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Autore: Soul of Paper    25/10/2020    5 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nessun Alibi


Capitolo 47 - La Dignità


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Dottoressa, come lo giustifica quel bacio?”


“E lei, maresciallo? Già aveva una relazione con la dottoressa Tataranni, non pensa di stare non solo disonorando la divisa che porta ma anche violando le norme più basilari di condotta sul luogo di lavoro?”

 

“Per favore, silenzio! Avrete tutto il tempo per le domande, prima permettete alla dottoressa e al maresciallo di chiarire quanto successo senza continue interruzioni!”

 

Mancini era intervenuto, deciso, mentre erano sepolti dalle grida dei giornalisti.


Guardò verso Irene e lei gli fece un cenno del capo che era un parlo io! ed iniziò a spiegare.

 

“Il maresciallo ed io eravamo a Milano per motivi di lavoro e, quando sono state scattate quelle foto, stavamo facendo un appostamento. La persona che seguivamo ci ha notati e ho preso l’iniziativa di baciare il maresciallo, per fingere di essere una normale coppia in giro per la città. Purtroppo però un fotografo evidentemente ci stava pedinando e, con la pubblicazione di queste foto, rischia di compromettere un’indagine ed un’operazione di polizia e-”

 

“E da quando i magistrati fanno gli appostamenti?” intervenne un giornalista, con chiaro sarcasmo.


“Da quando non possiamo mandare mezza procura in trasferta e si cerca di tutelare il più possibile la riservatezza su casi particolarmente delicati. Peraltro chi mi conosce sa che ho fatto l’addestramento da carabiniere prima di decidere di entrare in magistratura, quindi sono più che qualificata per farlo.”

 

“E quindi il corso da carabinieri insegna a baciarsi con i colleghi in caso di appostamenti?” chiese una donna sulla quarantina, un’espressione scettica assurdamente simile a quella di Imma.

 

“No, ma insegna a ragionare in fretta e questa era l’unica soluzione praticabile in quell’occasione. Si hanno pochi attimi per decidere il da farsi e non potevamo certo immaginare che si sarebbe scatenato tutto questo putiferio per un bacio, peraltro finto, durante un’operazione di servizio.”

 

“Ed era un’operazione di servizio o un appostamento pure quello alla Scala di Milano? Sono appena uscite foto vostre anche lì.”

 

Calogiuri sudò freddo mentre Mancini lanciò un’occhiataccia sia a lui che a lei.

 

“No, eravamo due colleghi in trasferta - e, in quel momento, fuori servizio - che vanno a vedersi un’opera a teatro, in amicizia. Alla Scala ci vado da quando ero bambina e volevo far vivere questa esperienza ad un amico, per una volta che eravamo nella mia città natale. Non vedo cosa ci sia di male.”

 

Irene era asciutta, decisa, in apparenza imperturbabile.

 

Era una cosa che le invidiava moltissimo, questo sangue freddo incredibile non solo nell’azione ma anche sotto un fuoco di fila di domande.

 

“Ed avrebbe pagato lei o il collega? Perché la Scala con lo stipendio di un maresciallo dei carabinieri….” intervenne il primo giornalista, dispregiativo ed insinuante.

 

“A parte che è di pessimo gusto fare i conti in tasca a me o al maresciallo, e che non capisco a cosa possa servire, se abbiamo speso soldi nostri e non pubblici, ma questa domanda denota soltanto il sessismo di chi la fa. Se io fossi stato un magistrato uomo, più grande d’età, e quindi con mezzi maggiori rispetto ad un maresciallo donna, qualcuno mi avrebbe mai chiesto una cosa simile? O sarebbe sembrato strano il contrario?”

 

L’ometto rimase un attimo interdetto, ma la soddisfazione ed il sollievo che provò morirono rapidamente quando la giornalista lo chiamò “maresciallo!” e poi con la delicatezza tipica della categoria professionale, gli domandò a bruciapelo, “come pensa di fare con la dottoressa Tataranni, che immaginiamo non sia felice delle immagini che sono uscite? Che ne pensa la dottoressa Tataranni di questo triangolo in procura? Anche in vista del maxiprocesso, che ricomincerà a breve.”

 

Irene lo guardò e pure Mancini gli lanciò un’altra occhiataccia. Vide che il procuratore capo stava per intervenire per togliergli le castagne dal fuoco, ma proprio questo lo fece decidere a parlare.

 

“Non posso parlare a nome della dottoressa Tataranni ma posso dire che non c’è proprio nessun triangolo e che né io né la dottoressa ci faremmo mai influenzare da vicende private sul lavoro. Ovviamente, né io né la dottoressa possiamo essere felici degli articoli che sono usciti, visti i titoli ed il clima quasi persecutorio nei nostri confronti negli ultimi mesi, con giornalisti in agguato ovunque, rischiando di compromettere seriamente il nostro lavoro, al di là della nostra vita privata. Ma la dottoressa mi conosce e spero sappia che non la tradirei mai, in nessun senso del termine, anche perché è l’unica donna che io abbia mai amato davvero e per me nessun’altra è e sarà mai paragonabile a lei.”

 

Sperava che Imma lo stesse vedendo e che capisse il messaggio. Un paio di giornaliste presenti sembrarono addolcire gli sguardi alla dichiarazione. Quella che aveva fatto la domanda, invece, parve ancora più scettica. Si voltò verso Irene, che però sembrava sempre non scomporsi minimamente, Mancini, al contrario, pareva a disagio.

 

“Dottor Mancini, che provvedimenti pensa di prendere nei confronti di questi… legami poco appropriati tra suoi sottoposti?” gli chiese il primo giornalista, palesemente per nulla convinto dal suo proclama di amore per Imma.

 

“Nessun provvedimento disciplinare mi pare necessario. La dottoressa Tataranni ed il maresciallo Calogiuri, che sono gli unici ad avere una relazione… extralavorativa… già da mesi collaborano insieme solo al maxiprocesso, che non fa comunque più capo alla dottoressa Tataranni. Per il resto gestiscono casi separati, proprio per evitare possibili spiacevoli fraintendimenti o dubbi etici, che comunque non dovrebbero sussistere. Tra la dottoressa Ferrari ed il maresciallo c’è semplicemente un’ottima intesa professionale, che ci sta consentendo di raggiungere risultati importanti. Inoltre conosco la dottoressa Ferrari da molti anni e, oltre al suo curriculum, che è sotto gli occhi di tutti, so bene quanto non abbia paura di entrare in azione quando serve. Ed è uno dei suoi punti di forza che le ha permesso di diventare la professionista che è. Quindi la sua iniziativa a Milano non mi sorprende affatto. Ci sono altre domande?”

 

I giornalisti sembravano un poco intimoriti dalla presenza di Mancini e dalla sua decisione. Calogiuri si chiese se sarebbe mai stato in grado di avere un’autorevolezza anche solo paragonabile.

 

A volte nei confronti del procuratore capo si sentiva veramente piccolo, ignorante ed insignificante.

 

Forse era anche per questo che lo infastidiva così tanto con i suoi atteggiamenti verso Imma.

 

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Ma la dottoressa mi conosce e spero sappia che non la tradirei mai, in nessun senso del termine, anche perché è l’unica donna che io abbia mai amato davvero e per me nessun’altra è e sarà mai paragonabile a lei.

 

Una fitta al petto, inevitabile. Forse per quelle parole, forse per il modo deciso in cui erano state pronunciate - da uno timido e riservato come Calogiuri, poi! - forse perché, per fortuna, non aveva dato ai giornalisti la soddisfazione di sapere quanto lei fosse stata ferita da quello che era successo.

 

Ma lo restava, ferita, profondamente.

 

Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva le immagini di quel bacio, vero o finto che fosse, e mo si immaginava pure Calogiuri a terra con la gattamorta spalmata sopra, nuda.

 

La fitta questa volta fu di rabbia e gelosia.


Spense la tv di scatto, che tanto Mancini, col suo solito savoir-faire, aveva azzittito i giornalisti.

 

Menomale che almeno su di lui poteva sempre contare.

 

Ma, purtroppo per lei, era di un altro che era innamorata, era un altro che le faceva sanguinare il cuore come mai prima, anche se era tanto più giovane e a volte lo sembrava ancora di più, con quella sua maledetta e benedetta ingenuità.

 

Che però, in certi casi, le pareva quasi un alibi. Come con la gattamorta ed i suoi avvicinamenti, che persino un bambino li avrebbe capiti.

 

Si era, per la prima volta, chiesta se Calogiuri ci era o ci faceva.

 

In ogni caso Calogiuri si doveva svegliare o… o la loro storia non poteva avere un futuro: non poteva passare la vita a guardarsi le spalle da altre donne, a dover ingoiare l’orgoglio di fronte alle espressioni, alle parole e ai gesti di gente come la cara Irene. A subirne le umiliazioni.

