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Autore: Evali    21/10/2020    1 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Avrò il tuo nome con me, tra le mie labbra e nei miei occhi
 
“Mi taglierei un braccio per riuscire a starti più vicino”
 Maroine si girò e rigirò sull’erba umida, risentendo la sua stessa voce pronunciare quella frase, mentre era in dormiveglia.
La ragazzina si lamentava, sentendo uno strano dolore al braccio.
“Mi taglierei un braccio…”
Maroine riaprì gli occhi a fatica, rigirandosi sul prato.
Gli alti alberi del bosco torreggiavano su di lei.
Improvvisamente, nel suo campo visivo comparve una sagoma, molto somigliante a quella dello stregone che tanto bene gli era noto.
Il ragazzo la stava legando, lasciandole libero solo il braccio.
- Ephram … - sussurrò con un filo di voce la ragazzina, nonostante volesse urlare.
La sua gola si rifiutava di assecondarla.
Lo stregone la guardò e le accennò un sorriso. – Ben svegliato – le disse, continuando a stringere la corda intorno al suo corpo, facendole provare un cieco dolore.
- Ephram … non respiro …
- Si tratta solo di una sensazione momentanea.
- Che mi stai facendo …? Perché lo stai facendo …? – disse la ragazzina, cercando di dimenarsi debolmente.
Ephram, in risposta, una volta terminato di legare la corda, rovesciò un secchio colmo di sangue sul braccio lasciato libero e inerme di Maroine.
- Non preoccuparti, è sangue di pecora – le disse.
- Ephram … - ritentò Maroine, percependo la voce mancarle sempre più. Provò a guardarsi intorno, appurando di trovarsi nel bosco, accanto al ruscello. La luce del sole mattutino filtrava dalle cime degli alti alberi. – Dov’è Maringlen …? Ephram, dov’è mio fratello …? – sussurrò nello stesso momento in cui lo individuò steso sul prato anch’egli, a qualche metro da lei, apparentemente incosciente.
Era sdraiato a pancia in giù, con il viso rivolto verso di lei e i capelli che gli ricadevano disordinati sugli occhi e sulla bocca. Tuttavia, almeno lui non sembrava legato, né aveva lesioni o altri segni di violenza sul corpo.
- Non preoccuparti, sta bene – la rassicurò Ephram.
- Maringlen … Maringlen …! – provò ad alzare la voce Maroine.
- Non può sentirti.
- Che gli hai fatto …?
- L’ho completamente imbottito di valeriana. La quantità che gli ho fatto assumere basterebbe a stendere un branco di lupi selvaggi.
- Perché, Ephram …? Non capisco …
A ciò, lo stregone, in tutta calma, la guardò negli occhi semichiusi e le accarezzò una guancia. – Ieri ho parlato con la pupilla dei monaci del Creatore, Judith.
Ella sembra poco motivata ad aiutarci.
Dato che Selma è partita questa mattina per seguire il ragazzo, il complice di Judith, nel suo viaggio per recuperare la polvere nera, anche io devo darmi da fare per il bene della nostra compagnia.
- Cosa vuoi farci …?
Ephram si rialzò in piedi, si avvicinò al corpo di Maringlen, lo prese in braccio e lo adagiò accanto a quello di Maroine legata, posizionandolo nella stessa posizione di prima, scomposto e a pancia in giù.
Dopo di che, gli strappò la stoffa dei vestiti all’altezza della schiena, cominciando a tracciare sulla pelle candida dei simboli occulti con un composto di zolfo.
- Che gli stai facendo…?? Ephram, ti prego … ti prego! – si lamentò Maroine dimenandosi, impotente.
- Dato che sei l’unico sveglio, scegli: vuoi essere la vittima o il carnefice? Posso sempre fare in tempo a slegare te e a legare tuo fratello, prima che arrivino.
- “Arrivino”? Chi deve arrivare …?
- Beitris li ha già chiamati. I monaci giungeranno qui a prendervi molto presto.
Non ho molto tempo, perciò scegli, dolce Maroine. Vuoi soffrire tu o preferisci che sia lui a patire?
- Perché?? Dimmi perché! – esclamò la ragazzina ritrovando un minimo la forza di urlare.
- Per ottenere ciò che vogliamo occorrono dei sacrifici, Maroine. Questa è una lezione che tu e tuo fratello già conoscete. Vedendo due ragazzini tanto giovani condannati alla pena capitale Judith non potrà esimersi dall’aiutarci.
- E se non lo facesse …?
- Lo farà – rispose egli con il suo volto granitico, senza un pizzico di risentimento nella voce. – Allora, hai deciso? Vittima o carnefice, Maroine? D’altronde tu e tuo fratello siete una cosa sola, perciò non dovrebbe cambiare molto – insistette il ragazzo impugnando strettamente un martello con entrambe le mani.
- Non voglio! Lasciaci andare!
A ciò, Ephram alzò il martello sopra il braccio inerme di Maringlen.
- No! Vittima! Scelgo la vittima! Patirò io il dolore! Fallo a me! – esclamò disperata Maroine, venendo velocemente accontentata.
Ephram spostò il martello verso di lei e lo alzò direttamente sopra il braccio libero dalle corde della ragazzina urlante e dimenante.
In un secondo, lo fece calare giù impetuoso, in un colpo deciso che si andò a schiantare sull’avambraccio già colmo di sangue di pecora di Maroine, la quale lanciò un urlo atroce verso il cielo, facendo volare via ogni uccello che si trovava lì intorno.
- Non è irrecuperabile, Maroine. L’osso ritornerà a posto nel giro di qualche giorno. Sapranno prendersi cura di te e di tuo fratello – disse lo stregone incurante, avvicinando ulteriormente il corpo dell’altro gemello, posizionando il manico del martello tra le dita della mano di Maringlen, facendole stringere intorno ad esso, mentre Maroine continuava ad urlare.
- Ci rivedremo presto, mie preziose gemme.
Ricordate che non vi abbandonerei mai – concluse Ephram ritirandosi su il cappuccio del mantello e andandosene, scomparendo tra i fitti tronchi.
A quel punto, Maringlen sbatté lievemente le palpebre, risvegliandosi lentamente. – Maroine … - sibilò, con un filo di voce. – Maroine, non mi sento più il corpo …
- Maringlen … - lo richiamò la sorella piangendo di dolore. – Stanno arrivando, Maringlen … stanno arrivando a prenderci …
Il ragazzino strinse le dita sul manico del martello, non avendo il controllo del proprio corpo. Sbatté di nuovo le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente intorno a sé.
Sgranò gli occhi d’ambra non appena notò la pozza di sangue di cui era ricoperto il braccio di sua sorella, legata accanto a lui. – Maroine, che ti è successo …?
- Daranno la colpa a te … se ti vedranno così daranno la colpa a te, Maringlen!
- Eccoli laggiù! – la voce dei monaci li raggiunse prima che Maringlen avesse il tempo di realizzare il tutto e Maroine placasse i suoi lamenti di dolore. – Catturateli e sbatteteli nelle segrete!
 
Padre Cliamon camminò a grandi falcate per tutta la navata, con il cuore che batteva violentemente dentro la sua cassa toracica.
Mantenne la calma mentre raggiungeva i monaci che avevano da poco catturato i due ragazzini, radunati fuori dalla cattedrale. – Voglio vederli! – esclamò attirando la loro attenzione. – Voglio vederli.
