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Autore: _Lightning_    12/12/2020    2 recensioni
Din non ha mai avuto alcun problema a dormire: crolla sempre come un sasso, ovunque si stenda – o anche in piedi – comunque pronto a destarsi al minimo cenno d’allarme. Le notti insonni non sono mai state un problema, e ciò è decisamente una benedizione per un cacciatore di taglie. Nelle ultime settimane, ne ha collezionato un numero spropositato. Rimane ad occhi aperti nel buio per ore, tenuto sveglio dallo sferragliare dei suoi stessi pensieri, ad ascoltare il respiro lieve del Bambino interrotto di tanto in tanto da un lamento assonnato.
È sveglio anche adesso, steso sulla schiena con un braccio ripiegato sulla fronte. Una posizione difensiva che assume in automatico, a sopperire la mancanza dell’elmo – come se qualcosa o qualcuno potesse attaccarlo là dentro, nelle solide paratie della Crest, con Cara di guardia fuori.

[The Mandalorian // implied!CaraDin // What If? // Mando&BabyYoda // Fluff/Introspettivo]
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales of Two Space Warriors and Their Green Womprat'
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Contesto: post-S1
Genere: introspettivo, sentimentale, commedia
Personaggi: Din Djarin, Cara Dune, il Bambino
Avvertimenti: 3 capitoli, what if?


©shima_spoon

__________________


3. Un’impeccabile capacità d’improvvisazione



 



Din fa per parlare, per poi serrare di nuovo le labbra, soppesando ciò che sta per dire. Ma, a questo punto, non c’è molto altro da poter sbagliare. È quella, la parte peggiore: qualunque sarà la reazione di Cara, non potrà fare altro che accettarla.

«Non c’è molto da dire,» esordisce, ed è solo una mezza bugia. Prende un respiro. «La famiglia è la parte più importante nella vita di un Mandaloriano.»

Fa una pausa, e si accorge dall’espressione di Cara che non era affatto ciò che si aspettava di sentire. Sta davvero ascoltando, con una ruga di concentrazione a inciderle la fronte. Quindi prosegue, più risoluto che mai, ripetendo concetti saldati nel suo beskar da quando era bambino.

«La nostra esistenza ruota attorno alla famiglia. È per questo che combattiamo. La proteggiamo, la cresciamo e ne siamo cresciuti come fosse la nostra, anche quando non lo è. Non importa essere imparentati, o sposati, non importa nemmeno avere una casa. I legami non sono dettati dal sangue o dalle convenzioni. Li scegliamo e li coltiviamo.»

Scocca un’occhiata allo scomparto del Bambino, per poi tornare a rivolgersi a lei, incontrando i suoi occhi prima di pronunciare quelle parole pesanti, eppure incredibilmente lievi che si sono dibattute tra le sue costole per mesi.

«Tu fai parte della mia famiglia. In... più modi di quanti riesca a spiegare.»

Non sa da quale recesso della sua mente sia scaturita quell’ultima affermazione, ma è troppo tardi per rimangiarsela, e non è nemmeno sicuro di volerlo fare. Viene comunque distolto da ciò che sta vedendo. Deve accertarsene, prima di concludere di non aver avuto un abbaglio, perché non riesce a credere che gli occhi di Cara si siano fatti lucidi. Eppure, lo sono, in modo così tenue da essere a malapena percettibile a occhio nudo. La vede  cambiare postura, raddrizzandosi un poco, e tirare un respiro rapido con un piccolo sorriso che le distende le labbra. Batte le ciglia, e quel riflesso umido scompare nelle iridi castane, così scure da sembrare nere.

«Possiamo toglierci l’elmo di fronte alla nostra famiglia,» continua Din, a voce più bassa, quasi che parlare più forte possa spezzare il momento. «E vorrei farlo di fronte a te. Se me lo permetterai.» Se anche per te è così, non dice, ma è certo che quella parte sia ben intuibile.

Lei scuote la testa, e non è un no: solo Cara Dune, soldato d’assalto veterano, guerriera impavida e compagna fidata, che cerca di combattere le emozioni, un qualcosa che non si impara certo a fare sul campo di battaglia. Lo sa fin troppo bene. Vede la sua espressione scurirsi di colpo, ma in modo così sottile che potrebbe essere stata solo un’ombra passeggera, ma lo mette comunque in allarme.


