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Autore: Enchalott    09/11/2020    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciò che l’amore può
 
Eudiya sedeva con la testa tra le mani. I lunghi capelli castani erano sciolti sulla schiena a indicare una sorta di abbandono, nonostante la tenuta guerresca. Si domandò se fossero i giorni o invece i mesi a pesarle tanto. Osservò le quattro fiammelle della lampada a olio che rischiarava la stanza nuziale, priva di suo marito da un tempo incalcolabile. Aveva fiducia in lui, sarebbe giunto come promesso, non l’avrebbe lasciata sola. Ma per quanto ancora l’avrebbe atteso? Rigirò tra le dita l’anello di Stelio, stringendolo per assorbire il vincolo indissolubile che rappresentava. Erano allo stremo, ma non si arrendevano. Lei non avrebbe capitolato.
Non tardare, amore mio…
La tenda di velo bianco che schermava la finestra a doppio arco era immobile in quella notte priva di vento. Non era il profumo speziato del deserto a impregnare l’aria fresca e nemmeno l’odore intenso degli incensi cerimoniali: al calare della sera, il circostante si saturava di grida umane e bestiali, di clamore concitato, di fiamme acri e luttuose, di paura allo stato puro.
I daimar erano vigorosi, audaci: sciamavano tra le mura, seminando dolore, abitando la sofferenza, infliggendo morte differita affinché il loro pasto durasse più a lungo. Neppure la rinnovata forza di Dionissa era in grado di arrestarli. Perché, dunque? Perché Anthos le aveva reso il controllo del Kalah? Perché infieriva sul suo cuore di madre e non le restituiva Adara? Lui, da sempre nemico del Sud e fonte di infinita crudeltà. L’intento di unire i due Regni appariva inutile e ridicolo davanti al procedere ineluttabile delle tenebre e il principe non era uno stolto. Non c’erano stati né ricatti né proposte di scambio, tantomeno ulteriori contatti con Iomhar. Forse Anthos aveva individuato nell’Imis’eli un’arma imprevista da sfruttare a proprio vantaggio? O stava pensando di torturarli fino all’ultimo, consentendo all’oscurità di prevalere prima dell’annientamento finale? La sua piccola Adara era davvero in grado di agire in autonomia? Non poteva pensare che non fosse più al mondo, sacrificata a un’antica disputa tra divinità in cui era capitata per il perverso volere di una di esse.
Mamma, io sono felice…
Le riusciva impossibile credere alle sue inconcepibili parole. Se avesse supplicato la celeste Amathira, in nome di una fanciulla che come lei era inciampata nel cammino di un uomo perverso, ma non possedeva le doti di un’essenza immortale, forse la dea del Cielo l’avrebbe ascoltata. Forse sarebbe tornata per fermare il suo antico amante e addirittura suo fratello. Avrebbe avuto pietà di coloro che chiamava figli.
Qualcuno bussò alla porta. Eudiya si asciugò le lacrime, sollevandosi dal letto per non mostrare la propria vulnerabilità.
Dionissa entrò nella camera reale, sorretta da Phylana. Sul viso grazioso della Aethalas era disegnata un’acuta preoccupazione, mentre su quello della veggente sostavano i segni di una profonda stanchezza.
«Si sono ritirati. Per stanotte hanno finito di giocare con noi.»
Eudiya le strinse le mani, aiutandola ad accomodarsi sul divano. Il tendaggio oscillò e un refolo di vento fece ondeggiare le fiammelle della lucerna.
«Stai bene, tesoro?»
La veggente scosse la testa, prostrata.
«No. Sebbene i daimar non riescano a toccarmi fisicamente, avverto il male che invade le anime di chi non riesce a opporsi. Oggi tanti di noi hanno ceduto all’ombra, incapaci di affrontare un altro attacco, e io non ho potuto nulla per impedirlo!»
«Non dite così, mia signora» invocò Phylana «Siete il baluardo di questa terra, ogni uomo o donna del Sud guarda a voi con speranza e in voi trova il coraggio di non soccombere. Io per prima. Siete vita che non recede. Non lasciate che l’affaticamento cui vi sottoponete vi annulli.»
Dionissa fece sbocciare un sorriso triste ma grato.