 

Calogiuri avrebbe dovuto imparare la lezione o… o lei avrebbe dovuto imparare a vivere senza di lui, anche se le faceva male.

 

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“Come mai il borsone?”

 

“Chiederò a Mariani di accompagnarmi in caserma.”

 

Irene lo guardò con un sopracciglio alzato: non era una risposta e lo sapeva, ma c’era anche Mancini, che non sembrava affatto dispiaciuto alla notizia, e non voleva divulgare più del necessario i fatti suoi e di Imma.

 

Anche perché sperava davvero di poter presto tornare a casa. L’alternativa gli faceva troppo male anche solo a pensarla.

 

“Stia attento con Mariani: non dovete far notare che lei pernotta in caserma, perché questo solleverebbe ulteriori dubbi sul rapporto tra lei e la dottoressa Tataranni e che vi siate lasciati. Vanificando la conferenza stampa.”

 

“Purtroppo per lei non ci siamo lasciati, dottore,” non riuscì a trattenersi dal ribattere, perché Mancini, dietro l’aria dispiaciuta, aveva un’espressione che pareva un mezzo sorriso, forse inconscio, ma che gli dava tremendamente sui nervi, “ma volevo lasciare ad Imma i suoi spazi, mentre le dimostrerò la mia buonafede.”

 

Mancini lo guardò come se fosse un insetto fastidioso, poi scosse il capo e disse alla Ferrari, “Irene, vieni nel mio ufficio? Dobbiamo finire di sistemare le ultime cose.”

 

Irene annuì e, dopo avergli lanciato un ultimo sguardo che gli parve preoccupato, seguì il  procuratore capo.

 

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Sono in caserma. Dormirò qui. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, il telefono è sempre acceso.

 

Premette il pulsante di invio e si rese conto che quello di lei, invece, doveva essere ancora staccato.

 

Il messaggio non era stato nemmeno ricevuto.

 

O l’aveva bloccato, come quella volta che era venuta a cercarlo a Roma e aveva pensato che lui convivesse con una donna che aveva una figlia.

 

Almeno stavolta lo aveva lasciato spiegare ma… ma non era bastato e adesso doveva capire come fare a farsi perdonare e, soprattutto, a rassicurarla su di lui ed Irene e sul fatto che, da quel momento in poi, avrebbe mantenuto sempre le distanze di sicurezza.

 

Con lei e con tutte le altre.

 

Il suono di qualcuno che bussava alla porta, forte e deciso, interruppe i suoi pensieri.

 

Chiedendosi se Mariani si fosse dimenticata di qualcosa, andò ad aprire e si trovò di fronte Conti.

 

“Ciao! Mariani ti ha detto che dormo qu-?”

 

La parola ed il fiato gli si tranciarono, trovandosi violentemente spinto all’indietro.

 

Due impatti: la schiena contro il muro ed una botta tremenda alla guancia, la testa che gli finiva all’indietro, picchiando sulla parete, il cervello che sembrava rimbombargli nel cranio.

 

“Sei un bastardo!” si sentì urlare addosso, mentre veniva quasi sollevato per la camicia, “lo sapevi cosa provo per lei! E te ne sei fregato! Una PM non ti bastava, eh?!”

 

Nonostante fosse ancora sotto shock - come aveva fatto a non prevedere la reazione di Conti? La verità era che, preso da tutto quello che era successo, non ci aveva nemmeno pensato - cercò perlomeno di trattenere le braccia dell’amico, onde evitarsi altri colpi.

 

“Ma non hai visto la conferenza stampa? Tra me e la Ferrari non è successo niente e-”

 

“E non me ne frega niente della scusa ufficiale che vi siete inventati con Mancini! Come se non lo avessi visto come ti guarda! E pure alla Scala ti ha portato, e a cena fuori, e chissà che altro, quando non vi vedeva nessuno! Quello che conta sono i fatti!”

 

“L’unico fatto è che non ho tradito nessuno: né Imma, né te. Non lo farei mai e, se davvero pensi questo di me, allora non mi conosci per niente!” ribatté, riuscendo finalmente a liberarsi dalla sua presa.

 

“Forse sarebbe stato meglio non conoscerti proprio. Stammi alla larga!” intimò Conti, con un’occhiata di disprezzo che gli fece malissimo.
 

Con un boato, la porta si richiuse alle sue spalle.

 

Fece in tempo ad andare allo specchio e vedersi la guancia, rossa su tutto lo zigomo, in quello che si preannunciava come un livido grosso veramente, quando ribussarono alla porta.

 

Temendo di beccarsi il bis di botte, aprì, un po’ esitante, ma si trovò di fronte Mariani, che spalancò gli occhi e la bocca in un modo che la faceva sembrare un pesce.

 

“Ma che hai fatto? Ho sentito le urla, mi sono preoccupata! Ma ti fa male?” gli chiese, in sequenza rapidissima, quasi peggio della signora Diana con Imma, facendolo indietreggiare e chiudendo la porta alle loro spalle.


“Beh… diciamo che non mi fa bene….” rispose, non sapendo che altro dire.

 

“Ma è stato Conti, vero?”

 

Non disse nulla: non voleva metterlo nei guai.


“E dai, Calogiuri, l’ho visto che usciva da qua e vi ho sentiti! Si può sapere che avete combinato?”

 

Si lasciò cadere seduto sul divano, la testa che ancora gli rimbombava, la guancia che pulsava. Chiuse gli occhi per cercare di arginare il male.

 

“Mi odi pure tu?” le domandò, sforzandosi di alzare lo sguardo verso di lei.

 

Per tutta risposta, Mariani si sedette accanto a lui e scosse il capo, sospirando, “ma no che non ti odio! E poi ti conosco: sei un po’ troppo ingenuo ma… se avessi voluto, con la Ferrari avresti potuto averci una storia mesi e mesi fa, con tutte le volte che siete usciti insieme. Ma devi capire Conti: non è facile vedere la persona di cui sei innamorato con un altro, anche se non hai speranza.”

 

“Lo… lo so bene,” sospirò e si sentì trascinare in un mezzo abbraccio, mentre cercava di tenere la testa sollevata il più possibile.

 

“Forse è meglio se non stai troppo nella mia camera, non che si inventino qualcos’altro!” le disse poi, staccandosi da lei.


“Sì, ci manca solo quello! Dai, vado a prenderti un po’ di ghiaccio. Dovrebbe esserci quello secco in infermeria.”

 

Si mise disteso sul letto, la testa che un poco gli girava, quando gli arrivò il suono del suo cellulare, che gli pareva ancora più fastidioso del solito.

 

Si precipitò ad afferrarlo, sperando fosse Imma.

 

Ma no, non era lei. E qualcosa gli diceva che il suo mal di testa sarebbe solo peggiorato.

 

“Ma sei scemo?! Che stai combinando?! Ringrazia che non posso venire lì a prenderti per le ‘recchie di persona!”

 

“Rosa….” sospirò, anche se si sarebbe stupito di una reazione diversa da lei, “non hai visto la conferenza stampa? Non è come-”

 

“Non me ne frega niente della conferenza stampa! Che devo chiamare il tuo agente mo, per parlare con mio fratello? Che devo venire a scoprire le cose da internet?”

 

“No, no, ma non c’è stato il tempo di avvisarti e-”

 

“Il tempo per sbaciucchiarti quella snob con la puzza sotto il naso, che fa la gattamorta, però lo hai trovato, mi pare! Un’altra come Imma tu non la trovi più - e no, non sarebbe una benedizione, come direbbe mammà!

 

“Lo so, lo so, ma-”

 

“C’è mezzo paese che parla di te! Mi hanno mandato messaggi pure le mie compagne delle superiori che non vedevo da una vita. C’è mamma imbufalita per la vergogna e Noemi mi ha appena chiesto cos’è un ciangolo, a furia di sentirglielo ripetere!”

 

“Rosa, non c’è nessun triangolo, veramente: è stato solo un bacio finto. Io amo solo Imma e voglio solo Imma.”


“Eh, tanti auguri! Come l’ha presa? Sarà furiosa mo, conoscendola.”

 

“E va beh… diciamo che-”

 

“Ecco il ghiaccio!”

 

Mariani era rientrata, rapidissima, con in mano la confezione del ghiaccio secco. Si bloccò vedendolo al telefono.

 

“Grazie, Chiara, lascialo pure qua, poi ci penso io.”

 

La vide mimare con la bocca, “è Imma?” ma scosse il capo e rispose, “mia sorella.”

 

“Allora vi lascio, fammi sapere se hai bisogno,” si congedò, chiudendo nuovamente la porta alle sue spalle.

 

“E questa chi sarebbe mo? Non mi pare né la voce di Imma, né quella della Regina Elisabetta dei poveri.”

