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Autore: Marti Lestrange    16/11/2020    9 recensioni
L’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Haydon Hall non è un bel posto, e basta una sola occhiata per dirlo, ma James Sirius Potter è costretto a trascorrervi un intero anno, per scontare una punizione che in fondo sa di meritare. Quando mette piede nella Scuola non si aspetta, però, che l’atmosfera da incubo lo trascinerà in un incubo vero, con radici profonde in parti della storia magica che nessuno vuole più ricordare, segreti di famiglia e purezza di sangue, lacrime e morte. Una storia in cui la giovane Emma Nott, studentessa ribelle appena arrivata alla Scuola, non può non rimanere invischiata, il richiamo del suo stesso sangue troppo forte per opporsi.
[ dal testo: Nessuno sa quando tutto è cominciato, qui alla grande casa. C’è chi dice che l’inverno del 1981 sia stato uno dei più duri, sia per coloro che vivevano al villaggio, sia per chi abitava tra queste mura fredde e spoglie; c’è chi asserisce che non ci sia stata primavera più bella di quella che ne è seguita, quando cespugli di rose sono cresciuti, a maggio, nei giardini e tra le siepi, e si sono arrampicati sulla facciata ovest, per poi morire ai primi freddi successivi. ]
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Sirius Potter, Michael Corner, Nuovo personaggio, Pansy Parkinson, Theodore Nott
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'GENERATION WHY.'
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Il capitolo di oggi è tutto dedicato a mia sorella Alice,
visto che è il suo compleanno,
e se avessi voluto pianificare la pubblicazione
proprio di questo capitolo, proprio oggi,
probabilmente non ci sarei riuscita,
ma ci ha pensato il caso; tanti auguri ♥︎

 


 

THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO DUE

 

 

“Questi luoghi non vanno bene 
per l’immaginazione.
In questi luoghi, la notte non è foriera
di sogni tranquilli..”
H. P. Lovecraft, Il colore dallo spazio

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 1° settembre 2023

«Quel posto è libero?»

Emma Nott alzò la testa dal suo libro, scocciata. Puntò lo sguardo su una ragazza bionda, inquadrata nel vano d’entrata del suo scompartimento (o che almeno aveva amato definire tale finché quella non era arrivata a disturbarla), vestita di tutto punto nemmeno stesse andando ad un ricevimento e un sorriso fin troppo educato e solare dipinto sul bel viso. Emma lanciò uno sguardo al sedile di fronte (sul suo aveva disseminato la giacca che si era tolta d’impeto, il diario rilegato in pelle di drago dove appuntava i suoi pensieri e redigeva la sua lista nera, sempre in aggiornamento, alcuni libri e carte di caramelle che aveva mangiato per farsi passare il nervoso) e annuì, seppur di malavoglia. 

 

[ISABELLE]

 

«Oh, grazie!» La ragazza le sorrise ancora e poi entrò, trascinandosi dietro non uno, ma ben due bauli. Emma notò che a tracolla portava una borsetta nera decorata con delle borchie e storse il naso. Le borchie facevano così cafone finto metallaro dei primi anni 2000 che cercò di dimenticarle. La guardò faticare mentre cercava di issare i bauli (che sicuramente contenevano cose utilissime) sopra la reticella, ma non mosse neanche mezzo muscolo per darle una mano. Anzi, si divertiva un mondo. Alla fine, l’altra si sedette sbuffando, ma le rivolse comunque un sorriso. 

«Non mi sono presentata, che maleducata che sono», iniziò. «Mi chiamo Isabelle. Isabelle Williams. Ma puoi chiamarmi Izzy, o Iz, come vuoi», aggiunse tendendole la mano. 

Emma si sporse per stringergliela, pensando già a quanto quella Izzy dovesse amare chiacchierare. Proprio come lei, eh. 

«Emma Nott. Puoi chiamarmi Emma.»

Isabelle scoppiò a ridere. «Bella, questa! Sei simpatica.»

Ah, be’

Emma le rivolse un sorriso forzato che sperava sembrasse tale e poi riprese in mano il suo libro, augurandosi che Isabelle capisse l’antifona e la lasciasse in pace. La ragazza sembrò arrivarci, all’inizio, perché si sporse dal finestrino per osservare la banchina della stazione di Liverpool Street dalla quale stava per partire il loro treno, che le avrebbe condotte nel buco-di-culo del Norfolk, ultima destinazione per un intero anno scolastico. Che schifo di vita.

I suoi genitori l’avevano accompagnata alla stazione, e suo padre Theodore fin sul binario segreto dal quale sarebbe partita, ma lei aveva insistito perché se ne andasse. Non era più una bambina che salutava dal finestrino, eccitata ed elettrizzata all’idea di iniziare Hogwarts, anzi, era incazzata nera, e sarebbe stato meglio per tutti salutarsi lì e ognuno per la propria strada. Alla fine del precedente anno scolastico, ne aveva combinata un’altra delle sue, e questa volta, a quanto pareva, si era spinta un po’ troppo oltre, o, come le aveva detto la preside McGranitt con la sua consueta furia calma, quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il calderone. Pensava che appiccare il fuoco a dei vecchi arazzi polverosi e tarmati fosse stato più un favore alla comunità che motivo di punizione ma, in base a ciò che ne era derivato, non doveva essere stato così per tutti. E così i suoi genitori, convocati entrambi al castello, avevano assicurato alla McGranitt che avrebbero preso seri provvedimenti, e quindi, per evitare l’espulsione, avevano deciso di spedirla un intero anno all’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall, e con riserva, cioè non era affatto detto che, alla fine dell’anno, le avrebbero accordato il permesso per tornare a Hogwarts. C’era la concreta possibilità che dovesse terminare i suoi studi a Heydon Hall. Bell’affare. 

«Tu non hai nessuno?» Era da un po’ che Isabelle non la interpellava, forse due minuti esatti. Un’infinità di tempo.

«Come, prego?»

«Mi chiedevo: non hai nessuno da salutare? Che ti abbia accompagnata?»

«Oh, no, sono orfana.»

«Oooooooh», sussurrò Isabelle portandosi entrambe le mani al viso. «Mi dispiace tanto.»

«Sono cose che succedono», bofonchiò Emma cercando di non ridere. «Ero molto piccola quando è successo.»

«E com’è successo? Se posso chiederlo…»

«Stavano facendo un safari in Africa. Incidente stradale1. Sai, mio padre non era poi così abile a guidare le automobili come voleva far credere a tutti… Ma io ero molto piccola, non me li ricordo, praticamente.»

Fin da piccola, amava inventare storie, che molto spesso si rivelavano essere non solo semplici storie di fantasia, ma vere e proprie panzane che rifilava agli altri, e alle quali tutti inevitabilmente credevano - tranne coloro che la conoscevano bene, ovvio, ma non erano molti. 

Isabelle la guardava, gli occhioni azzurri sbarrati. «Che tragedia.»

Emma annuì. «Sono cresciuta con mia nonna, ma sai, lei ultimamente sta poco bene. Psicologicamente, intendo. Ha parecchi problemi legati al suo… » indugiò, facendo una pausa teatrale, «…al suo passato oscuro.»

Gli occhi di Isabelle assunsero la dimensione di due piattini. Emma se la stava rigirando intorno al dito e se la godeva un mondo. 

«Non mi piace parlarne, sono sicura che capirai.»

«Oh, certamente, figurati.»