«Qualcosa non va?» riesce a dire, attorno al nodo che gli si è stretto in gola. Forse era davvero un no.

Lei scrolla le spalle e il suo sguardo si fa insolitamente sfuggente, con le ciglia nere che vanno a schermare gli occhi. «Mi stavo solo chiedendo cos’ho fatto per meritarmelo. È inaspettato, in senso positivo... ma non riesco a capirne del tutto i motivi,» sorride quasi a mo’ di scusa.

Grande Mandalore, non è ovvio? Din riderebbe, se sul volto di Cara non si celasse più di qualche semplice ombra di dubbio. Dietro alla corazza e alla fiera postura soldatesca, intravede le diafane crepe di di chi è abituato ad essere necessario, ma non indispensabile. Vorrebbe spiegarle quel perché, ma gli si annoda sulla lingua in concetti contorti che finiscono comunque per raggrupparsi in un’unica parola – e poco importa che sia a lei incomprensibile: è comunque un punto di partenza:

«Uno dei motivi è che hai mandokar,» risponde, pronunciando con cura quella parola che, prevedibilmente, getta una patina di perplessità sul volto di Cara, anche se sembra scorgerne la radice. «Lo spirito di una Mandaloriana, anche se non lo sei.»

Lei annuisce cautamente, assorbendo quel concetto. «Perché... sono una guerriera?» chiede poi, con un tentennamento appena percettibile, come se non fosse del tutto certa di poter indagare in quell’ambito.

Din scuote appena la testa. «Perché sei tenace e leale. Ami la vita, ma sei disposta a combattere e sacrificarla per le persone a cui tieni. E questo è parte della Via, anche senza indossare un elmo.

Quasi traballa su quell’ultima parte, con l’impressione di procedere sul bordo di uno dei crateri di Nevarro, con un lago di magma sotto ai suoi piedi. Cara, in risposta, si limita a sorridere appena, con qualche ombra che si dissipa dai suoi occhi, ancora neri, ma non opachi. Forse è addirittura lusingata da quella che, almeno a parer suo, è una descrizione molto accurata di lei, del motivo per cui si è fidato istintivamente dal primo momento in cui l’ha vista. O quasi.

«E poi, mi hai messo al tappeto,» aggiunge quindi, suscitando un brillio divertito sul suo volto. «È un motivo valido,» cerca di scherzare goffamente, la gola contratta che si rifiuta di elencare ogni singola ragione che l’ha portato fin qui.

Già. È qui. Nel momento in cui sta per togliersi l’elmo.

«Allora lo ammetti,» lo stuzzica lei, con un sorrisetto a stemperare quel velo traslucido sugli occhi. «E mi basta questo,» conclude poi, scegliendo di risparmiargli l’imbarazzo e la fatica di usare molte più parole di quante ne abbia mai pronunciate in vita sua.

Dopo quello scambio, un silenzio solido, dai contorni ben definiti, si incastra tra loro. O almeno, ci sarebbe silenzio, se il suo cuore la smettesse di battergli nelle orecchie, facendogli scoppiare una dozzina di capillari alla volta. Si sente la punta delle dita tremante di una paura assoluta. Una paura irrazionale, ostile, non quella che si accoglie di buon grado nei momenti di vero pericolo. Lo strangola con la morsa di un rathtar, più feroce che mai, e gli sballotta il cuore a destra e a manca, facendogli mancare battiti e mandandolo a pulsare in gola. Esala un lungo respiro, sentendo una vampata bollente che gli assale la faccia nel realizzare cosa è ormai a un passo dall’accadere. 

E lo sta facendo volontariamente. Non può più tirarsi indietro. Cara potrebbe anche perdonarglielo – ma lui no, non ci riuscirebbe mai, la sentirebbe come un’onta indelebile, oltre che un insulto a lei.

