Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: NanaK    22/10/2020    2 recensioni
Non c'era nulla di molto valoroso in lei, ma la storia non viene sempre raccontata dagli eroi.
Genere: Avventura, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo undicesimo 
 
 
L’umore non era dei migliori. Era stato dato loro un giorno libero ed il dormitorio si era svuotato ulteriormente, chi aveva potuto era andato a trovare la propria famiglia e amici.  
«Tra poco c’è la festa della quadriglia» mormorò Tallulah, appannando il vetro della finestra con il fiato. Lei l’aveva sempre festeggiata, a novembre inoltrato, era ottima per gli affari dei suoi nonni, in quelle occasioni vendevano litri e litri di vino, sia nel distretto, sia ai mercanti che lo portavano nelle zone interne per rivenderlo. Era una delle feste preferite da lei e da Sadie. Non le rispose nessuno e si voltò a guardare l’interno della stanza. Jean era disteso sul letto di Lydia, fissava il soffitto con le braccia dietro la testa, ben attento a non toccare la fasciatura intorno alla fronte. Connie era a terra, poggiato contro quello stesso letto, e giocherellava con i bordi consunti di una vecchia foto. A lui, era andata peggio di tutti; non osava immaginare come dovesse sentirsi sapendo che i propri familiari erano stati tramutati in giganti. I giganti erano esseri umani, ogni tanto si imponeva di ricordarselo. Quella nuova notizia faticava ad entrarle in testa, come se il suo cervello si rifiutasse di ammetterlo. Era stato proprio Connie a dir loro delle ipotesi di Hanje, con gli occhi lucidi ed i pugni stretti, ed in effetti questo chiariva la comparsa misteriosa dei giganti nelle mura intatte. Tallulah continuò la sua ispezione: Mikasa aveva la schiena contro la testiera della sua branda e sulle sue gambe distese c’erano le ciocche disordinate di Eren, ad occhi chiusi. Era cambiato qualcosa dopo gli ultimi avvenimenti, come se non riuscissero a starsi troppo lontani, molto più del solito. Le piaceva guardarli, erano dolci. Sasha si mangiava le unghie, stesa a pancia in giù, pensando a chissà cosa, e Historia era di fianco a lei con lo sguardo tetro e perso. Il suo cambiamento la sconcertava, Christa era morta e dovevano fare i conti con un’altra persona, quella che si era sempre nascosta dietro una facciata. Sospirò ed infine, Tallulah si soffermò su Armin, al suo fianco, che l’aveva seguita con lo sguardo fino a quel momento. Aveva gli occhi un po' gonfi, ma sembrava star bene. 
«Che facevate da bambini il 23 novembre?» ci riprovò ed Armin sorrise appena, come se si aspettasse che la ragazza non si sarebbe arresa.
«I vicini ci invitavano a cena» le rispose «Di solito mangiavamo sempre una torta alle carote». 
«Che buona...» sospirò Sasha «Noi non seguivamo mai le feste. Però nei mesi invernali accendevamo sempre il fuoco e mio padre ci raccontava delle storie» 
«Mia madre...» sussurrò Connie, con lo sguardo nel vuoto «Mia madre era sempre felice quando si trattava di festeggiare qualcosa. Si alzava all’alba per cucinare per tutti e preparava dei piccoli regali, erano molto semplici però- ecco, era sempre bello vederli sulla tavola».  
Tallulah aveva posato la testa sulla spalla di Armin, improvvisamente aveva bisogno di calore ed era sicura che anche per gli altri era lo stesso. Avrebbe voluto darne a tutti, ma stentava a farsi bastare quello dell’amico. 
«Ehi, Jean» lo chiamò Sasha ed il ragazzo la fissò «Come mai non sei andato dalla tua famiglia?».  
Jean sbuffò, infastidito e si voltò dall’altra parte, liquidandola con un cenno della mano. Sasha gli lanciò una linguaccia silenziosa e per un po' tutti tornarono tra i propri pensieri. Chissà se sentivano la mancanza degli altri, di Reiner, Berthold, Ymir. Annie. Lei sicuramente no. Sul campo di battaglia aveva desiderato che Eren ordinasse ai giganti di mangiare anche loro. Per qualche secondo, lo desiderò anche in quel momento, avere il potere di far esplodere il suo odio dappertutto e contro chiunque. I giganti sono esseri umani. No, non ci si sarebbe mai abituata. 