«Mi ricordi così tanto mia sorella. Anche tu dovresti riposare, Phylana.»
«Non posso. I demoni non prevarranno, gli Angeli pagheranno.»
La regina osservò l’arco di traverso sulla spalla della ragazza: era sangue del deserto, indomito, che rifiutava la resa. La capiva meglio di chiunque altro.
«Come sta Kendeas?»
«È grave» rispose la veggente «Non ha ripreso conoscenza.»
«Ma è un colpo di spada e non un maleficio» intervenne l’Aethalas «Sono certa che il nostro generale si rimetterà in piedi!»
Eudiya annuì, stringendo le mani l’una contro l’altra, temendo per la sorte di quell’uomo valoroso e fedele che aveva sempre guidato i difensori in prima persona.
Inalò l’aria. Sapeva che era giunto il momento di impartire l’ordine: quello che le strappava un frammento di anima al termine di ogni scontro, puntuale come un’amara sorte. Porre fine all’agonia di chi era stato prosciugato dal male e destinato a languire in una pena orrenda e senza fine. Fremette di rabbia e angoscia.
«È ora. Erinna s’accinge a piangere i suoi caduti.»
 
Anshar si lavò il viso e l’acqua contenuta nel catino mosaicato si tinse di rosso vivo.
I suoi vestiti erano macchiati di sangue fresco: non gli importava se appartenesse a lui oppure a un’altra persona. Era la stessa cosa, nel suo cuore tutte le vite avevano pari valore. Aveva avuto la fortuna di conservare la propria, ma non era una buona ragione per gioire di quelle estirpate agli Anskelisia.
Osservò il proprio riflesso nella specchiera assicurata alla parete e si sfilò la fascia rossa e oro dalla fronte, sciogliendo i lunghi capelli dalla coda in cui li portava raccolti. Diventava sempre più difficile riconoscersi, ma non avrebbe aggiunto un ulteriore peso alla propria coscienza, chiedendosi quando tutto ciò sarebbe finito. Avrebbe solo chiesto perdono agli dei, come ogni notte.
La malinconia dilagava nel suo sguardo solitamente sereno. Sospirò. Sarebbe stato opportuno verificare la presenza di eventuali ferite o Neyosh non gli avrebbe dato tregua. Anshar non desiderava infliggergli un motivo aggiuntivo di preoccupazione: quella per lo stato di salute di Daara già gli rubava il sonno e la tranquillità necessari a mantenersi lucido.
Si liberò degli abiti e prese a ripulirsi dalla sporcizia, immerso fino alla vita nell’ampia vasca verde riservata alle stanze che condivideva con i compagni. Sfiorò con le dita la cicatrice ormai invisibile sul petto, ma non avvertì altre lesioni recenti. Si sentì sollevato, più per l’amico che per se stesso. A quanto pareva, il suo fisico aveva deciso di sostenerlo, anche se era tutt’altro che un guerriero e non era abituato a sottoporsi allo sforzo massacrante di un conflitto sul campo. La sua muscolatura si era irrobustita, come quella di Neyosh: lo aveva notato quando avevano partecipato all’addestramento ordinato dal generale Kendeas, volto a impartire i rudimenti a chi, come lui, non aveva mai combattuto. Era un altro elemento di sé che non identificava come familiare e che faticava ad accettare. Ma era suo dovere proteggere con qualunque risorsa la terra e le persone che amava.
«Anshar…»
Neyosh entrò nella sala da bagno con la solita tensione, ma si rilassò nel vederlo illeso. Avevano lottato fianco a fianco, però nel buio era impossibile scorgere una lesione e l’adrenalina mascherava il dolore. Si accostò al bordo della piscina, posando un ginocchio a terra e indirizzando al suo bailye un’occhiata indagatrice.
«Sono tutto intero, non guardarmi così» si lamentò Anshar.
«Ne sei certo?»
«Neyosh, ti prego…»
Lungi dal rassegnarsi, questi saltò nell’acqua fredda completamente vestito e gli scostò senza tante cerimonie la folta chioma dalle spalle. Anshar avvertì le sue dita tiepide e gentili sulla schiena.
«Lo sapevo! Hai un livido grande come il mio pugno!»