Il punto è che il suo volto, in questo momento, non è decisamente uno spettacolo. Non per le giuste ragioni, almeno. Sa che i suoi lineamenti sono sconvolti dalla tensione, dai crampi e da tic nervosi che non sapeva nemmeno di avere fino a qualche istante fa – e ha probabilmente un paio d’occhi sbarrati da far concorrenza a un droide protocollare. I suoi capelli sono un disastro come sempre e, dank farrik, sta pure sudando freddo. È una valanga di percezioni che gli si rovescia addosso, nonostante non si sia mai soffermato sul proprio aspetto prima d’ora, se non per mantenerlo dignitoso. Si sente punzecchiare da un interrogativo molesto; ovvero come appare davvero ad occhi esterni, e non è il tipo di interrogativo che si è aspettato di avere in quel frangente. Ma non mostra il suo volto a nessuno per più anni di quanti riesca a contare, e i complimenti di sua madre quando era bambino non sono esattamente un giudizio obiettivo, né affidabile.

Non è un Gungan, almeno. Dovrebbe bastare. Spera.

«Quindi...» lo riscuote discretamente Cara, e si rende conto di aver taciuto per fin troppo tempo.

«Sì,» risponde di getto, e gli sembra un  che si innalza sopra di loro a far da vessillo alla sua decisione.

Si alza in piedi, facendole un cenno, poi si inginocchia sul pavimento, sedendosi sui talloni con le mani posate sulle cosce, nella tipica postura Mandaloriana. Cara lo imita e prende posto di fronte a lui, con le ginocchia che sfiorano le sue.

Non serve altro. Ha tirato fin troppo per le lunghe, forse, ma oggi ha avuto conferma che gli usi Mandaloriani, terribilmente diretti e privi di fronzoli, non sempre funzionano con chi non vi è abituato. Lui stesso ricorda ancora chiaramente il proprio shock quando sua madre l’ha adottato di punto in bianco, pronunciando le parole di rito durante una passeggiata qualunque e con la stessa imperturbabilità con cui avrebbe commentato il tempo. E lui non avrebbe potuto essere più felice, nemmeno se avesse organizzato una festa di dimensioni spropositate per annunciarlo ad ogni singolo essere della Galassia. Era stata la spontaneità, a rendere quel momento così prezioso; il modo in cui era un pensiero così normale, scontato, da dover solo essere pronunciato ad alta voce.

Avrebbe voluto fare lo stesso con Cara. Con parole migliori di toglimi l’elmo... ma non può dire che sia andato tutto storto, in fin dei conti. E non c’è alcuno sfarzo o ricercatezza, in ciò che stanno facendo: sono semplicemente a casa loro, l’uno di fronte all’altro, in attesa di guardarsi negli occhi.

Raccoglie tutto il suo coraggio e inclina il capo verso di lei in un invito. Cara prende tra le mani l’elmo, con lenta fermezza, nel punto in cui sarebbero le sue guance. Sente la pressione sul volto, o crede di sentirla sulla sua seconda pelle. Lei si arresta, e sa che può avvertire la sua tensione: gli sta dando tempo. Il suo respiro si appiana, anche se il cuore continua a battere come un tamburo da guerra.

«Anche questo fa parte del rituale?» gli chiede poi, pacata, quasi percepisse quel ritmo forsennato vibrare attraverso il metallo.

«Cosa?»

«Il fatto che debba togliertelo io.»

La sua bocca diventa più arida del Mare delle Dune. Si trova a combattere contro la sua stessa lingua, cercando di mantenere salda la voce. «No. Volevo solo che fossi tu a farlo,» dice infine, senza alzare la testa, gli occhi puntati sulle proprie dita.

Intravede il modo in cui un lampo di sorriso le attraversa le labbra, mascherando la sorpresa, ma è ovvio che quella confessione l’abbia spiazzata. In realtà, non ha preso in considerazione alcuna altra possibilità. Qualunque altra opzione sarebbe stata forzata, ingiusta nei propri confronti o nei suoi. Toglierselo da solo non avrebbe avuto senso. Non sarebbe stata una decisione presa insieme, come famiglia – sarebbe stata la sua decisione di farsi vedere da lei. Non ha idea di come convertire quei pensieri in parole, e spera solo che riesca  a percepire anche quelli.

«Anche se non ho mai voluto.»

«Proprio per questo.» Inclina un poco la testa verso l’alto, e i palmi di Cara sfregano contro il beskar. Le riassesta mentre prende un respiro, e quel gesto gli arriva come una carezza.