- Non è possibile, padre. Non ancora.
- Mi hanno riferito che uno di loro è anche ferito. Lasciatemi vedere i due prigionieri.
- I peccatori che abusano in maniera inappropriata della magia nera devono essere rinchiusi nelle celle dei sotterranei di Bliaint in attesa del nostro verdetto. Tutti. È la legge – affermò con fermezza un altro monaco del Creatore.
- Me ne rendo conto, padre Petrit. Tuttavia, si tratta di due ragazzini questa volta. Non abbiamo mai catturato degli stregoni così giovani.
- La loro età non deve offuscare il vostro giudizio, Cliamon. Sono peccatori. Sono stati cresciuti e addestrati per questo. Per tale motivo vanno puniti.
- Non credete che andrebbero puniti coloro che li hanno cresciuti in tal modo, invece?
- Che succede qui? – attirò l’attenzione Judith, camminando verso di loro, raggiungendo il gruppo di monaci.
- Judith, cara – si avvicinò a lei padre Cliamon.
- Siete molto turbato, padre. Calmatevi – lo spronò la ragazza ponendogli le dolci mani guantate sulle spalle.
- Sono bambini, Judith. Sono solo dei bambini.
- Cosa? Di cosa state parlando, padre…?
- Non avete saputo? – intervenne nuovamente padre Petrit. – Abbiamo catturato dei marmocchi, colti sul fatto durante un pericolosissimo rituale di magia nera. Uno di loro ha persino rotto il braccio all’altro durante il rito.
Dopo qualche secondo di sgomento, Judith cercò di riprendere la lucidità. – Chi vi ha riportato la notizia? – domandò.
- Una donna, una serva del Diavolo.
- Dov’è ella ora?
- Cosa importa? Ci ha riferito di aver trovato i due peccatori nel bosco, era sconvolta quando ci ha raggiunti, povera cara.
Judith affilò lo sguardo, stringendo le dita intorno alle proprie braccia per ripararsi meglio dal freddo, riflettendo tra sé mentre padre Cliamon si riavvicinava a lei.
- Judith …
- Lo so, padre. È sconvolgente. Sono contrariata quanto voi. Due ragazzini così giovani in grado di commettere tale atrocità …
- Voi potete vederli, Judith. Siete solita dialogare con facilità con i prigionieri. Potreste parlare con loro e comprendere come mai hanno commesso tale sacrilegio e se davvero ciò che hanno fatto è tanto grave come crediamo – la spronò Cliamon.
Ella lo guardò negli occhi, combattuta, scorgendo della reale preoccupazione nei suoi occhi.
- Vedrò cosa posso fare.
Uno di loro è anche ferito, avete detto. Provvederò a farlo visitare e curare. Finché non verrà emessa la condanna non possiamo lasciarlo morente. Non siamo dei mostri, giusto? – chiese la ragazza, guardando negli occhi ogni monaco presente fuori dalla cattedrale.
- Conducetemi da loro.
 
Il ragazzo alzò il volto dal fuoco appena riacceso e alimentato con alcuni pezzi di legno.
Guardò dinnanzi a sé l’alba, la quale gli sembrò così diversa rispetto a come era abituato a vederla dalla finestra della sua abitazione al villaggio.
Affilò lo sguardo per bearsi della vista di tutte le meraviglie che ornavano la sua libertà.
Era fuori da Bliaint. Per la prima volta.
Quel formicolio alle mani e ai piedi, quel senso di fiducia nell’orizzonte avanti a sé, quell’energia dell’assenza di ogni limite, di ogni recinto intorno al suo corpo.
Lo alimentavano come nulla era stato mai in grado di fare.
Rabbrividì per il vento gelido che attraversò e si infiltrò nei suoi abiti pesanti e sorrise, continuando ad osservare la distesa vuota e macchiata di qualche zolletta di erba, di tanto in tanto, e i monti in lontananza, illuminati dal sol nascente.
Era trascorso solo un giorno dalla sua partenza, solo una notte fuori dal luogo in cui era cresciuto e già sentiva di poter passare altri duecento giorni camminando nel nulla, senza meta.
- Ho raccolto delle bacche per la colazione.
Dobbiamo tenerci in forze.
Vedo che vi siete dato da fare, avete raccolto i nostri teli e li avete rimessi nei sacchi – la voce della sua inaspettata e non del tutto gradita compagna di viaggio gli invase le orecchie come una campana assordante.
Selma si avvicinò a lui con una tazza fumante in una mano e un sacchettino di bacche nell’altra.
Prese a guardare l’alba anch’ella.
- È meraviglioso, non è vero? Il sole che sorge – sospirò prendendo un sorso dell’infuso preparato e porgendo le bacche al suo compagno.
Blake ne prese una manciata e ne mangiò una. – Non riprendete con le raccomandazioni, ve ne prego.
- Non temete, ho appurato che non siete uno sprovveduto, nonostante non siate mai uscito da quel piccolo pezzo di Eden – lo rassicurò ella. – Ma è anche mio dovere essere certa che non ci mettiate e non vi mettiate nei guai durante il cammino. È vero, sapete ben badare a voi stesso, sapete accendere un fuoco, tenerlo alimentato, siete in grado di rimanere sveglio tutta la notte per fare la guardia, siete acuto e intuitivo, ma tutto ciò non vi basterà.
Per vivere il mondo là fuori bisogna conoscerlo.
Blake si allontanò da lei, andando a sedersi dinnanzi al fuoco, poggiando la schiena su un grosso masso sporgente mentre continuava a guardare il sole non ancora al massimo della sua potenza.
- E voi? Quali sono le esperienze di vita nel mondo che vi permettono di vantarvi di aver visto di tutto e di farmi da guida? – le domandò senza un reale interesse.
Selma accennò un sorriso, rimanendo nella stessa posizione, continuando a sorseggiare. – Dovreste bere anche voi un po’ di infuso di erbe che ho preparato. Per far fronte al freddo incombente che ci attende, in particolar modo in seguito ad una notte passata in balìa del gelido esterno, non basteranno coperte di lana, abiti pesanti e un focolare accanto.
Blake accennò un sorriso. – Non temete, non sono interessato a tal punto da insistere.
- Non ne dubito. Voi non siete mai interessato, se non a determinati argomenti che catalizzano tutta la vostra energia – commentò ella riavvicinandosi a lui per porgergli la tazza di argilla nel quale era contenuto il suo infuso.
Egli la prese in mano, prendendone un sorso, assumendo una lieve smorfia di disgusto. – Cosa ci avete messo dentro?
- Il segreto non sono gli ingredienti ma il metodo di preparazione. Non vi aggrada? Bevetene ancora, vi terrà ben sveglio tutto il giorno e vi riscalderà le membra dall’interno. La prossima volta vi preparerò qualcosa di ancor più mirato.
- È tiepido. Se fosse abbastanza caldo lo apprezzerei – le disse il ragazzo riporgendoglielo.
A ciò, Selma riprese in mano la tazza, sorpresa. – In realtà, è ancora bollente. A meno che non siate abituato a bere lava incandescente.
- Sono abituato a fondere metalli, Selma. Direi che questo risponde alle vostre perplessità – le rispose alimentando il fuoco con un pezzo di legno.