 
Due albe dopo, era già fuori, intenta a fare riscaldamento. I piedi di Levi si bloccarono prima che potesse palesare la sua presenza e si prese qualche minuto per osservarla da lontano. Saltellava sul posto, l’onda dei capelli si sollevava con lei per poi afflosciarsi nuovamente sulla fronte, e scuoteva il capo di tanto in tanto per scrollarsi di dosso gli occhi ancora un po' addormentati. Era stato frustrante ammettere che si era svegliato di buon umore davanti all’aspettativa di avere un paio d’ore solo con lei. E quel buon umore in quel frangente era davvero fuori luogo, lo sapeva: aveva aperto gli occhi, imprecato tra sé e si era affrettato ad alzarsi. La cosa più fastidiosa era come notasse tutti i suoi difetti, le orecchie un po' sporgenti, il naso non esattamente alla francese. E la smorfia che faceva quando era concentrata non era la cosa più carina del mondo. Eppure, gli pareva bella, forse l’unica cosa bella in quel mondo di merda. Sospirò e iniziò ad avanzare, gli stivali che sprofondavano nella terra bagnata con un leggero ciaf. Furono proprio quei fruscii a farle sollevare gli occhi, proprio mentre era a testa in giù ad allungare la schiena, e si tirò su di scatto.   
«Buongiorno Capitano».  
Levi borbottò un saluto, tentando di non soffermarsi troppo sul sorriso che ricevette.
«Hai ferite che devono ancora guarire?» le chiese. 
«Non proprio. Ogni tanto mi fa male il costato e ho qualche graffio sparso, ma niente di grave». 
«Bene. Cominciamo» disse Levi togliendosi il giaccone e stiracchiando i muscoli. Poi cominciò a correre senza una parola e Tallulah aprì la bocca stupita, per poi affrettarsi a seguirlo.   
«Cosa stiamo facendo?» gli domandò una volta recuperato terreno.  
«Secondo te?». 
Sorrise al suo grugnito e non disse più nulla, fin troppo felice di quella svolta: si sarebbe allenato con lei. Corsero per una ventina di minuti, aggirando il campo di allenamento e ascoltando la natura svegliarsi. Tallulah non si sentiva a disagio per il silenzio che stavano condividendo, anzi, si sentiva molto fortunata, come se Levi l’avesse fatta entrare in una sfera intima della sua quotidianità. Non era sicura di quanto quella vicinanza le avrebbe fatto bene, ma Levi era l’unica persona a cui avrebbe potuto fare quella richiesta. Si fidava di lui, era forte ed aveva esperienza su fin troppi campi di battaglia, perciò si era convinta a relegare il loro bacio nell’anfratto più oscuro della sua mente. Levi era il suo Capitano, solo il Capitano.
Fu molto diverso dalla precedente punizione: scoprì nell’uomo un insegnante severo ed esigente, ma paziente ed incredibilmente intuitivo. Riusciva ad accorgersi quando la ragazza stava arrivando al suo limite e quando invece poteva spingere ancora. Dopo un’ora di esercizi in cui aveva scoperto di avere muscoli in posti impensabili, le aveva finalmente permesso di indossare il dispositivo tridimensionale. Doveva simulare un attacco verso un gigante fantoccio, ma la sua performance sembrava non convincerlo mai.  
«Sei lenta. Rifallo». 
Tallulah ritornò a terra e si mordicchiò un labbro fissando il fantoccio di legno molte spanne sopra di lei. Prese un respiro profondo, piegò le ginocchia e ripartì. Si arpionò a due tronchi dal manichino e sfoderò le lame: Levi la seguì attentamente con lo sguardo e arricciò le labbra, insoddisfatto. 
«Ferma!» le gridò e le fece cenno di raggiungerlo. Tallulah obbedì e atterrò a pochi metri da lui con il fiato corto e una leggera frustrazione.  
«Non era nemmeno lontanamente accettabile» la rimbeccò e la ragazza abbassò gli occhi. L’uomo si prese qualche istante per riflettere: magari era una situazione poco realistica e non riusciva a prenderla sul serio. 
«Proviamo in un altro modo. Farò io il gigante» concluse e Tallulah non ebbe nemmeno il tempo di protestare che era già volato via. Lo guardò dal basso e sentì un’ansia crescente: non ce l’avrebbe mai fatta, tuttavia aveva poche scelte. Si rimise in posizione e si lanciò all’attacco con gli occhi puntati su di lui, immobile come se l’aspettasse. Gli era quasi addosso quando lui saltò sul ramo a sinistra, lento come poteva esserlo un vero gigante. Levi registrò la velocità con cui i riflessi della ragazza si aggiustarono in seguito al suo spostamento e un pensiero che aveva già avuto gli si presentò di nuovo. Anche nello scorso allenamento aveva avuto l’impressione che in qualche modo si trattenesse e ora ebbe la conferma che non ne era nemmeno consapevole. Nel complesso l’avrebbe valutata come mediocre, ma poi emergevano dei flash in cui l’istinto aveva il sopravvento, la velocità e la precisione aumentavano di colpo, per poi tornare ad appiattirsi. La fece nuovamente avvicinare finché non gli fu ad un paio di spanne; poi saltò, aggirandola e allungando le braccia per afferrarla. Tallulah sibilò stupita, voltandosi fulminea, ma invece di reagire barcollò all’indietro, mettendo male un piede e perdendo l’equilibrio. Levi la prese appena in tempo per la camicia e la ritirò su con un solo braccio. Tallulah ricambiò il suo sguardo intimorita: l’azzurro si era scurito e non era mai un buon segno.  