«Volevo solo conferma che fossi sicuro,» dice infine, quasi ritrosamente, e Din avverte una tenue spinta dell’elmo verso l’alto, che strattona anche il suo cuore.

Le afferra con gentilezza i polsi, bloccando quel movimento. «Dobbiamo essere concordi. Non devi farlo per me. E puoi dirmi se sto oltrepassando qualche...» cerca la parola giusta, senza trovarla, arrendendosi alla sua incapacità nel parlare, «... confine

Lei gli offre un sorriso scaltro, e in qualche modo anche orgoglioso. «Certo che sì... ma non è un mio confine.» Poi si fa seria, quasi grave, con le pupille che trapassano il visore e si piantano nelle sue. «Mi riconosco in tutto ciò che hai detto. Sul fatto che una famiglia non è tenuta insieme dai legami di sangue, e che ci fidiamo l’uno dell’altra. Sul fatto che, sì, darei la vita per te e per il piccolo. E per quanto riguarda la casa che non è solo un concetto fisico... sai che posso capirlo.»

Din aumenta la stretta in risposta, venendo sfiorato dall’onda d’urto del suo dolore per un pianeta perduto.

«Non credevo fosse possibile trovarne un’altra, ormai... ma mi hai fatta ricredere. Tu e quel  tuo womprat verde,» concluda, lasciando che una nota allegra scivoli tra le sue parole sobrie, illuminandole gli occhi.

E la vede, adesso. La sua essenza, il modo in cui la sua gioia viene sfiorata da ricordi cupi e continua a scorrere dolceamara in un sentimento che lenisce il dolore, avvolgendo entrambi. C’è un’unica parola per descriverlo: aay’han – festeggiare e commemorare al contempo. La gioia di essere vivi, anche se altri non lo sono più – e ricordarli proprio in quei momenti, rendendoli parte della vita che va avanti. È un concetto così intrecciato e inciso nella sua anima mandaloriana che non avrebbe mai pensato di trovarlo rispecchiato in un’altra persona. Per la prima volta in tutti quei mesi, ogni dubbio evapora, lasciandolo con la cristallina consapevolezza di star facendo la cosa giusta.

«L’hai trovata.»

Con quelle parole, le lascia andare i polsi. Raccoglie le mani in grembo e lascia che le sue gli stringano l’elmo, fidandosi ciecamente. Non dice altro, fa solo un minuscolo cenno del capo. Vai.

E poi, accade.

Gli si accartoccia l’aria nei polmoni nel sentire l’elmo che scivola piano verso l’alto, sfregandogli contro le guance e scompigliandogli i capelli. È paralizzato. Un soffio di vento tiepido arriva fin lì, sfiorandogli il volto, e solo allora realizza di aver chiuso gli occhi. Li riapre con cautela, socchiudendoli.

Cara lo sta fissando, ovviamente, l’elmo ancora stretto tra le mani. E non dimostra il minimo accenno di sorpresa né rifiuto. Riconosce solo una tenue, quasi timida curiosità che spinge i suoi occhi a incrociare i propri non appena li apre. Scopre che è molto più difficile sostenere lo sguardo di qualcuno senza uno strato di metallo a fare da scudo.

Deglutisce e prende un respiro profondo, chiudendo di nuovo brevemente gli occhi, per poi ricambiare il suo sguardo e guardarla davvero. Più a fondo, senza alcuna barriera. Sono passati solo alcuni secondi, ma se li sente gravare addosso come fossero un’ora intera. Quasi vorrebbe abbandonare il proprio corpo per un po’, lasciando che quei momenti scorrano via senza di lui. E vuole però viverli appieno, crogiolandosi nello sguardo di Cara che vede per la prima volta il suo viso. Prima nell’insieme, poi soffermandosi su ogni dettaglio – lo vede dal modo in cui i suoi occhi si muovono impercettibilmente.

