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Autore: Alexa_02    19/10/2020    0 recensioni
Eveline Morgan ha tutto ciò che potrebbe mai desiderare. È intelligente, bellissima, ha una famiglia ricca, una migliore amica stupenda e tutti i ragazzi che vuole. Al ritorno da una festa però, il destino le fa lo sgambetto e tutto ciò che pensava di possedere si dissolve. Al suo risveglio in ospedale, le cose non sono più come le ricordava.
Evie non è più come si ricordava.
È tutto cambiato, in lei c'è qualcosa che non va e la sua famiglia se ne rende subito conto. In casa e nelle loro vite perfette, non c'è più posto per il mostro che è diventata. Eveline viene così spedita al Campbell Accademy, una scuola per persone speciali che possono comprenderla e aiutarla. Sembra l'epilogo di una storia sfortuna ma, come scoprirà presto, la storia è appena cominciata.
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Chapter 2
Mia madre piagnucola.
Sempre.
Piagnucola mentre trascino le valige giù per le scale, mentre l'autista le carica in macchina e soprattutto mentre la abbraccio per salutarla.
«Mi mancherai tantissimo, cucciola» guaisce contro la mia spalla.
«Anche tu» farfuglio in mezzo ai suoi capelli.
Quando finalmente mi lascia andare, mi giro verso mio padre. Ha la solita espressione stoica e fredda, non sembra triste e nemmeno pentito. Non mi abbraccia, si limita ad un cenno del capo molto rapido. È già più di quanto mi aspettassi.
Holly non esce dalla sua camera per salutarmi, ma mi aspettavo anche questo.
«Fai buon viaggio» mugugna mamma stringendosi contro papà. 
«Ciao» sospiro entrando in auto. Spingo con forza la schiena contro il sedile di pelle, inspirando ed espirando, cercando di scacciare il panico. Stringo il ciondolo di Kim e chiudo gli occhi, immaginando di essere altrove. L'autista dell'accademia si siede davanti, nel posto del guidatore, e non dice una parola. Accende il motore e ingrana la marcia. Osservo casa mia scomparire lentamente, insieme a tutta la mia vita e a tutti i miei ricordi. Il dolore mi investe in pieno, come un treno che deraglia e fa strabordare tutto ciò che ho cercato di covare per mesi. Mi raggomitolo in me stessa e cerco di piangere il più silenziosamente possibile, cercando di non far notare allo strano autista che qui dietro mi sto sgretolando gradualmente.



Il viaggio in macchina sembra non finire mai. Non ho la più pallida idea di dove siamo o di che ore siano. L'autista non proferisce parola da quando siamo partiti. In più, mi hanno requisito qualsiasi oggetto elettronico, quindi mi sto annoiando a morte.
Giocherello con la collanina con la pietra nera a forma di mezza luna di Kim. Ogni volta che la sfioro risento la sua voce e la sua risata armoniosa. Vorrei terribilmente che fosse qui, lei saprebbe cosa fare per ammazzare il tempo. Mi farebbe il solletico fino a farmi ritrovare il sorriso, cercherebbe di far scomporre l'autista con qualche commento ben assestato, ma soprattutto mi farebbe sentire tranquilla e rilassata. Con lei ogni cosa andava sempre a finire bene.
Beh, a parte l'incidente.
Se chiudo gli occhi riesco ad avvertire il rumore dei vetri che vanno in mille pezzi, le nostre urla terrorizzate e rivedo il sangue che riflette la luce della luna come uno specchio.  
È così ingiusta la vita. L'incidente si è portato via la mia vita e la mia migliore amica nello stesso istante. Alcune volte desidero essere morta con lei, quella notte.
«Siamo pressoché giunti a destinazione, signorina Morgan» asserisce lo strano autista. Ha una voce calda e melodiosa. Nasconde il viso dietro un paio di enormi occhiali da sole, anche se ormai è tramontato, i capelli solo laccati dietro un cappellino da conducente e ha le mani avvolte in dei guanti di pelle.
«Come ti chiami?» chiedo sporgendomi leggermente verso di lui.
«Julian, signorina». Ha uno strano colore di pelle, così bianco da sembrare argentato. 
«Io sono Eveline, non devi darmi della signorina» specifico. Ha un odore strano, come di fiori di campo e arance mature. Non ho mai trovato qualcuno con un così buon odore, alla fine odorano un po' tutti di ascelle.
«Prediligo darle del lei, Eveline» mormora armoniosamente.
«Come preferisci» mi sporgo più in avanti per osservarlo meglio «Come mai fai l'autista per l'accademia?».
«Ho ottenuto il diploma diverse stagioni or sono e la direttrice mi ha offerto questo generoso impiego. Mi è parso sublime e ho immediatamente accettato».
Che modo bizzarro di parlare. «Non volevi fare qualcosa di più? Non lo so, come andare al college e cose così».
«A breve comprenderà, signorina Eveline, che per gli individui come noi il mondo non spalanca nessuna porta» asserisce cupo.