«Mi dispi-» 
«Perché ti trattieni?» le chiese, interrompendola bruscamente e rilasciando la presa sul tessuto.  
«Eh?» lo guardò confusa. 
«Avresti potuto evitarmi. Arpionarti da qualche parte, sfuggirmi» 
«Non ho fatto i-»
«Non dirmi cazzate»
«Non capisco, Capitano» rispose Tallulah, leggermente stizzita.  
«Ti ho studiata, sto capendo come ti muovi. Hai dei picchi in cui le tue capacità si affinano molto rispetto al tuo livello normale. Questo vuol dire che il tuo livello normale non corrisponde al tuo reale valore».   
«Non mi sembra di essere diversa» mormorò lei, distogliendo lo sguardo e portandolo verso la foresta. Levi non rispose e scrollò le spalle, cominciando a sganciarsi l’attrezzatura che cadde sul tronco con un tonfo. Il rumore attirò la sua attenzione e aggrottò le sopracciglia davanti al Capitano intento a spogliarsi di ogni dispositivo.  
«Cosa stai- EHI!» urlò lei.  
Non aveva perso tempo, appena fu completamente libero si lasciò cadere all’indietro. La mente di Tallulah andò in bianco: erano ad almeno 15 metri da terra. Le sue mani si mossero istantaneamente, azionò il suo dispositivo e si gettò nel vuoto. Riuscì ad afferrargli il braccio e si arpionò al tronco più vicino, stringendo i denti per lo sforzo.  
Qualche secondo dopo Levi alzò lo sguardo, lievemente ironico.
«Puoi anche lasciarmi adesso, mocciosa».
Tallulah guardò il terreno, poco distante da loro e lo mollò, improvvisamente furiosa, sganciandosi poi dal ramo.  
«Sei impazzito?!» gli chiese, il tono acuto e gli occhi spalancati come un gufo. Levi la osservò, indeciso se mostrarsi arrabbiato per l’insolenza o divertito per la sua espressione. «Per quale motivo lo hai fatto?» 
Alla fine, si mantenne impassibile, ignorando la facilità con cui era scivolata dal lei al tu «Come vedi avevo ragione».
Tallulah rimase a fissarlo, senza capire.  
«Come sei riuscita ad afferrare me, avresti potuto schivarmi prima. La velocità necessaria era la stessa, anzi, il margine era anche maggiore rispetto alla mia caduta». Levi si avvicinò di un passo «Quindi perché ti trattieni?» 
«Non mi trattengo» disse lei, immobile.  
«Di che hai paura?».  
Nessuna risposta. Onestamente era sempre più curioso: la smania di capire cosa avesse dentro diveniva più forte man mano che la osservava, ma sembrava avere un muro più duro dell’acciaio. 
«Dici di voler diventare più forte e poi fai di tutto per frenare le tue abilità»
«Non è così!» scosse la testa con vigore lei.  
«Sei una vigliacca» concluse e le voltò le spalle «Non alleno soldati vigliacchi». 
Le tremarono le labbra all’inflessione dura della sua voce e lo strattonò per un braccio. Non poteva sopportare quelle parole, non da lui.  
«Ho affrontato mille prove per arruolarmi e per entrare nella legione. Merito una possibilità»
«Sembra più che tu stia cercando di convincere te stessa». 
Le si serrò la gola e la presa sulla sua divisa si allentò. Come faceva a capire così bene ciò che provava? Era vero, era lei a non esserne convinta, nonostante i suoi tentativi di opporsi alla debolezza. Era davvero una vigliacca, una vigliacca che aveva lasciato Sadie a morire al posto suo.  
«Io- Io...»  
«Abbiamo finito» disse Levi nuovamente e tornò ad incamminarsi verso casa. Dei passi veloci lo superarono e lei gli si parò davanti, il volto contratto e la mascella serrata. Qualche giorno fa sarebbe rimasta zitta ed avrebbe aspettato che lui se ne andasse per calmarsi, distrarsi, magari pensare a qualcosa di bello, ma dopo ciò che era successo semplicemente non poteva più. Levi la guardò indifferente e stava per dirle di togliersi dai piedi, ma un pugno saettò sul suo viso colpendolo in pieno: gli si dipinse in volto un’espressione sconvolta, la maschera impassibile infranta. Serrò le labbra e le afferrò i polsi, ma Tallulah gli diede una testata sul naso piuttosto forte; nel giro di due nanosecondi furono a terra, Levi che tentava di immobilizzarla, irritato, lei che sembrava più un animale selvaggio.  