Cerca di rilassarsi e sa che sta miseramente fallendo, sa che i suoi capelli sono sconvolti, sa che ha un livido ancora in via di guarigione sullo zigomo, sa che farsi la barba non sarebbe stata una cattiva idea, e sa che ha lo sguardo di un animale schivo e ritroso perché è sempre stato così, fuori dal beskar. I suoi occhi si rifiutano di ancorarsi a quelli di Cara per più di una frazione di secondo, e continua a sentire una forza invisibile che cerca di convincere le sue mani a coprirsi il volto. Serra le dita sui pantaloni e non lo fa, sentendosi in attesa di un verdetto. Non sa chi debba parlare per primo, ma fortunatamente Cara lo salva da quel dilemma con la consueta prontezza:

«Vorrei dire ’piacere di conoscerti’, ma mi sembra di averti già conosciuto, anche prima di vederti,» dichiara, in quel suo modo gioco che cerca di scacciar via la tensione, ma il suo tono è sincero, con radici più profonde del semplice scherzo a fin di bene.

Ha ancora le mani posate sul suo elmo, lo sta quasi cullando. Vederlo separato da lui, nella stretta di qualcun altro, lo disorienta, ma non in un modo spiacevole. Cara sta ancora sorridendo, gli occhi sottili, le labbra che seguono una curva diversa, più morbida, che non crede di aver mai visto. Irradia pura contentezza e, non appena realizza che è fatta, che il mondo non è crollato, la Galassia non è implosa, e che lui sta ancora respirando, lascia che anche le sue labbra si tendano in un sorriso incerto.

«Era quello che ti aspettavi?» non si trattiene dal chiedere e, non appena parla, gli occhi di Cara sfarfallano sul suo volto in un’improvviso sprazzo di confusione, per poi soffermarsi sulla sua bocca.

Giusto. La sua vera voce. Per lei è un’altra novità. Spera che non suoni troppo roca, visto che si sente come se non bevesse da un anno. Cerca di deglutire discretamente, in attesa di una risposta.

«Sei... terribilmente simile a come ti avevo immaginato,» afferma lei, con una traccia di sconcerto ben palpabile, mentre sceglie con cura ogni parola. «Pensavo fossi più pallido, però. Pallido come un Muun, in effetti.»

Gli scappa una risatina a labbra chiuse, che gli sobbalza bassa nel petto senza trapelare. «Non ti do torto,» commenta, con un’occhiata al suo casco impenetrabile.

E all’improvviso, prova una curiosità palpabile, un impulso difficilmente controllabile che relega la paura in un angolo molto remoto della sua mente, visto che la reazione di Cara è anch’essa di pura, genuina curiosità. Neanche una pagliuzza di avversione o diffidenza si fa strada nei suoi occhi. E lui è ancora tutto intero, a quanto pare, il che non fa che alimentare la sua intraprendenza.

«C’è altro?»

Lei inarca un sopracciglio, e Din quasi riesce a leggerle nel pensiero ancor prima che parli. «Ti stai divertendo, o sbaglio?»

«Forse.» Si acciglia, chiedendosi se sia scortese indagare su ciò che pensa di lui, e se sia il caso di divertirsi in un momento del genere. Da quando incrinare le regole è divertente? «Di’ quello che vuoi, non mi offendo.»

«L’hai voluto tu,» lo avverte lei, pericolosamente compiaciuta. «Pensavo avessi il naso dritto,» butta lì poi, senza nemmeno tentare di mitigare quell’osservazione, e gli rivolge un mezzo sorrisetto che è sia di scuse che di innocente ilarità. «A quanto pare mi sbagliavo.»

Lui trattiene un sospiro, poi lo rilascia in una risata leggera. «Me lo sono rotto cinque volte. Forse sei. Ho smesso di tenere il conto,» alza le spalle, percependo la sottile cicatrice sul ponte del naso che si tende leggermente quando lo muove.

E Cara, a quanto pare, ha trovato il suo nuovo gioco preferito, perché prende a scrutare il suo volto con ancora più attenzione. Din dovrebbe sentirsi a disagio, ma si sorprende a sostenere il suo sguardo con più facilità, e un’espressione che rasenta la sfida si fa largo tra i suoi lineamenti.

«Poi... non saprei. Avevo supposto che avessi i capelli neri. Chiamalo intuito. E di questa lunghezza, più o meno... forse un po’ meno ribelli,» lo prende in giro bonaria.