«Tsk, mi hai fatto venire un colpo! Non lo sento neanche!»
«Te ne accorgerai domani. Dov’è l’unguento che ti ha dato la Aethalas?»
Neyosh fece per uscire dalla vasca, ma il bailye lo afferrò per il polso.
«Non trattarmi come quando avevo cinque anni!»
«Come vuoi che ti tratti, Anshar?» ribatté l’altro, rifilandogli uno sguardo duro e tentando di liberarsi dalla sua stretta.
Il capotribù sorrise al tono brusco, che era il manifesto sensibile dell’apprensione del compagno. Non allentò la presa: nei suoi occhi striati di giada, accanto alla dolcezza di sempre, c’erano fierezza e determinazione.
«Siamo pari, Neyosh. Perché non lo riconosci una volta per tutte?»
Il giovane Rhevia scosse la testa, rinunciando a ribellarsi e sostituendo la meraviglia con la rassegnazione.
«No. Tu adesso sei il bailye e, a quanto vedo, sei diventato più forte di me.»
Anshar aprì la mano, svincolandolo e incrociando il suo sguardo sconsolato.
«Questo non cambia nulla. Ciò che è importante non è mutato in ragione del mio titolo o perché sono cresciuto. I miei sentimenti sono quelli di sempre.»
Gli occhi scuri di Neyosh si riempirono di lacrime. Assentì, abbassando il volto.
«Non mi perderai mai, se è quello che temi. Tu sei il mio amato fratello, Neyosh.»
«E tu il mio, Anshar. Voglio proteggerti come non ho saputo fare con Daara. È l’unico modo in cui riesco a dimostrarti che darei la vita per te.»
«Non devi provare nulla. È il tuo affetto che mi dà il coraggio e in base a questo, talvolta sono in grado di badare a me stesso. Perciò…»
Indicò la porta con un cenno aggraziato. Neyosh fece balenare un mezzo sorriso e uscì dall’acqua, facendo tintinnare i monili colorati che indossava al collo e ai polsi.
«È sempre più arduo spuntarla con te. Ma se è un ordine, non lo discuto.»
«Per niente. Il balsamo che cerchi è sul tavolo.»
Neyosh inarcò un sopracciglio, mentre l’amico d’infanzia puntava l’indice verso di lui, additando la sua camicia bianca resa trasparente dall’acqua.
«Hai preso una bella botta, vedo. Serve prima a te che a me.»
Il giovane Rhevia notò la macchia violacea che gli colorava il fianco e sogghignò.
«Ci vediamo nella stanza di Daara?»
«Sì. Ma prima vorrei chiederti una cortesia» aggiunse Anshar un po’ imbarazzato «Mi procureresti qualcosa da indossare? Quello che ho è inservibile.»
Neyosh scoppiò a ridere.
 
«Lui no!» sbottò Phylana ostinata, parandosi a braccia aperte davanti alla guaritrice, giunta scortata da un paio di robusti soldati «Non lo toccherete!»
L’anziana donna sbigottì a fronte di una simile grinta, sentendosi stringere il cuore. Il suo era un compito ingrato ma non evitabile.
«Mia signora» mormorò, assuefatta alle preghiere strazianti e all’opposizione di chi ancora credeva che la vittima prescelta da un daimar potesse riaversi «Sono giorni che il ragazzo Rhevia versa in quelle condizioni disperate. La sofferenza della sua anima contribuisce a irrobustire i nostri nemici. Non permettete che venga svuotato della sua essenza con questo stillicidio.»
«Non mi avete sentita!? Andatevene! Non ve lo lascerò uccidere!»
Gli occhi bruni della guaritrice si velarono di consapevole dolore, mentre i due uomini in uniforme si accinsero a usare le maniere forti come era stato loro ordinato.
«Non vi conviene» minacciò la ragazza, alzando contro di loro l’arco già armato.
«Phylana!?»
Neyosh entrò a passo svelto nel vestibolo, seguito a breve distanza da Anshar: appena scorsero la scena, una tragica comprensione si instillò nelle loro menti.
«Sono venuti per Daara!» spiegò lei frenetica «Vogliono dargli l’amlythi! Diteglielo voi che lui guarirà!»