«Smettila, cazzo!»  
«Sono ancora una vigliacca?» gli chiese, gli occhi sbarrati e ardenti. Levi le aveva bloccato i polsi a terra e la fissò. Una goccia di sangue le macchiò una guancia e un’altra la fronte: doveva stargli colando dal naso, sentiva il liquido caldo sul bordo della bocca. Per qualche istante si specchiarono l’uno negli occhi dell’altro.  
«Perché ti sei arruolata?» ringhiò Levi praticamente sulla bocca di lei, che gli soffiava il respiro veloce addosso.  
«Per salvare delle vite» rispose lei a denti stretti.
«CAZZATE» le urlò in faccia e Tallulah serrò gli occhi, voltando il viso e imponendosi di non piangere. 
«Cosa importa?!» gli domandò e la voce le uscì più rauca del previsto.
«Hai paura che la mamma debba raccogliere le tue ossa?» storse le labbra in un sorriso inquietante che la ferì più delle sue parole.
«Smettila» sussurrò, ma più Levi la guardava più si convinceva che stava per cedere. 
«Te l’avevo detto che una come te non sarebbe dovuta entrare nel corpo di ricerca. Ti brucia tanto essere chiamata vigliacca perché sai di esserlo, vero? Chissà, magari da bambin-»
«No, smettila!!» esplose a quel punto, incapace di trattenersi oltre e tentò di dibattersi ancora, invano. «Tu non sai niente! Faccio tutto ciò che posso per-».
Tallulah storse la bocca in una smorfia di dolore, come se parlare ad alta voce le facesse male; nonostante ciò, Levi non aveva intenzione di tornare indietro. Doveva parlare.
«Per cosa?» la incalzò, modulando il tono di voce aggressivo.
«Per pagare il mio debito! Sadie è morta per salvarmi ed è a lei che ho legato la vita, più che alla legione!».
Levi rimase in silenzio ed improvvisamente intuì qualcosa. La liberò, lentamente, e si sollevò da lei; Tallulah strisciò via, sfregandosi la pelle arrossata dei polsi. Iniziava a sentirsi sopraffatta dalle emozioni: il cuore le batteva ad un ritmo irregolare e brividi freddi affiorarono sulla pelle sudata del collo.
«Tu...Tu vuoi morire» mormorò l’uomo, attonito. «Sarebbe tutto più chiaro. Le girovagate di notte, l’alcol. Le cinghie usurate prima della spedizione. Il voler partecipare alla missione senza essere completamente guarita. Riesci persino ad appiattire le tue abilità fisiche per metterti più a rischio». 
Però qualcosa continuava a sfuggirgli. Quando si era lasciato cadere dall’albero, non aveva esitato a salvarlo, era stata veloce, precisa e prudente: dov’era quindi la differenza? Tallulah ascoltava passivamente man mano che andava avanti, lo sguardo puntato su di lui, ma senza vederlo realmente, come se fosse un fantasma. Fu quell’espressione a distrarre Levi, che aggrottò le sopracciglia e vide che aveva cominciato a fare dei respiri lenti e veloci, quasi dei rantoli.
«Ohi» la chiamò e si avvicinò di alcuni passi, accorgendosi del colorito sbiancato. Il suo volto si fece mortalmente serio e si inginocchiò davanti a lei. 
«A-Armin» ansimò la ragazza e Levi le prese il viso tra le mani. 
«Tallulah» mormorò e lo sguardo spaesato di lei seguì il suo nome. La voce di Levi sembrò l’unico spiraglio di luce in mezzo a quel mare di pece e nausea in cui era sprofondata. Tentava di muoversi, ma si sentiva pesantissima, ogni muscolo era fatto d’acciaio ed era certa che sarebbe soffocata. 
«Tallulah» la chiamò di nuovo, più deciso stavolta «Respira più piano».
La ragazza fissò le labbra dell’uomo e tentò di imitare il ritmo del suo respiro. 
«Così. Seguimi, brava». La presa delle sue mani era salda, ma gentile. Ne percepiva il calore sulle guance. «Idiota, non devi la vita a nessuno, nemmeno alla legione».
La voce calda dell’uomo le arrivava ovattata, coperta da un fischio che aveva preso a ronzarle nelle orecchie. Non capì tutte le altre cose che disse, ma la sua voce le entrò dentro e si sentì al sicuro. Lentamente il nodo alla gola si sciolse e il battito cardiaco rallentò. Tallulah mise a fuoco il viso dell’uomo ed in quel momento una bolla le salì dallo stomaco fino su in gola, scoppiando in un singhiozzo. Poi, un altro e un altro ancora, fino a sfociare in un pianto dirotto. Le sue mani si sollevarono automaticamente cercando appiglio sulla sua camicia e lui non disse nulla, lasciò che nascondesse il viso sul suo petto, limitandosi a posarle il palmo tra i capelli e carezzarle la cute. Rimasero così per molti minuti fino a che il respiro di lei non fu tornato regolare e i brividi scomparsi. Si sentiva sfinita e vagamente imbarazzata man mano che tornava consapevole della realtà intorno a lei.  