Din sbuffa senza rancore, portando una mano a riassestare un paio di ciocche, un gesto che non è affatto abituato a compiere, come qualunque altro coinvolga il proprio volto.

«Quindi... presupponendo dei capelli scuri, gli occhi scuri erano un’ipotesi sensata. Non mi aspettavo i baffi, sinceramente, ma sapevo che dovevi avere un po’ di barba.»

Din inclina di lato la testa con fare interrogativo, aggrottando le sopracciglia. «Come mai?»

«Ti ricordo che dividiamo un’astronave con un solo bagno,» lo rimbecca lei, con fare ovvio. «Di solito sei rapido, la mattina, ma ogni due o tre giorni ci impieghi più tempo, e non credo per incipriarti il naso,» lo punzecchia, e lui alza teatralmente gli occhi al cielo, visto che può vederlo – un gesto che non fa da secoli e che quasi sente fuori posto sul proprio volto. «Quindi non ti radi ogni giorno, ma non ha nemmeno la barba.»

Din non può fare a meno di inarcare le sopracciglia, sinceramente colpito. «Mi dà fastidio sotto l’elmo,» risponde senza pensare, distratto da altri pensieri. «Non... non credevo che fossi così attenta a me.»

Potrebbe giurare di scorgere un chiaro, seppur fuggevole alone rosato tingerle gli zigomi, e i suoi occhi si fanno evasivi. «È ovvio concentrarsi su altri dettagli, quando non puoi affidarti a un volto.»

Din abbassa lo sguardo, ma sta sorridendo, seppur un po’ colpevolmente. È conscio di essere difficile da leggere, e può solo immaginare quanto possa essere frustrante stare dall’altro lato di un’impassibile lastra di beskar. Anche se Cara se l’è sempre cavata molto bene, a decifrarlo.

Un’altra pausa si distende pigramente tra loro con la stessa naturalezza di un respiro, mentre continuano a studiarsi e guardarsi come se stessero cercando di capire come funzioni, quel nuovo gesto. Quel che è certo, è che sembra funzionare bene. Non vacilla minimamente, quando, pochi istanti dopo, decide di pronunciare le parole di rito: 

«Ni kar’tayl gai sa’aliit.» Fa una piccola pausa e inclina il capo in avanti, senza mai interrompere il contatto visivo con Cara. "Adesso è ufficiale."

Cara batte le palpebre e storce appena le labbra in una piega perplessa. «Basta questo?»

Din rilascia uno sbuffo divertito. «Siamo gente pratica. Avrei potuto dirlo prima, e sarebbe comunque stato valido, col tuo consenso. Se pronunci anche tu le parole di rito, siamo ufficialmente uniti, secondo le leggi Mandaloriane.»

Le inclina all’indietro la testa, quasi a prendere distanza, e lo fissa di sottecchi con una traccia di sospetto. «Aspetta, uniti? Mi... sono persa qualcosa?»

Din percepisce il proprio volto diventare molle, gli occhi sbarrati da una fitta di panico. Boccheggia un paio di volte a mezz’aria, ammutolito dal fraintendimento, poi si arpiona la voce fuori dalla gola: «Uniti come famiglia. C’è... c’è un altro voto per... per altri legami,» spiega a raffica, senza nemmeno osare esplicitare quegli altri legami – e sta davvero balbettando, dank farrik?

Lei sembra comprensibilmente sollevata. «Bene. Non mi sembra il caso di affrettare le cose,» dice poi con una scrollata di spalle, come se fosse la cosa più naturale e ovvia del mondo.

Un momento, cosa? Din inarca le sopracciglia in un moto di sconcerto, ma fa appena in tempo a processare ciò che ha appena sentito che Cara riprende il discorso con la massima disinvoltura. Per Malachor, inizia a pensare che sia davvero Mandaloriana.

«Quindi? Cosa significa di preciso?» gli chiede infatti, con serenità disarmante. «Vorrei sapere cosa sto per dire.»

Din ci mette qualche secondo a schiodare il cervello dall’affermazione precedente, ed è costretto a riavviarlo a calci prima che si inceppi, spegnendosi del tutto e lasciandolo a piedi lì, a giostrarsi tra parole e sentimenti a cui non riesce nemmeno a dare un nome. 