«Invece tu? Non mi pare di averti mai visto, a Hogwarts.»

 

[I NOTT]

 

Emma sapeva benissimo che Isabelle non frequentava Hogwarts, altrimenti il suo cognome, “Nott”, non avrebbe potuto far altro che rievocare vecchie storie, ricordi sepolti nel tempo ma mai veramente dimenticati, un retaggio che lei, e non solo lei, si portava dietro da sempre, e che non l’avrebbe lasciata mai. Era dura, essere una Nott. Emma era cresciuta con due genitori molto diversi ma allo stesso tempo sempre concordi, fermi nelle loro posizioni e determinati a dare a lei e ai suoi fratelli un’educazione per bene e un rigore quasi marziale. Suo padre Theodore era un giocherellone e la viziava da matti, come non aveva mai viziato i suoi fratelli, l’accontentava sempre e cedeva sotto quello “sguardo da cerbiatta” (come le diceva lui), tenero ma furbetto. Sua madre, Victoria, era forse più severa, ed era quella che aveva più riguardo per le apparenze, ma che le aveva insegnato a tenere duro, ad affrontare le asprezze della vita a testa alta, a non cedere mai, e a non mettere da parte i principi per l’omologazione, a non sottomettersi a nessuno, a non provare vergogna per chi era e per il nome che portava. Era stata sua madre a forgiarla. Ed Emma era quella che le somigliava di più, sia caratterialmente sia fisicamente. I gemelli Caleb ed Elizabeth (detta Lizzie), più grandi di lei di due anni, erano l’immagine di Theodore: occhioni azzurri come il cielo, labbra piene e capelli castani, tranquilli, pacati, miti, ma scherzosi e pieni di vita e di cose da fare e di amici da frequentare. Lei, invece, era proprio come sua madre: lunghe gambe magre, capelli e occhi scuri, un bel caratterino e fin troppi fantasmi a tormentarla. 

 

[IL RACCONTO DI ISABELLE]

 

«Sono nata e cresciuta negli Stati Uniti», cominciò a spiegare Isabelle, contenta di essere stata invitata a discorrere di se stessa. «Ho frequentato Ilevermony fino allo scorso anno. Poi mia madre è morta», il viso le si rannuvolò, «e sono stata spedita dai miei unici parenti in vita, i miei zii inglesi. Avrei dovuto cominciare il mio sesto anno ad Hogwarts, a settembre, ma dopo una sola estate gli zii hanno deciso di mandarmi a Heydon Hall per correggere la mia iperattività, cito testualmente.»

«Che simpatici», commentò solo Emma, ed era sincera, questa volta. 

«Da morire. In realtà mio zio è un Babbano e non ci capisce moltissimo. Mia zia era la sorella di mamma, è anche lei una strega, ma sembra quasi aver abbracciato lo stile di vita del marito, se capisci cosa intendo.»

«In pratica si è trasformata in una Maganò.»

Isabelle annuì. «In pratica sì. Terribile. A casa loro vivevo quasi da reclusa, e ovviamente non potevo usare la magia, ma un giorno è capitato. La zia mi ha chiusa nella mia camera perché le avevo risposto male durante una cena, e mi hanno lasciata lì dentro, senza cibo e con solo l’acqua del lavandino del mio bagno personale a impedirmi di collassare. E allora ho usato la magia per sradicare la porta», aggiunse scrollando le spalle. «Ho fatto un macello, Emma. Ero così incazzata che ho continuato a distruggere cose lungo il mio cammino, fino a quando mia zia non è intervenuta chiamando il Ministero. Ed eccomi qui, sulla strada per la redenzione.»

Emma si lasciò sfuggire un sorriso. Isabelle cominciava a starle simpatica e quasi si pentì di averle rifilato la palla sui suoi genitori, ma ormai era tardi per correggersi. 

«Be’, vedila così: almeno te li sei tolti dai piedi per un po’. E, se tutto andrà bene, il prossimo anno sarai a Hogwarts, poi diventerai maggiorenne e sarai libera di andare per il mondo. E tanti saluti a quegli infami.»

«Mi piace il tuo modo di vedere le cose», ridacchiò l’altra. «Spero solo che le voci che girano su Heydon Hall siano solo vecchie superstizioni…» Rabbrividì ed Emma aggrottò le sopracciglia.

«Lo vuoi sentire un racconto del terrore, Emma?»

Quest’ultima ridacchiò. «Non ho paura di alcune vecchie storie, ma sono curiosa.2»

 

[STORIE DI FANTASMI]

 

Isabelle si sistemò meglio sul sedile e solo in quel momento Emma realizzò che si erano lasciate Liverpool Street alle spalle da un pezzo, erano ormai in piena campagna, e il treno sfrecciava in mezzo al verde e all’azzurro. All’orizzonte, però, si intravedevano spesse nuvole temporalesche.

«Si dice che la casa sia infestata dal fantasma di una donna», prese a raccontare Isabelle abbassando la voce. «Qualcuno racconta che si tratta di una donna impazzita tra quelle mura, rinchiusa in una stanza dalla sua stessa famiglia, desiderosa di renderla innocua e inerme, e ogni anno, il trentuno di ottobre, esce dalla sua stanza e uccide chiunque trovi sul suo cammino. Qualcun altro, invece, parla di una martire che, dopo essere stata maltrattata dalla matrigna, si è tolta la vita, ma ha continuato a perseguitare la malvagia donna fino alla fine dei suoi giorni, facendola impazzire e, infine, morire di paura. Da quel giorno, il fantasma della povera ragazza vaga tra quei corridoi, senza né pace né requie, e ogni anno qualcuno perisce sotto la sua spaventosa magia. Insomma, di qualsiasi versione si tratti, parliamo di un fantasma veramente incazzato, e non oso immaginare cosa possa fare, un fantasma incazzato.»

«Be’, ammettendo che esista, e ne dubito fortemente, cosa potrebbe fare, sentiamo? Ribaltare mobili? Far tremolare i quadri appesi alle pareti? E altre cose così tipicamente paranormali per suggestionare i creduloni? Wow, che paura», ed Emma agitò le mani sotto il naso di Isabelle, solo per darle fastidio, e questa scosse la testa. 

«Non capisci, Emma, un fantasma incavolato non è mai da sottovalutare.»

«Ho vissuto cinque anni con fantasmi che scorrazzavano per Hogwarts e non ne ho mai visto uno incavolato. Solo il vecchio Barone è inquietante, ma non ha mai mosso un dito contro noi Serpeverde», raccontò, fiera.

Isabelle incrociò le braccia al petto, strofinandosi le braccia come se avesse freddo. «Ho sentito parlare dei vostri fantasmi, ovviamente.»

«Ecco, ti posso assicurare che non c’è nessun fantasma, a Heydon Hall, Izzy. E, se anche ci fosse, lo farei scappare io.»

«Sei troppo forte, Emma.»

Emma le sorrise. «Me lo dicono in tanti.»