 

“Una mia collega. Sono in caserma, almeno per stanotte.”

 

“E allora ho capito come l’ha presa Imma! E il ghiaccio per che cos’è? Se ti ha mollato un ceffone ha fatto solo bene!”

 

“Rosa!” esclamò, anche se da un lato gli veniva da sorridere per tutta quella solidarietà femminile. E che Rosa si fosse affezionata tanto ad Imma gli faceva un piacere immenso, nonostante tutto.

 

“Beh, è vero! E se non ti fai perdonare da Imma e soprattutto se osi metterti con quella specie di ciao povery! Noemi ed io non ti parliamo più, altro che mammà! Chiaro?”

 

Al di là dell’ironia, c’era una minaccia reale e non troppo velata.

 

“E ti devi svegliare e capire quando una ci sta a provare con te, che quella ci sta a provare e non da mo, se non lo hai ancora capito! Che come minimo non vedeva l’ora di avere la scusa buona per attaccarsi a te come un polipo!”

 

“Rosa!” ripeté e non riuscì a non ridere: gli sembrava di sentire Imma.

 

Certo, quando non era incazzata con lui come ora.

 

“E non ridere!”

 

“E dai, come faccio? Ma ti garantisco che con Irene ho già messo tutti i paletti e le distanze di sicurezza. E farò di tutto per farmi perdonare da Imma. Quando avremo fatto pace, voglio rivedervi a te e alla piccoletta, assolutamente!”

 

“Me lo auguro!”

 

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Si svegliò di scatto.

 

Guardò l’orologio ed erano le otto.

 

Chi poteva essere a quell’ora?

 

Si era addormentata alle quattro del mattino. Una fitta di mal di testa la fece traballare per qualche secondo.

 

Si era quasi disabituata all’insonnia e alle emicranie… ma ora… le avrebbero probabilmente fatto compagnia per un po’.

 

E, di nuovo, un’altra scampanellata.

 

“Chi è?” chiese, da un lato sperando e dall’altro temendo che fosse Calogiuri.

 

Ma aveva le chiavi, perché scampanellare in quel modo?

 

“Tua figlia.”

 

Il tono di Valentina le causò un qualcosa nello stomaco: le ricordava la Valentina adolescente e sarcastica, ma c’era un nonsoché di diverso.

 

“Che ci fai qua a quest’ora?”

 

“Ti ho portato la colazione.”

 

“Ti avevo detto che non volevo vedere nessuno,” le rispose, con un sospiro, e fu in quel momento che capì perché il tutto era familiare ma diverso al tempo stesso.

 

Le ricordava Valentina chiusa in camera sua, dopo una delle sue crisi adolescenziali, e lei che le bussava alla camera per farsi aprire. Valentina le chiedeva sempre “chi è?”, pure se lo sapeva benissimo, da come bussava, in modo molto diverso da quello pacato di Pietro. E lei le rispondeva, invariabilmente, “tua madre!”, che irritata era dire poco.

 

Solo che ora le parti si erano invertite.

 

“Ieri era ieri, oggi è un altro giorno e non puoi stare rinchiusa qua da sola.”

 

Aprì la porta, si trovò davanti Valentina con un sacchetto di carta in mano e se la strinse fortissima in un abbraccio.

 

“E meno male che non volevi vedere nessuno! Ancora un po’ mi soffochi!” esclamò, Valentina, una volta che si fu sciolto l’abbraccio, ma le sorrideva.

 

“Vieni, dai, ti faccio un caffèlatte,” si offrì, prendendole il sacchetto di mano ed avviandosi alla cucina.

 

“Hai un aspetto terribile!”

 

“Grazie, le botte di autostima che mi dai tu, Valentì, nessuno!” replicò, anche se sapeva che aveva ragione.

 

Fecero colazione in silenzio, mentre Imma si sforzava di inghiottire la brioche alla crema, nonostante la nausea da troppe ore a digiuno.

 

“Dov’è lui?” chiese infine Valentina, dopo aver bevuto pure l’ultimo sorso.

 

Non serviva certo chiedere di chi stesse parlando.

 

“Non lo so… ieri sera gli ho detto che qua non ce lo volevo. Non so stanotte dove è stato.”

 

“Ma non ti ha neanche mandato un messaggio?” chiese Valentina, tra l’arrabbiato e il stupito.

 

“Il cellulare!” si ricordò improvvisamente, correndo verso la stanza da letto.

 

Lo aveva spento e poi si era scordata di riaccenderlo, non era da lei. Sperava solo non fosse successo niente di grave nel frattempo e, soprattutto, di non trovarlo intasato di messaggi e chiamate.

 

Se la speranza è l’ultima a morire, questa defunse prestissimo, perché il cellulare prese a trillare e vibrare manco fosse posseduto.


Tanto che si bloccava di continuo. Tra un congelamento e l’altro, intravide i nomi di Diana, di Pietro e pure di lui.

 

Come la cacofonia vibrante si stoppò, sbloccò il telefono, aprì il programma di messaggistica istantanea e fece scorrere una sfilza di numeri e nomi con messaggi da leggere.

 

Ma in quel momento ce n’era solo uno che la interessava, anche se il solo pensare a lui la faceva arrabbiare.

 

Sono in caserma. Dormirò qui. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, il telefono è sempre acceso.

 

Almeno era lontano dalle gattemorte e da tutto il casino coi giornalisti. Ma tutta la procura, a breve, avrebbe sicuramente saputo che lui non aveva dormito a casa e che erano in crisi. E forse la notizia sarebbe arrivata anche a quegli avvoltoi che li seguivano ormai da mesi.

 

Non sapeva se la cosa le facesse piacere, per la sua dignità ferita, o se aggiungesse altro sale alle ferite.

 

Ma non poteva fare altro: era troppo arrabbiata e non ce la faceva ad affrontarlo, non ancora. O, peggio, a perdonare tutto e far finta che non fosse successo niente.

 

“Allora?” le chiese Valentina, dalla porta della camera.

 

“Ha dormito in caserma.”

 

“Comunque… per quel che vale… a me nella conferenza stampa è sembrato sincero su quel bacio. Non è uno molto capace di mentire, mamma: è praticamente un semaforo vivente per come diventa rosso.”

 

“Il problema non è solo il bacio, Valentì, è… è tutto il resto.”

 

“Il resto cosa? Ci ha fatto altro con quella?!”

 

“Più che quello che ha fatto è quello che non ha fatto, Valentì, cioè saper mettere dei paletti e dire di no,” spiegò, perché non voleva che Valentina avesse reazioni pericolose non solo nei confronti di Calogiuri, ma pure della gattamorta, conoscendola.

 

“Ma è per questo che lo tieni in esilio? Per insegnargli una lezione?”

 

“Anche, ma soprattutto perché in questo momento sono ancora molto ma molto arrabbiata e non ho voglia di vederlo.”

 

“Però… però con la mia compagna di università altro che paletti ha messo. Quindi se una ci prova apertamente, sa dire di no. Magari però… lo sai che è molto ingenuo, no? Vede sempre il bene nelle persone. E lo sapevi pure quando te lo sei scelto che… va beh… non rivanghiamo tutto quello che è successo e che hai lasciato pure papà per stare con lui. Non è che può cambiare del tutto mo.”

 

“Ma che fai mo, lo difendi?” domandò, sorpresa, e anche un po’ colpita dalla frecciata su separazione e tradimento.

 

“No, ma… va bene fargli imparare la lezione e va bene la rabbia, ma se ci devi stare male tanto anche tu…. Insomma… se ti avesse tradito, andrei io di persona a dargli calci non ti dico dove, ma così… lo so che lo ami comunque tanto e voglio soltanto che tu non stia male e che non esageri con le lezioni, che ti conosco.”

 

“Da che pulpito, Valentì!” esclamò, ma poi se la strinse di nuovo più forte che poteva, nonostante le proteste, “che fai mo, oggi? Vai in università?”

 

“Ho lezione nel pomeriggio.”

 

“E allora perché non stai qua e ci passiamo la mattina insieme? Facciamo quello che pare a te,” le propose, senza sapere bene perché, proprio lei che fino a poco prima non voleva vedere nessuno.

“Ma non vai al lavoro?” le chiese, sorpresa.

 

“E va beh, Valentì, un altro giorno a casa posso pure prendermelo, con tutto quello che è successo.”

 

“No, va beh, mà, questo mi preoccupa più di tutto il resto!” scherzò Valentina, ma vide che era realmente in pensiero e se la strinse di nuovo, buttandola sul letto e prendendo a farle il solletico per fargliela pagare.

 

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“Sei sicura che non si nota?”

 

“Meglio che senza niente, Calogiuri. Per fortuna non ho mai dovuto mascherarli i lividi, soprattutto nella vita privata, quindi più di così non so fare.”