«Individui come noi?» chiedo confusa. 
Lui annuisce e si ferma davanti ad un imponente cancello di ferro battuto. All'inizio, alla prima occhiata, il cancello sembra diroccato e abbandonato, il mio cervello da l'impulso al corpo di girare e tacchi ed andarsene. È come se varcare quella soglia portasse solo guai.
«Perché entriamo lì? Non c'è nulla oltre il cancello» mi giro per guardare alle nostre spalle «Andiamo via. Entrare lì non ha senso».
Julian ridacchia sommessamente. «Non si fermi alle apparenze, signorina Eveline. Esamini la cancellata con i suoi veri occhi» asserisce criptico.
Veri occhi? Pensavo che i miei occhi normali fossero i miei veri occhi.
A quanto pare no.
Respiro lentamente, cercando di concentrarmi solo sugli occhi.
Mi risulta davvero difficile lasciar uscire una parte del mostro, senza farmi trasportare da tutti gli altri aspetti che lo accompagnano.
Quando sono sicura che non perderò il controllo, lascio che le mie iridi diventino nere e poi spalanco le palpebre. Ogni cosa acquista magicamente senso. Il cancello, non più diroccato, si erge imponetene davanti a noi, perfetto e resistente. Ogni punta è affilata e ogni sbarra di metallo è integra e ben salda. Sopra di esso è posizionato un arco d'oro su cui è incisa una scritta in latino.
«Wow» esalo.
«Come sospettavo» asserisce Julian con ammirazione e una punta di stupore «I suoi veri occhi riescono a vedere oltre la magia».
«Cosa c'è scritto sull'arco?».
«È il motto dell'accademia e del mondo magico» spiega Julian «abscondere et tueri».
«Cioè?».
«Nascondere e proteggere. Due vocaboli che schematizzano esattamente la nostra condizione» sospira «Cela la tua natura agli occhi dei mortali e non rischierai di perire».
Mi volto per guardarlo e finalmente lo vedo per quello che è. Sotto la magia Julian è bellissimo. Ha i capelli verdi, lunghi e lisci, gli occhi nascosti sotto gli occhiali sono di un giallo brillante e le orecchie a punta sbucano ai lati del cappello. Non ho mai visto nulla di simile, è stranissimo e al tempo stesso di una bellezza disarmante. I lineamenti delicati e la pelle bianca lo fanno sembrare così delicato e giovane. È magnifico.
«Sbirciare sotto un incantesimo celante non è sinonimo di buone maniere» dice calmo.
Faccio tornare gli occhi del giusto colore «Scusa».
«Non si preoccupi, signorina Eveline» sorride «Contrariamente a quello che pensa, anche il suo aspetto è magnifico».
Arrossisco per quanto sia possibile ad un vampiro senza vita. «Oh, be-eh, gra-azie» balbetto rimettendomi a sedere al mio posto.
Julian alza la mano a mezz'aria e la cancellata si apre cigolando. «Deve sapere che tutti gli allievi di questa accademia posseggono doti magiche o soprannaturali e, essendo ancora giovani, le usano ogni volta che la cosa li diletta» mi spiega, avanzando e oltrepassando il confine dell'accademia «Le suggerisco di fare attenzione a cosa pensa, non c'è molta intimità quando le altre persone possono leggerle nel pensiero».
«Posso sapere quali creature leggono nel pensiero?» chiedo cauta.
Lui sorride mostrandomi due file di denti perfetti. «Le streghe e i maghi con incantesimi potenti e gli elfi».
«Quindi tu sei un elfo?».
«Lo deduce delle orecchie?» ridacchia.
Ricambio il sorriso. «È un po’ tutto».
«Sì, sono un elfo» guida la macchina su una strada cementata avvolta da una foresta fittissima. «Più precisamente un elfo dei boschi».
«Ce ne sono molte specie?».
«Questo lo imparerà molto presto a lezione» mi assicura con un sorriso dolce «Ci siamo». Il bosco si interrompe e la macchina sbuca davanti ad un enorme edifico antico fatto di pietra scura, molto simile ad un castello. Julian procede intorno ad una fontana circondata da fiori e cespugli ben potati e si ferma davanti al portone di legno dell'entrata principale. Davanti ad esso una donna stretta in un tajer corallo ci osserva sorridente.
Julian arresta il motore «Deve smontare dal veicolo» mi informa «Buona fortuna, signorina Eveline, spero di rivederla presto».
Gli sorrido «Anche io, Julian. Grazie del passaggio».
«È stato un onore».
Gli faccio un cenno con la mano e apro la portiera. Il dolce chiarore della luna filtra nella macchina, rinvigorendomi. L’aria fresca mi accarezza la pelle mentre scendo dalla macchina. L’accademia mi si staglia davanti imponente e solida, luci e voci filtrano dalle finestre ad arco acuto. Una strana sensazione mi attanaglia lo stomaco quando la macchina e Julian sgommano via alle mie spalle.