«Ti sei calmata, mocciosa?». 
La sua voce spezzò il silenzio e il sangue le risalì sul volto: non sembrava arrabbiato e questo le diede un minimo di coraggio per sollevarsi dal suo petto.
«Scusami» disse rauca, pulendosi una guancia. La sua faccia doveva essere un disastro.
«Esattamente per cosa? Avermi quasi spaccato il naso, parlato come una marmocchia insolente o sbavato la divisa?». 
Il tono pesantemente ironico e l’occhiata luminosa con cui le parlò la colse di sorpresa e gli ultimi brandelli di ansia che aveva. Si ritrovò ad accennare un sorriso e
Levi la fissò, segretamente soddisfatto di vedere un po' di colore tornare sulle sue guance.
«Perché...mi guardi così?» gli chiese debolmente.
Levi si irrigidì lievemente «Così come?»
«Non lo so» disse, abbassando lo sguardo.
Come se stessi per sparire da un momento all’altro.
Levi preferì non indagare oltre, probabilmente la vera risposta non gli sarebbe piaciuta. Fu in quel momento che gli tornò in mente un particolare ed il suo sguardo si scurì: Tallulah se ne accorse subito.
«Cosa c’è?» gli chiese abbassando le mani e piegando la testa per seguire il suo volto ora sfuggente. Armin, aveva detto poco prima, quasi come una preghiera. Era lui che si prendeva cura di lei durante quegli attacchi di panico? Levi si rialzò, all’improvviso infastidito, ed ignorò la domanda. 
«Vai a riprendere il mio dispositivo. Direi che possiamo continuare domani» le ordinò, tornando nei limiti del suo ruolo. Tallulah lo guardò confusa, ma desistette dall’insistere.
«Quindi continueremo...?» domandò solamente, mordendosi l’interno della guancia.
«Sì, ma non da soli»
«In che senso?»
«Troppe domande, mocciosa» le rispose bruscamente e lei si chiuse la bocca, tirandosi su. Guardò brevemente l’orizzonte: il sole era sorto e si sentiva leggera come non le accadeva da tempo.  
 
 
«Dove sei stata?».
La voce di Mikasa la distrasse dalla sua tazza di caffè, cogliendola impreparata. 
«Che intendi?» fece finta di non capire, guardandosi poi attorno per verificare se qualcuno stesse ascoltando. 
«Stamattina non c’eri in camera»
«Ero in bagno. Lo sai che a volte faccio la doccia presto
«Non eri in bagno».
Tallulah arricciò le labbra, insoddisfatta. Ingannare Mikasa era impossibile.
«Mi allenavo» ammise, cercando di restare vaga. Non aveva mai parlato a nessuno di Levi, solo a Maria, durante una delle notti che avevano passato a sussurrarsi le rispettive vite. Una morsa nostalgica le contrasse la pancia e sospirò. La corvina la guardò di sottecchi, tornando poi alla sua colazione. 
«Vengo anch’io la prossima volta»
«Non ci pensare nemmeno. Devi stare a riposo, l’ha detto anche Eren». 
Le spalle di Mikasa si irrigidirono leggermente.
«Cosa c’entra Eren adesso?» rispose, sulla difensiva. Tallulah tergiversò qualche secondo, indecisa se essere diretta o meno. Optò per la prima.
«Eren con te c’entra sempre».
L’amica si voltò di scatto, fissandola. Non è nemmeno arrossita, notò la riccia con ammirazione. Lei sarebbe già diventata un fiasco di vino. Si avvicinò e abbassò la voce.
«Dimmi la verità, vi siete baciati?» le chiese, sperando in una risposta affermativa, ma Mikasa si alzò di scatto, facendola sobbalzare. Gli occhi degli altri si puntarono su di loro e Tallulah afferrò il braccio dell’amica per cercare di tirarla giù. 
«Aveva un crampo al sedere» sorrise goffamente. Sasha scoppiò a ridere e Connie di fronte a loro le fissò perplesso. Fortunatamente il diretto interessato era dall’altro capo del tavolo intento a parlottare con Armin e Jean e Mikasa tornò a sedersi, rigida come un manico di scopa. 
«Ti ammazzo» le disse, ma a dispetto dello sguardo fulminante Tallulah sorrideva. 
«Magari preferisci ammazzare Er-». 
Una gomitata nelle costole la fece tacere e la frase si concluse con una smorfia dolorante e divertita. 
«Buongiorno ragazzi». 