 

Gli venne un poco di magone a pensare a quante donne erano invece esperte a cammuffarli i lividi.

 

E non solo per evitare di mettere nei guai un amico che aveva un attimo perso la testa e per evitare che i giornalisti lo notassero e ci costruissero chissà che storia sopra.

 

Temendo che cosa ci avrebbe trovato, entrò dalla porta della PG.

 

“Calogiuri! Il nostro latin lover è tornato!”

 

“Carminati…” sibilò, vedendoselo spaparanzato, con tanto di piedi sulla scrivania.

 

La sua.

 

“La tua scrivania ce l’hai. Leva quei piedi!” gli intimò, non avendo nessuna voglia di quei giochetti.

 

“Eh… ma pensavo che fossi impegnato oggi, con una delle dottoressa, visto che te le sei fatte proprio tutte. Anzi, se hai bisogno di una mano, che non so se riesci a starci dietro e-”

 

“Sta zitto! Io non mi sono fatto proprio nessuna ed è un modo squallido di parlare delle donne! E che ti sono pure superiori, in tutti i sensi! Io sto con Imma e basta.”

 

“Ed è per quello che sei finito a dormire in caserma?”

 

Il sorrisetto trionfante su quella faccia da maiale lo fece incazzare ancora di più.

 

“Non sono affari tuoi!”

 

“Veramente sono pure affari nostri, perché ora capiamo perché ci scavalchi sempre in tutti i casi più importanti. Perché oltre a scavalcare… cavalchi pure….”

 

Strinse i pugni. L’istinto di dargli una lezione era fortissimo, ma avrebbe fatto solo il suo gioco.

 

“O forse perché lavoro tanto, Carminati, invece di passare il tempo a fare battute sessiste, e quindi le colleghe non devono avere paura ad andare in trasferta con me o a darmi un bacio sotto copertura, perché non salterò loro addosso come un maiale.”

 

“Stronzo!” urlò, levandogli finalmente i piedi dalla scrivania, ma solo per scattare in piedi e sbilanciarsi per dargli un pugno.

 

Per fortuna però, rispetto a Conti era molto più lento e prevedibile e riuscì a scansarsi, prima di beccarsi un pugno pure sull’altra guancia, e sentì il maiale urlare quando la mano gli si schiantò contro il muro.

 

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“Dottoressa! Dottoressa, una dichiarazione!”

 

I giornalisti appostati di fronte alla procura sembravano sorpresi di vederla.

 

Da un lato lo era pure lei ma, finito il pranzo con Valentina, aveva deciso sul momento di tornare al lavoro.

 

Non voleva dare l’impressione di stare scappando: Imma Tataranni non era mai fuggita di fronte a nulla e non avrebbe iniziato nemmeno quel giorno.

 

“Fatemi passare! Non c’ho niente da dichiarare!”

 

“Dottoressa, lei crede alla versione data dal maresciallo e dalla dottoressa Ferrari?”

 

“No comment! Fatemi passare!” ripetè, ma quelli erano compatti, tipo un muro tra lei e l’ingresso. Lanciò uno sguardo verso il portone, sperando che le guardie le dessero una mano.

 

Improvvisamente, si sentì prendere per un braccio. Stava per voltarsi e dare un pestone sui piedi - per non dire altrove - a chiunque avesse osato farlo, quando una voce familiare la bloccò, per fortuna appena in tempo.

 

“La dottoressa non ha dichiarazioni da aggiungere rispetto alla conferenza stampa di ieri. Fateci passare!”

 

Mancini.

 

Incrociò i suoi occhi, che le parevano furiosi, e poi, sempre a braccetto, per tenerla riparata, con il suo fisico imponente fece loro largo tra la folla, varcando finalmente la soglia della procura.

 

“Perché non ha chiamato qualcuno per farsi venire a prendere? E speravo che si prendesse pure oggi come giorno di riposo. Non deve mettersi a rischio così!”

 

Sembrava irritato, ma pure preoccupato, mentre lei si liberava dalla sua stretta.

 

“Dottore, un giorno e mezzo a non fare niente è il massimo che posso tollerare. E poi non voglio darla vinta ai giornalisti e, soprattutto, a Coraini e agli amici suoi.”

 

“Lo so, dottoressa, ma deve essere prudente. Mi promette di non strafare?”

 

“Stia tranquillo, dottore, cercherò di farmi accompagnare per quanto possibile. Ma mi conosce ed il mio carattere non lo cambio mo dopo più di quarant’anni.”

 

“D’accordo….” sospirò il procuratore capo, prima di salutarla e salire rapidamente le scale, verso il suo ufficio.

 

Stava per fare anche lei il primo gradino, quando udì una porta aprirsi.

 

Si voltò e si trovò davanti lui che usciva dalla PG.

 

“Imma!” la chiamò, facendo un passo verso di lei, dopo un attimo nel quale entrambi rimasero come paralizzati.

 

Ma lo ignorò, salendo rapidamente le scale e raggiungendo ancora più velocemente il suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.

 

Al solo vederlo le tornavano addosso ancora tutta la rabbia e la delusione. E sperava che non avrebbe osato seguirla fin lì, con Asia nell’ufficio accanto e tutta una procura che non aspettava altro che farsi i fatti loro.

 

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Carte, carte e ancora carte.

 

Era incredibile quanto lavoro si accumulasse in nemmeno due giorni di assenza. Ma almeno, per quanto fosse terribilmente noioso, era pure una distrazione dai troppi pensieri.

 

… la testimonianza, raccolta in data venticinque ottobre alle ore quindici...

 

Si bloccò: c’era qualcosa che non le tornava con quei numeri.

 

Aprì il cassetto, per cercare l’agenda, ed un bagliore luminoso rosso la accecò per un secondo.

 

E poi vide sì rosso, ma in un altro senso.

 

Un triangolo di quelli che si mettono per strada, dietro le macchine in panne, era stato infilato nel suo cassetto.

 

Carminati.

 

Non poteva essere altro che lui che, oltre a fare scherzi di pessimo gusto, aveva pure osato aprire i suoi cassetti. Era gravissimo.

 

Prese il pezzo di plastica catarifrangente e si precipitò in PG, come una furia.

 

Spalancò la porta e si trovò di fronte Calogiuri, seduto alla sua scrivania, che balzò immediatamente in piedi.

 

Lo fulminò con un’occhiata glaciale e si rivolse all’ominide che stava sulla scrivania alla sua destra, sbattendogli il triangolo sul tavolo, anche se glielo avrebbe volentieri buttato in faccia.

 

“Carminati, è già stato avvisato una volta. Un’altra di queste… goliardate… e le faccio rapporto, chiaro?! E se si azzarda anche solo a rimettere le sue manacce nei miei cassetti, io-”

 

Si fermò bruscamente, perché lo sguardo le era andato istintivamente verso le manacce ed una era completamente fasciata.

 

La destra.

 

“Che ha fatto alla mano?” gli chiese, anche se una parte di lei pensava fosse il karma che entrava in azione.

 

“Mi… mi sono fatto male in allenamento,” rispose Carminati, parendo stranamente tranquillo.

 

Troppo.

 

D’istinto si voltò verso Calogiuri, ma lui non disse niente, si limitò a ricambiare lo sguardo.

 

Qualcosa non le tornava ma, alla fine, Carminati, qualsiasi cosa fosse successa, se l’era meritata.

 

Riprese il triangolo e lo infilò intorno al polso fasciato di Carminati con un “almeno magari sta più attento ai pericoli! Ma se rimette le mani nei miei cassetti se le troverà tranciate, altro che fasciatura!”

 

E poi se ne andò, pestando sui tacchi più che poteva.

 

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“Dai, Calogiuri, hai finito?”

 

“Sì, sì, arrivo!”

 

Raggiunse Mariani che era già oltre la soglia della PG. La mascella ancora gli faceva un po’ male, nonostante gli antidolorifici. Ma almeno nessuno si era accorto di niente.

 

“Dottoressa, lo vuole un passaggio?”

 

La voce familiare ed odiosa di Mancini lo portò a guardare verso la scala e c’era Imma, sull’ultimo gradino, e Mancini che se la guardava in un modo che gli faceva ribollire il sangue.

 

Imma sembrò esitare per qualche istante e Calogiuri trattenne il fiato, chiedendosi se avrebbe accettato il passaggio dal procuratore capo che, ovviamente, approfittava della loro crisi per continuare a provarci.

 

“Non mi pare il caso, dottore, altrimenti qua dal triangolo passiamo al quadrato, coi giornalisti in agguato,” gli rispose e Calogiuri tirò un sospiro di sollievo.

 

“Ma non può andare a piedi, proprio per quello, dottoressa.”

