altro che lo scorrere incontrovertibile dei minuti e delle ore che non sto sfruttando, che mi tengono immobile, incapace, impotente.

A 34 anni, certe cose le senti di più. Non sei un vecchio, non sei un ragazzo, sei semplicemente più annoiato e più percettivo del solito.

Ho una teoria secondo la quale più si invecchia, più percepiamo gli stimoli esterni. La nostra corazza giovanile, che ci rende spietati e senza remore, si ammorbidisce; da acqua che penetra diventiamo spugna che assorbe. Lanterne per falene, elettricità pura nella gabbia di Tesla.

Me ne torno a letto. Un sospiro alla mia destra. Si è svegliato.

«Di nuovo la sveglia?» dice, la voce impastata dal sonno.

«Cos’altro, se no?»

«Marco» mi rimprovera.

«Lo so, lo so, Luigi

«Vai a fare due passi, fammi dormire.»

Si volta dall’altra parte, disteso su un fianco alza il ginocchio, quello sinistro, e nella sua posizione preferita per sonnecchiare, mi ignora e si addormenta. È incredibilmente svelto ad addormentarsi, quasi lo invidio e lo detesto.

Rimango di nuovo da solo.

Decido che andare a fare due passi non è poi il male peggiore, tanto più che ormai la camera da letto mi sembra solo una gabbia, si riduce e si stringe, collassa su se stessa, inglobandomi.

Il russare di Luigi che si beffa della mia insonnia.

Decisamente meglio fuori.

Così vado in bagno, rinfresco il viso. Per un attimo, mi guardo allo specchio. Le occhiaie, la barba incolta, qualche filo bianco tra i capelli che negli uomini della mia età è già diventato calvizie.

Tutto sommato, non mi è andata male.

Indosso il cappotto sopra il pigiama, le scarpe da ginnastica; una volta fuori, l’odore e la freschezza pungente della campagna pugliese mi investe il viso, mi rinvigorisce.

Un pipistrello vola in picchiata, sfreccia nella sua minuscola figura spettrale, un’ombra nera che si dilata nel raggio della torcia dello smartphone. Una fugace visione, sparisce poi tra gli alberi.

Ho percorso il vialetto che dal casolare porta al paesino centinaia di volte. Da quando ci siamo trasferiti qui, per gestire l’azienda di famiglia di Luigi – un oleificio abbastanza redditizio che conta oltre ottanta dipendenti – ho percorso questa stradina sterrata alla continua ricerca di ispirazione per la mia carriera, ormai morente.

Mi sono trascinato fin qui la carcassa già parzialmente sventrata del mio fallito destino da scrittore, alla ricerca di un posto dove seppellirla.

Avanzo tra gli ulivi, assopiti nel gelo invernale, le piccole foglie pallide, cullate dalla calma notturna.

Questi ritagli solitari mi piacciono, piccoli scampoli di tempo sbiadito che strappo alla solita routine.

Dover gestire l’azienda di famiglia dopo la scomparsa del padre di Luigi, mi porta via energie che non credevo neanche di possedere.

Sempre assorto tra conti, persone, scadenze, fornitori, spremiture biennali da programmare, raccolta di olive.

Mentre qui, tra gli alberi, sono senza preoccupazioni. Senza numeri in testa, piacevolmente svuotato, privo di caos.

Le scarpe scricchiolano sull’acciottolato, cammino tenendomi a lato strada, il fascio di luce proiettato davanti a me. Raggiungo il bivio che a destra porta in paese, e a sinistra conduce verso altri, immensi campi, arati, destinati all'agricoltura.

Proseguo verso destra. Le prime villette isolate spuntano dal terreno come funghi di cemento e sabbia un po’ troppo cresciuti; i muri a buccia d’arancia intonacati di bianco, sporco al livello delle grondaie e delle inferriate sulle porte e finestre chiuse. Buchi scuri nell’oscurità. Case tutte uguali, di grandezza uguale, a tre piani, giardino, cortile, garage. La copia di una copia, il destino di un paesino sperduto in una cava erbosa.

Qualche metro più avanti, i primi lampioni mi indicano la via, così spengo la torcia.

I miei passi non si arrestano, raggiungono la prima fermata del bus, proprio davanti il piccolo negozio di alimentari del paese, tra un ferramenta dall’insegna sbiadita – non è necessario cambiarla, qui tutti conoscono tutti – e la macelleria qualche metro più indietro.

Sotto, con il peso spostato sul piede sinistro, la sagoma di un uomo in trench grigio, alto e magro. L’ombra di quello che sembra uno sformato borsalino nero gli cela parte del viso.