 

🥀 

 

[HEYDON HALL E LA CONFISCA DELLE BACCHETTE]

 

Heydon Hall si apriva di fronte ad Emma, stagliata contro il cielo tempestoso, nero di nuvole cariche di pioggia. Era solo un giorno di inizio settembre, ma sembrava già autunno, quando fa subito sera. Le finestre della magione erano tutte illuminate, ad accezione del gruppo a ovest, e il portone di legno a due battenti era aperto. Emma percorse il viale accanto a Isabelle e in mezzo agli altri studenti, allungando il collo per osservare e intravedere non solo la casa, ma anche il parco che la circondava tutt’intorno, e che l’avvolgeva nelle sue oscure spire. Il viale di accesso sterrato conduceva alla rotonda antistante l’ingresso principale, e un gruppo di folti alberi, alti e scuri, si innalzava a est, per andare poi a perdersi nel giardino sul retro. 

«Mi chiedo perché quelle finestre siano buie», cominciò Isabelle sussurrandole nell’orecchio a bassa voce. «E se fossero le vecchie stanze del fantasma?»

«Di quale versione?» replicò Emma, divertita.

Un ragazzo che camminava davanti a lei si girò e le rivolse un sorrisetto, per poi tornare a dirigersi verso Heydon Hall. Emma però non riuscì a interpretarlo, né in chiave ostile né in chiave amica, e quindi non replicò.

«La versione in cui la donna è stata rinchiusa, no?»

Emma non rispose, capì di non avere la forza per contraddire Isabelle e le sue strenue convinzioni. Capiva anche che il suo scetticismo non potesse essere valido per tutti.  

Giunti infine alla porta principale, davanti a loro si palesò una donna, tutta vestita di nero, i capelli biondi acconciati morbidamente sopra la testa e un paio di occhialini dorati che avrebbero fatto concorrenza a quelli della vecchia McGranitt. Rivolse uno sguardo severo a tutti, dai veterani del settimo anno fino ai tre o quattro bambini del primo, che parevano sul punto di svenire o vomitare. 

«Benvenuti, benvenuti.» Aveva una voce posata e dal timbro elegante, ed Emma immaginò che fosse una custode o una cosa simile. Era così diversa da quel pulcioso di Gazza, però, che le venne da ridere, ma si trattenne, non voleva farsi riconoscere senza neanche aver messo piede all’interno. 

«Benvenuti, e bentornati, a Heydon Hall, miei cari», proseguì la donna. «Per i nuovi arrivati, mi presento: sono Madama Pince, custode delle chiavi e di ogni cosa, viva o morta, che qui a Heydon Hall sia conservata.»

Viva o morta? Emma sentì Isabelle aggrapparsi alla sua manica, e non ebbe la forza di scrollarsela di dosso, in quel momento. Molto probabilmente la vecchia pipistrella amava alimentare le voci sui fantasmi per incutere timore ai novellini. 

«Siete pregati di dividervi nei soliti gruppi per età, mentre i neofiti sono invitati a raggiungermi qui, per cortesia.»

Emma fece un passo avanti e si trascinò letteralmente dietro Isabelle, che tutto voleva tranne che avvicinarsi troppo alla custode. Emma incontrò nuovamente lo sguardo del ragazzo che le aveva sorriso, ma lo distolse in fretta. Alla fine, un discreto gruppetto composto da quelli del primo anno e da pochi altri nuovi arrivati come lei e Isabelle si raccolse intorno a Madama Pince, che osservava ognuno di loro molto attentamente. Il suo sguardo indugiò un po’ più a lungo su di lei, come se la conoscesse, ed Emma immaginò che suo padre dovesse aver accennato al fatto che sarebbe venuta, visto che era una sorta di patrocinatore di Heydon Hall.

«Come da consuetudine, siete invitati a consegnare le vostre bacchette, che vi saranno restituite solo durante le ore dedicate alle lezioni. Questa è una delle regole più ferree e importanti di Heydon Hall, spero che tutti voi collaboriate in modo da vivere più serenamente possibile i giorni che vi aspettano qui.»

Ad Emma lo aveva raccontato suo padre, ovviamente, ma Isabelle sembrava esserne all’oscuro, perché si girò verso di lei, terrorizzata. «Consegnare la bacchetta? Come sarebbe a dire?»

«È la regola della scuola, Izzy, non possiamo fare altro che farcela andar bene.»

Gli altri studenti intorno a loro avevano già tirato fuori le loro bacchette, accalcandosi intorno alla Pince, che intanto aveva tirato fuori una specie di piccolo baule, dove a quanto pare avrebbe raccolto le bacchette dei ragazzi. 

«Forza, non facciamoci riconoscere già il primo giorno», continuò Emma sospingendo Isabelle verso la custode. 

«Dite il vostro nome poco prima di lasciar cadere la bacchetta nello scrigno, per cortesia», stava spiegando la donna. «Quando vi verrà ridata, lunedì mattina, prima delle lezioni, vi basterà pronunciare nuovamente il vostro nome e la bacchetta tornerà da voi.»

Isabelle si fermò di fronte a Madama Pince, che la guardava da sotto gli occhiali. «Forza, ragazza, o faremo tardi a cena.»

Isabelle sembrava davvero ricalcitrante all’idea, non si dava pace, ed Emma la sospinse ancora un po’ più avanti. Okay, nemmeno lei saltellava all’idea di consegnare la sua bacchetta e rimanerne sprovvista, togliere ad un mago la bacchetta era un po’ come tagliargli una gamba, o un braccio, o privarlo di un pezzo di cuore, ma suo padre aveva insistito tanto su quella regola, le aveva assicurato che sarebbero stati tutti al sicuro, lì, e che requisire le bacchetta significava che nessuno, tra gli altri studenti, avrebbe mai potuto cercare di aggredirla, anche solo per scherzo. Per contro, Emma aveva portato con sé un volume di incantesimi avanzati trovato nella biblioteca della madre e si era ripromessa che si sarebbe esercitata con i non-verbali durante le ore in cui le era permesso tenere la bacchetta, senza farsi scoprire, solo per prepararsi e tenersi pronta a qualsiasi evenienza. In fondo, sarebbe stata circondata da ragazzi difficili e talora turbolenti che non conosceva e non voleva che qualcuno la trovasse impreparata o che la considerasse un anello debole. 

Dopo che Isabelle si fu decisa, quasi al limite delle lacrime, arrivò il suo turno. «Emma Nott», pronunciò, scandendo bene le parole. Scambiò quindi una veloce occhiata con la Pince, che la osservava con attenzione, proprio come l’aveva osservata poco prima, e poi lasciò cadere la bacchetta nello scrigno. A quel punto, un fulmine squarciò il cielo, e tutti sobbalzarono per lo spavento. Tutti tranne la Pince, che rimase imperturbabile. Emma sentì Isabelle attaccata al suo fianco, tutta tremante. La custode si sporse in avanti per lanciare un’occhiata indagatrice al cielo sopra di loro. 

«Forza, forza, prima che inizi a piovere», disse quindi, il tono di voce risoluto e spiccio. E così, Emma e gli altri furono sospinti verso l’interno, mentre il resto dei ragazzi consegnava le bacchette. 

 

[RICHIAMI]

 

Emma alzò lo sguardo ad osservare gli stucchi, le dorature, gli intarsi, e quel soffitto affrescato con angioletti e puttini su un cielo azzurro da fiaba. Mille e più candele fluttuavano intorno al grosso lampadario appeso al soffitto. Un elegante scalone di marmo conduceva al ballatoio del piano superiore e dal centro della hall si snodavano quattro corridoi. Emma si soffermò ad osservare quello alla sua sinistra, che conduceva, presumibilmente, vista la posizione, alla parte della casa in cui le finestre erano rimaste spente, e sentì quasi come una vertigine avvolgerle la testa, e una forza magnetica farle prudere la gambe, come a volerla sospingere proprio lì, al fondo di quel passaggio, laddove regnava il buio. 