 

Imma parve dubbiosa, poi si guardò in giro ed incrociò il suo sguardo. Lui ricambiò come a dirle un ti posso accompagnare io! non verbale.

 

Ma lei tornò a rivolgersi a Mancini e gli disse, “mi può accompagnare Mariani, se è disponibile.”

 

“Certo, dottoressa, non c’è problema,” rispose Chiara, allontanandosi da lui e raggiungendo Imma.

 

Le due donne uscirono insieme, lasciandosi dietro lui e Mancini, come due pesci lessi.

 

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“Scusi, dottoressa, ma stasera non ci mollavano. Ora la accompagno a casa: dovremmo averli seminati.”


“Ma si figuri, Mariani, mi scusi lei per tutto questo giro dell’oca.”

 

La principessa Disney le fece uno dei suoi inconfondibili sorrisi. Si chiedeva come facesse ad essere sempre così gentile e di buonumore.

 

Però, oltre al sorriso, c’era qualcos’altro: non era la prima volta in quel tragitto che sembrava sul punto di dirle qualcosa, ma poi rimaneva in silenzio.

 

“Eccoci qua, dottoressa!” annunciò infine, accostando davanti a casa.

 

“Grazie mille, Mariani, anche se… c’era qualcosa che voleva dirmi?”

 

“In che senso, dottoressa?”

 

“Mi pareva che volesse dirmi qualche cosa e… essendo amica di Calogiuri… magari perorare la sua causa, immagino?”

 

Mariani fece un’espressione stupita.

 

“Dottoressa, è vero che io e Calogiuri siamo amici ma… è stato stupido e deve darsi una svegliata, anche se… effettivamente non credo fosse in cattiva fede o che l’abbia fatto con malizia, anzi. Però essere ingenuo non è un alibi e si deve svegliare, pure per il suo bene.”

 

Sorrise: Mariani le era veramente simpatica, cosa rarissima, soprattutto con le donne.

 

“Domattina la passo a prendere io, dottoressa?” si offrì poi, mentre stava scendendo dalla macchina.

 

“Se può, molto volentieri Mariani.”

 

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Aveva appena finito di lavare il piatto della tristissima pasta in bianco che si era appena sbocconcellata, quando squillò il telefono.


Un messaggio.

 

Ci aveva messo un’ora buona a leggere tutti quelli arretrati, quindi si obbligò a prendere l’aggeggio maledetto e a controllare di chi fosse.

 

La cosa che mi fa più male è sapere che ti ho fatto soffrire, ma farò di tutto per dimostrarti che di me ti puoi fidare e che ti amo, non solo con le parole, ma con i fatti.

Sempre e solo tuo.

Calogiuri

 

Era di poche parole, sì, ma quando voleva le sapeva usare fin troppo bene. Solo che non le bastavano più.

 

Per ora vedo solo parole, Calogiuri, per i fatti sto ancora in attesa!

 

Vide che lo aveva letto immediatamente e che cercava di scrivere qualcosa ma poi si interrompeva e poi riscriveva.

 

Stava per mollare il cellulare, quando le squillò tra le mani.

 

Diana

 

Non poteva ignorarla un’altra volta.

 

“Pronto, Diana?”

 

“Imma!! Come stai? Dove sei? Stai bene?! Ho visto tutto, Imma! Che disgrazia, che disgraziato! Sti uomini, tutti uguali sono! Se ti serve posso venire da te a darti una mano o puoi venire tu qua per qualche giorno, così ricambio pure la tua ospitalità, dopo tutto quello che hai fatto per me e-”

 

“Diana, frena, che mi fai venire il mal di testa!” la bloccò, chiedendosi come mai Diana non si fosse mai iscritta alle olimpiadi di apnea, col fiato che teneva, “io sto bene, non ti preoccupare. Tu pensa a te e a Capozza e ai vostri di casini, che io me la cavo. Gli hai parlato poi?”

 

Diana rimase per un attimo senza fiatare, poi dopo l’ennesimo “Imma!” che le frantumò i timpani, spiegò, “sì, come sono tornata qua a casa ci ho parlato con Capozza e… mi ha detto che devo stare tranquilla, che ama solo me e che lo ha detto pure alla madre della bimba. Figurati che tra qualche giorno dovrebbe farmela conoscere e poi conoscerò pure la creatura. Per il momento lei ci presenterà come amici suoi, sai per non traumatizzarla dicendole subito che Capozza è… suo padre… e poi vedremo in base a come reagirà la bambina.”

 

“Bene, Diana, questa signora mi pare ragionevole, mi pare. Vedrai che andrà bene!” la rassicurò, pensando in cuor suo che, pur avendo pure lei gusti pessimi in fatto di uomini, magari non voleva fare la guerra per un torsolo di mela come Capozza, “mi raccomando, Diana, non fare altri casini, eh! Forza!”

 

“Pure tu, Imma, pure tu! E comunque Calogiuri alla conferenza stampa mi sembrava proprio sincero, Imma, quindi pure tu non fare cavolate e non darla vinta a quella specie di gattamorta griffata, che solo quello aspetta!”

 

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“Imma! Aspetta!”

 

Una scarica di rabbia la prese dritta allo stomaco e alla spina dorsale. Si girò sui tacchi, bruscamente, e si trovò davanti la gattamorta, con la sua espressione da santarellina.

 

“Irene,” rispose, asciutta, lanciandole strali che avrebbero incenerito pure un sasso.

 

“Ho bisogno di parlarti. Puoi venire un attimo nel mio ufficio?” le domandò, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

La rabbia repressa minacciava di ebollire ma non voleva darle la soddisfazione di farle capire quanto fosse ferita ed incazzata. E non voleva passare dalla parte del torto.

 

Annuì con un minimo gesto del capo, e poi la seguì nel suo regno, freddo ed impersonale come la sua casa.

 

“Accomodati!” offrì, prendendo posto alla sua scrivania, in un modo che le fece dubitare fosse in procinto di tirare fuori il set da tè con qualche miscela dal prezzo da infarto.

 

Aveva una faccia tosta da primato, proprio!

 

“Che cosa vuoi?” domandò, tagliando i preamboli, impaziente di levarsi da lì-

 

“Volevo dirti che mi dispiace per… per il malinteso del bacio. Ma è stato realmente tutto finto e Calogiuri è sempre rimasto al suo posto. Oltretutto l’iniziativa del bacio è stata mia e-”

 

“E non solo quella, mi pare!” la interruppe, non riuscendo a contenere il sarcasmo.

 

“”Che vuoi dire?”

 

“Che Calogiuri mi ha raccontato pure di quanto è successo prima in SPA e poi nel bagno turco e dopo il bagno turco.”

 

Sparò la bomba così, decisa ma sempre con un tono basso e in apparenza tranquillo.

 

Irene si bloccò con le mani a mezz’aria, sembrando terribilmente in imbarazzo, presa in contropiede.

 

“Eh sì. Calogiuri mi ha raccontato tutto: mi racconta sempre tutto.”

 

“Se sei così tranquilla e sicura di te e di voi, perché lo hai esiliato in caserma?” le chiese, con un sopracciglio alzato e lo stesso identico tono.


Maledetta! Aveva sempre la risposta pronta e non mollava mai.

 

“Ma come lo sai?” le chiese, odiando quella procura e i pettegoli che ci lavoravano.

 

“Imma, lo sanno tutti. Qua in procura le voci galoppano e lo sai benissimo anche tu. Devi preoccupartene perché-”

 

“E perché, invece di preoccuparti di me non ti preoccupi di te stessa, magari?” le chiese, aggiungendo, di fronte alla sua espressione confusa, “al posto tuo, se mi fossi buttata in ogni modo su di un uomo con tutta la mercanzia di fuori e lui, pure mezzo nudo e mezzo ubriaco, mi avesse rifiutata, mi farei due domande sulle mie priorità, sulle mie relazioni e soprattutto sui miei metodi di seduzione. E pure molto seriamente.”

 

La bocca di Irene si spalancò in un’espressione tragicomica.

 

Approfittò di quel momento per uscire dalla stanza, gettandosi la porta alle spalle, con passo da bersagliere.

 

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“Dottoressa, menomale che l’ho trovata. C’è una cosa che potrebbe essere urgente!”

 

Era appena tornata dal bar della procura, dove si era mangiata controvoglia un panino - uscire non se ne parlava, con alcuni giornalisti ancora in agguato - ed aveva dovuto evitare gli sguardi ed i bisbiglii delle persone presenti, quando Asia l’aveva intercettata sulla porta, facendole quasi prendere un colpo.

 

“E che cosa sarebbe questa cosa urgente?”

 

“C’è un uomo che continua a chiamare cercando di lei. Lo aveva già fatto mentre lei era… assente nei giorni scorsi, ma-”

 

“Sarà un giornalista o un curioso. Meglio lasciarlo nel suo brodo!” replicò, facendole segno con la mano di pure andare.