La signora nel tajer scende i gradini di pietra e mi viene incontro. «Eveline Morgan» trilla «Benvenuta all'accademia Campbell!».  
«Salve» ribatto senza entusiasmo.
La donna si fa avanti avvolgendomi con il suo profumo fruttato. «Sono Olivia Sheridan, la preside di questa magnifica struttura» mi porge una mano ben smaltata «Sono davvero felice di conoscerti».
«Salve» ripeto con la stessa tonalità.
Scuote la testa bionda e sorride mostrandomi troppi denti, troppo bianchi. «Com'è andato il viaggio?».
«Bene» rispondo.
«Ho incaricato Julian del tuo trasporto perché il mio autista più fidato» mi posa una mano sulla spalla «Ma non indugiamo oltre, ti faccio fare subito il giro completo della scuola».
«Le mie valige?» domando confusa.
«Ci penserà Julian, ora andiamo» mi tira all'interno e cominciamo il tour della struttura.


La scuola sembra infinita. Ci sono decine di aule, di sale lettura e di stanzette ricreative. La mensa è un enorme salone pieno di finestre e tavoli di legno ricoperti da tovaglie di lino. La biblioteca è più grande di tutta la mia casa e ci sono così tanti libri che una vita sola per leggerli non basterebbe.
Mi mostra le aule di chimica della magia, di matematica e di storia dell'occulto. Descrive ogni angolo della sua preziosa scuola elogiandone i pregi e sminuendone i difetti.
Ad un certo punto, abbiamo girato così tanti angoli che non sono più sicura di dove ci troviamo. Sarà una conquista non perdersi in questo dannato posto.
«Ora ti mostro il dormitorio femminile» asserisce trascinandomi verso una rampa di scale «Qui ragazzi e ragazze dormono in parti dell'edificio completamente separate, per cercare di limitare i possibili danni» ridacchia «Devi sapere, Eveline, che la nostra scuola ospita solo studenti con precise caratteristiche. Proprio come te, ogni alunno ha un dono che il mondo esterno non comprende a pieno. Qui gli viene insegnato l'autocontrollo e la disciplina necessari per padroneggiare il proprio potenziale». Mi scorta lungo il corridoio. «La tua condizione è unica, nessuno studente è come te, ma sono sicura che ti ambienterai subito».
«Sono l'unica...?» domando.
«Vampira?».
Annuisco.
«Sì» sospira drammatica.
«Come mai?».
«Ora non te ne devi preoccupare» agita le mani per aria scacciando la mia domanda «Ti spiegherò ogni cosa a tempo debito, ora devi solo pensare a sistemarti».
«Ma...» provo a ribattere ma lei agita di muovo le mani e mi zittisce.
«Siamo arrivate» annuncia.
Ci fermiamo davanti ad una porta di legno scuro, la preside afferra la maniglia e la apre con un colpo secco. «Questa è la tua camera. Una singola, per il momento».
La camera è angusta e strapiena delle mie valige. Le quattro pareti, ricoperte di una terrificante carta da parati con il logo della scuola stampato sopra, sono quasi completamente nascoste dai mobili di legno e dal letto singolo in ottone. Le lenzuola e il copriletto sono rigorosamente dei colori della scuola, che ho scoperto subito essere il giallo canarino e il grigio spento.
Sui comodini è collocata una lampada di metallo tutta storta e una sveglia preistorica color topo. Sotto l'unica finestra è collocata una scrivania massiccia con numerosi cassetti e una sedia con i braccioli e l'imbottitura gialla. L'armadio ad ante scorrevoli è affiancato da un mobile con diversi ripiani che sfiora il soffitto e da uno specchio antico. Tutto quanto poggia su un vecchio tappetto grigio e peloso.
«Non è meravigliosa?» esala estasiata la preside.
Annuisco lentamente cercando di celare il mio disappunto. Dove sono il pc, lo stereo e il mio stupendo televisore? Cosa dovrei fare chiusa qui dentro per tutto il giorno?
«Non si può nemmeno avere il computer per studiare?» chiedo speranzosa.
Lei scuote la testa agitando la chioma bionda. «Tutti gli oggetti di natura elettronica sono nelle aree ricreative, li potrai usare nei momenti di libertà».
«E sotto stretta sorveglianza scommetto».
Si sistema il tajer con cura e sorride. Se il mio tono di accusa l’ha infastidita, non lo dà a vedere. «La vostra sicurezza è il nostro primo pensiero. Se permettessimo ad ogni studente l’accesso illimitato ad internet, la posizione di questo luogo non sarebbe più un segreto».
So che il suo ragionamento non fa una piega, ma questo non mi rincuora affatto. Questo posto continua a sembrare un manicomio per creature sovrannaturali. Sento l'impulso primordiale di saltare fuori dalla finestra e di scappare il più lontano possibile da qui. Il mio stomaco borbotta, ricordandomi che non andrei lontano senza qualcosa da...beh, mangiare. «C'è qualcosa che manca».