«Emma!»

La voce agitata di Isabelle la riportò alla realtà. La ragazza era ferma di fronte a lei e la guardava preoccupata. 

«Che c’è?» chiese lei scuotendo la testa, come a voler cacciare via la vertigine. 

«Ti ho chiamato tre volte», spiegò l’altra. «Stanno tutti andando a cena.»

Effettivamente, il resto della scuola si era già incamminato, e loro erano rimaste in piedi nella hall ormai vuota. 

«Stai bene?»

«Sto benissimo, sì. Andiamo.»

 

[LA PRIMA CENA]

 

Con la mente ancora scombussolata (ché Emma non riusciva a dare una concreta spiegazione a ciò che le era appena successo, tranne che tutto ciò fosse, alla fin fine, da imputare alla stanchezza del viaggio e allo stress provocatole da tutte quelle novità), seguì Isabelle fino al refettorio, che si rivelò essere un’ampia sala (anche se non quanto la Sala Grande, ovviamente), ben illuminata e disseminata di tavoli da circa quattro o cinque persone ciascuno, che li avevano occupati senza alcuna logica apparente. Con sgomento, Emma notò infatti che tutti sembravano aver trovato un posto, tranne lei e Isabelle. Il suo sguardo venne però catturato dai due tavoli posti al fondo della sala, nello specifico da uno dei due, al quale era seduta proprio la persona che, sulla carta, aveva meno a che fare con Heydon Hall: James Sirius Potter. 

Ovviamente, sapeva tutto del caso Jenkins, quella Rita Skeeter aveva scritto un bell’articolo piuttosto esplicativo e dettagliato su com’era andata a finire la faccenda, per il clan Potter-Weasley, e quindi tutti sapevano che James Sirius - il brillante e vivace e perfetto James Sirius - avrebbe trascorso un anno a Heydon Hall per “svolgere servizi utili alla comunità”. Inoltre, Emma aveva chiesto delucidazioni al padre e anche se lui le aveva detto nulla di più di ciò che era stato scritto sul Profeta, aveva aggiunto però che si sentiva molto rassicurato dal fatto che lei e James avrebbero trascorso un intero anno sotto lo stesso tetto - quasi come se si aspettasse che quel babbeo di un Grifondoro la potesse tenere d’occhio. Forse era più vero il contrario, visto che era stato lui ad aver Trasfigurato il corpo (morto) di Karl, e averlo gettato nel Lago Nero complice del suo fratellino Albus, mica il contrario. Certo, quel risvolto della vicenda le aveva permesso di guardare James con occhi diversi, quasi con il rispetto che solitamente intercorre tra “delinquenti” e “combina-guai”, ma l’idea di trovarselo tra i piedi l’aveva ridimensionata. Avrebbe preferito di gran lunga Albus, lui sì che sapeva come divertirsi, e poi era un Serpeverde proprio come lei. La sua cotta per il fratello Potter di mezzo, che l’aveva resa una primina ridicola, ai suoi tempi, si era ovviamente spenta, quando, durante il suo terzo anno, era uscita per alcuni mesi con lo stesso Karl, ma, soprattutto, quando aveva fatto coppia fissa con Braden Warrington, ex cacciatore della squadra di Quidditch di Serpeverde ed eterno ragazzaccio, per buona parte del suo quarto anno. Ora come ora si vergognava del flirt con il primo, ma doveva riconoscere che il tempo passato con il secondo, oltre a farle guadagnare parecchie punizioni, le aveva fatto decisamente passare i turbamenti deliranti - e allarmanti - per Albus Severus Potter. 

«Emma, quel ragazzo ci sta chiamando?» La voce di Isabelle la riportò nuovamente alla realtà - e a Heydon Hall. Seguì la direzione del dito dell’amica e notò il ragazzo di poco prima agitare una mano verso di loro, come a volerle chiamare. Fece loro segno di sedersi e, siccome non c’era più posto, Emma lo raggiunse, trascinandosi dietro Isabelle. Accanto a lui sedeva un altro ragazzo, sorridente, il che la fece ben sperare. 

«Grazie per averci invitato qui», disse subito Isabelle sedendosi. 

«Vi ho viste in difficoltà e ho pensato di venirvi in aiuto», rispose il ragazzo. 

Emma ebbe modo di osservarlo meglio, ora, alla luce delle candele. I capelli scuri sparavano da tutte le parti, scomposti e spettinati, ma ad arte, e gli occhi verdi erano segnati da due sottili linee nere di trucco; indossava una vecchia t-shirt di una qualche band Babbana che doveva chiamarsi Pink Floyd e che aveva visto tempi migliori, dato che sembrava macchiata e scolorita in più punti, anche se non sporca; alle mani portava un anello per dito ed Emma notò anche gli orecchini e i numerosi piercing alle orecchie, e forse ne intravide anche uno sulla lingua. Le sorrise e allungò una mano a presentarsi. 

«Archibald Fletcher3, è un piacere», disse. 

 

[ARCHIE E TYLER]

 

«Potete chiamarlo Archie, però, Archibald è troppo serio, per lui», intervenne l’altro ragazzo, che sembrava altissimo anche da seduto e aveva un fisico da giocatore di Quidditch, largo di spalle e quasi plastico, ma occhi buoni e sinceri e scherzosi.  Archie gli sorrise, ma in modo del tutto diverso da come aveva appena sorriso a loro due, maliziosamente complice.  

«Tyler ha ragione, solo mia nonna mi chiamava Archibald, pace alla sua anima.»

Isabelle sospirò. «Mi dispiace per tua nonna, Archie.»

«Grazie, fiorellino.»

Intanto, Archie continuava a tendere la mano verso Emma, così lei si affrettò a stringergliela. La presa fu decisa e forte e le piacque a pelle. «Emma Nott», disse quindi. 

«Nott come Theodore Nott?» esclamò il ragazzo chiamato Tyler, mentre Archie sbarrava gli occhi.

Emma annuì. «È mio padre, sì.»

«Tu sei la pargoletta di Theodore?» esclamò Archie. «Ma che sorpresa!»

«Noi adoriamo Theodore», proseguì Tyler, allungando una mano per stringere a sua volta quella di Emma. «Io sono Tyler Jordan4, è un piacere conoscerti, sento che andremo d’accordissimo.»

Emma gli strinse la mano sorridendo. Sentiva che le stavano simpatici, Archie e Tyler.

«Ti avverto che Tyler è il mio ragazzo, quindi tieni quelle lunghe gambe lontane da lui» aggiunse Archie, scoppiando a ridere, e Emma non potè evitare di unirsi a lui, seguita a ruota da Tyler. Quei due le stavano decisamente simpatici, come chiunque sia capace di prendersi poco sul serio. 

«Ehm ehm.» Isabelle palesò la sua presenza schiarendosi la gola ed Emma decise che quello era appena entrato nella sua personalissima lista chiamata “suoni molesti e fastidiosi”. 

«Io sono Isabelle Williams, ma potete chiamarmi—»

«Izzy o Iz», la precedette Emma ridacchiando. Alzò gli occhi al cielo verso Archie e lui trattenne una risata. Emma sentì addosso lo sguardo sottile di Isabelle, ma non si girò. 