La donna si fissò sull’ipnotica fiamma scoppiettante. – La vostra balia, quella di cui parla Beitris, vi ha insegnato anche a dominare gli elementi?
Blake non rispose, continuando ad alimentare il focolare. – Beitris non sa nulla di me e non sa nulla di Myriam.
Selma allungò la mano verso la fiamma fino a sfiorare quasi la fiamma con la punta delle dita.
A tal gesto, le movimentate lingue di fuoco più vicine a lei sembrarono quasi allungarsi lievemente verso la mano, la quale si richiuse a pugno subito dopo.
- Dovreste fare attenzione a tenervi lontana dalla magia mentre siamo fuori da Bliaint.
È stata la vostra prima raccomandazione, ricordate? – disse il ragazzo.
- Lo so bene – gli rispose ella. - La stregoneria è condannata ovunque in ogni sua forma e utilizzo, eccetto che a Bliaint. Ma ricordate anche che non dovrete mai e poi mai svelare di essere un abitante di Bliaint, per lo stesso motivo. Qualsiasi persona incontreremo lungo il nostro cammino non nutrirebbe alcun dubbio riguardo a quale dei due culti appartenete, se scoprisse che provenite dal leggendario villaggio di Bliaint.
A dir la verità, questo è il nostro maggior problema. Il vostro aspetto parla chiaro.
- Dunque, cosa avete intenzione di fare a riguardo?
- Nulla. Dobbiamo solo essere estremamente prudenti, non esporci e non attirare l’attenzione su di noi. In poche parole, passare più inosservati possibile.
Lascerete fare a me.
- Il fatto che io vi abbia permesso di venire con me, non vi autorizza ad assumere il predominio su ogni azione e decisione da prendere, Selma. Mi fido della vostra esperienza, ma ciò non vuol dire che io dipenda da voi. Se non mi permetterete di agire come riterrò più opportuno le nostre strade si divideranno.
- Resterò al mio posto. Avete la mia parola.
Avanti, muoviamoci. Abbiamo ancora dei giorni di cammino e entro quattro ore dovremmo raggiungere il primo villaggio. Con un po’ di fortuna, la prossima notte avremo un tetto sotto cui dormire.
 
Il vecchio mastro portò due tazze di infuso caldo al tavolo della sua bottega, una per suo figlio e una per il loro ospite.
- Non dovevate disturbarvi, mastro – gli disse padre Craig prendendo la tazza tra le mani.
- Non siate sciocco, padre. Intrattenetevi pure quanto volete – gli rispose cordiale l’uomo, per poi allontanarsi e lasciarli soli.
Van Naren strinse i bordi della tazza convulsamente mentre aspettava che il giovane prete parlasse per primo.
- Non vi è motivo di agitarsi, Naren.  Sono qui solo per parlare, null’altro.
- Che cosa volete sapere…? Non parlo con tanta facilità di cosa è accaduto quella notte.
- Come sapete che sono qui per parlare di quella notte?
- So che siete in buoni rapporti con Judith. Vi ha mandato ella, non è vero? – chiese risentito, con gli occhi lucidi.
- Lei mi ha riferito dove potervi trovare, Naren. Ma sono stato io a prendere la decisione di venire a parlarvi.
Credetemi, non è stato facile neanche per me. I fantasmi di ciò che è accaduto quella notte mi tormentano anche di giorno – ammise il giovane prete.
Naren alzò lo sguardo per osservarlo. – Voi non ricordate assolutamente nulla, padre?
- Nessuno ricorda nulla, ahimè.
- Ed è meglio così.
- Non è meglio così, Naren. Infangare tutto, seppellirlo come se non fosse mai accaduto non è mai la soluzione. Leggo dei tremendi sensi di colpa anche nei vostri occhi. Anche voi non riuscite a chiudere occhio a causa di ciò, o mi sbaglio?
- Ed è esattamente per tal motivo che preferirei non ricordare, proprio come tutti voi.
Dovreste essere lieto di non ricordare, padre. Credetemi.
- Dunque avete avuto contatti anche con me, quella notte …? – tentò padre Craig, facendo irrigidire il ragazzo.
- Non voi, padre. Con la persona che abitava il vostro corpo.
Ho visto ciò che ha fatto – sussurrò fissando il fuoco scoppiettare nel camino, come in trance.
- Chi era?? Sapete chi ha abitato il mio corpo …?
- No. Ma non eravate voi. Di questo sono certo.
- Potete dirmi qualcosa di questa persona …? Se non volete dirmi cosa ha fatto quando ha abitato il mio corpo, almeno ditemi come fosse … come si comportasse.
- Nessuno di voi era in sé, padre.
Ella era brutale. Questo è il solo aggettivo che mi viene in mente per descriverla.
- Siete certo fosse una donna?
- Non del tutto certo. Ma il mio istinto mi suggerisce questo.
Padre Craig poggiò la schiena sullo schienale della sedia, prendendo a riflettere.
- Avete avuto contatti con qualcun altro durante la nottata?
- Vi ho detto che non voglio parlarne.
- Il vostro atteggiamento nei confronti di Judith mi lascia presupporre che almeno con lei abbiate sicuramente avuto dei contatti.
Naren strinse la mano a pugno, cercando di regolarizzare il respiro. – Me ne compiango.
- Che cosa è accaduto che vi turba tanto, Naren? Confessare il vostro peccato vi aiuterà solamente a liberare la vostra anima.
Non sono qui per giudicarvi.
- Judith non era in sé – disse solamente.
- Che cosa ha fatto Judith?
- Ha fatto del male al corpo che ha abitato.
Quasi come se, in sé, possedesse da sempre una furia che aspettava solo il momento propizio per uscire fuori e scatenarsi in tutta la sua voracità.
- Cosa intendete quando dite “ha fatto del male”?
- Anche io le ho fatto del male.
- Naren … potete essere più chiaro? Avete fatto del male al suo corpo o avete fatto del male al corpo che lei ha abitato?
- Non vi dirò altro, padre.
Mi dispiace.
- L’avete violentata?
- Ho detto che non vi dirò altro! – esclamò alzandosi di scatto e sbattendo un pugno sul tavolo, respirando affannosamente.
- D’accordo. Ma la nostra conversazione non finisce qui – gli disse il giovane prete, alzandosi a sua volta, riprendendo il suo mantello appeso accanto al camino e togliendo il disturbo.
 
La ragazza si sistemò accuratamente la chioma rossa acconciata e tirata su ordinatamente, per poi accingersi a scendere nelle prigioni sotterranee.
Camminò con decisione verso la sua meta, raggiungendo la cella nella quale erano stati rinchiusi i due ragazzini.
Il primo dettaglio che notò e che avevano tralasciato di dirle, fu che i due fossero gemelli.
Ringraziò il monaco che aprì la cella e si accinse ad entrare.
I due erano accucciati tra di loro come due cuccioli orfani di una cucciolata.
Feriti, selvaggi, rabbiosi e brillanti di luce propria.
Judith sorrise naturalmente loro, sedendosi sulla sedia disposta, di fronte a loro.
Si sporse un po’ e individuò il gemello con il braccio tremante, insanguinato e stretto al petto. A ciò, allungò la mano guantata verso di loro. – Ho saputo che sei ferito. Posso vedere l’entità del danno?