La Sheridan si raddrizza e si guarda intorno «Non mi sembra».
«A casa avevo un’emoteca, sa per il...cibo» bofonchio a disagio.
Spalanca gli occhi e annuisce. «Lo so bene, ma preferiamo essere noi a darti ciò che hai bisogno ad ogni pasto» mi appoggia una mano sulla spalla con aria materna «Per il momento preferiamo che la tua natura rimanga celata, sai per non agitare gli altri studenti».
Al diavolo il computer, datemi la mia dannata emoteca. Mi allontano da lei e dalla sua mano bollente. «Quindi cosa dovrei fingere di essere? Un folletto? Oppure uno gnomo?».
Sembra sorpresa dal mio repentino cambio di tono. «Capisco il tuo disappunto, ma...».
Non capisce assolutamente nulla. «Pensavo avesse detto che qui potevo essere me stessa».
Sospira piano, come se cercasse di non alzare la voce. «È così, ma per il momento preferirei che cercassi di passare inosservata. Solo finché non riusciamo ad avere un quadro più chiaro sulla tua situazione».
«La mia situazione...» biascico. Tutto questo è ridicolo.
«So che è un grosso sacrificio ciò che ti chiedo, ma è per la tua sicurezza. Lo capisci?».
Annuisco lentamente. «Certo. È tutta la vita che mi esercito per passare inosservata».
La preside abbassa lo sguardo cupo verso il pavimento. «È solo per il momento, Eveline. Ti prometto che le cose cambieranno molto presto».
Ho perso il conto di quanti per il momento mi ha rifilato fin ora. La verità è che sono una situazione scomoda indipendentemente da dove vado. «Okay» asserisco appoggiando il sedere sul letto.
Ritrova il sorriso, anche se è un po’ meno luminoso di qualche minuto prima. «Penso di averti detto tutto, tra poco arriverà la capo dormitorio che ti spiegherà le ultime cose» mi dà un buffetto sul braccio «Sono felice di averti qui e ti auguro un felice soggiorno».
Detto ciò, si chiude la porta alle spalle e sparisce lasciandomi finalmente sola.
Sbuffo e mi stendo sul mio nuovo minuscolo letto. È rigido e alquanto bitorzoluto, però le coperte sono soffici.
Fisso il soffitto immaginando che si spacchi a metà, in corrispondenza della crepa che si dirama dal lampadario vintage. Immagino i detriti che mi ricoprono come una valanga e mi oscurano agli occhi del mondo. È quello che vogliono tutti, che io scompaia e che nessuno possa vedere il marcio che mi infetta come un virus.
In ogni caso sarebbe inutile, la valanga di detriti non mi ucciderebbe.
Nulla sembra uccidermi.



Quando la smetto di autocommiserarmi, rotolo giù dal materasso di pietra e mi alzo. Questa situazione di merda non cambierà, quindi è meglio che mi ci abitui fin da subito.
Tiro le valige sul letto e comincio a disfare e a sistemare la mia vita dentro quella minuscola camera.
Mentre ho la testa infilata nell'armadio qualcuno bussa alla porta. «Avanti!» strepito nello spazio angusto.
La porta cigola aprendosi e i passi di uno sconosciuto risuonano sul pavimento. I miei sensi da vampiro ninja si attivano e mi fanno percepire ogni singolo dettaglio. Lo sconosciuto è una ragazza che profuma di oceano, il suo battito cardiaco è normale e ha una cicca o una mentina in bocca. 
«Ciao!» trilla con entusiasmo. «Sono Abigayle Lee, la capo dormitorio».
Il suo tono felice mi fa voltare guardinga. Abigayle è piccola, sottile e con i lineamenti delicati. Indossa la divisa dell'accademia in un modo a dir poco impeccabile. Ha i capelli neri, lunghi e lisci come gli spaghetti e gli occhi color nocciola, leggermente a mandorla.
La cosa che mi lascia letteralmente senza parole è il fatto che da dietro le spalle le spuntino due leggere e luccicanti ali blu. Ogni volta che sbatte le ciglia le ali sfarfallano e producono uno strano suono, che assomiglia al rumore delle onde contro la sabbia.
«Sei Eveline Morgan, giusto?» domanda dalla soglia.
Sono così sorpresa e confusa che l'unica cosa che riesco a fare è annuire come un automa.
«Ottimo! Sono felice di conoscerti finalmente» si sporge in avanti e mi allunga una mano «Sono qui per rispondere alle tue domande e per spiegarti ciò che devi assolutamente sapere sull'accademia».
Non voglio sembrare sgarbata, perciò le stringo la mano velocemente e poi me la infilo in tasca. Non mi piace che la gente senta quanto è fredda la mia pelle.