 

“L’ho pensato pure io, dottoressa. Però oggi, quando gli ho ripetuto che lei non c’era, ha detto di avere informazioni urgenti sul caso Spaziani, ma che non può venire a riferirgliele di persona.”

 

“In che senso non può?” le chiese, le antenne che si erano sollevate al solo menzionare il caso Spaziani.

 

Che in teoria era chiuso, certo, ma c’era sempre un qualcosa che non la convinceva al cento percento, come una nota stonata.

 

“Mi ha detto di avere un problema di salute e che per questo è bloccato a casa. Si è identificato come un notaio, un certo Rodolfo Torregalli.”

 

“E non poteva dirmelo prima che era un notaio, signorina Fusco, invece di fare tutto questo panegirico con il signore? Abbiamo le qualifiche, usiamole!” esclamò, forse un po’ con troppa veemenza, perché l’ossigenata cancelliera ne rimase quasi spaventata, “Torregalli… cognome di origine nobiliare. Ha lasciato un recapito?”

 

“Sì. Sta ai Parioli, dottoressa. Ora le mando l’indirizzo esatto.”

 

Asia non perse tempo a sparire oltre la porta.

 

Sospirò: in quel periodo era una corda di violino e lo sapeva, ma il suo carattere era quello che era. Soprattutto quando c’era di mezzo Calogiuri.

 

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“Mariani o Conti dove stanno?”

 

Era entrata in PG senza nemmeno salutare, ma del resto c’erano solo Calogiuri, che era scattato in piedi manco c’avesse una molla sotto al deretano, e poi Carminati e Rosati che va beh… il saluto manco se lo meritavano.

 

Per questo aveva fatto una domanda in generale, guardando tutti e nessuno.


“Mariani è appena uscita con Santoro. Conti è con… con la dottoressa Ferrari.”

 

Quell’esitazione sul cognome della cara collega le causò un’altra fitta di irritazione, ma le toccò guardare verso Calogiuri, che aveva parlato.

 

“Sai quando saranno di ritorno?” domandò, brusca.


“No, no. Ma temo ci vorrà un po’. Mariani doveva testimoniare ad un’udienza di Santoro e la Ferrari e Conti hanno un sopralluogo sul Tevere con la scientifica per una ricostruzione. Non so se rientreranno prima di sera.”

 

Imma ci ragionò su un attimo. Se questo notaio continuava a chiamare dicendo che fosse urgente, evidentemente lo era. E se aveva problemi di salute… prendersela comoda probabilmente non era una buona idea.

 

E poi il caso Spaziani era delicatissimo per lei, per ovvie ragioni.

 

Troppo delicato per portarci Carminati o Rosati a cui, potendo, non avrebbe affidato neanche un furto di caramelle.

 

“Dottoressa, posso darle una mano io!” si inserì, ironia della sorte, proprio Carminati.

 

“No, grazie, Carminati, che di mano ne ha già solo una a disposizione e, nel suo caso, meno le usa le mani e meglio è. Calogiuri, se sei libero puoi accompagnarmi in un posto?” si sforzò di domandare, anche se le costava fatica.

 

“Certo, dottoressa, naturalmente. Vado a preparare la macchina?”

 

Il modo in cui aveva pronunciato la frase, ed il modo in cui si precipitò fuori dalla porta non appena lei annuì, dicendogli che avrebbe nel frattempo avvisato Mancini, le ricordò il Calogiuri di Grottaminarda, quello dei primi tempi a Matera.

 

Con un gusto dolceamaro in bocca, si avviò verso l’ufficio del procuratore capo.

 

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“Non se ne parla nemmeno, dottoressa! Qua fuori ci sono i giornalisti e abbiamo appena detto loro che lei non lavora più col maresciallo, se non al maxiprocesso.”

 

“Dottore, capo primo i giornalisti non possono sapere per quale caso stiamo lasciando la procura. Capo secondo, potrebbero sempre pensare che usciamo prima per tornarcene a casa. Anzi, almeno magari loro e pure i nostri colleghi la piantano di fare insinuazioni sul fatto che il maresciallo ed io ci saremmo lasciati, perché lui dorme in caserma. Questo anche per rafforzare quanto detto ieri in conferenza stampa. Se questo notaio ha da dirmi qualcosa con così tanta urgenza ed è malato, non posso rinviare oltre. Ed il maresciallo Calogiuri ha seguito il caso Spaziani agli inizi. Mi creda che pure io non ne sono entusiasta, dottore, ma non c’è alternativa.”

 

Mancini sospirò ed annuì, non sembrando affatto sorpreso alla notizia di dove stesse passando le notti Calogiuri.

 

Lo sapevano proprio tutti.

 

“Dovrete registrate tutto, dottoressa, ogni parola. Se c’è solo il maresciallo con lei, non possiamo rischiare che poi l'avvocato della difesa cerchi di invalidare la testimonianza. Mi raccomando!”

 

“Naturalmente, dottore. Se non c’è altro….”

 

“No, anzi, sì,” le rispose Mancini, bloccandola mentre era quasi alla porta, “dottoressa, come sta?”

 

Alla sua espressione da ma secondo te?! si affrettò ad aggiungere, “cioè… immagino come possa stare ma… se ha bisogno di qualcosa, se posso fare qualcosa per lei… la mia porta è sempre aperta e sono sempre raggiungibile al telefono.”

 

“Non si preoccupi, dottore: mi ha già aiutata molto. Me la so cavare da sola, come ho sempre fatto.”

 

Mancini le rivolse un ultimo sguardo preoccupato e malinconico mentre usciva dalla stanza.

 

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Il silenzio si poteva tagliare con un coltello.

 

Ogni tanto provava a lanciarle qualche occhiata, per cercare di capire a cosa stesse pensando, ma Imma guardava fissa davanti a sé, le braccia incrociate, impettita sul sedile, che pareva un palo per quanto era rigida.

 

Arrivò all’indirizzo che gli aveva dato e cercò di trovare un posto per l’auto di servizio.

 

Non appena spense il motore, Imma non perse tempo a slacciare la cintura di sicurezza e ad aprire la portiera.

 

“Imma!” la chiamò e, forse perché erano in servizio e poteva trattarsi di qualcosa di lavoro, non lo ignorò, ma ciò non le impedì di fulminarlo nel voltarsi, “Imma, lo so che… sei ancora... furiosa con me e che è solo perché era un’emergenza che sto qui ma… sono felice di lavorare di nuovo con te, come ai vecchi tempi, pure se è solo per oggi.”

 

Imma esitò un attimo, un sopracciglio alzato e poi sibilò un “non farmene pentire, Calogiuri, anche se speravo che, dai vecchi tempi, ti fossi un poco più svegliato. E invece….”

 

E poi scese e sbattè la portiera con tanta forza che l’auto traballò tutta.

 

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“Il notaio è da questa parte. Vi stava aspettando.”

 

Una cameriera, con tanto di grembiule nero e bianco, che sembrava uscita da un film dell’Ottocento, non fosse stato che era chiaramente dell’Est Europa, forse Ucraina, li accompagnò ad una porta chiusa.

 

La ragazza bussò, la aprì e ad Imma sembrò ancora di più di essere in una pellicola.

 

Un uomo, con una vestaglia sopra a quelle che poteva solo definire vesti da camera, stava su una sedia a rotelle, dietro ad una enorme scrivania in ebano.

 

Lo studio pareva preso paro paro da un libro di Sherlock Holmes: una libreria con tomi vecchissimi circondava la scrivania, alcune poltrone antiche ed un canapè abbinato, di fronte ad un tavolino più basso, di metallo finemente lavorato, in stile liberty.

 

Solo il contenuto di quella stanza valeva come la sua casa a Matera, anzi, probabilmente pure di più.

 

“Dottoressa! Sono… felice che… che sia venuta.”

 

L’uomo faticava non soltanto a parlare, ma pure a respirare. La voce era flebile e cavernosa al tempo stesso, probabilmente conseguenza della tracheotomia di cui il notaio portava ancora i segni sul collo.

 

“Mi hanno detto che mi voleva parlare urgentemente. Questo è il maresciallo Ippazio Calogiuri. Trascriverà e registrerà la nostra conversazione. Spero non abbia nulla in contrario.”

 

“So… chi è: vi ho visti… al… tg,” enunciò, scuotendo il capo come a dire che non c’erano problemi sulla registrazione.

 

Imma si sentì avvampare, pensando con sconforto che ormai era più conosciuta per questa specie di soap opera che le avevano montato attorno che per il suo lavoro.

 

Il notaio però non sembrava sprezzante, anche se, visti i problemi di voce, sarebbe stato difficile da valutare. Alzò una mano tremolante e fece segno loro di accomodarsi sulle poltrone imbottite che stavano di fronte alla scrivania.