I due continuarono a guardarla in cagnesco, non muovendo un solo muscolo.
- Non sono qui per farvi del male.
Ci pensano già loro a farlo, a quanto vedo.
Sono stati alquanto rudi con voi.
Ancora non siete stati giudicati colpevoli. Motivo per cui, posso prendermi cura di voi e curare le vostre ferite più gravi. Avanti, avvicinati o quel braccio peggiorerà a breve e arriverà ad un punto in cui non potremo più intervenire – disse con voce dolce e rassicurante, provvedendo anche a togliersi il guanto stretto e vellutato, per lasciare la mano bianca e magra scoperta al freddo, ornata di qualche sottile anello d’argento.
A ciò, il gemello col braccio ferito si avvicinò a lei lentamente, strisciando con il fondoschiena a terra, facendo quasi fatica a distaccarsi dall’altro.
Permise a Judith di scoprirlo dalla manica della maglia cenciosa, di toccarlo e di osservare la gravità della ferita.
- È stato tuo fratello a farti questo? I monaci dicono di aver trovato tuo fratello con la mano stretta al martello che ti ha provocato la ferita.
Ma il ragazzino negò immediatamente con la testa, più e più volte.
- Lo stai proteggendo, per caso? – domandò la ragazza affilando lo sguardo sospettoso, per poi volgere gli occhi neri all’altro gemello rimasto addossato alla parete e rannicchiato.
Il gemello ferito negò nuovamente.
- Tuo fratello non ha la lingua per difendersi da solo?
A tale provocazione, il presunto carnefice voltò la testa verso di lei, rivolgendole lo sguardo più scontroso e pregno di odio che le avessero mai rivolto.
Aveva metà viso parzialmente sporco di fango, così come alcuni ciuffi del suo disordinato cespuglio di capelli, e i vestiti completamente strappati all’altezza della schiena.
- Ammetto che mi risulti davvero strana una violenza simile tra fratelli.
- Non è stato lui a farmi questo! – fece finalmente udire la sua voce Maroine.
- Zitto, Maroine. Non parlare con lei – le ordinò Maringlen.
- Ciò che voglio sapere da voi, è come siano andate le cose – si affrettò a rispondere Judith, guardando prima uno, poi l’altro.
- Non ci crederete. Non ci crederete mai, perché ci volete morti, morti e basta – disse Maroine.
- Io vi crederò.
A tal risposta, Maringlen scattò in piedi come una molla e sputò ai piedi di Judith senza avvicinarsi a lei.
- Con le tue parole non ci puliremo neanche le ceneri che ci cadranno addosso al prossimo rogo che appiccherete sopra di noi.
Noi non parliamo con voi monaci.
- Fate parte della compagnia di stregoni eremiti che vive nei boschi? – insistette Judith, senza demordere. – Vi hanno costretto a fare questo? A farvi catturare e a farci credere di esservi fatti del male tra voi tramite la magia nera? A quale scopo?
- Il fatto che ci stiate per bruciare vivi non ci renderà degli sporchi traditori nei confronti della nostra gente! – esclamò Maroine.
- Dunque è così? Non collaborerete neanche se vi offrirò il mio aiuto a braccia aperte?
E se, invece, vi dicessi che uno di voi due può salvarsi?
A tali parole, gli occhi dei due gemelli assunsero un’espressione differente, meno buia e scontrosa.
- Non ti crediamo.
- E se così fosse? Tradireste la vostra gente?
- Mai.
Judith accennò un sorriso. – Non vi chiederò di tradirli. Vi chiedo solamente di dirmi come sono andate le cose – disse per poi rivolgere lo sguardo solo al gemello rimasto lontano da lei, in piedi dinnanzi alla parete. – Ti basterebbero solo poche parole per dimostrare la tua innocenza. Non sareste comunque assolti dall’accusa di aver abusato della magia nera, ma almeno proveresti di non aver fatto del male a tuo fratello, come io credo che tu non abbia fatto. “Non sono stato io a fargli del male”. Semplice, no?
- Non è stato lui a farmi del male – ripeté Maroine.
- Non l’ho chiesto a te ma a lui – insistette Judith continuando a fissare l’altro gemello.
- Diglielo, Maringlen. Dille che non sei stato tu!
Maringlen rimase in silenzio, non emettendo una parola.
A ciò, Judith sospirò, abbassando lo sguardo. – Vi serve del tempo per metabolizzare e riposarvi. Lo capisco. Tempo al tempo. Per ora, ciò che posso fare per aiutarvi, è curare questa brutta ferita al braccio – disse porgendo la mano a Maroine, la quale la prese e uscì dalla cella con lei, con lo sguardo costantemente puntato su suo fratello rimasto dentro.
- Non temere, ti riporto presto da lui – lo rassicurò Judith, conducendolo verso l’uscita delle segrete, ancora incatenato.
 
- Madre, potremmo aggiungere i funghi che ho raccolto oggi pomeriggio con Austen nello stufato! – esclamò la bambina dai corti capelli neri e gli occhi color mandorla, avvicinandosi alla sottana di sua madre.
- Certo, bambina mia, valli a prendere – la incoraggiò la donna, sistemando con una mano la sua bandana sulla fronte sudata e con l’altra continuando a girare il mestolo dentro la pentola fumante.
Fuori era quasi buio.
Improvvisamente, qualcuno bussò alla loro porta.
La donna voltò lo sguardo verso la porta, incerta.
- Chi è, madre?? – chiese la bambina dirigendosi verso la porta.
- Ferma, Gerda. Potrebbero essere i banditi, a quest’ora – la ragguardò la donna.
La porta bussò ancora.
- Chi diavolo è? – le raggiunse dall’altra stanza anche il figlio maggiore, un ragazzotto tarchiato e dalle spalle larghe.
La porta bussò una terza volta.
- Se sono banditi entreranno anche se non vorremo aprirgli, al diavolo. Aprite – ordinò il ragazzo.
A ciò, la sorellina si accinse ad avvicinarsi alla porta e aprì, affiancata dalla madre.
- Chi siete? – domandò la piccola guardando candidamente verso l’alto, verso i due forestieri incappucciati.
- Buonasera – la salutò dolcemente Selma, sfilandosi il cappuccio. – Ti ringrazio di averci aperto. Io sono Selma. Io e il mio compagno di viaggio stiamo cercando un luogo per passare la notte, dato che siamo nel vostro villaggio solamente di passaggio. Sareste così gentili da ospitarci, solo per questa notte? Ve ne saremmo davvero grati – le disse.
A ciò, la bambina la guardò incuriosita, poi spostò lo sguardo sul ragazzo, ancora incappucciato e notevolmente più alto della donna. La piccola gli sorrise ed egli ricambiò. – E voi come vi chiamate? – gli chiese.
- Blake. Tu? – le rispose togliendosi il cappuccio.
- Gerda.
- Molto lieto, Gerda.
La piccola rise di gusto, per poi venire raggiunta dalla madre, la quale squadrò i due dalla testa ai piedi, stringendosi sua figlia alla sottana. – Chi siete voi? Che cosa cercate?
- Siamo forestieri – rispose Selma.
- Questo lo vedo bene con i miei occhi. Non vi ho mai visti; se vi avessi visti al villaggio mi sarei sicuramente ricordata di voi.
- Se siamo sgraditi possiamo bussare ad un’altra porta. Togliamo il disturbo – disse Blake con naturalezza.