Abby sembra non notarlo e continua a sorridere. «Come ti ho già detto sono a capo di questa ala del dormitorio femminile, ciò significa che devo fare in modo che tutte le ragazze rispettino le regole e devo essere a disposizione se qualcuno ha bisogno di aiuto. Su questo piano troverai solo ragazze più o meno della tua età, ma di ogni specie. La preside non vuole dividerci in una categoria, ama l’uniformità» fa qualche passo in avanti «All'inizio tutte le nuove arrivate passano i primi mesi nelle camere singole, è una delle regole. Appena avrai il permesso della preside potrai condividere la camera con le altre».
Non sono trepidante all'idea di dormire con una sconosciuta, non mi dispiace stare da sola. «Va bene».
Abby si accarezza la gonna a balze. «Qui alla Campbell portiamo tutti quanti la divisa, è un modo della scuola per farci capire l'importanza dell'uguaglianza. Nel cassetto dell'armadio ne troverai cinque paia complete, indossala sempre durante l’orario di lezione. Durante il week-end e il tempo libero puoi vestirti come vuoi, sempre mantenendo un certo decoro è ovvio».
«Okay».
«Devi essere sempre puntuale per i pasti, per le lezioni e per ogni tipo di attività che verrà messa in calendario. I ritardi sono puniti severamente, fai attenzione. In ogni caso, tutte le regole sono scritte nella guida che è dentro il cassetto della scrivania. Imparale». Annuisco, facendola continuare. «L'orario e la piantina sono anche loro nella scrivania. I tuoi nuovi libri e il materiale scolastico sono nel tuo armadietto al piano terra, vicino alle aule. La mia camera è la prima a destra salendo le scale e il bagno comune è in fondo al corridoio».
«Bagno comune?» chiedo schifata.
Abby fa un'espressione comprensiva e cerca di sorridermi incoraggiante. «All'inizio è difficile abituarsi, ma con il tempo capirai che non è la fine del mondo. Ti do un consiglio: se vuoi andare in bagno senza che nessuno sia lì con te vacci la sera tardi o la mattina presto, io faccio così».
«Grazie della dritta» mormoro.
Lei ridacchia «Ti abituerai a tutto in pochissimo tempo, tranquilla».
Non credo proprio. «Speriamo».
«Certo. Ah, mi stavo dimenticando, c'è un coprifuoco da rispettare durante la settimana. Non farti beccare in giro durante la notte o finirai davvero nei pasticci. E, soprattutto, non farti beccare con un ragazzo in camera durante la notte, quello ti porterebbe all'espulsione assicurata».
Non ci si può proprio divertire in questo posto. «Farò la brava» asserisco con poca convinzione.
Abby non lo nota. «Ottimo. Adorerai stare qui, te lo assicuro».
«Non ne sono così sicura» borbotto, cercando di farle segno di andarsene.
Lei non coglie il segnale e si avvicina toccandomi una spalla. Ma qui nessuno si tiene le mani in tasca? «Non sei sola Eveline, qui siamo tutti diversi e restiamo uniti proprio per questo».
Sì, beh, lo vedremo. «Okay».
Lei sorride e svolazza fuori dalla stanza sbattendo le ali blu. «Ci vediamo a cena, non fare tardi».
«Ciao» le chiudo la porta dietro e mi riprendo il mio spazio personale.
 
Una volta che ho sistemato tutte le mie cose nella stanza, lo spazio per vivere sembra ancora meno. La mia camera era almeno larga il triplo, non so come fanno le altre ragazze a non impazzire in questi cubicoli.
Dal mio orario, la cena si tiene alle otto nella mensa principale. Mi avvicino alla scrivania su cui ho appoggiato la divisa. È composta da una gonna a balze grigia, una camicia bianca con sul taschino ricamato lo stemma della Campbell, un cardigan color topo, una giacca tweed giallo canarino e una cravatta nera.
La scelta delle scarpe e delle calze è dello studente. Almeno quello.
Non ho nessuna intenzione di indossare questo obbrobrio. Dove sono finiti i miei diritti civili? Insomma, ho il sacrosanto diritto di poter indossare ciò che voglio. E poi la preside mi ha pregata di passare inosservata ed è ormai alquanto chiaro che io non ascolto proprio nessuno. Soprattutto se si tratta di un ordine.
Scrollo le spalle e vestita come sono arrivata, mi dirigo verso la mensa.
 
Percorro i corridoi a passo lento, seguendo la massa di gente che si muove. Scendo due rampe di scale e mi ritrovo immersa nella calca degli studenti affamati, che aspetta l'apertura delle porte. Ci sono così tanti odori diversi che il mio naso non riesce a percepirne nessuno in particolare. L'unica cosa che distinguo con chiarezza è il rumore di centinaia di cuori che battono con forza.
Mi sembra di essere al ristorante e di avere davanti il mio piatto preferito, pronto per essere divorato. La salivazione aumenta e i canini spingono ansiosi di affondare in qualcosa di morbido. Devo assolutamente bere del sangue.
Sono così frastornata che non mi accorgo di un ragazzo poco aggraziato e del suo enorme braccio che mi colpisce. Barcollo e inciampo, finendo contro la schiena di qualcuno. Il colpo che gli do lo fa ondeggiare e deve avergli fatto anche parecchio male, perché si gira sorpreso massaggiandosi il fianco.