La voce di Hanje interruppe il gruppetto e l’atmosfera divenne tesa. 
«Questo pomeriggio è stata fissata una riunione a cui parteciperete anche voi. Il Comandante non si è ancora ripreso del tutt, ma ha le idee chiare su come procedere»
«Va bene Caposquadra Zoe» rispose Eren per tutti e non appena si fu allontanata guardò gli amici, pensieroso.
«Cosa mai vorranno dirci...» mormorò, pensieroso.
«Forse vorranno dettagli su questo tuo potere misterioso» biascicò Sasha a bocca piena ed il ragazzo fremette.
«Che dettagli posso dare. Ne so quanto tutti voi». 
Non avere il controllo su sé stesso e su ciò che lo circondava stava diventando un'abitudine e lo odiava. Era felice che quell'improvviso potere li avesse salvati, ma si sentiva più succube che fautore. Doveva riuscire a padroneggiarlo assolutamente. Doveva vincere.
«Dobbiamo avvisare Chr- Historia» si corresse Armin. 
«Stamattina non l’ho ancora vista...» rispose Tallulah guardandosi intorno. In quel momento si accorse che Levi era appena entrato e stava parlando fittamente con Hanje. Gli eventi di poche ore prima le tornarono tutti in mente e un calore piacevole si diffuse nel suo petto. Quell’uomo era davvero un mistero: riusciva a destabilizzarla nel peggiore dei modi, portarla all’inferno con una sola parola, e allo stesso tempo calmarla solo standole accanto. Poteva ancora sentire il suo profumo. Anzi, se si concentrava un attimo poteva benissimo ricordare il suo sapore. Le braccia che la circondavano, le labbra calde e ruvide, il suo respiro forte. Sentendosi osservato, Levi si voltò, ignorando la domanda di Hanje, ed incrociò lo sguardo languido della ragazza. Un brivido gli percorse la schiena e si maledisse mentalmente. Tallulah, non appena si rese conto di essere stata beccata, voltò la testa dalla parte opposta. 
«Allora?» lo incalzò la donna di fronte a lui, distraendolo.
«Allora la mia risposta rimane la stessa» rispose, avviandosi fuori dalla mensa prima di cedere all’impulso di prenderla per un braccio e trascinarla nella prima stanza vuota disponibile e-. 
«Beh, si dà il caso che io lo abbia già chiesto ad Erwin e lui mi abbia dato carta bianca» esclamò Hanje seguendolo. Un cipiglio stizzito gli solcò la fronte e, purtroppo o per fortuna, l’immagine che stava prendendo piede nella sua mente sfumò. 
«Come sarebbe a dire?»
«Che non c’è ragione per cui tu non possa prestarmi per qualche ora un membro della tua nuova squadra» 
«Non è pronta» sbottò ed Hanje sorrise, per nulla turbata dal tono iroso. 
«Suvvia brontolo, non la mangio mica» scherzò e a nulla servì l’occhiata letale di Levi. «E comunque la sottovaluti» aggiunse, tornando seria «So bene che la situazione è delicata, ma è la persona più adatta. È molto intuitiva».
«C’è Armin Arlert se ti serve un genio, no?»
«No che non mi serve un genio, ci sono già io!» sbuffò la donna «Tallulah riesce a capire le persone più che i fatti. E poi mi ha salvata dal gigante femminile».
L’uomo strinse le labbra a quella rivelazione. Tallulah aveva salvato lei? Una caposquadra? «Quando?»
«Durante la spedizione per catturare Annie Leonhart, nel distretto di Stohess». 
Levi tacque e ripensò all’ultimo incontro avuto con la ragazza: di nuovo quella sensazione che gli stesse sfuggendo qualcosa. Come diavolo funzionava quella mocciosa?!
«Va bene, portala con te» disse infine «Ma se le succede qualcosa ti ammazzo, quattr’occhi».
La donna si bloccò in mezzo al corridoio e fissò la schiena del soldato che continuò invece ad avanzare, ignorandola. Hanje non ci poteva credere: Levi aveva appena ammesso quanto tenesse a lei. 
 
 
 
Qualcosa gli strusciava contro la coscia; mosse la gamba e, ancora troppo immerso nel sonno, girò la testa a sinistra. Per qualche istante tornò l’immobilità.
Di nuovo un fruscio, più deciso stavolta, che lo strappò quasi del tutto dal torpore. Corrugò la fronte e sollevò le coperte in uno scatto deciso, il corpo già teso ad affrontare qualsiasi pericolo. A quello sarebbe stato pronto. Anzi, forse l’avrebbe addirittura preferito alla testa che fece capolino dal lenzuolo.  
«Cosa caz-» 
«Buongiorno...». 
Tallulah lo guardò e tese le labbra in un sorriso malizioso che gli fece venire i brividi, soprattutto vedendolo tra le sue gambe.  