Il portavoce dei Rhevia si fece avanti inquieto e i convenuti si inchinarono formai, pur senza retrocedere.
«Potete chiamarmi assassina, bailye» mormorò la guaritrice, prevenendo le ben note obiezioni «Non avreste torto. Quando ho studiato l’arte medica, ho giurato davanti agli dei che mi sarei dedicata a salvare gli esseri umani e mai avrei immaginato, in tutti gli anni che mi pesano addosso, di dover compiere l’opposto. È con sofferenza che privo i moribondi della vita e nemmeno la ferma convinzione di strapparli così ai demoni, non ai loro cari, può alleviare la mia pena. Ho visto morire da morte le persone che amavo. Fidatevi delle parole di questa odiosa vecchia. Lasciate che il vostro compagno si spenga in pace.»
Anshar ascoltò la dolorosa preghiera, poi si prostrò a terra.
«Ma cosa…?» ringhiò Neyosh allibito.
Il capotribù lo fermò con un cenno della mano e abbassò la fronte.
«Non oserei mai accusare voi, che portate l’unica misericordia possibile alle attuali risorse degli esseri umani» disse con voce vibrante, mentre l’anziana lo fissava confusa «Non un’omicida, bensì una madre premurosa: così al mio sguardo, signora. Vi sarò grato e basta, quando risparmierete all’anima del mio amico la lenta discesa nelle tenebre che lo hanno catturato. Ma non stanotte, vi prego. Ho visto troppo sangue, troppa morte, troppa privazione. Non nel buio di queste ore, nelle quali anche il sole rovente della nostra terra pare temere le ombre e il gelo. Tornate domattina, vi supplico, nella luce benedetta del giorno. Allora sarò pronto a dare l’addio a costui, che amo più di me stesso.»
La donna faticò a contenere la commozione. Annuì e segnalò alle guardie di seguirla.
«Che Amathira vi salvaguardi, bailye. Avete il mio rispetto e la mia ammirazione. Ma siate pronto a guardare in faccia l’oscurità.»
Il ragazzo strinse i pugni e non si mosse dalla posizione di supplice. Phylana abbassò l’arco, mentre Neyosh porgeva la mano al compagno per aiutarlo a risollevarsi.
«Non avresti dovuto umiliarti così! Daara non l’avrebbe permesso!»
Anshar dovette sostenersi a lui: era pallido, le sue mani tremavano per la tensione. I lunghi capelli sciolti e ancora bagnati gli incorniciavano il volto, facendolo sembrare più giovane dei suoi ventidue anni. La camicia aderente, di una tenue sfumatura arancio, diversa da quelle tipiche della sua gente, metteva in risalto le sue iridi nocciola sfumate di verde, lucide come gli ornamenti che splendevano sul suo petto tra i lembi slacciati di seta leggera.
«Grazie» mormorò rivolto alla ragazza «Mi sono precipitato appena ho saputo, ma se non fosse stato per te…»
Si diressero al capezzale di Daara, che giaceva incosciente dove lo avevano lasciato alcune ore prima. Era cereo, le occhiaie nere spiccavano sulla pelle umida di sudore freddo, le sue labbra erano aride e tirate, il suo respiro ridotto a un rantolo soffocato. Gli occhi bruni erano semichiusi, vacui, e fissavano il nulla assoluto in cui era precipitato.
«La sua ferita stenta a guarire» sospirò Neyosh, osservando le bende macchiate di rosso che gli fasciavano l’addome «Eppure non appare grave.»
«È un effetto di quelle maledette spade nere!» asserì Phylana, irata «Neppure mastro Omiron riesce a capire di quale sostanza si tratta. Se solo la mia tribù fosse qui!»
«Ombra, ecco l’unico veleno» sussurrò Anshar, accarezzando la chioma castana dell’amico in fin di vita «Il nostro affetto non è sufficiente a contrastarlo.»
«Non dire così bailye!» obiettò lei risoluta «Sono certa che Daara  vorrebbe tornare da te! È debole, ma non significa che sia indifferente o insensibile!»