«Proprio così. Izzy o Iz. O Isabelle, se vi piace di più», proseguì quindi l’altra come se niente fosse. 

Sia Archie, sia Tyler le strinsero la mano. «Isabelle andrà benissimo», disse il primo. 

Non proseguirono la loro conversazione, però, perché dal fondo della sala, ora in silenzio, giunse un grattare di legno sul pavimento ed Emma osservò un uomo alto vestito di blu mettersi in piedi e alzare le mani, come a voler salutare e includere tutti i presenti nel suo abbraccio. Lei ed Isabelle si affrettarono a prendere posto al tavolo.  

«Il preside Corner», sussurrò Archie. 

 

[ANCORA REGOLE]

 

«Bentrovati a Heydon Hall», iniziò l’uomo. «Vorrei dare un particolare benvenuto ai nuovi arrivati di quest’anno, e vorrei che tutto il resto di voi faccia lo stesso.»

I presenti imitarono il preside e applaudirono per dare il benvenuto alle nuove leve, chi partecipe, chi svogliato. Emma notò che alcuni ragazzi, seduti ad un tavolo sul fondo del refettorio, rimasero a braccia conserte, incrociate sul petto, forse in segno di dissenso o di disprezzo. 

«Drake Flitt5 e la sua cricca», le spiegò Archie, che a quanto pare aveva deciso di farle da guida. «Tieniti al largo da loro se non vuoi guai.»

Emma osservò per un attimo i quattro ragazzi seduti, le cui facce non promettevano niente di buono. Uno di loro intercettò il suo sguardo, ma lei lo distolse in fretta, puntandolo nuovamente sul preside, che si apprestava a continuare il suo discorso. L’applauso intanto si era spento.

«Mi presento ad uso esclusivo dei neofiti. Io sono il preside Corner e qui rappresento la massima autorità, tra tutti, e sono colui che mantiene l’ordine e il rispetto tra queste mura. Invito chiunque abbia un problema a farmi visita, senza indugi e senza dubbi, sono certo che qualche studente più grande vi saprà indicare la via per il mio studio.»

Emma guardò Archie, che sollevò gli occhi a voler dire «è fatto così, che ci possiamo fare?». 

«Vorrei spendere due parole ora, in modo che dopo cena potrete dirigervi nelle vostre stanze per sistemarvi e mettervi comodi. Come anticipato dalla nostra preziosa Madama Pince», e lanciò un bacio all’indirizzo della custode, seduta allo stesso tavolo di James Potter, e che rispose con un formale cenno del capo, ignorando tutto il resto, «la regola numero uno di questo Istituto è la requisizione delle bacchette, sono certo che comprenderete la necessità che ci spinge a farlo, cioè la vostra sicurezza, che qui viene messa al primo posto, come condizione sine qua non per portare avanti questa scuola, e che mi assicuro venga rispettata da tutti.» Fece una pausa, in modo che i presenti registrassero le sue parole. Emma si chiese in quanti avessero compreso l’espressione “sine qua non”. «Vi invito inoltre a rispettare gli insegnanti che tutti i giorni vi affiancheranno in aula», e indicò con un gesto fluido della mano i volti dei presenti seduti al suo stesso tavolo. Emma non si perse ad osservarli più di tanto, però, rimanendo concentrata sul preside Corner. «Oltre i professori, che mi seguono direttamente nella gerarchia dell’istituto, mi aspetto che trattiate con il dovuto rispetto anche i miei collaboratori scolastici», e questa volta indicò il tavolo di James. «Il signor Pince, la signora Parkinson e il nostro nuovo acquisto, che rimarrà con noi per tutto quest’anno, il signor Potter.»

Tutta la sala prese a mormorare ed Emma spostò lo sguardo su James, che sedeva composto e serio, vestito come gli altri due seduti accanto a lui e che dovevano essere “il signor Pince e la signora Parkinson” citati dal preside. Immaginò che il primo fosse in qualche modo imparentato con i custodi e che quello seduto accanto a Madama Pince fosse il marito, che però non sembrava particolarmente sveglio, doveva riconoscerlo. 

«Prima di indulgere con la cena, vi invito a rimanere lontani dall’ala ovest della residenza, il cui accesso è severamente vietato a voi ragazzi, nel modo più assoluto. Spero di essere stato chiaro, in merito.»

Emma si sporse verso Archie. «Per questo le finestre erano spente? Perché l’accesso all’ala ovest è proibito?»

«Guarda che erano accese, le finestre», replicò Archie sbarrando gli occhi. «Vero, Ty? Diglielo, a Emma, che erano accese.»

«Oh, sì, certo, era tutto illuminato. Lo fanno sempre, il primo settembre.»

Emma scosse la testa. «Se cercate di farmi paura, avete scelto la persona sbagliata, avreste dovuto puntare su Isabelle.»

«Hei, io mi limito ad ascoltare le storie», protestò l’altra.

Archie e Tyler scoppiarono a ridere. Intanto, Madama Pince e i tre inservienti presero a girare per la sala spingendo ognuno un carrello, distribuendo i vassoi con la cena a tutti i presenti. Ad una prima occhiata, il cibo sembrava molto lontano dai succulenti standard di Hogwarts, ahimè. 

«Quindi vuoi dirmi che non credi alle storie di fantasmi, Emma Nott?» le chiese Archie ghignando e ringraziando la signora Parkinson che gli porgeva il vassoio. Le mani della donna tremarono per un momento, mentre il suo sguardo si spostava su Emma, osservandola con curiosità.

Cercando di ignorare l’occhiata indagatrice, Emma scosse nuovamente la testa. «Non ci credo per niente, Archie. Nemmeno da bambina riuscivano a farmi paura e di certo non cominceranno adesso.»

«Sei un osso duro, allora.»

«Oh, sì, è durissima», commentò Isabelle ringraziando a sua volta la Parkinson.

«Sono solo pratica.»

«E scettica, mi pare di capire.» Tyler prese il vassoio e si avventò sul piatto di pasticcio. 

«Sono sicuro che riuscirò a incrinare quella tua armatura da piccola soldatina, cara la mia Emma.» Archie si sfregò le mani prima di apprestarsi a lanciare uno sguardo schifato al suo vassoio. 

Infine fu la volta di Emma di prendere il vassoio dalle mani della signora Parkinson. 

«Emma Nott?» le rivolse la parola quella. «Sei la figlia di Theodore?»

Lei annuì guardinga. Gli altri tre osservavano la scena, attenti. 

«Andavo a scuola con tuo padre, sai?6» continuò la donna, mentre il suo viso si apriva in un sorriso. «In Serpeverde.»

«Oh, davvero?» Theodore le aveva sempre parlato poco del periodo trascorso a Hogwarts, e per ovvi motivi, ed Emma aveva sempre fatto poche domande, quasi nessuna. Di quel periodo, nella vita di suo padre era rimasto solo Draco Malfoy, che per loro era sempre stato come uno zio. Ricordava bene quando Scorpius veniva a casa Nott con il padre (e la madre, quando Astoria Malfoy era ancora viva) e loro bambini venivano mandati in giardino a giocare. Se la Parkinson non era mai stata nominata, a quanto pare faceva parte di quei ricordi che suo padre avrebbe preferito archiviare. 

«Per qualsiasi problema rivolgiti pure a me, Emma, sarò felice di aiutarti.» Così dicendo, caracollò via con il suo carrello. Emma la seguì con lo sguardo, oltre la sua spalla, per poi tornare a guardare i suoi nuovi amici. 