«Che cazzo ti salta in testa, esci subito» tentò di usare il tono più perentorio di cui disponeva, ma sembrò più una protesta roca e biasciata, troppo distratta dalle mani pericolosamente vicine al suo cazzo.  
«Non voglio più a rispettare i tuoi ordini» sussurrò in tono dispiaciuto e abbassò la testa, posando le labbra sul suo interno coscia. «Penso sempre a te, Levi»
La risposta seccata gli si bloccò in gola e lei approfittò del suo sconcerto per toccarlo, accarezzando la sua intimità sopra il tessuto della biancheria. Levi lottò per rimanere lucido e si obbligò ad afferrarla e tirarla su. 
«Giuro che stavolta una notte in cella non te l-».
Una bocca calda e morbida soffocò la sua frase e Levi ingoiò un gemito, più di sofferenza che di piacere. Gli faceva male fisico doversi strappare di dosso tutto quel calore. La allontanò da sé e capovolse la situazione premendola contro il materasso, almeno poteva tenerla ferma. La ragazza lo guardò, piena di desiderio, scarmigliata e con le labbra gonfie, e Levi capì che era una battaglia persa. 
 
Di colpo spalancò gli occhi, accaldato e infastidito. Si tirò su, guardandosi attorno, constatando di essere nella sua stanza, solo, e con un bel problema da risolvere sotto le lenzuola. Ricadde sul cuscino con un sibilo frustrato. 
Maledetta mocciosa. 
 
«Che ne pensi?».
Hanje la fissava, aspettando una sua risposta. Si erano trattenute nel suo ufficio dopo la riunione con gli altri, densa di decisioni importanti e strade future.
«Sta chiedendo la mia opinione?» chiese Tallulah perplessa, ancora assorbendo le informazioni che aveva appena ricevuto.
«Sì. Non è un ordine, è una richiesta. Ricordi che ti avevo detto quanto mi sarebbe piaciuto averti nella mia squadra? Beh, quel nanetto malefico di Levi mi ha battuta sul tempo, ma ci siamo accordati e puoi unirti a noi se deciderai di aiutarmi. Si tratta solo di un paio di giorni»
«Ma non capisco. Che utilità potrei avere?».
Hanje si fece d’un tratto seria e si abbassò, avvicinando il volto al suo e posandole una mano sulla spalla. «Mai. Mai sminuire te stessa»
Tallulah arrossì, sentendosi in imbarazzo «Sì, signora»
«Signora?!» esclamò con orrore, tirandosi indietro «E chi sono, mia madre? Chiamami Hanje e questo è un ordine»
La ragazza scoppiò a ridere «Va bene, Hanje. Verrò».
 
 
La notizia che il Caporale Levi avesse formato una nuova squadra si diffuse rapidamente in tutta l’armata ricognitiva e non si parlava d’altro che di loro. Ecco cosa intendeva quando le aveva detto non da soli; i giorni successivi iniziarono un nuovo addestramento, studiato su misura per ognuno di loro e centrato sulla collaborazione e attacchi di gruppo. Tallulah era gelosa: lo era quando il soldato esortava Connie a dare di più, quando correggeva la postura di Historia e quando mandava Eren a fare un lavoro per lui. Lo era quando osservava Mikasa e la linea delle sue labbra si arcuava, soddisfatta. Lo era ancora di più perché lei invece veniva deliberatamente ignorata ed era sicura che non fosse solo una sua impressione. Continuava a ripetersi è il Capitano. È solo il Capitano. Poi però lo guardava mostrare le sue mosse o leggere in cortile ed il cuore prendeva a batterle furiosamente senza che lei potesse farci nulla. 
«Vedrai che ti farà bene» disse, mentre scendeva le scale assieme a Jean. L’aveva trovato nella sala comune intento a guardare fuori e dopo parecchie domande ne aveva capito il motivo: erano parecchie notti che non riusciva a dormire e non essendoci abituato la cosa lo distruggeva durante il giorno. Jean non sapeva nemmeno come si fosse trovato a seguirla; gli aveva parlato con tanta sollecitudine che per un momento gli era sembrata sua madre, quando da bambino aveva la febbre e cercava di convincerlo a prendere le medicine. Una volta in cucina la guardò rovistare in una delle credenze della cucina e mettere a bollire dell'’acqua. 
«Tu perché sei sveglia?» le chiese, sedendosi sulla panca più vicina.
«Dovevo fare pipì» rise piano davanti alla smorfia schifata del ragazzo e tirò fuori due tazze; mentre le ordinava una di fianco all’altra, l’idea di portarne una a Levi divenne incredibilmente allettante. Chissà quale tipo preferisce...
«Senti... Ti devo delle scuse».