Si fermò imbarazzata, realizzando di aver alzato la voce senza volerlo. I due Rhevia la guardarono a metà tra lo stupore e la comprensione: Narsas. Lei stava certo pensando a suo fratello. Per quello aveva impedito alla guaritrice di somministrare al moribondo la tossina letale e indolore che lo avrebbe graziato, per quello non si rassegnava e gli restava accanto sebbene non lo conoscesse affatto.
«I-Ishat…»
Anshar trasalì e un brivido gelido gli corse lungo la schiena.
«Ha parlato!» esclamò Neyosh, afferrando la mano scarna dell’amico in agonia «Daara, siamo qui con te! Cerca di reagire! Daara!»
«Ishat, mia amata…»
Le dita del ragazzo si tesero verso Phylana e il suo sguardo rimase offuscato, perso in una realtà diversa.
«Ti ha scambiata per mia sorella” mormorò Anshar sconvolto «Non può vederti, ma qualcosa di te… qualcosa di lei…»
La Aethalas indietreggiò spaventata, memore dell’episodio antecedente, per evitare un’ulteriore pena al ragazzo, ma lui continuò a delirare sotto gli sguardi desolati dei compagni, sordo ai loro richiami, invocando a donna di cui era innamorato. Prese a contorcersi e a gridare nel disperato tentativo di arrivare a lei.
«Anshar, aiutami a tenerlo fermo!» invocò Neyosh «La ferita si è riaperta, se continua così strapperà i punti!»
Il bailye si coprì il volto con le mani e tutto il peso di ciò che gli aveva preannunciato la guaritrice gli precipitò addosso, gettandolo nella disperazione. Ma si fece coraggio e si obbligò a costringere l’amico tra le coltri.
Phylana fissò la scena come in trance, sconvolta per l’orrore e la compassione. Anche il koreyon sortiva quell’effetto? Il veleno più potente del mondo riduceva gli esseri umani a larve al pari del giovane uomo che si dimenava inerme in quel letto? Uccideva con la medesima terrificante lentezza, privando la vittima della sua vera anima, aggiungendo alla sua tragica sorte un’amara consapevolezza?
Narsas…
«Lei… com’era?» balbettò con un filo di voce.
Il capotribù le rivolse uno sguardo angosciato, filtrato dalle lacrime trattenute.
«Tua sorella! Assomigliava a me!?»
«No, somigliava vagamente ad Anshar!» lo prevenne Neyosh «Era bellissima e dolce, determinata, ma molto femminile…»
Tacque di botto, realizzando che le sue parole sottintendevano che la Aethalas non possedeva tali doti.
«Prestami la tua stola!» enfatizzò lei, trascurando il commento fuori luogo.
Il bailye sciolse la fascia dai fianchi, pur senza aver inteso le sue intenzioni. Phylana lo ringraziò con un cenno del capo. Staccò con urgenza dal passante il telo di lino ricamato che schermava la finestra e si sfilò dai capelli il fermaglio decorato che li teneva raccolti.
«Voltatevi!» intimò ai due ragazzi «Se mi guardate, giuro che non ve la perdono!»
I Rhevia avvamparono e si affrettarono a eseguire l’ordine, riportando l’attenzione sul loro compagno, che continuava a essere scosso dagli spasmi dei vaneggiamenti.
La ragazza abbandonò l’arco e si spogliò degli abiti maschili, si passò la sciarpa di seta intorno al seno e al collo, come facevano per tradizione le coetanee della sua gente. Piegò di sbieco la tenda e la allacciò sui fianchi, lasciando scoperto l’ombelico e conservando la gamba destra libera nello spacco creato sotto il nodo. Si ravviò la lunga chioma bruna e ondulata, che le scendeva oltre metà schiena e avanzò decisa prima di pentirsi, darsi della sciocca e di mutare proposito.
«Fate spazio» ingiunse ai due, costringendosi a ignorare la sgradevole sensazione che quell’abbigliamento muliebre le infliggeva.
Si inginocchiò al capezzale di Daara e permise che lui le abbrancasse la mano. La sensazione di malessere viscerale si accrebbe al contatto con le sue dita contratte, ma resistette.
«Ishat, sei venuta per me… mi sei mancata tanto…»
«Daara, sono qui per pregarti di non cedere all’ombra. Di lottare come tu sai fare.»