 

“Allora, signor notaio, che cosa ha da dirmi in proposito del caso Spaziani?” tagliò corto, visto che sembrava fare un’estrema fatica a comunicare.

 

“Avrei… dovuto.... parlarle già… molto tempo fa, dottoressa… ma… come vede… ho avuto un infarto. Mi hanno… ripreso per i capelli e…. sono stato in coma e poi… mezzo incosciente. Sono tornato… a casa da… pochi giorni e….”

 

“Non si preoccupi e non si sforzi. Mi dica solo cosa mi deve riferire riguardo al caso.”

 

“Non posso, io… devo spiegare… capirà il perché,” ansimò l’uomo, tanto che lanciò uno sguardo preoccupato verso Calogiuri, temendo ci rimanesse secco prima della fine della testimonianza, “quando sono… arrivato a casa… ho scoperto che… che avevate arrestato Amedeo Spaziani.”

 

“Sì. Abbiamo scoperto che ha cercato di incastrare un altro uomo  con una fiala di insulina che si era procurato. E tutti gli indizi portano a lui, anche perché aveva un forte interesse economico nell’eliminare il padre. Lei per caso… ha un nuovo testamento di Spaziani?” gli domandò - perché cos’altro poteva volerle dire un notaio? - ma lui scosse la testa.

 

“No, no. Magari fosse… solo quello…” esalò a fatica e poi le dita nodose afferrarono una busta, che fino a quel momento era rimasta sotto alle sue mani giunte, e gliela porse, nonostante paresse scosso da un terremoto, “la… legga… capirà… tutto.”

 

Imma, non sapendo più che pensare e francamente un po’ inquietata dall’atmosfera e dalle circostanze, prese in mano la carta, spessa e lucida, di quelle da gran signori, e ne estrasse un foglio scritto a computer ma con sotto una firma enorme e tremolante, che sembrava la stessa del testamento di Ferdinando Spaziani che aveva consultato qualche mese prima. Ma ancora più deformata, segno evidente dell’impietoso avanzamento della malattia dell’imprenditore.

 

Scorse le prime righe, ma un nodo le si piantò in gola, insieme ad una sensazione di gelo nello stomaco, mentre il suo cervello metteva insieme tutto, anche se forse una parte di lei avrebbe preferito non sapere.

 

Avrebbe dovuto leggerla, ad alta voce, perché risultasse nella registrazione, ma non ce la faceva. La voce se ne era andata, nonostante i tentativi di schiarirla.

 

Guardò verso Calogiuri, che pareva preoccupatissimo, e gli porse la lettera, facendogli un cenno come a dire puoi leggere tu?

 

Lui annuì, sembrando ancora più turbato, ma la prese in mano.

 

Le loro dita si sfiorarono per qualche istante, dandole una breve sensazione di calore in mezzo a tutto il gelo.

 

Quegli occhi azzurri, già grandi di loro, divennero enormi e lucidi.

 

Anche Calogiuri aveva capito: del resto era sempre stato sveglio, almeno sulle indagini.

 

Pure lui si schiarì un paio di volte la voce ma poi lesse, un poco tremante.

 

Barbara, Amedeo,

 

se leggete queste righe vuol dire che non ci sono più e che uno di voi due è stato incolpato per la mia morte. Mi dispiace per i problemi che vi ho causato e per essermene andato così, ma non ce la facevo più a sopravvivere in questo stato. Nel pieno delle mie facoltà mentali, ho chiesto ad un medico che è specializzato in eutanasia di raggiungermi ed aiutarmi ad andarmene con dignità.

Barbara, tu mi sei sempre stata vicina ma sei giovane, sei bella, hai una vita davanti e ti meriti di viverla pienamente. Mi hai regalato degli anni bellissimi, grazie a te sono stato felice dopo tanto, troppo tempo passato solo a sopravvivere, per senso del dovere e per il senso di colpa, e non ti ringrazierò mai abbastanza per questo. Ora viviti la tua vita con qualcuno che possa darti ciò di cui hai bisogno, possibilmente meno vecchio di me, e, te ne prego, senza sensi di colpa. Non fare i miei stessi errori.

Amedeo, lo so che non sei stato d’accordo su tante scelte che ho fatto in questi ultimi anni, ma spero che tu capirai ed accetterai sia questa mia decisione così difficile, sia le mie disposizioni testamentarie. Lascio a Barbara ciò che le consentirà di vivere senza problemi e spero di poter fare lo stesso per te. Ultimamente quando ti ho visto eri sempre preoccupato, ansioso. Lo so che l’azienda non è in ottime acque, anche se pensavi che non me ne fossi accorto. Quello che ti posso dire è di fare la cosa giusta, per te e per chi lavora per te. Non devi dimostrare niente a nessuno: segui ciò che ti rende felice ma fallo prima che sia troppo tardi e ne debbano fare le spese pure gli altri.

Vi voglio bene e mi dispiace per tutto il dolore che vi ho dato e che vi sto dando, ma ho sempre amato la vita ed ho deciso di andarmene alle mie condizioni, prima di arrivare ad odiarla.

Vostro,

Ferdinando Spaziani

 

Quando finì di leggere, Calogiuri aveva un paio di lacrime che gli solcavano le guance e lei pure.

 

Quanto dolore, quanta disperazione, quanta umanità e quanta dignità in poche righe.

 

Era una tragedia, una vera tragedia, comunque la si guardasse.

 

“Ferdinando mi aveva… chiamato in clinica qualche giorno prima che… che si spegnesse. Mi aveva dato questa lettera, dicendo... di consegnarla alla polizia e… ad Amedeo e Barbara, qualora... qualcuno avesse indagato sulla… sua morte e… ed imputato un innocente.”

 

“Ma… ma perché non gli ha detto niente, perché… non ha provato ad impedirglielo?”

 

“Perché… c’è il segreto… professionale e poi… e poi… ho provato pietas, dottoressa. E… e poi… due settimane dopo che… che è morto… sono finito… così… quindi. Forse… è… il karma.”

 

“Ma perché Spaziani voleva tutta questa segretezza sulle circostanze della sua morte?”

 

Era stato Calogiuri ad intervenire. Lo guardò e lui quasi si scusò per averlo fatto, ma lei gli fece cenno di non preoccuparsi: che facesse bene il suo lavoro non poteva certo darle fastidio.

 

“Perché…  non voleva che… che la moglie ed il figlio si… sentissero in colpa o… o avessero problemi con la giustizia. O che… avesse problemi… il medico che… lo avrebbe aiutato. Sperava che… sarebbe sembrata una… una morte naturale.”

 

“Perché avrebbero dovuto sentirsi in colpa? Il figlio forse per la lite e per i problemi economici ma la moglie per-” ragionò a voce alta Imma, prima di realizzare, un altro blocco di ghiaccio che le scese nell’esofago, “Ferdinando Spaziani sapeva… sapeva pure che la signora Spaziani aveva una relazione extraconiugale, non è vero?”

 

Il notaio si limitò ad annuire con quello che forse sarebbe stato un sospiro, avesse avuto più fiato, prima di aggiungere, “ma non… non fraintenda, dottoressa. Ferdinando era… era felice per lei, che… si rifacesse una vita. E… non voleva essere… un peso.”

 

Imma rimase ammutolita e, di nuovo, ebbe uno sguardo di intesa con Calogiuri. Era sconvolta di fronte a tutto questo amore e tutta questa disperazione, che dovevano aver portato Spaziani a fare quello che aveva fatto.

 

La colpiva profondamente, per tanti motivi.

 

“Sa… sa chi fosse il medico?”

 

“No. Ferdinando non… me lo ha voluto dire. Diceva che… che era svizzero e… anziano ma… non mi ha detto altro.”

 

La Svizzera tornava nuovamente, dopo il cellulare di Amedeo Spaziani.

 

Ma c’era qualcosa che non le tornava ancora. Anche se non avrebbe saputo dire cosa.

 

“La ringrazio, dottore. Lei rimane a disposizione per… per firmare la sua deposizione, una volta che sarà trascritta?”

 

Il notaio annuì, si vedeva che era affaticato.

 

Si alzò e si congedò, non volendo farlo sforzare oltre misura. Sentì i passi di Calogiuri dietro di lei e quasi non si rese conto di quanto velocemente uscì da quell’appartamento e da quel palazzo.

 

Solo quando arrivò all’auto di servizio le sembrò di poter tornare a respirare.

 

Aprì la portiera, prima che potesse farlo Calogiuri, e si buttò sul sedile.


Lo vide mettersi al volante: aveva gli occhi ancora appannati e le guance umide. Si asciugò gli occhi con una mano e ad Imma prese un colpo.

 

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“Che hai combinato?!”