- Oh, no, madre, ti prego, ospitiamoli! – la pregò la bambina. – Cercano solo un posto in cui passare la notte.
- Non fare i capricci, Gerda. Tuo padre è via da giorni, non posso prendere decisioni senza di lui. Dobbiamo cercare di essere prudenti e di badare alla casa.
A tali parole della donna, gli occhi di Selma si catapultarono su Blake, in un’occhiata complice.
- Proprio perché nostro padre non c’è abbiamo bisogno di aiuto per badare alla casa e tenere lontano i banditi. Loro potrebbero esserci d’aiuto – la spronò la bambina. – Ti prego!
A ciò, la donna sbuffò e riportò lo sguardo sui due. – Da dove venite? – domandò.
- Da un villaggio lontano da qui, da dietro la vallata – rispose Selma con prontezza.
La donna li osservò ancora con attenzione, prima di porgere un’altra domanda. – Dove siete diretti?
- A Erit.
- A Erit? Dista giorni da qui. Per quale motivo siete diretti ad Erit?
- Per questioni personali – rispose Selma, cercando di troncare l’argomento.
- Che genere di questioni personali …?
- Dobbiamo incontrare degli amici che abbiamo ospitato mesi fa nel nostro villaggio. Hanno voluto ricambiare il favore, dunque andremo loro a far visita, come promesso – rispose Blake al posto della sua compagna, sorridendo cordiale. – Ad ogni modo, possiamo bussare ad un’altra porta. Se non desiderate la nostra presenza, lo comprendiamo – non esitò a ripeterle.
In risposta, la donna smise di osservarlo, scostando lo sguardo come scottata. – Venite dentro. Là fuori si gela. Sarete infreddoliti – disse, permettendo ai due di entrare, mentre la piccola Gerda esultava.
- Non abbiamo mai ricevuto visite da dei forestieri! – esclamò la piccola esultando. - Siamo molto contenti di ospitarvi!
- Chi siete voi? – si fece strada il maggiore, andando loro incontro.
- Austen, loro sono Blake e Selma; Blake e Selma, lui è mio fratello Austen! – li presentò Gerda.
- E voi? – domandò Blake rivolgendosi alla madre di famiglia.
- Selen. Mi chiamo Selen.
- Come mai viaggiate insieme? – domandò scontroso Austen.
A ciò, Selma si voltò verso il suo compagno e sorrise, posandogli una mano sulla guancia. – Lui è mio figlio. Dove mai andrebbe una madre, senza suo figlio? – disse sorprendendo Blake e facendo immobilizzare gli altri tre, intenti a guardarli.
- Non vi somigliate minimamente – commentò Austen, esprimendo il pensiero di tutti.
- Fortunatamente Dio ci ha creati uomo e donna, giusto? I figli rubano qualcosa ad uno dei due, lasciando intoccato l’altro. In tal caso, Dio ha voluto che Blake prendesse da suo padre e non da me.
Anche voi non somigliate per nulla a vostra madre, giovane Austen. Ve lo ha mai detto nessuno?
- Toglietevi pure i mantelli e le giacche – intervenne Selen troncando il discorso.
- Stiamo preparando dello stufato! Volete aiutarci?? – domandò la piccola Gerda sprizzante di gioia, mentre Selen prendeva il mantello e la giacca di pelliccia di Blake, dopo aver preso anche quelli di Selma.
- Certo! Io so cucinare molto bene, sai? – le rispose Selma.
- Davvero? Cosa sai fare??
- Pasticci di patate, torte alla frutta, focacce salate, succulenti stufati …
Gerda la ascoltava con gli occhi luminosi e l’acquolina in bocca.
- Se volete restare qui stanotte dovete ripagarci in qualche modo – proruppe Austen incrociando le braccia.
- Austen – lo riprese sua madre.
- Cosa, madre? Ho detto qualcosa di sbagliato? Chiunque riceve della gentilezza fa in modo di sdebitarsi e di ripagarla in un modo o nell’altro, giusto?
- Ha ragione – intervenne Selma. – Vostro figlio ha assolutamente ragione, signora Selen. Io e mio figlio dovremmo pur ripagare la vostra gentilezza in qualche modo. Io potrei aiutarvi con la cucina.
- Io potrei svolgere qualche mansione manuale domani, prima di ripartire. Dato che vostro marito è assente, potrei darmi da fare al campo, con il bestiame o con qualsiasi altro lavoro. Sono abituato ad adoperarmi in mansioni simili nel mio villaggio – propose Blake.
- Per occuparsi del campo e del bestiame ci sono già io! – si impose Austen, sentendosi offeso da tal proposta.
- Oh, caro, potete tranquillamente continuare a svolgere tali mansioni da solo, non temete. D’altronde, Blake è in grado di fare molte cose, oserei dire quasi tutto – lo informò Selma sorridendo sardonica. – Può sempre sdebitarsi in altri modi, giusto? – aggiunse rivolgendosi al diretto interessato, per poi volgere gli occhi alla bambina. – Avete qualcuno che vi insegni a leggere e a scrivere, Gerda?
- Sì. La maestra del villaggio – rispose la bambina.
- Devi sapere che Blake è molto bravo con i numeri. Ti andrebbe di imparare qualcosa in più riguardo ai numeri? Potrebbe esservi utile per il bestiame, per il raccolto, per le vendite e per molto altro – propose la donna.
- Ai bambini del nostro villaggio si insegna poco, quasi nulla, riguardo i numeri – rispose Selen accennando un sorriso interessato, cercando di non darlo troppo a vedere. – Sono certa che Gerda sarebbe molto contenta di imparare a contare e a calcolare. Avrebbe persino qualcosa con cui vantarsi un po’ con i suoi amici – aggiunse la donna guardando sua figlia, la quale stava già annuendo allegra.
- Affare fatto allora – pattuì Selma.
- Tuttavia, per impararmi qualcosa in più riguardo ai numeri non basterà un giorno, vero? – chiese la piccola rivolgendosi a Blake.
- Purtroppo non possiamo trattenerci di più, Gerda. Altrimenti, sarei felice di farlo. Posso comunque insegnarti molte cose domani, prima della partenza.
La bambina si intristì istantaneamente, così come sua madre, la quale intervenne nuovamente. – Siete certi di non potervi trattenere anche solo due o tre giorni in più? Mio marito dovrebbe trattenersi via per un’altra settimana almeno, mi fareste molto comodo qui.
- Non possiamo rimanere di più – disse categorica Selma, non ammettendo repliche, facendo incupire la padrona di casa.
- Noi vi forniamo la nostra ospitalità. Per ricambiare la nostra cordialità sarebbe gentile da parte vostra se rimaneste almeno qualche giorno in più. Avete detto che dovete solamente raggiungere i vostri amici ad Erit per una vacanza. Domani è prevista una tempesta di neve. Vi congelerete là fuori.
Come mai tutta questa fretta?
- Vi abbiamo già detto che possiamo trattenerci solamente una notte, non di più.
- E io vi ho appena detto che …
- D’accordo. Resteremo. Resteremo qualche giorno – intervenne Blake imponendosi, interrompendo la discussione delle due. – Poi, quando il tempo migliorerà un po’, ci rimetteremo in viaggio.