«Io voglio stare con te… sono così stanco…»
«Lo so. Ma i tuoi amici hanno bisogno di te, non puoi abbandonarli proprio adesso. Io resterò al tuo fianco, anche se ti sembrerà di non vedermi. Torna da loro, Daara. Non venire qui, non ancora.»
«Ishat, ti amo… avrei voluto sposarti… renderti felice…»
Phylana scacciò il nodo che le serrava la gola ed evitò i volti stravolti dalla sofferenza silenziosa dei Rhevia ritti alle sue spalle.
«Anch’io ti amo. È saperti vivo che mi dona una gioia immensa. Resisti, per me.»
«Portami con te, amore mio… non te ne andare di nuovo da sola…»
«Non è il momento, Daara. Ti attenderò finché non sarà giunto il tuo tempo e con questo rinnovo la promessa eterna che ci siamo scambiati. Ma non venire qui!»
Il ragazzo ansimò, inarcandosi per il dolore insostenibile che sentiva nei recessi della propria essenza e la sua stretta si fece più tenace.
«No… no, quel tempo è adesso!» farneticò tra i rantoli accelerati «Unirò la mia anima alla tua, per sempre… Ishat, mio unico amore… prego soltanto questo…»
«No! Daara, prometti che non ti arrenderai! È il dono sponsale che ti chiedo!»
«Aspettami, mia dolce Ishat…»
Il giovane si tese in un ultimo ansito flebile, poi ricadde inerte sulle lenzuola candide. La sua mano si afflosciò tra quelle serrate della Aethalas.
Neyosh emise un urlo straziante, scoppiando in un pianto disperato sul corpo inanimato dell’amico, appoggiando la fronte sul suo petto esausto e immobile, abbracciandolo forte in preda a uno sconforto insostenibile. Anshar rimase in piedi, fissando il viso spento del compagno con la destra aggrappata al cuore che gli pareva spaccato in due, mentre le lacrime prendevano mute a scendere sulle sue guance.
Phylana scivolò all’indietro, lontana da quel letto ormai silenzioso. Corse fuori dalla camera in preda al tormento, attraversando i giardini del palazzo senza una direzione stabilita e non si fermò finché non le mancò il fiato. Cadde in ginocchio sulla sabbia fine, serrandola nei pugni in preda a una fitta lancinante e rabbiosa: si piegò ansimando e diede di stomaco.
Per lo sforzo che si era imposta, per la partecipazione che aveva trattenuto, per il dolore che aveva percepito sui lineamenti del ragazzo morente e dei suoi amici, per l’oscurità che li avrebbe divorati uno alla volta. Per Narsas, che non avrebbe mai rivisto, per quanto di terribile le era accaduto. Non ebbe la cognizione del trascorrere dei minuti e rimase a terra finché non riprese il controllo delle gambe, che si rifiutavano di sorreggerla: anelava rivestire i propri panni, poiché così abbigliata si sentiva nuda e vulnerabile. Voleva riprendersi l’arco che aveva dimenticato nella stanza di Daara, ma non se la sentiva di violare il raccoglimento dei Rhevia, la loro immane sofferenza per la perdita del compagno. Si sentiva un’intrusa: tra i giovani di quella tribù, con quei vestiti femminili indosso, nel mondo che non riconosceva più.
Le stelle ammiccarono indifferenti dalla volta celeste, prive di risposte.
Si trascinò a una delle fontane della reggia, si sciacquò le labbra e il volto: i capelli sciolti, cui non era più abituata, la intralciarono scossi dall’aria fresca della notte. Appoggiò la schiena al bordo istoriato della vasca e socchiuse gli occhi alla brezza pungente del deserto, che le increspò l’epidermide scoperta.
«Phylana…»
La voce gentile di Anshar la raggiunse, vicina: il bailye era a pochi passi lei e i suoi tratti attraenti, rischiarati dal lucore soffuso degli astri, erano intrisi di afflizione.
«M-mi dispiace» mormorò addolorata.
I piedi nudi di lui lasciarono orme leggere sui granelli impalpabili di rena. La camicia, non fermata dalla fascia che le aveva dato, schioccò serica all’aria notturna.