«Ehi, hermosa, attenta a dove vai» ridacchia il ragazzo, con un leggero accento spagnolo.
«Scusa, mi hanno spinta» mi giustifico.
Lancia uno sguardo alle mie spalle e annuisce comprensivo. «Licantropi. Sono delle vere bestie certe volte» mi allunga la mano «Leo Gutierrez, encantado».
Leo è molto alto, con gli occhi color nocciola, i capelli castani scompigliati e ribelli. Porta la divisa, che differisce da quella femminile solo per un orrendo paio di pantaloni con le pence, tutta stropicciata e di almeno una taglia in più. Sul mento ha una piccola macchiolina di grasso per motori.
Gli fisso la mano, indecisa se ho voglia che qualcun altro mi tocchi. Odio il contatto fisico, tutti gli altri sono così caldi e colorati, soprattutto Leo. Infilo le mani nelle tasche e gli faccio un cenno con la testa «Eveline. Evie, se vuoi». 
Mi fissa per un secondo, indeciso se sono stramba oppure no. Fa cadere la mano lungo in fianco e sorride. «Ho sentito delle voci che dicevano che sarebbe arrivata una nuova studentessa, ma non ti immaginavo così».
Lo osservo mentre mi studia. «Così come?».
La matassa di gente si muove e lentamente varca la soglia della mensa. Noi seguiamo in flusso.
«Così incredibilmente...normale». Mi acciglio confusa e Leo agita le mani con furia «Non dico che sei banale o altro, anzi sei stupenda» arrossisce e si gratta il gomito a disagio mentre sediamo ad un tavolo vuoto «...voglio dire...io... la preside era tutta agitata e c'è stato un gran trambusto quando i docenti hanno saputo che saresti arrivata. Ha scombinato orari, camere e programmi per farti arrivare qui. Oltretutto tutti gli studenti arrivano nello stesso momento, cioè tre giorni fa, le lezioni cominciano domani e tu non hai la più pallida idea di come sia questo posto. Perciò, sì, mi aspettavo qualcuno di assurdo, come non so, un drago con tre teste».
«Ci sono draghi qui?» chiedo sorpresa.
Lui ridacchia e scuote la testa. «No, i draghi sono estinti da diversi secoli».
«Oh» sospiro «Peccato». Davvero c’erano i draghi? Questa situazione diventa sempre più assurda ogni momento che passa.
Leo inclina la testa e mi guarda in modo strano.
«Cosa c'è?» chiedo infastidita.
«Cosa sai del mondo sovrannaturale?» domanda curioso, giocherellando con il tovagliolo giallo.
«Assolutamente nulla, fino a stamattina nemmeno sapevo esistesse un mondo sovrannaturale».
«Oh, sei una novizia» fa di nuovo quella sua faccia comprensiva «Ti hanno morsa di recente? Hai subito un maleficio? Oppure sei una strega tardiva?».
Direi che per il momento non c'è bisogno che Leo sappia cosa sono, sembra simpatico e non voglio che scappi via. «Tu quale diresti?».
Sorride facendo spuntare un bel paio di fossette. «Allora, scarterai l'opzione lupo mannaro perché sei troppo pulita e spelacchiata. Hai l'aria da fata e forse un po' da strega. Non saprei proprio dirlo».
«Allora per il momento resterà un mistero» borbotto, cercando di sembrare criptica e sperando che lui abbocchi.
«Come desideri» sorride leggermente a disagio «Alcune volte mi scordo che è una domanda inopportuna».
«Tranquillo».
«Tra l’altro sono l'ultimo che dovrebbe impicciarsi».
Mi acciglio perplessa. «Che significa?».
«Qui dentro sono quello che stona di più» asserisce guardandosi intorno «Non ho nulla di particolare, sono un umano vecchio stile».
Prima che possa reagire all’affermazione di Leo, la sala si fa di colpo silenziosa e la preside fa il suo ingresso. Sorride all’oceano di studenti che la fissano. «Benvenuti e bentornati all’accademia Campbell. So che solitamente il discorso inaugurale lo faccio il primo giorno, ma volevo che fossimo al completo prima di dare inizio al nuovo anno» mi lancia un’occhiata veloce «Sono felice di rivedere ognuno di voi e di dare il benvenuto a tutti i nuovi studenti. Ci aspettano mesi meravigliosi e ricchi di eventi e spero che ognuno di voi spenda questo tempo prezioso al meglio delle sue possibilità. Sono grata che possiamo ritrovarci qui, insieme e al sicuro». Ogni parola che le esce dalla bocca sembra avvolta nella melassa. «Non voglio tediarvi troppo, ma spero vi ricordiate le regole e le buone maniere che gli studenti di questa accademia devono assolutamente rispettare. Mi raccomando, cerchiamo di non ripetere gli errori dello scorso anno». Un mormorio leggero si alza dagli studenti. «Detto ciò, diamo inizio alla cena e buona continuazione».