Per un vizio tutto italiano, lo saluto con un piccolo cenno del capo pur senza conoscerlo. Ricambia, lo supero, continuo a camminare. Sento i suoi occhi sulla mia schiena, voglio voltarmi, ma è notte fonda, i pericoli loschi sono in agguato, pronti a balzare come le fiere delle savane africane. Meglio di no, meglio non giocare troppo con gli sguardi.

L’aria è silenziosa ed immobile, abbandonata a se stessa, arresa nel notturno grigiore dell’inverno.

Non un latrato di animali, non un fruscio di ali minuscole.

Tutto è immobile, tutto è statico, fermo, come bloccato.

Il forte profumo degli ulivi permea ogni cosa. Ulivi che, intorpiditi, istupiditi ma vivi, respirano. Ulivi sgualciti e striminziti dal gelido rigore, che resistono sulle colline che abbracciano il paesino, nelle vallate che lo sorreggono, nelle pianure, nei campi.

Profumo intenso, fresca spremitura.

Sono al centro del paese, nel suo punto più sviluppato, e l’odore degli ulivi non è mai stato così presente, così arrogante.

È un odore sbagliato, nel posto sbagliato.

Come sbagliata è la nebbiolina azzurra che mi avviluppa, che delicatamente mi avvolge.

Per un breve, intenso momento, penso di avere le traveggole; l’insonnia allucinatoria gioca con me.

Forse mi sono addormentato e sto sognando?

Mi do un pizzicotto sul fianco destro, mordo l’interno del mio braccio, sento dolore, sono sveglio e sono vigile e sono qui.

La nebbia mi intorpidisce gli arti. Sono leggero, sono forma, sono slegato dall’infernale materia di carne e muscoli che mi compone, che mi tiene legato alla terra, come un’appendice distorta e fragile.

Sarebbe così facile adesso spiccare il volo; con un balzo, con un salto, arrivare in alto.

La foschia azzurrognola e profumata si spande, liquida, veloce, come inchiostro su carta. Abbasso lo sguardo, quasi ne fossi io la fonte, parte dai miei piedi e si allarga sulle panchine della piazzetta, sulle aiuole secche e morte che la fiancheggiano; sull’insegna sbiadita, sulle case basse e – a differenza delle loro sorelle villette – tutte diverse, tutte colorate. Si alza verso l’alto, un muro lattiginoso e freddo, che penetro di passo in passo. Cammino lentamente, senza conoscere la mia destinazione, e l’azzurro si fa più intenso.

Mi accorgo del silenzio. È tutto troppo silenzioso. Le orecchie tappate, ovattate, di testa che galleggia sott’acqua.

Percepisco lo scorrere del sangue nelle mie stesse vene, il tumultuoso ruscello cremisi che mi tiene vivo dall’interno. Il cuore che pompa, una macchina perfetta, a ritmi regolari ma forti.

Solo questo, solo la consapevolezza del mio corpo, e nient’altro.

Poi, d’improvviso, una voce roca, baritona, si spinge fin dentro il mio bozzolo. Lo sbriciola. Mi scuote.

Anche questo è sbagliato.

«Ti stavo aspettando», dice.

Mi volto, è da lì che proviene la voce, dalle mie spalle. L’uomo in trench e borsalino sta di fronte a me, incredibilmente alto, gli arti superiori ed inferiori lunghi e sottili. Non mi ero accorto della sua figura slanciata da gigante, prima.

Devo alzare il viso per potergli parlare, per poterlo vedere.

Le domande inciampano sulla lingua, le cose che vorrei dirgli seguono un flusso per me impossibile da arginare e tenere a bada.

Sono intorpidito, raggelato, un corpo immobile.

«Lei stava aspettando me?» è l’unica frase di senso compiuto che riesco a pronunciare, a fatica, con il fiatone.

Annuisce e un sorriso storto, obliquo gli piega in due il viso. Sotto l’ombra del borsalino, il suo naso è stretto e lungo, quasi fosse un becco; mentre la bocca è sprovvista di labbra: al loro posto, due cicatrici giallastre, spesse e rugose, lasciano intravedere i denti regolari e bianchi.

«Devo mostrarti una cosa.»

Attraverso lo spesso strato di nebbia azzurra che vortica attorno, mi offre la sua mano: un invito a seguirlo, a fidarmi di lui.

L’istinto di sopravvivenza e la repulsione nei confronti del mio strambo interlocutore, rompono l’incantesimo in cui mi trovo.