«Che culo, Emma, Pansy ti ha presa in simpatia», commentò Archie. 

«Sei fortunata, odia quasi tutti, qui dentro», aggiunse Tyler agguantando un panino.

Lei scrollò le spalle. «Se lo dite voi.»

«Allora, Archie, quelle vecchie storie?» chiese Isabelle. Fece una smorfia davanti al pasticcio e allontanò leggermente il vassoio. 

«Ah, sì, torniamo alle cose importanti, Archie.» Archie sorrise a Tyler e poi si sporse sul tavolo, allontanando completamente il suo vassoio, come se non fosse interessato a cose così banali come il cibo. «Si dice che l’ala ovest sia la dimora di un fantasma, cocche», iniziò. 

 

[ANCORA STORIE DI FANTASMI]

 

«Il famoso fantasma incazzato? Grazie, questa storia la so già.»

«Vuoi stare zitta e ascoltare, cara la nostra scettica?»

Emma alzò gli occhi al cielo. 

«Ottimo, così ti voglio. Dicevo che l’ala ovest è la dimora di un fantasma, il fantasma di una donna che, molto tempo fa, abitava in quelle stanze. Le storie dicono che la donna sia scappata e abbia trovato rifugio qui a Heydon Hall, ma che tra queste stesse mura abbia anche trovato la morte. Abbandonata dal suo unico e grande amore, sembra che abbia dato alla luce un bambino da sola, e che da sola l’abbia visto morire, e che infine sia morta lei stessa, sia per le complicazioni del parto, sia per il troppo dolore. Dolore per l’abbandono, dolore per la solitudine, dolore dopo aver appreso che l’amore della sua vita non l’aveva raggiunta non perché non l’amasse, ma perché a sua volta aveva trovato la morte. L’oblio sembrò l’unica degna fine ai suoi tormenti. In molti sostengono che il suo spirito aleggi ancora tra questi corridoi e queste stanze e che non trovi pace, perché anche la morte l’ha privata di quell’amore tanto sofferto e anelato, e persino del bambino perito tra le sue braccia, lasciandola completamente sola. Soltanto la sua anima è rimasta a infestare queste terre, e ogni notte prende a vagare, pesante e lieve al tempo stesso, cercando vittime che possano saziare la sua fame, e il suo desiderio di vendetta.»

Archie arrivò alla conclusione del racconto a voce sempre più bassa, guardandosi intorno con occhiate a effetto, cercando di calare Emma e Isabelle nella giusta atmosfera. Isabelle si torceva le mani e sembrava quasi sull’orlo delle lacrime, mentre Emma non potè resistere e scoppiò a ridere, e in faccia ad Archie, per giunta, che tanto si era impegnato per mettere loro paura con quella vecchia panzana.

«Le fa ridere, Archie», disse Tyler sorridendo. «Capito? Le fa ridere

«Non hai paura della signora di Heydon Hall, ragazza?»

«Più che paura, mi fa pena, questa povera anima che deve sopportare tutti voi, tutti i giorni, e vedere le vostre brutte facce.»

Archie sollevò le sopracciglia. «Ah, e così non hai paura. Bene, ti farò cambiare idea, una sera di queste, signorina Nott, tienilo bene a mente.»

«Sono curiosa di vedere cosa ti inventerai, signor Fletcher, e se sarà all’altezza di questa storia.»

«Ricorda che qui a Heydon Hall tutti crediamo alle vecchie storie. Tutti noi.»

 

🥀

 

«Procediamo con ordine, per favore, senza correre e senza spingere, grazie.» La voce decisa e sonora di Pansy Parkinson cercava di indirizzare le ragazze verso il loro dormitorio sane e salve, ma le più piccole, quelle appena arrivate, continuavano a guardarsi intorno spaventate, quasi terrorizzate. Quelle più grandi, del settimo anno, si impegnavano per farle sentire a loro agio, mentre quelle degli anni dal terzo al quinto si ostinavano a mettere loro paura con strani versi che volevano imitare quelli di un fantasma ma che risultavano più somiglianti ai ragli di un asino, e l’effetto era quanto meno bizzarro, più che spaventoso. Emma le guardava con le sopracciglia inarcate, indecisa se trovarle più cretine o più bisognose di compatimento. Nell’indecisione, si limitava ad osservare in silenzio, le braccia incrociate sul petto. 

 

[ENNESIME REGOLE]

 

Giunsero ben presto al dormitorio femminile e tutto quel pandemonio cessò - fortunatamente. La stanza consisteva in un lungo corridoio fiancheggiato da due file di letti singoli,  una trentina in tutto, identici, uno accanto all’altro, posizionati sulle due pareti opposte. Accanto ad ogni letto c’era un comodino e, ai piedi, erano posizionati i bauli, che qualcuno aveva scaricato dal treno e fatto levitare fin lì. Al fondo dello stanzone si apriva una porta, sopra la quale era appeso un cartello che recitava la scritta “toilette femminile”. 

«Dormiremo tutte insieme?» le chiese Isabelle sottovoce.

«A quanto pare», commentò solo Emma. «Ti aspettavi una suite, Izzy?»

L’altra non rispose, e si limitarono a rimanere in silenzio mentre Pansy le conduceva all’interno. 

«Vorrei che le nuove arrivate si facessero avanti, le altre ragazze possono raggiungere i loro letti.»

Il gruppo si disperse: qualcuno si accomiatò da Pansy con un “buonanotte” e raggiunse quindi il proprio letto, mentre altre, tra le quali Emma e Isabelle e le spaventate ragazzine del primo anno, rimase lì dov’era. 

«Qui è dove dormirete nei prossimi mesi», iniziò la Parkinson. «Al fondo del corridoio c’è il bagno, con le docce comuni, mentre ai piedi del letto troverete il baule con i vostri effetti personali, che vi invitiamo a lasciare dov’è per questioni di ordine.»

«Sul letto vi abbiamo lasciato la divisa, insieme ad un ricambio e ad una divisa sportiva. Gli indumenti sporchi vanno lasciati negli apposita cesti nel bagno e non in giro per il dormitorio, qui nessuno vi fa da servo, voglio che sia chiaro.»

Annuirono tutte, mentre una bambina particolarmente piccola piangeva silenziosa. Pansy la ignorò deliberatamente. 

«Le luci si spengono alle nove esatte, non un minuto prima, non un minuto dopo», continuò. «Dovrete farvi trovare sotto le coperte, con il pigiama, alle nove meno cinque minuti per il giro d’ispezione serale, dopo il quale non vi sarà più possibile lasciare il dormitorio, per nessuna ragione, a parte emergenze così impellenti che prevedano l’intervento di uno degli inservienti.»

«Io sono ovviamente il vostro referente,  ma potrete rivolgervi a chiunque tra noi, che sia io, il signor Lamb o il signor Potter, senza alcun problema, per qualsiasi cosa. Ovviamente, evitate di disturbare per sciocche ragioni o per consolare stupidi piagnistei», e rivolse un’occhiata obliqua alla bambina piangente, che la guardò e singhiozzò ancora più forte. 