Gli studenti intorno a noi sorrido e ringraziano prima di ricominciare a chiacchierare.  La preside si allontana. «Dove va?» chiedo curiosa.
«I professori mangiano nella loro sala» spiega Leo per poi indicare un uomo grigio e cupo, appoggiato al muro della mensa «Ha lasciato il suo braccio destro a tenere ogni cosa sotto controllo»
«Quello chi è?».
«Lui è Kester, il vicepreside. Anche noto come l'impianto di sicurezza della scuola, lui vede tutto e tutti. È uno stregone. Ti consiglio di stargli alla larga, è parecchio sadico per quanto riguarda le punizioni». Non me lo farò certo ripetere due volte.
I camerieri cominciano a servire i pasti ai tavoli girando tra le sedie e collocando davanti agli studenti scodelle di minestra verde. I piatti di porcellana risplendono in contrasto con la tovaglia nera e i candelabri illuminano la stanza conferendogli una strana atmosfera macabra.
Giocherello con il mio cibo, questa zuppa non mi ispira per nulla. «Se sei un umano significa che non fai parte del mondo dei mostri». Annuisce facendomi continuare. «Allora perché sei qui?»
Sul suo viso appare un’ombra scura che non gli dona. «Sono più o meno obbligato a vivere qui».
So che non affari miei, ma non riesco a resistere. «Come mai?».
Un uomo alto e robusto, strizzato in una divisa da cameriere si avvicina al nostro tavolo. «Signorina Morgan?».
Per poco non sobbalzo giù dalla sedia. «Sì?».
Mi porge una grossa borraccia metallica con un beccuccio. «La preside mi ha chiesto di consegnarle questo. Se non è sufficiente venga pure in cucina e gliene darò altro. Chieda solo a me se ha bisogno. Mi chiamo Harris».
«Grazie» asserisco confusa mentre l’uomo si allontana in fretta.
Tiro il tappo e dal contenitore cilindrico si alza nell’aria un profumo paradisiaco, che mi fa brontolare la pancia con forza. Trangugio una generosa sorsata di sangue e sospiro soddisfatta. Non c'è nulla di più buono del sangue ancora caldo. Leo mi osserva attraverso il ciuffo di capelli castani ma non dice nulla e di ciò gli sono molto grata. Bevo dal mio contenitore cercando di non farmi notare e di non sporcarmi la bocca di sangue. Sento i canini contro il labbro inferiore e mi costringo a non aprire troppo la bocca.
Guardandomi intorno mi rendo conto di una differenza sostanziale tra il nostro tavolo e quello degli altri. Al nostro ci siamo solo noi due, mentre gli altri sono tutti strapieni. Una ragazza in particolare mi osserva con insistenza, da un tavolo non molto lontano. Ridacchia, agita i capelli biondo paglia e mi fa una radiografia glaciale con i suoi occhi verdi. Si china verso le amiche, borbotta qualcosa e loro ridono in coro in modo automatico.
Leo segue il mio sguardo e sbuffa. «Streghe».
So che non è un insulto ma un dato di fatto. Sono le prime streghe che vedo e non hanno affatto l'aria amichevole.  
«Quella che ti fissa come se volesse farti un buco in testa è Natalie» mi spiega Leo masticando un po’ di pane «Quelle accanto sono le sue amiche senza cervello. Ignorale, gli piace trattare male gli altri e poi se la tirano da morire perché gli basta schioccare le dita per combinare un putiferio».
Concentro l'udito fino a riuscire ad origliare il loro tavolo. La voce di Natalie è anche più sgradevole di quanto immaginassi. «Avete visto che la nuova si è seduta con lo strambo. Vi avevo detto che non era giusta per il nostro gruppo. Insieme fanno una coppia perfetta» scuote la coda di cavallo e sbuffa infastidita «Ormai fanno entrare cani e porci in questa stupida accademia».
Una delle sue amiche si sporge in avanti. «Lo avete visto quanto è ridico con quella macchia di unto sul viso! Anche sua madre non lo ha voluto».
Smetto di ascoltare e di guardarle. Tutto in loro mi spaventa a morte, hanno dei poteri che immagino siano sconfinati e allo stesso tempo sono cattive e senza cuore. È l'accoppiata perfetta per creare un dittatore.
«Stai bene?» chiede Leo con dolcezza.
Senza pensare gli avvicino il pollice al mento e con delicatezza elimino la macchiolina che le fa tanto ridere. È un gesto intimo e personale, assolutamente non da me. Arrossirei se ne fossi capace, ma c'è già Leo che è diventato paonazzo per entrambi. «Grazie» sussurra tingendosi di una sfumatura di rosso ancora più acceso. Mi piacerebbe diventare di nuovo di quel colore ogni tanto. «Caspita, hai le mani freddissime».
Gli sorrido e mi sfrego inutilmente le dita sui jeans, cercando di renderle un po' più calde. «Se non fai parte del team dei mostri come mai sei in questa strana accademia?».