A ciò, Selen sorrise abbassando lo sguardo, Austen sbuffò, mentre Gerda saltò di gioia.
- Vi accompagno nella stanza degli ospiti, in modo che potrete stendervi un po’ prima della cena.
Non appena i due entrarono nella piccola stanzetta scarna ma ospitale, composta solamente da due letti e da un comodino provvisto di candela, e furono lasciati soli, Selma non si trattenne.
- Per quale motivo avete accettato di restare?
- Perché voi ci avete messi in una situazione scomoda a causa della vostra assurda pretensione a parlare, a dirigere autonomamente la situazione, grazie alla vostra “esperienza”.
- Io li ho convinti ad ospitarci garantendo per voi e per me – si lamentò la donna.
- Si sarebbero convinti in ogni caso.
- Vi informo, che l’unico motivo per il quale quella donna ci avrebbe fatto entrare a casa sua in ogni caso, Blake, consiste nel fatto che suo marito è fuori casa e che, non appena vi ha visto, non è più riuscita a ragionare con la testa.
Se ci fosse stato suo marito, non saremmo mai riusciti a convincerli a fidarsi di due sconosciuti senza la mia parlantina che tanto disprezzate.
- Ditemi, dunque, vi era necessariamente il bisogno di propormi come insegnante della figlia? Non vi è minimamente venuto in mente che per insegnarle qualcosa di consistente ci sarebbe voluta più di una mattinata?
- Quel montone del figlio ci ha messi con le spalle al muro, non vi sarebbe potuto essere qualcos’altro di tanto esclusivo da proporre, per lo meno non platealmente.
- Dovete prendervi le responsabilità delle vostre azioni, Selma. Le vostre parole li hanno portati a forzarci a restare. Ad ogni modo, non temete, poiché domani ce ne andremo senza che loro lo scoprano.
Non appena riusciremo a rimanere soli, prepareremo i sacchi e lasceremo questo villaggio.
- Questo villaggio non mi convince, Blake.
- Esiste un villaggio che sarebbe in grado di convincervi, Selma?
La donna sospirò, sedendosi su uno dei due giacigli. – L’energia che percepisco qui non mi piace per niente.
- Beh, se è così, cercate di non darlo troppo a vedere.
Non vorrete farci durare meno di uno stufato nel primo villaggio su cui metto piede che non sia Bliaint.
 
Judith condusse il giovanissimo prigioniero nello stanzone della cattedrale dedicato alle cure dei malati.
Lo fece sedere sul giaciglio e si accinse a riempire una bacinella di acqua limpida. – Mi spiace di non poterti toglierti le catene  ai polsi e alle caviglie, ma comprendi che la situazione purtroppo non mi permette di farlo – disse afferrando un panno pulito insieme alla bacinella piena e dirigendosi verso il giaciglio, sedendovisi sopra a sua volta. – A breve arriverà un mastro che si occuperà del vostro braccio, intanto possiamo iniziare a pulire la ferita mentre lo attendiamo.
- È un monaco anche lui? – domandò astioso il prigioniero.
- Sì – rispose la ragazza cominciando a strappare il tessuto della maglia malandata del ragazzino, il quale scattò immediatamente lontano da lei, finendo in fondo al giaciglio, quasi ringhiando.
- Maroine – ritentò pazientemente Judith. – Devo toglierti la casacca per pulirti adeguatamente la ferita. In ogni caso, dovrà farlo il mastro che verrà a breve se non lo farò io.
- Non voglio farmi spogliare né da te né da quel monaco! Non voglio farmi spogliare da nessuno! – esclamò feroce.
- Maroine – lo richiamò ancor più dolcemente la ragazza. – Perché non vuoi toglierti i vestiti? Per caso, qualcun altro lo ha fatto in passato, con la forza e senza il tuo consenso? A me puoi dirlo, poiché l’ho vissuto anche io sulla mia pelle.
Può succedere sia alle ragazze che ai ragazzi.
- No, non si tratta di quello!
Credi che mi importi di chi mi tocchi?? – sorrise sprezzante Maroine. – Tu sei vissuta in questa campana di vetro di agiatezze, di libertà e di lusso mentre io e mio fratello siamo cresciuti nel gelo, nella povertà e nel putridume del mondo là fuori! Non abbiamo mai avuto niente, né denaro, né parole di gentilezza, né atti di misericordia, cibo, istruzione o tanto meno amore! Per noi è normale venire trattati come agli altri più aggrada! Sia che agli altri vada di farci del male, sia che agli altri vada di trattarci come animaletti indifesi di cui prendersi cura, noi dobbiamo difenderci da soli, con le unghie e con i denti per evitare che facciano di noi ciò che preferiscono! A volte, invece, dobbiamo lasciarli fare, fin quando non si stancano da soli di avere a che fare con noi! Siamo allergici alla morte oramai! Niente è più in grado di annientarci, né la violenza né tanto meno una vita passata nelle segrete!  - urlò, facendo impietrire la ragazza.
Le due rimasero in silenzio, fin quando Judith non ritrovò il coraggio di parlare. – Maroine, mi dispiace. Mi dispiace di aver pensato di poterti toccare senza il tuo consenso, ma ora è davvero necessario pulire quella ferita. La tua spalla ne sta risentendo poiché la stiamo trascurando da quando ti è stata inflitta. La stoffa della tua casacca si è incrostata di sangue ed è rimasta incastonata nella ferita. Dobbiamo togliertela.
- No!!
- Maroine.
- Ho detto che non voglio!
- Allora sarà il mastro a farlo al mio posto.
A tali parole, Maroine sbiancò e, molto gradualmente, si riavvicinò a Judith.
- Se, in ogni caso, o tu o lui lo farete, allora devi promettermi qualcosa – esordì Maroine con le lacrime che oramai gli rigavano le guance.
- Ti ascolto.
- Devi essere solo tu a prenderti cura della mia ferita. Lui non deve vedermi.
- Io non posseggo abbastanza nozioni per curare una ferita come quella, Maroine.
- Lui non deve vedermi – insistette il prigioniero.
A ciò, Judith annuì. – Leggerò qualche tomo specifico, mi informerò meglio a riguardo. Ora avvicinati – lo spronò, posando le mani sulla sua schiena, strappando il tessuto della casacca dalla nuca fino alla fine della schiena.
Sfilò la maglia e osservò il suo corpo, vedendo qualcosa che le fece sgranare gli occhi scuri: una lunga benda bianca era legata intorno a tutto il petto di Maroine, tanto strettamente da bloccarle quasi il respiro.
La benda tratteneva qualcosa, delle sporgenze ancora molto piccole ma presenti, mentre, più in sotto, il torace e il ventre erano più sottili di quanto si aspettasse.
Quella che oramai Judith aveva scoperto essere una ragazzina, teneva la testa bassa, immobile.
Judith non disse niente, ma procedette a sfilarle la maglia insanguinata, a riporla sulle coperte e a pulire la ferita.
Maroine si lamentò un po’, cercando di trattenersi il più possibile ogni volta che l’acqua fredda e il tocco della ragazza si posavano sulle zone tremendamente doloranti del suo braccio.
- Non lo saprà nessun altro, non temere – le disse all’improvviso, mentre passava per l’ennesima volta il panno fresco sullo squarcio pulsante. – Tu e tuo fratello rimanete comunque accusati di un peccato mortale, sia che tu sia una ragazza, che un ragazzo. Il mio giudizio non verrà influenzato da questo.