«Avete esattamente venticinque minuti per cambiarvi e mettervi a letto. La colazione si svolge in refettorio dalle otto alle otto e trenta, dopo quell’orario non vi sarà più servita, quindi ci aspettiamo, e pretendiamo, puntualità assoluta. Domani e domenica le lezioni non si svolgeranno e sarete chiamati a partecipare ad attività propedeutiche nelle aule dedicate allo studio o in biblioteca. Da lunedì, le lezioni si avvieranno regolarmente alle nove in punto, vi saranno date istruzioni più dettagliate durante la colazione. Domande?»

«Quindi durante questo fine settimana ci renderete le bacchette?» chiese una ragazza che doveva avere all’incirca tredici anni.

Il viso di Pansy si rannuvolò, andando a somigliare al cielo fuori, carico di nuvole scure dalle quali cadeva una pioggia fitta e sottile. «Certo che no. Le bacchette vi saranno rese solo lunedì, poco prima di iniziare le lezioni. Altre domande che però non siano stupide ne abbiamo?»

Tutte scossero la testa e così Pansy, per contro, annuì. «Molto bene, tutte ai vostri letti, allora. Ci rivediamo tra poco per l’ispezione.»

Fecero quasi in fretta a individuare i loro letti che, per la gioia di Isabelle, risultarono vicini. L’uniforme consisteva in una gonna a pieghe, calzettoni o calze a maglia spesse, camicia bianca, cardigan a trecce, cravatta scura e blazer, tutto in nero profilato di grigio. Almeno non era di un colore improbabile. Emma ripose tutto nel baule e tirò fuori il pigiama. 

«Non c’è un minimo di privacy, qui dentro», sentì Isabelle borbottare, guardandosi intorno con il pigiama in mano, indecisa. 

«Allora voi americani ce lo avete, il senso del pudore», commentò Emma ridendo sfilandosi la maglia per indossare quella del pigiama, senza farsi alcun tipo di problema. La nudità non costituiva per lei un tabù. 

Isabelle storse il nasino all’insù. «Ero abituata con le mie compagne di stanza, ma qui… Tutti ti guardano.»

«Nessuno ti guarda, Izzy. E poi, anche se fosse, non vedrebbero nulla che non hanno già visto, ti pare?»

Lei sembrò rifletterci sopra e poi scrollò le spalle. «Ovviamente hai ragione. Sono una stupida.»

«Lo hai detto tu, non io», replicò Emma alzando le mani, e sentì Isabelle ridacchiare dietro le sue spalle. 

Prima di infilarsi sotto le coperte, Emma ispezionò il comodino, che ovviamente era vuoto, e individuò una ragnatela, abbastanza grande, con relativo ospite, tesa tra il comodino e il letto. Alzò gli occhi al cielo.

«Cominciamo bene», annunciò. «Ragni.»

«Oddio, spero di non trovarne, mi fanno un’impressione…» replicò Isabelle chinandosi a controllare il suo letto. 

Emma prese una scarpa e fece fuori il malcapitato ragno, che aveva osato mettersi sul suo cammino, e controllò sotto il letto, ma non c’era nient’altro.

«Trovato qualche mostro?» chiese a Isabelle.

«No, per fortuna.»

 

[ORA DI DORMIRE]

 

Infine, si infilarono sotto le coperte, che fortunatamente si rivelarono essere morbide e calde, con lenzuola profumate di pulito e stirate. Se c’era una cosa che Emma odiava, erano i letti che non fossero il suo o, per meglio dire, i suoi, cioè quello di casa e quello di Hogwarts. Un po’ le mancavano i tendaggi verdi e la risatina di Rosalie quando si ficcava nel suo letto per raccontarle gli ultimi pettegolezzi mentre le altre dormivano. Le mancava tutto, del castello, persino i Grifondioti.

Si riscosse quando Pansy tornò per l’ispezione, che si rivelò essere niente di più che un camminare avanti e indietro per il dormitorio per quattro volte e un lanciare occhiate profonde e sottili qua e là. Passandole accanto prima di uscire, la donna le sorrise, ed Emma si voltò verso Isabelle facendo una smorfia. L’altra trattenne una risata.

«Spengo le luci. Buonanotte a tutte.»

Le candele si spensero per magia e nello stanzone calò l’oscurità. Il letto di Emma era proprio sotto una delle grandi finestre e la luce della luna, parzialmente filtrata dalle nuvole, entrava però a illuminarle i piedi. 

«Buonanotte», sussurrò Isabelle.

«’notte», rispose lei.

 

🥀

 

[URLA NELLA NOTTE]

 

Emma non seppe bene quanto dormì. Forse due ore, forse dieci minuti. Si ridestò improvvisamente e malamente quando un grido terrificante squarciò l’immobilità della notte scura. Si alzò a sedere di scatto, sveglissima, insieme a tutte le altre ragazze. Il grido sembrava provenire dal bagno al fondo del corridoio, insieme al rumore di tonfi sordi contro il legno della porta, come se qualcuno dall’interno vi stesse battendo sopra. Emma si voltò e vide che il letto di Isabelle era vuoto, le coperte che quasi toccavano terra, il cuscino scomposto. Era l’unico letto vuoto e quindi capì da chi provenissero le urla. Si alzò in fretta e, a piedi scalzi, raggiunse volando il bagno. La seguirono un paio di ragazze più grandi, mentre altre due cercavano di rassicurare le bambine più piccole e intimavano alle altre di restarsene a letto. 

«Isabelle!» gridò Emma raggiunta la porta. «Isabelle, sei tu?»

Poggiò una mano sulla maniglia e, oltre a trovarla fredda, freddissima, quasi gelata, come se fosse calato di getto l’inverno, non riuscì ad aprire la porta. Trafficò per un po’ ma senza risultati. «Isabelle! Izzy! Rispondimi!»

«Non si apre?» le chiese una ragazza alta e ben piazzata. «Vuoi che provi io?»

Emma annuì. La paura cominciava ad infiltrarsi nelle sue membra, paralizzandola come un gas letale. Aveva paura per Isabelle e per ciò che stava succedendo dall’altra parte: a giudicare dalle urla che continuavano ad arrivare, la ragazza doveva stare proprio molto male.

La compagna del settimo tentò di aprire, si sforzò per bene, ma niente da fare, la porta non cedette di neanche un millimetro. «Sembra che sia chiusa dall’interno…» buttò lì Emma.

«Non ci sono chiavi, qui», spiegò un’altra ragazza, minuta tanto quanto la prima era alta. «È una delle regole degli spazi comuni di Heydon Hall: niente chiavi.»

«Allora come diavolo fa ad essere chiusa, questa porta, per Salazar?» esclamò Emma, che stava decisamente perdendo la pazienza. 

«Andate a chiamare Pansy», propose qualcuno, mentre Emma si avventava contro la porta, anche se con scarse speranze. 

«AIUTO!» continuava a gridare Isabelle da dentro. «VATTENE VIA, LASCIAMI IN PACE, LASCIAMIIIIIIII!»

«IZZY!» gridò Emma, sobbalzando quando sentì che Izzy, dall’altra parte, sbatté proprio contro la porta con tutto il suo peso, facendola tremare, quasi come se qualcuno l’avesse sollevata sopra la testa per poi scagliarla via con forza. «Isabelle, resisti, abbiamo chiamato aiuto!»

Dall’altra parte arrivava ora solo un pianto sommesso, cadenzato ma disperato, uno di quei pianti di gola che ti mozzano il respiro nei polmoni e che colano paura e angoscia e terrore. Emma sentiva il respiro mozzato di Isabelle attraverso il legno della porta e così si chinò, inginocchiandosi a terra, una mano aperta a palmo poggiata contro il legno, anche quello gelato, ora, proprio come la maniglia pochi istanti prima. Sembrava quasi che il bagno si trovasse al Polo Sud e che il freddo penetrasse a ondate attraverso il legno spesso. 