La voce di Jean la distrasse e sospirò «Ultimamente non facciamo che scusarci»
«L’ultima volta tu ed Armin avete rischiato la vita per colpa mia»
Tallulah abbassò lo sguardo mesto «Se Armin non si fosse precipitato da te, non mi sarei fermata. È lui quello coraggioso e buono»
Jean la fissò senza espressione «Nemmeno io l’avrei fatto. Probabilmente ci somigliamo più di quanto pensiamo: alla fine siamo entrambi qui, nonostante la paura».
Tallulah osservò l’acqua bollente colorarsi di verde.
«Chissà come sarebbe la vita, fuori di qui».
Nei minuti successivi rimasero in silenzio e Tallulah riempì fino all’orlo tre tazze fumanti. Stava per sollevare il piccolo vassoio su cui le aveva poste quando una voce dietro di lei la bloccò. 
«Ciao! Che ci fate ancora in piedi?». 
Jean si alzò di scatto.
«Buonasera», disse Tallulah, sperando di apparire normale «Sì, ecco, volevamo un thè ed ero... Insomma, siamo scesi a prepararlo»
«Tranquilli, non c’è bisogno di agitarsi tanto. Puoi sederti... Jim?»
«Jean, Caposquadra Zoe, Jean Kirschstein».
La donna si sporse appena e occhieggiò le tre tazze sul bancone.
«Volevi portarlo a qualcuno?». 
Gli occhi di tutti saettarono sulla terza tazza e Tallulah scosse la testa fin troppo veloce per risultare convincente. «No! Sasha sta male, praticamente è in bagno da ore, un thè sicuramente la aiuta».
Jean aggrottò le sopracciglia, cercando di capire cosa diavolo stesse succedendo: perché Tallulah stava mentendo? Hanje ridacchiò e si avvicinò, sedendosi accanto al ragazzo.  
«Non preoccuparti cara, ho la bocca più chiusa di un lucchetto» disse, strizzandole l’occhio. Tallulah stava per protestare quando venne nuovamente interrotta da rumori in corridoio. Ci fu il tonfo di una porta richiusa, dei passi e poco dopo, il viso stanco del Capitano apparve nella stanza. 
«Levi! Dove sei stato?» gli chiese immediatamente Hanje, sollevando le sopracciglia. L’uomo squadrò per qualche secondo la scena di fronte a lui con sguardo truce. 
«Vi sembra l’ora di fare un fottuto festino?» 
Il povero Jean si alzò nuovamente «M-Mi scusi Capitano. Siamo scesi-»
«Non si sentiva bene e l’ho accompagnato per fargli un thè» lo interruppe Tallulah e Levi le piantò gli occhi addosso. Hanje alternò lo sguardo tra i due come se fossero l’opera più interessante al mondo. 
«Levi, smettila di spaventare i ragazzi. È notte, lasciali in pace». 
Lo conosceva bene, Hanje, e sapeva calcare la mano nei punti giusti. Non spaventare i ragazzi, la prima distinzione tra lui e loro, due mondi lontani e intoccabili. È notte, e Levi lo sapeva cosa potevano fare di notte due ragazzi, da soli.  
«Anche le loro notti mi riguardano se durante il giorno non danno il massimo»
«Ha ragione Capitano, andiamo subito a dormire». Jean afferrò Tallulah per un braccio e la tirò verso di sé per esortarla a seguirlo, dimenticandosi del vassoio. 
Levi saettò con il occhi su quella presa e dovette imporsi di non muoversi.
«Sa camminare» gli sfuggì, tuttavia, in tono minaccioso. Hanje era a tanto così dallo squittire, estasiata.
«V-veramente» esclamò Tallulah, sempre più a disagio «Vorrei finire prima il mio thè, Capitano. Servirebbe anche a Jean per riposare meglio. E ne avevo preparato una tazza anche per lei». 
A quel punto era inutile continuare a trovare scuse.
«No, grazie» le rispose, secco. «Bevete questo maledetto thè e filate a letto».
Solo quando fu nel buio della sua stanza Levi si concesse di rilassare i muscoli della schiena. Si spogliò in fretta e lanciò in malo modo i vestiti sulla poltrona, per poi sedervisi sopra; si passò le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi per qualche secondo. Stava diventando una tortura ignorarla. No, fare finta di ignorarla, perché in realtà sapeva sempre dove fosse e con chi. Era sempre con qualcuno, sempre a parlare, parlare, parlare. Sentiva il desiderio di ascoltarla, voleva che parlasse a lui, voleva essere lui a farla ridere, lui a far passare il suo dolore. Era geloso dei suoi sguardi, dei suoi tocchi e dei suoi sorrisi.
Ma non osava.
Non osava avvicinarsi, affezionarsi. Se l’avesse ridotta a qualcuno che lui potesse amare liberamente, temeva che non le sarebbe rimasto nulla di buono.
Lui, sulle persone, aveva questo effetto.

 
   
 
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