Il torpore abbandona il mio corpo.

Voglio tornare a casa, sono pronto per tornare a casa.

Faccio per superarlo, mi muovo, vedo i piedi marciare… eppure resto fermo qui.

Davanti a lui.

«Che cosa mi sta facendo?» la mia voce tradisce un certo nervosismo isterico. «Mi lasci andare!»

«Non sto facendo niente.»

Gli rivolgo un’occhiata rabbiosa. Ma, mio malgrado, è vero ciò che dice. Le sue mani sono sospese a mezz’aria, ancora in attesa riempiono lo spazio che ci divide. Non mi toccano. Non mi sfiorano neppure.

«Cosa mi sta succedendo? Non riesco a muovermi!» ripeto, come se la ripetizione stessa potesse aggiustare la situazione.

«Devo mostrarti una cosa.»

«Ma non riesco a muovermi!»

«Devo mostrarti una cosa.»

E poi, capisco. Sono queste, quindi, le condizioni? Riuscirò a muovermi soltanto se pronto a seguire la sua volontà?

Chi è l’uomo alto e lungo che sta condizionando i miei movimenti senza neppure toccarmi?

Mi domando, ancora una volta, se questo non sia un sogno; se non sia un paesaggio onirico, questo: la nebbia azzurra, il paese, il profumo degli ulivi, il gigante, tutto.

Mentalmente, cerco di riafferrare i lembi di questa realtà sgualcita. Ero sveglio quando ho indossato il cappotto e sono uscito in strada, di questo sono sicuro. Ero sveglio quando ho scelto se svoltare a destra o verso sinistra. Ero sveglio quando l’ho incontrato la prima volta.

Ero sveglio, sono sveglio.

Lo so, lo sento.

Ma allora cosa mi succede?

Seguire l’uomo in trench e borsalino sarebbe da pazzi.

Rimanere qui – il tempo che scorre lento, ogni secondo prolungato – è impossibile.

Mi fanno male le gambe, le braccia, il mio intero corpo è tramortito.

«No» sussurro.

Faccio per muovere un piede, e quasi mi sembra di riuscirci.

Esulto troppo presto.

Con una sferzata di mano, facendo schioccare le dita mostrandomene il dorso, l’uomo mi blocca, ancora una volta.

«Non funziona così» ridacchia, una risata grottesca, di unghie che grattano sulla lavagna, sulla lavagna nera e rigata della mia scuola elementare.

Mi rivedo, piccolo, sfocato, le gambette arcuate al centro, i calzoni marroni macchiati, non ricordo di cosa.

Un’antica consapevolezza si sveglia dentro di me, un presentimento, un richiamo.

Sono nel cortile della scuola, nessuno vuole giocare con me, perché tutti preferiscono giocare col pallone, mentre io voglio disegnare. Disegno ogni cosa, alberi, cani, case, i miei compagni.

Sono linee sottili, rozze, volgari, di piccola mano inesperta; disarmonici bozzetti, sbuffi di matita, di colori, gomma che cancella male, che sporca, allunga i tratti della mia 2B.

Sfoglio le pagine, una dopo l’altra.

I disegni normali di un bambino normale.

E poi, all’ultima pagina, eccolo. Uno scarabocchio, un buco nero nella pagina bianca, i bordi frastagliati, irriconoscibile se non fosse per il piccolo dettaglio marrone. Un cappello, la bozza di un borsalino gonfio e sproporzionato.

È lui. Ci siamo già incontrati. Avrei dovuto ricordarmene, e invece mi ritrovo stupito e atterrito.

Come ho potuto dimenticarlo? Così alto, slanciato, nella scia dell’orribile inquietudine affannosa che lascia dietro di sé.

Avrei dovuto ricordarmi dell’orrore, implicito nella sua forma.

Lo sento di nuovo, l’odore forte dell’olio, degli ulivi. Strofino un ditino sulla pagina, lo porto al naso.

Niente.

È un odore fantasma; me lo immagino, o forse bisogna essere fortunati per coglierne l’improvvisa, passeggera, effimera presenza.

Sono fortunato, penso questo di me, mentre richiudo il mio blocco dei disegni sgualcito e puntellato di sbavature e di colori.

Sono fortunato: riesco a sentirlo, riesco a sentire l’odore.

Ritorno al presente, la pura nebulosa del passato si accartoccia su se stessa, svanisce in un rapido lampo di luce, e sono di nuovo nell’oscurità, nella foschia azzurra, contemporaneamente spettatore e protagonista.

«Ci siamo già visti?»