 

Il tono di Imma era acuto, strano. La guardò, dopo essersi sfregato di nuovo gli occhi, e si affrettò a ribadire, “Imma, non ho fatto niente con Irene, te lo giuro, io-”

 

“Non intendo con la gattamorta. Intendo che cosa hai fatto qua!” esclamò e non riuscì a trattenere un mugolio di dolore quando si sentì sfregare sulla guancia, proprio sul livido.

 

Lanciò un’occhiata allo specchietto e si rese conto che, tra le lacrime e l’asciugarsi gli occhi, un poco di correttore si era spostato, lasciando intravedere il livido. Ed ora Imma aveva completato il lavoro.

 

“Qualcuno ti ha picchiato? Chi è stato?! E chi è che ti ha truccato così?!”

 

Imma sembrava arrabbiata e forse pure preoccupata, mentre lo tartassava di domande.

 

“Non ti devi preoccupare, non è niente,” le rispose, perché non voleva mettere nei guai né Conti né Mariani.

 

“Tranquillo che non mi preoccupo, Calogiuri, anzi, ma mi devi dire chi è stato. Anche perché darti un cazzotto, dopo tutto quello che hai combinato, al limite doveva essere una mia esclusiva!” esclamò, prima di aggiungere, guardandolo dritto negli occhi, “Carminati?”

 

“No, no, non è stato lui,” la rassicurò, capendo che aveva fatto il collegamento tra la mano fasciata ed il livido.

 

“Ma chi è stato, Calogiuri? Che sei tu che non ti fidi di me, mo? Che dovrebbe essere il contrario, dovrebbe!”

 

“Imma, non è che non mi fido… è che… non voglio mettere nei casini nessuno. Mi prometti che rimane tra noi?”

 

“E va bene. Ed io le mie promesse le mantengo, Calogiuri,” lo freddò lei, ma se l’era cercata.

 

“Conti. Mi ha dato un pugno in un momento di rabbia due sere fa. Ma poi ci siamo sempre evitati: credo sia ancora arrabbiato con me, ma so che non lo rifarà.”

 

“Conti?! Hai capito le acque chete!” esclamò, a bocca spalancata, “che poi dovrebbe ringraziarti, se gli hai evitato di perdere altro tempo dietro a quella gattamorta!”

 

Gli venne da sorridere: gli sembrava tornato tutto alla normalità tra loro. Ma l’espressione di lei si fece nuovamente serissima, illeggibile e si rimise la cintura.

 

Tutto normale non era.

 

Per niente.

 

“La truccatrice è Mariani, immagino?” gli chiese poi, mentre riavviava la macchina.

 

“Gliel’ho chiesto io. Non volevo dare problemi a Conti o che i giornalisti se ne accorgessero.”

 

Imma sospirò e tornò al mutismo, incrociando di nuovo le braccia davanti al corpo.

 

Ma mentre guidava, spiò la sua espressione ed un paio di volte la beccò a ricambiare, anche se distoglieva immediatamente lo sguardo.

 

Alla fine però, purtroppo, arrivarono sotto casa.

 

Purtroppo perché avrebbe voluto stare ancora con lei, pure senza dire una parola. E purtroppo perché quel portone, quella casa gli mancavano tantissimo.

 

La vide allungare la mano verso la portiera ed aprì pure la sua.

 

Lei si voltò di scatto e lo trafisse con uno sguardo che valeva più di mille parole.

 

“Volevo… volevo solamente aiutarti con la portiera,” balbettò, temendo anche solo di muovere un muscolo e giocarsi quel minimo disgelo che avevano avuto.

 

Imma sospirò ma non disse nulla e nemmeno scese dal veicolo, limitandosi ad incrociare le braccia, in attesa.


Cautamente, sentendosi come uno di quei personaggi dei film che incontrano un orso e si muovono con estrema lentezza per non agitarlo, finì di aprire la portiera, girò intorno alla macchina e la fece scendere.

 

Rimasero per un attimo fermi, con la portiera a fare da scudo tra loro, occhi negli occhi.

 

Cercò di capire a cosa stesse pensando Imma, ma lo sguardo di lei era indefinibile.

 

“Allora… io-” esordì, con intenzione di congedarsi, perché sapeva che non poteva tirare troppo la corda.


“Allora tu, visto che stai già fuori dalla macchina, mo vai a recuperare il borsone e a parcheggiare decentemente e poi puoi pure salire,” pronunciò, indicando con un cenno del capo la finestra del loro appartamento.

 

Il cuore che gli scoppiava di gioia e di sollievo, la voglia di saltellare come un deficiente, fece per avvicinarsi ad abbracciarla ma si ritrovò spinto indietro dalla portiera, lei che ci si rifugiava ancora di più.

 

“Questo non significa che ti ho perdonato, Calogiuri, ma soltanto che puoi dormire sul divano, a patto che ti fai vedere il meno possibile e che mi lasci in pace. E non mi devi toccare!”

 

Fu uno schiaffo in pieno viso, almeno per qualche istante, ma poi… in fondo era un punto di partenza, un primo spiraglio, anche se minimo.

 

“Va…. va bene. Farò come vuoi, ma ti dimostrerò che puoi avere fiducia in me e che… non te ne pentirai.”

 

“Io temo che invece lo farò, Calogiuri, ma… diciamo che lo faccio per evitarti di dover diventare un makeup artist, come si dice adesso, per coprire tutti i cazzotti, e soprattutto perché in procura ci sono fin troppe domande sul perché tu dormi in caserma.”

 

Era tagliente, freddissima, ma… ma c’era qualcosa che gli faceva sperare che non fossero quelle le uniche ragioni, che mo a parlare per Imma fosse l’orgoglio.

 

Non si sarebbe mai tenuta in casa un uomo che non voleva né vedere né sentire. Né per i pettegolezzi della caserma - che tanto ormai! - né per evitargli altri lividi.

 

Ma non potè fare altro che annuire e risalire in auto, sperando di riuscire, col tempo, a trasformare quel piccolo spiraglio in qualcosa di molto di più.

 

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“Dove vai col borsone?”

 

“Torno a casa.”

 

Si ritrovò stretto in un abbraccio: non servivano altre parole per capirsi.

 

“Lo sapevo che ti avrebbe perdonato, ma adesso stai attento a non fare più il cretino!” gli intimò Mariani con uno dei suoi sorrisi luminosissimi.

 

“In realtà… dovrò ancora lavorare parecchio per farmi perdonare. Ma è un primo passo.”

 

“Imma fa solo che bene a tenerti sulle spine, almeno magari la prossima volta ti dai una svegliata!”

 

Sospirò e se la abbracciò di nuovo: purtroppo, Mariani aveva solo che ragione.

 

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Buio.

 

Silenzio.

 

Si chiese come fosse possibile: non erano neanche le nove di sera.

 

Accese la luce e si guardò intorno, spaesato.

 

Il cappotto e la borsa di Imma erano al loro posto.

 

Ma, appeso al gancio a cui lui di solito attaccava il giubbotto, c’era un foglio di carta.

 

Ho già cenato e sono in camera.

Preparati quello che vuoi. Ti ho lasciato le lenzuola pulite sul divano.

Domattina se riesci a prepararti e a fare colazione prima che mi alzo, mi fai un favore.

 

Quel mi fai un favore era praticamente un ordine.

 

Sospirò: Imma veramente non lo voleva né vedere, né sentire al di fuori del lavoro.

 

Almeno per un altro po’.

 

Sarebbe stato ancora più difficile del previsto. Ma si ripromise di fare di tutto e di più per riconquistarla e, soprattutto, per riconquistare la sua fiducia.

 

Perché la fiducia e la stima di Imma erano le cose a cui teneva di più al mondo. E non si sarebbe mai perdonato per averle perse.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qui alla fine di questo quarantasettesimo capitolo. Mi rendo conto che siamo in un periodo molto difficile, purtroppo, ma spero che la lettura possa aiutarvi a distrarvi un po’, come a me aiuta scrivere.

In questo capitolo, come avrete visto, Calogiuri sta cercando piano piano di riavvicinarsi ad Imma. Lei è in modalità “ghiacciolo”, anche se… ogni tanto ha qualche cedimento. Calogiuri riuscirà, dopo ad aver rimesso piede a casa, pure a far terminare del tutto questa “guerra fredda”? Il giallo Spaziani sarà veramente finito?

Spero che la storia continui a mantenersi interessante. Nei prossimi capitoli ci attendono un giallo completamente nuovo e parecchi scossoni, oltre ad alcuni momenti più sereni.

Ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno speso del tempo per lasciarmi una recensione: oltre a farmi un piacere immenso mi sono utilissime per capire come prosegue la scrittura e se quello che scrivo vi convince o meno.

Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane, domenica 8 novembre.

Grazie di cuore!

 
   
 
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