Lui addenta il pollo che ci hanno appena portato. «Mia madre mi ha avuto da giovane e mi ha lasciato davanti all'entrata dell'accademia. La preside che c'era a quei tempi si è presa cura di me e mi ha cresciuto come se fossi suo figlio. Posso frequentare la scuola solo perché lei lo ha messo tra le sue volontà quando si è ritirata e perché ogni tanto faccio qualche lavoretto, come aggiustare le auto o sistemare il prato».
Predo una lunga sorsata di sangue. «È stata davvero carina ad occuparsi di te. Ora dove si trova?».
Abbassa lo sguardo sulla coscia e sospira «È morta un paio di anni fa».
Gli passo una mano sul braccio «Mi dispiace davvero tanto».
Sorride tristemente «Anche a me».
Ad interrompere il momento imbarazzante ci pensa la sedia accanto a Leo, quando qualcuno la fa strisciare contro il pavimento. Un ragazzo ci si appollaia sopra. «Ehi, Leo, non puoi capire che razza di giro assurdo ho dovuto fare per non farmi beccare dall'avvoltoio. Ho trovato un nuovo passaggio pazzesco, dopo te lo mostro» inforca un po' di carne e la trangugia come un'animale affamato. Si blocca con il boccone ancora in bocca, mi fissa e mi punta la forchetta sporca contro. «E lei chi cavolo è?». 
I suoi modi da animale delle caverne stonano terribilmente con il suo aspetto assolutamente meraviglioso. Mi scruta dall'alto al basso con due enormi occhi neri da cucciolo, i capelli biondo chiaro, spettinati e un fastidioso quanto sexy sorriso sbilenco. 
Leo da una pacca sulla spalla dell'amico «Nate, lei è Eveline, la nuova ragazza» poi si volta verso di me «Evie, lui è Nathan Rover, il mio migliore amico».
Nate mi fissa e io fisso lui. Ci studiamo nei dettagli per alcuni minuti, poi l'imbecille apre la bocca «Perché l'hai lasciata sedere al nostro tavolo?».
Corrugo la fronte, innervosita. Perché diavolo mi guarda in quel modo? Così irritato dalla mia presenza.
Leo si spazientisce e si agita sulla sedia. «È a posto, tranquillo».
Nathan morde il pollo con forza. «Secondo me ha l'aria da oca, in stile Natalie. Cos'è una strega o una volgare fatina dei boschi?» mi guarda dall'alto al basso e mastica con la bocca aperta.
«Sai, imbecille, che ti sento?» mormoro astiosa. Sento l'impulso di mordergli il collo e di vederlo sanguinare copiosamente sul pavimento.
«Lo so, tesoro, che sei qui. Non c’è bisogno che smani alla ricerca di attenzione» mi comunica con un sorrisetto maleducato.
Mi scappa un ringhio sordo. «Io non smanio, razza di villano!».
«Villano? Sul serio? È il miglior insulto che hai trovato?» ribatte ridendo.
Okay, non è l’offesa migliore che colleziono nel mio repertorio, ma in mia difesa il cretino mi ha colta di sorpresa e in più sono nel bel mezzo di un pasto, quindi non sono molto lucida.
L’imbecille riapre le fauci graziandomi della vista del pollo mezzo masticato. «Senti, principessa, perché non alzi il tuo bel culetto e non vai a sederti con le oche senza cervello insieme a Natalie?».
In effetti mi alzo in piedi, ma solo per prendere lo slancio per saltargli alla gola. Prima che riesca a scavalcare il tavolo con un unico salto, una mano affilata e dura come il marmo mi artiglia la spalla. Mi volto di scatto pronta ad attaccare chiunque provi a toccarmi e mi ritrovo davanti l’avvoltoio che mi fissa arcigno. Kester è lo stereotipo vivente di come chiunque si immaginerebbe uno stregone. Alto, sottile, lunghi capelli ispidi e bianchi, barba altrettanto lunga e ispida e un’orrenda toga nera piena di bruciature e si strappi. Se gli spuntasse un bastone nodoso da sotto il mantello sarebbe assolutamente perfetto. «Qualsiasi scontro di tipo fisico al di fuori della palestra è severamente vietato» mormora cupo «È riportato sul libro delle regola signorina Morgan, dovrebbe proprio leggerlo». Il suo noto ammonitore da professore spazientito non spegne la rabbia che mi brucia dentro. Provo a rispondere ma mi punta un dito nodoso e grigiastro in faccia. «Se fossi in lei non proverei a ribattere». Si volta verso Nate «Signor Rover, so che crede di essere un fenomenale mago dell’entrate ad effetto, ma le assicuro che l’ho vista arrivare in ritardo e soprattutto dopo il meraviglioso discorso della preside». Nathan si sgonfia come un palloncino. Kester ci porge due oggetti scintillanti. «Una volta che sarà terminata la cena, la preside vi aspetta entrambi nel suo ufficio».
Mi spinge sulla sedia e come è apparso, scompare.
 
   
 
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