«Isabelle?» la chiamò. «Sono Emma, mi senti?»

Isabelle singhiozzo ancora più forte. «NO, PER FAVORE, BASTA, NON DI NUOVOOOOOOO!»

Giunsero altre pacche sul legno ed Emma venne sbalzata all’indietro da una forza sconosciuta e ignota, finendo con il sedere sul pavimento. La ragazza minuta e bionda la raggiunse per aiutarla a rialzarsi e in quel momento sopraggiunse Pansy, seguita a ruota da James Potter. Emma vide la ragazza accanto a lei arrossire e stringersi nella camiciona da notte che indossava. Potter era ancora vestito, e così Emma dedusse che non dovevano aver dormito poi chissà quanto, allora. Pansy raggiunse la porta, il viso contorto dalla preoccupazione, e James si chinò su di lei tendendole una mano per aiutarla a rialzarsi. Emma lo ignorò: era capacissima di tirarsi su da sola. 

«Tutto bene?» le chiese lui. «Cos’è successo?»

«Abbiamo sentito le urla anche noi. Eravamo a metà strada quando la signorina Park ci ha raggiunto per avvertirci», spiegò Pansy. Poi puntò la bacchetta contro la porta, mormorando un incantesimo, ma, con sgomento di tutti i presenti, anche la magia sembrò inefficace contro ciò che stava succedendo nell’altra stanza. Emma scambiò un’occhiata sgomenta con James, prima di rivolgersi a Pansy. 

«Ci hanno svegliato le urla. Quando ho visto che Isabelle Williams non era nel letto accanto al mio, e mancava solo lei, ho capito, e così sono corsa qui con altre ragazze. La porta non si apre, sembra chiusa dall’interno—»

«Ma qui a Heydon Hall non abbiamo—»

«Non abbiamo chiavi, lo so», completò Emma, e lei e Pansy si guardarono, preoccupate. «Non vuole aprirsi e non so cosa diavolo stia succedendo là dentro, Isabelle grida e sembra terrorizzata e—»

Emma dovette interrompersi perché sentirono un cigolio, e tutti si voltarono a guardare la porta riaprisi lentamente, centimetro dopo centimetro. Emma fece un passo avanti ma James la trattenne agguantandola per le braccia. Emma andò a sbattere con la schiena contro il suo petto e sentì per un attimo il suo profumo invaderle le narici. 

«Non è sicuro, Nott», le intimò lui. «Lascia fare a noi.» Lei avrebbe voluto replicare ma, in quella situazione, anche la sua linguaccia tagliente l’aveva come abbandonata. 

Rimase lì in piedi con le altre due ragazze più grandi mentre Pansy e James entravano cautamente nel bagno. Non arrivarono rumori, per un attimo, fin quando non sentirono Pansy fare il nome di Isabelle. Allora Emma non resistette oltre e si precipitò all’interno. Isabelle era rannicchiata dentro una delle docce, l’acqua aperta e fredda che le colava addosso, inondandola e inzuppandole il pigiama leggero. Tremava e piangeva. Anche le altre docce erano accese, tutte quante. James si affrettò a chiudere l’acqua e, con un colpo di bacchetta, fece lo stesso con le altre docce. Pansy si chinò di fronte a Isabelle. Emma notò immediatamente che i vetri delle finestre erano tutti rotti, quasi come se fossero esplosi, e il vento e la pioggia penetravano all’interno, fragorosi e impetuosi. Inoltre, le piastrelle erano crepate e rotte in più punti e le panche disposte al centro della stanza erano capovolte e il legno sventrato. Certo quella non era opera di Isabelle. 

Emma raggiunse Pansy e James e si chinò accanto alla sua amica. «Nott, ti avevamo detto di stare fuori», protestò la donna. 

«È mia amica», disse solo Emma allungandosi ad accarezzare il viso di Isabelle, ma quella si scostò violentemente, singhiozzando più forte, cercando e trovando rifugio tra le braccia di Pansy, fuggendo da lei

«La donna, la donna, la donna, la donna», sussurrava Isabelle, preda del terrore più profondo, e con voce talmente bassa che Emma si chiese se fosse reale o solo frutto della sua fantasia. La sua mano quindi rimase lì, ferma a mezz’aria, immobile. La sorpresa provocata dalla reazione di Isabelle, tanto brutto quanto inaspettato, l’aveva raggelata più di quanto non l’avesse fatto il legno della porta, poco prima. La mano le ricadde in grembo, mentre la delusione la invadeva come prima l’aveva invasa la paura, e ora si mischiavano, letali e penetranti, mentre una vocina flebile ma oscura le sussurrava nell’orecchio che era tutta colpa sua, che qualsiasi cosa fosse successa in quella stanza, ora Isabelle aveva paura di lei

Alzò lo sguardo e vide che Potter la stava guardando.

 


 

Note.

1. Il (finto) racconto di Emma sui suoi genitori vuole essere un omaggio al film “Jumanji” (ovviamente, l’unico, vero “Jumanji”, cioè la pellicola del 1995)
2. Parallelismo con la battuta di James nel capitolo uno: «Non ho paura di alcune vecchie storie, ma sono curioso»
3. Archibald Fletcher è il pro-nipote di Mundungus Fletcher ed è un personaggio di mia invenzione
4. Tyler Jordan è invece figlio di Lee Jordan e anche lui è un personaggio di mia invenzione; chi ha letto “Death in the Night” ha sentito nominare suo fratello maggiore, JJ, nel capitolo 11 
5. Drake Flitt è figlio di Marcus Flitt, altro personaggio di mia invenzione; lo conoscerete meglio più avanti
6. «Andavo a scuola con tuo padre, sai?»: rimando alla stessa battuta che Pansy rivolge a James nel capitolo uno

 

Eccoci qui con il (tanto atteso) capitolo due, più che altro perché ci tenevo a presentarvi Emma Nott. I lettori di “Death in the Night” l’hanno già sentita nominare, gli altri hanno letto il suo nome la prima volta nello scorso capitolo, ma comunque nessuno di voi l’aveva mai conosciuta, prima d'ora. Sono piuttosto fiera di Emma, e spero tanto che possa piacere anche a voi - anche perché è la co-protagonista e occupa una sostanziosa fetta di questa storia ♥︎ In questo secondo capitolo succedono un bel po’ di cosette: Emma fa delle nuove conoscenze e giunge finalmente a Heydon Hall, dove comincia ad ambientarsi; Archie rompe il ghiaccio fin da subito con le sue storie di fantasmi e, proprio quella stessa sera, qualcosa di misterioso e spaventoso accade alla sua amica Isabelle (in merito a ciò, tenete a mente tutto quanto, mi raccomando, ma voglio mettervi la pulce nell’orecchio su Izzy, cioè non amatela troppo, o rischiereste di prendervi un bel palo più avanti 👀). 

 

Spero tanto che questo capitolo vi sia piaciuto, io come al solito non vedo l’ora di leggere cosa ne pensate, quindi fatevi sotto ♥︎ vi lascio come al solito il mio contatto Instagram

 

A lunedì prossimo,
Marti 🐍

 
   
 
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