Alla mia domanda, l’uomo in trench grigio e borsalino marrone annuisce, soddisfatto; le cicatrici sul viso si allargano, la pelle bianca tesa, schiumosa.

«Non lo ricordavo.»

«Quasi nessuno lo ricorda» raschia la sua voce, roca; «coloro che ricordano, impazziscono. Li chiamate pazzi.»

Tento di fissare un punto nello spazio e nel tempo, per ricordare meglio. Dentro di me, sento riaffiorare un ricordo che credevo di aver sepolto, che il mio animo terrorizzato da bambino aveva seppellito in profondità, dentro il mio subconscio atterrito, avvilito.

Di nuovo, l’uomo schiocca le dita; di nuovo, il suo sorriso cicatrizzato e purulento.

Le mie gambette piccole, storte; il profilo di mio padre che si accascia in cucina, sulle costolette unte e grasse della cena; l’uomo dietro la finestra, stesso cappello, ancora più grande, altissimo; il messaggero della morte.

Un susseguirsi di schiocchi, scatti e visioni; la pellicola del mio film che si srotola, diapositiva dopo diapositiva.

Ogni dolore, ogni sofferenza, e lui come costante.

In bella vista, palese, eppure dimenticato, di volta in volta; un rituale morboso e macabro che si ripete.

Mio padre; mia madre e le sue malattie che l’hanno consumata e scarnificata, prosciugata dall’interno, secca, svuotata; il padre di Luigi, una mattina d’agosto, impensabile, le lamiere di un auto che lo attraversano da parte a parte, scomposto, disordinato ammasso di carne, ossa sull’asfalto.

Sempre lui, sempre dimenticato.

Lo dimenticherò anche questa volta?

La risposta è ovvia, com’è ovvio il motivo per cui è qui.

Eccola, la realizzazione. Mi sale addosso in spilli che mi pungono le gambe, le dita; un brulicare sotto pelle che mi atterrisce.

Tremo.

«Perchè sei qui?» chiedo. So già la risposta, ma voglio sentirla. Sperare che sia falsa, prepararmi al disastro qualora fosse il contrario.

«Sta succedendo di nuovo.»

«Chi?»

Due dita, uno schiocco, nebbia azzurra.

Una macchia indistinta nell’erba, rosso brillante nella grigiastra luce dell’inverno. Si raggruma, ancora calda, ribolle da sotto il panciuto gonfiore pallido di un ragazzo – no, un uomo! - dai capelli bruni e gli occhi cerulei, rimasti spalancati nell’immobilità della morte.

Lo riconosco, ma faccio fatica ad accettarlo. Voglio che finisca, voglio smettere di guardare, ma non importa quanto io distolga lo sguardo: non smette. È ovunque, sta succedendo ora, è attorno a me, dietro, davanti, da ogni lato mi perseguita. La morte e il suo sorriso sbilenco, cicatrizzato.

«Fallo smettere, ti prego», rantolo, appena un sussurro.

«È per questo che dimenticano. Non sopportano il peso.»

Uno schiocco. L’ultimo.

Oblio.

Sono in paese e non so perché. Torno a casa, svelto, a passo febbrile, spaventato, e non so perché.

Sono a casa, sono sempre stato qui, anche se una parte di me è convinta del contrario.

Sono davanti alla porta, e non so perché.

La notte sta svanendo fuori dalle finestre, l’arancione dell’alba fa capolino tra gli alberi.

Mi guardo attorno, spaesato, spodestato di una convinzione, dimentico di qualcosa di importante, ma non so cosa.

Sconfitto. Sopraffatto.

Sono stanco, veramente stanco, vorrei solo dormire.

«Che ci fai lì imbambolato?»

«Volevo uscire» mento, senza una ragione precisa. Sento di dover mentire, nascondere ciò che neppure rimembro.

«Ma sei stato fuori tutta la notte.»

Preoccupazione nella sua voce.

«Mi hai detto tu di fare due passi.»

Questo lo ricordo. Ma dopo? Cos’è successo dopo?

Mi guarda fisso, gli occhi cisposi, i capelli disordinati, il pigiama sghembo sul petto e sui polpacci ben definiti, muscolosi. «Devo preoccuparmi? Dovrei forse essere geloso?» ridacchia.

«Ho fatto solo due passi, ho perso la cognizione del tempo, tutto qui.»

Liquido la questione con un bacio sulla bocca, il sapore caldo e acre del primo mattino stampato sulle sue labbra.

«Cosa ti succede?» insiste, non desiste. «Sembri molto stanco.»

«Lo sono.»