Maroine non rispose.
- Sai, non mi è mai capitato di incontrare una ragazza travestita da ragazzo – aggiunse Judith. – In realtà, non mi sembra così strano, poiché posso comprendere perfettamente i motivi per cui hai deciso di farlo.
- No, tu non puoi comprendere niente, perché non sai niente – rispose categorica Maroine.
- È vero, hai ragione.
- E se non fossimo in questa situazione non sapresti nulla di tutto questo.
- Ne sono consapevole. Tuttavia, ci troviamo in questa situazione, dunque io e te ora abbiamo qualcosa che ci lega – disse andando a recuperare una casacca larga e pulita, per poi porgerla alla prigioniera, ancora seminuda. – L’ho cucita io. Ne cucio sempre in abbondanza per i ragazzini bisognosi che giungono alla cattedrale, in cerca di aiuto – le disse, aiutandola ad infilarsela. – È abbastanza larga, esattamente come quella che avevi prima. Non si noterà nulla – la rassicurò.
- Non ho bisogno che mi dici questo. Non mi serve la tua pietà. Mi serve che mi riporti da mio fratello.
- Voi due non siete affatto abituati a stare lontani, vedo.
- Voglio tornare da lui, Judith.
- Tornerai presto da lui, te le garantisco.
Ma, come ti ho già detto, il braccio peggiorerà se non facciamo qualcosa per porvi rimedio ed io ora non ho abbastanza conoscenze e competenze per sostituite il mastro.
Dato ciò, ora resterai qui ad aspettarmi, mentre io mi reco di sopra, alla biblioteca, e consulto qualche manuale. Non ci metterò molto. Quando tornerò, medicheremo adeguatamente quel braccio e lo benderemo, in modo che potrai tornare da tuo fratello.
Ora stenditi, ti accendo alcune candele.
 
Il piccolo Ioan corse fuori dalla sua abitazione, alzando la testa al cielo, aprendo la bocca e tirando fuori la lingua, con gli occhi talmente chiari da subire il fastidio della luce fievole delle nuvole che coprivano il cielo.
Socchiuse le palpebre sottili e si godette la sensazione dei fiocchi che si posavano sulla lingua, senza sentire più freddo del dovuto, senza sentirsi stanco o dolorante.
Sentiva un’energia scorrergli dentro che non aveva mai provato nei suoi pochi anni di vita.
Sua madre Heloisa e suo padre Rolland era rimasti sconvolti da tale cambiamento repentino in positivo, da un giorno all’altro, tanto da doversi ancora abituare alla sua buona salute.
Sua madre credeva che il Signore li avesse benedetti con un miracolo.
Avrebbe voluto che anche Blake lo vedesse in quello stato.
Anzi, lui era colui che più di ogni altro avrebbe dovuto vederlo forte, in salute, felice. D’altronde, Christopher Ioan era fermamente convinto che la sua apparente guarigione fosse tutto merito di Blake, e nessuno gli avrebbe potuto far cambiare idea: da quando suo fratello gli aveva donato quel ciondolo e lui lo aveva indossato, il suo grave malanno sembrava essere svanito col vento e con la neve.
Sperava suo fratello stesse bene e tornasse presto. Era trascorso solo un giorno dalla sua partenza, eppure tutti sembravano risentire della sua mancanza, ognuno a modo suo.
Certo, la buona salute di Ioan distoglieva l’attenzione dal resto, ma l’assenza di Blake si sentiva eccome.
Rolland non faceva altro che sbuffare, lamentarsi della manodopera della galleria e del fatto che senza Blake i risultati di una giornata di lavoro fossero notevolmente peggiorati. Quel pomeriggio, Ioan lo aveva addirittura beccato a sfogliare senza sosta i calcoli svolti da Blake sulla contabilità della galleria, risalenti ad alcuni vecchi commerci di metalli intrapresi con altri villaggi, intento ad osservare e a sfiorare quei segni ordinati e incomprensibili.
Padre Craig sembrava non dar peso alla cosa, stranamente, poiché quel giorno si era tenuto impegnato in diversi modi; tuttavia Ioan poteva intravedere nel suo sguardo un costante velo di preoccupazione sicuramente rivolto a Blake, quando lo scorgeva assorto nei suoi pensieri in alcuni momenti della giornata.
Sua madre, nonostante non lo desse affatto a vedere, era quella che ne soffriva di più. Difatti, il piccolo Ioan, la notte prima, aveva sentito i passi di sua madre diretti verso la stanza di suo fratello. In silenzio, si era alzato dal letto, aveva aperto la porta della camera e aveva sbirciato fuori dall’uscio, vedendo Heloisa seduta sopra il letto di Blake, accarezzandone le coperte con sguardo nostalgico.
- Dove sei, Even? – chiese il secondogenito di Rolland, aprendo gli occhi per quanto gli fosse possibile, rivolto alla neve che si stava posando placida nel terreno morbido. – Quando tornerai da me? – disse stringendo il ciondolo che pendeva sul suo petto.
- Ioan, rientra in casa o ti prenderai un raffreddore! – la voce premurosa di padre Craig, proveniente dall’uscio della casa, lo riscosse, facendolo voltare a guardarlo. – Avanti, giovanotto! Il fatto che ora tu sia sano come un pesce non significa anche che tu sia immortale! – lo ammonì bonariamente, facendogli segno di rientrare mentre si copriva dal freddo esterno con un pesante scialle avvolto intorno al corpo.
- Guardate, padre, nevica! – esclamò felice il bambino, ignorando le sue parole. – Facciamo una passeggiata alla piazza del villaggio! La piazza è bellissima quando nevica! Non potete perdervela!
Padre Craig si arrese, sorridendo di rimando a quel dolce visino d’angelo, per la prima volta rinvigorito e luminoso, dopo tanto tempo.
- Prendo il mio e il tuo mantello di pelliccia e ti raggiungo!
I due si recarono nella piazza del villaggio, passeggiando allegramente tra i passanti, godendosi il paesaggio coperto da quella lievissima patina bianca, che probabilmente, durante la notte si sarebbe sciolta, non lasciando traccia di sé.
Padre Craig stringeva la mano del bambino mentre camminava, per non perderlo di vista, poiché lo sentiva fremere dalla voglia di sfuggirgli per saltellare in giro ed esplorare il villaggio, ora che aveva finalmente la forza e l’energia per farlo.
- Vieni, Ioan, voglio farti conoscere una persona. Spero non sia troppo impegnata al momento – disse il giovane prete al suo piccolo accompagnatore, raggiungendo l’entrata della cattedrale dei servi del Creatore, dalla quale vide immediatamente uscire un monaco calvo e dallo sguardo turbato, il quale sembrava andare di fretta.
- Scusate il disturbo – lo richiamò gentilmente padre Craig, vedendolo arrestare il suo cammino e voltarsi verso di lui.
- Sì? Avete bisogno di qualcosa?
- Oh, buon signore, credo di averla già incontrata. Io sono padre Craig, il prete straniero amico di Arley Judith, la vostra protetta. Questo giovane che mi accompagna invece è Christopher Ioan. Voi siete?
A tali parole, il monaco affilò lo sguardo e sembrò riconoscere padre Craig. – Oh, siete voi. Io sono padre Cliamon.