«Ti stavo cercando, desideravo ringraziarti per ciò che hai fatto.»
«Non avresti dovuto lasciare Neyosh da solo. E poi… non è servito a nulla!»
Le iridi chiare del capotribù luccicarono, cariche di emozioni forti e trattenute.
«Neyosh sa badare a se stesso. Il nostro Daara si è spento in serenità, perché tu hai permesso che nei suoi ultimi istanti ti credesse mia sorella. Ti sono riconoscente, so che ti è costato.»
«No. L’ho fatto perché in lui ho rivisto mio fratello e ho tentato inutilmente di salvarlo! Volevo che almeno lui… sono una stupida!»
«Per quanto mi riguarda, hai consentito che fosse l’amore a parlare e ciò non ha prezzo. La mia difettosa gratitudine appare una manchevolezza rispetto a quanto hai donato al mio caro Daara.»
Phylana spalancò gli occhi e lo guardò ammirata: nonostante tutto, lui riusciva a mettere in campo termini dignitosi, a credere all’esistenza di sentimenti positivi in mezzo a un mare di pena. Avvertì le lacrime salire con furia, ma le ostacolò con tutte le proprie energie. Rabbrividì, stringendo le ginocchia al petto.
Anshar le si inginocchiò accanto, si sfilò la lunga camicia smanicata e la appoggiò sulle sue spalle. Le collane sul suo petto nudo scintillarono con vigore. La mano che appoggiò a terra la rasentò senza toccarla. Lo sentì inalare il fiato.
«Non devi, questa notte è particolarmente fredda!»
La seta arancio era calda, emanava l’odore maschile e lieve di lui.
«Lo è anche per te. Ti terrò compagnia, finché non sarai pronta.»
«Pronta?» ripeté lei, come se fosse una parola sconosciuta.
Il ragazzo annuì, continuando a fissare le stelle. Phylana abbassò la fronte sulle braccia intrecciate e la chioma bruna la nascose. Diede voce al dolore.
«Tu credi che anche Narsas abbia sofferto così tanto? Che abbia cercato un volto amato nell’agonia?»
«Se possiede solo un granello della tua resilienza, credo che sia ancora vivo.»
La Aethalas avvertì un tuffo al cuore. La sua voce si incrinò di pena atroce.
«Ho paura che muoia da solo! Non voglio, Anshar!»
Il giovane Rhevia abbassò lo sguardo: le lacrime ripresero la loro corsa attraverso la sofferenza soverchiante. Le asciugò.
«No devi pensarlo. Hai visto anche tu ciò che l’amore può. Non è la distanza fisica a ostacolarlo.»
Si coprì gli occhi con la mano, accasciandosi con un sospiro che era disperazione pura. Le dita della sua destra sfiorarono inavvertitamente quelle di lei, che non si ritrasse. Phylana si sentì impotente: non era in grado di confortarlo, di trovare le parole giuste come faceva lui, ma lo comprendeva e avvertiva in lei lo stesso dolore.
«Ci ha lasciati» tremò Anshar, privo del timore di mostrarsi fragile agli occhi altrui «Non riesco a crederlo, Daara non c’è più! Se n’è andato!»
Cedette alla disperazione, che si espresse in singhiozzi che lo fecero vacillare. Lei gli prese la mano come aveva fatto con quella del suo amico d’infanzia: era calda e vibrava di vita. Il pianto che aveva soffocato per mesi ruppe gli argini suo malgrado e sfogò in una scia silenziosa e salata, bagnando la sabbia argentata che li divideva.
Anshar si sentì toccare e sollevò il viso: d’istinto le sfiorò la guancia, a detergerle quelle lacrime che non avrebbe mai pensato di scorgere. La ragazza trasalì.
«Scusami, non volevo…»
Prima che potesse continuare, Phylana gli si abbandonò contro, scossa dai singulti. Anshar la cinse con le braccia, mescolando le proprie lacrime alle sue in un abbraccio che condivisero senza vergogna.
«Avevo giurato di non piangere. Ho infranto il mio voto...»
«Gli dei ti dispenseranno da quella promessa. Anche questo è ciò che l’amore può, ciò di cui il tuo cuore ha bisogno per non soccombere.»
   
 
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