«Vai a dormire.»

Sì. Penso che lo farò.

Una telefonata mi sveglia.

Sono le tre del pomeriggio, ed io rispondo con estremo disagio.

Poche parole, un’informazione lacerante che arriva alle mie orecchie, che percepisco con incredula rassegnazione.

Quasi come se una parte di me lo stesse aspettando.

La stesse aspettando.

Quando arrivo sul posto, faccio fatica a camminare. Le gambe sono immerse in un fango fantasma, la melma della paura che avviluppa le anche e le caviglie.

Una macchia indistinta nell’erba, brillante, rossa.

Capelli bruni, occhi cerulei.

Luigi.

Ferito a morte da un attrezzo agricolo, una grossa bestia di metallo che lo ha tranciato, diviso; gli ha maciullato il ventre, le interiora sparse sulla paglia secca ai piedi degli ulivi.

Vomito, cado a terra, mi odio: non mi piacciono queste scenate.

Al funerale partecipano in tanti: odio anche questo.

Voglio rimanere solo, voglio restare solo.

Il senso di colpa che mi assale è tremendo e forse anche stupido, ma non posso fare a meno di pensarci: se fossi andato io al suo posto? Se non avessi dormito tutto il giorno, se gli fossi rimasto accanto nel letto la notte precedente?

È colpa mia.

Sono molte le persone che mi salutano, solenni, che offrono rispetti e condoglianze alla madre di Luigi – da oggi in poi saremo solo io e lei. E lo vedo arrivare, uno sconosciuto, lontano eppure familiare, in qualche modo.

L’ho già incontrato, non ricordo dove, le circostanze, ma la certezza è vera, ed è confermata dal sorriso storto, cicatrizzato, secco. Trench e borsalino, altissimo, sovrasta tutti.

Contenuto nel cielo, più grande di esso.

Incombe, imperturbabile.

«È successo di nuovo» dice, un bisbiglio, blando, posso udirlo solo io.

Lo guardo spaventato, confuso, troppo stanco, troppo in pena, immerso nel dolore che è solo mio, il dolore di aver perso la mia parte preferita mentre io dormivo come un cazzone, per chiedergli spiegazioni, per interrogarlo sul senso delle sue parole sinistre, troppo spento per fregarmene poi effettivamente qualcosa.

Se ne va con passo zoppo, claudicante.

L’auto scura procede, con il feretro di Luigi dentro, chiuso. Lui sempre così claustrofobico, con l’amore e la necessità viscerale per gli spazi aperti, per i suoi ulivi, per sua madre, ora costretto, sigillato, tumulato dietro un lastrone di pietra fredda.

Un nome qualunque, due date qualunque, nascita e morte, una foto qualunque, che col tempo sbiadirà, darà al mio Luigi falsi connotati, ne sgranerà gli angoli, i suoi occhi cerulei saranno privi di colori, di profondità, due buchi inespressivi che non renderanno giustizia alla forte potenza del suo sguardo; mentre il suo corpo, da dentro, si svuoterà, si gonfierà, liquidi e miasmi coleranno attraverso il legno e nessuno lo noterà.

È tutta colpa mia. Non è delirio di onnipotenza, non è credermi migliore, non è credermi forte come la morte, come il fato: è semplice realizzazione.

È colpa mia, ne ho preso atto.

Dormivo, sognavo, ero stanco. Lui moriva.

Sarebbe successo comunque, mi dico. È poco conforto.

«Sarebbe successo comunque», mi dice.

È lui, l’uomo in trench e borsalino, dietro di me, non ho bisogno di voltarmi per capirlo.

Il profumo degli ulivi della valle lontana, casa ed essenza di Luigi, è forte, giunge fino a qui, nel cimitero. È fuori luogo, è strano, amaro.

L’ho già sentito, non ricordo dove. È come assaggiare qualcosa di nuovo per la prima volta, e riscoprire poi con il primo boccone un sapore familiare, qualcosa già mangiato, già sperimentato.

La memoria della bocca, delle papille gustative, la memoria dell’olfatto.

«Già. Sarebbe successo comunque. Ma forse sarebbe stato meglio se non fosse successo niente.»

Sorride, sguincio, sfuggente, un viso difficile da afferrare, da capire. Disarmonico e violento, rassicurante e raccapricciante.

Mi volto e non c’è più. L’odore è sparito, ogni cosa è al proprio posto.

Tranne me. Tranne Luigi.

Sono sicuro che lo rivedrò, in trench e borsalino.

Sorriso sghembo e cicatrici.

Lo rivedrò.

   
 
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