- Molto lieto, padre Cliamon.
- Cercate Judith?
- Sì, sono qui per farle un saluto, se non è troppo occupata al momento. Mi piacerebbe farle conoscere Ioan.
- Capisco, ma al momento Judith non può ricevere nessuno – disse lapidario.
- Oh … capisco. Ditemi, è accaduto qualcosa, per caso? Sembrate preoccupato, quasi allarmato. Posso fare qualcosa per aiutarvi?
- Temo di no, figliolo. Non avete udito? Poche ore fa sono stati catturati due ragazzini apparentemente appartenenti alla setta di stregoni eremiti che vive nel bosco. I due rischiano la condanna alla pena capitale.
- Due … ragazzini? – ripeté Craig sconvolto. – Due ragazzini che rischiano la pena capitale…? Quanti anni hanno?
- Sono poco più grandi del vostro giovanissimo accompagnatore, temo – rispose afflitto padre Cliamon, posando lo sguardo su Ioan.
- Oh, buon Dio. Non riesco a credere alle mie orecchie …
Padre Craig era talmente avvilito dalla notizia appena udita, da non aver prestato attenzione a Ioan.
Non appena aveva ascoltato tale infausta informazione, il bambino aveva lasciato la mano del giovane prete, così come il suo fianco, per camminare confusamente in mezzo alla piazza, tra le due cattedrali, in cerca di qualcosa.
Ioan sapeva che le segrete sottostavano la piazza di Bliaint, e a chiunque era vietato l’accesso, eccetto ai monaci. Tuttavia, sapeva anche che qualche sprazzo di luce e di aria doveva pur entrare in quelle celle buie.
Non appena trovò una delle tonde grate di cui era provvisto il pavimento della piazza, vi si inginocchiò accanto.
Voleva compiere un atto di gentilezza e di bontà verso chi era meno fortunato di lui; così, tirò fuori dalla tasca della casacca il sacchettino di datteri acquistato poco prima al mercato con padre Craig.
Ne prese uno e si affacciò alla grata, cercando di scorgere almeno uno dei due giovani prigionieri, non riuscendo tuttavia a vedere nulla a quella distanza.
A ciò, per attirare la loro attenzione, Ioan fischiò la melodia della canzone che Blake recitava per lui ogni volta che glielo chiedeva.
Sotto quella grata, con le catene che gli stringevano i polsi e le caviglie, la testa abbandonata sul muro umido, il corpo infreddolito accasciato e gli occhi semichiusi per la stanchezza e la rabbia covata, si trovava Maringlen.
L’effetto della valeriana di cui lo avevano imbottito sembrava sortire ancora qualche effetto nel suo corpo, rendendolo debole, dolorante e stanco, stanco anche di pensare.
Improvvisamente, il ragazzino udì un fievole fischio a distanza.
Quando la melodia del fischio si fece più persistente, Maringlen si decise ad alzare la testa verso l’alto, lentamente, per cercare di scorgere, in quella lontana fonte di luce sopra di esso, l’origine di quel suono.
Il fischio continuò, dando modo e tempo al ragazzino di gattonare fino al punto che si trovava esattamente sotto il tombino e di alzare gli occhi d’ambra verso il bambino dall’altra parte. Quando quest’ultimo lo vide, gli sorrise e si accinse ad infilare qualcosa su uno dei piccoli buchi della grata che li divideva.
Il dattero cadde accanto a Maringlen, il quale lo prese in mano, osservandolo, per poi riportare gli occhi verso il suo benefattore, di cui riusciva a scorgere solo qualche carattere del volto.
- Maringlen…? – quella voce familiare riscosse il ragazzino, il quale distolse l’attenzione dal bambino al di là della grata e la portò sull’uomo affacciato alla sua cella, il quale lo stava osservando con uno sguardo ferito, allarmato e speranzoso insieme. – Maringlen, mi senti? Ti hanno fatto qualcosa di male, Maringlen? Ti hanno convinto a fare ciò che hai fatto drogandoti con qualche pericoloso intruglio?? Stai bene??
Fuori nevica, starai congelando …
Parlami, bambino mio, ti prego …
Nonostante la voce supplichevole di padre Cliamon, Maringlen non lo degnò di uno sguardo, dandogli le spalle, concentrandosi invece su un grosso ragno nero e rosso che gli stava risalendo il braccio, fino a raggiungere la spalla.
- Maringlen, presto riporteranno Maroine qui, non appena le avranno medicato il braccio.
Ti prometto che vi tirerò fuori di qui, Maringlen, te lo giuro solennemente.
Abbi fiducia in me, figliolo.
Nell’udire quelle parole, l’indifferenza del ragazzino si fece ancor più ostentata, poiché si diresse verso la parete più lontana dalle sbarre e si sedette, poggiandosi con la spalla non occupata dal ragno sul muro.
Gli occhi fissi nel vuoto dinnanzi a sé.
- Lo so che noi due non abbiamo mai avuto uno stretto rapporto, in assenza di Maroine – disse il monaco inginocchiandosi a terra e poggiando la testa calva sulle sbarre, stringendo quelle assi di metallo tra le dita.
- Se avessi saputo cosa sarebbe accaduto avrei fatto di tutto per evitarlo.
Di tutto …
Non posso perdervi, Maringlen.
Non posso.
Maringlen continuò a guardare fisso dinnanzi a sé, apparendo all’esterno come un corpo senza vita, mentre il ragno raggiungeva il suo collo, quasi come se volesse fargli da ciondolo.
- So che non sei stato tu a far del male a Maroine.
Tu non le faresti mai del male, anzi, daresti la vita per lei.
Vedrai, troveremo il modo di dimostrare la tua innocenza.
Quando ti interrogheranno, dovrai dire la verità, dovrai dire di non essere stato tu a farle del male, e di essere stati manipolati e drogati da altri.
Al resto penserò io.
Il ragazzino serrò la mascella in risposta, non emettendo neanche un suono.
- Maringlen, ti prego, ascoltami. Guardami, almeno … - lo supplicò il monaco osservando ogni suo singolo battito di ciglia, da dietro le sbarre. – Non riesco a vederti così.
Nessuna risposta, nessuna reazione.
- Ti canto qualcosa, ti va? – ritentò Cliamon sorridendo speranzoso mentre lo guardava e stringeva le sbarre sempre più. – In mancanza di vita, il terreno dondola … - intonò, con la voce rotta. – In mancanza di vita, il mondo resta sospeso.
Nulla è protetto da qualcosa che vive – pian piano, Maringlen si voltò verso l’uomo, donandogli i suoi occhi, seppur lucidi e sfuggenti.  
- Sono l’anima di un’aquila – continuò il monaco. – Sono salito nel cielo e non ho trovato nulla, sai?
Maringlen si avvicinò gradualmente alle sbarre, ascoltando il canto.
- Voglio percorrere la tua strada.
Voglio percorrerla fino alla fine
Nella pioggia, nel vento, nel gelo
Fino al punto esatto in cui il terreno non dondolerà più
Avrò il tuo nome con me
Tra le mie labbra e nei miei occhi – la mano di Maringlen si posò delicatamente sopra quella stretta alla sbarra di padre Cliamon, il quale, dentro di sé, si disse di poter ricominciare a respirare.
 
 
 
 
   
 
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