È consapevole della variegata gamma di espressioni che gli ha attraversato il volto in quel nanosecondo, come un ologramma preimpostato per rappresentare l’intero spettro delle emozioni umane... e non può fare molto per arginarle: non è mai stato abituato a doverlo fare. 

Quindi cerca semplicemente di ignorare la rivolta del proprio apparato emotivo e di concentrarsi sulla domanda corrente – la cui risposta, in verità, non è affatto d’aiuto.

«All’incirca "ti conosco come famiglia",» spiega, evasivamente. Letteralmente vorrebbe dire ti porto nel cuore come famiglia, ma non gli sembra una buona idea, quella di specificare i dettagli.

Cara annuisce, soddisfatta della risposta. «Ni kar’tayl gai sa’aliit,» ripete quindi, con lenta solennità, e con un buffo accento che porta un sorriso sul suo volto, ma trattiene la propria ilarità per non rovinare il momento.

Posa invece gli occhi nei suoi, con un senso di completezza che gli riempie il petto goccia a goccia, e lei ricambia lo sguardo con la medesima, silenziosa intensità.

È vicina, ma non accenna a volersi avvicinare di più, e tiene ancora compostamente le mani sull’elmo. Le è grato, per questo. Una parte di lui, che si è fatta sempre più veemente col trascorrere dei minuti, vorrebbe disperatamente sentire il suo tocco sulla pelle; un’altra, sempre più flebile, lo convince che finirebbe per prendere fuoco se osasse anche solo sfiorarlo. Eppure, si trova ad agognare quell’istante.

China un poco il capo e il suo sguardo si sofferma involontariamente sulle sue dita, raccolte sotto il bordo dell’elmo; lo distoglie immediatamente, mandando giù un groppo in gola. Lei lo nota comunque – ovviamente – e, prima che possa dire qualcosa, porta una mano sopra la sua, ancora avvolta dal guanto. La sente a malapena, attraverso lo spesso strato di cuoio, ma ruota il polso e la avvolge nel palmo, gli occhi fissi su quell’intreccio di dita. Solleva appena lo sguardo senza muovere la testa, come fa molte volte sapendo che l’elmo maschererà quel movimento, e si trova a incrociare il suo. In attesa.

Le stringe titubante la mano, sentendosi abbracciare dal calore dei suoi occhi anche attraverso l’armatura, due pozze di tranquillità che placano la sua irrequietezza, e gli ricordano perché abbia scelto di arrivare fin qui, oggi. Solleva con lentezza le loro mani, guidando la sua verso il proprio volto. Lei lo asseconda, seguendo il movimento senza tentare di anticiparlo o accelerarlo. Finché non gli sfiora la guancia con la punta delle dita.

Quasi sobbalza. È come se tutti i suoi recettori si risvegliassero nel medesimo istante, sfrigolando in un’ondata di sensazioni amplificate. È così bello da sopraffarlo, da fargli quasi male: un fuoco che divampa e lo avvolge esattamente come ha predetto – eppure, non vuole spegnerlo. Chiude gli occhi, inebriato da quel tocco, da una sensazione che ha quasi dimenticato per sempre. Cara porta la mano libera a racchiudergli l’altra guancia, e lui si lascia accogliere e sostenere, percependo il suo sorriso anche senza vederlo. Lo ricambia, premendo contro i suoi palmi.

«Va bene?» gli chiede, sottovoce, con solo una sfumatura di dubbio a screziarle la voce.

Lui prende un respiro. Ha rinunciato a tutto ciò fino ad ora. E quel pensiero fuggevole quasi frantuma il Credo, prima di ricordare che sta compiendo una scelta. L’ha già compiuta tempo fa, quando ha deciso che la vita di un bambino valeva infinitamente di più della sua parola e del suo onore. Ha continuato a scegliere ancora e ancora, da quel momento, e non se n’è ancora mai pentito. Non se ne sta pentendo. Rilascia il respiro.

«Sì,» mormora contro la sua pelle; ed è un  che risponde a quella domanda, ma che suggella dal profondo del suo cuore anche tutto ciò che è appena accaduto.

Sente i suoi pollici che gli accarezzano gli zigomi, seguendone il profilo a fior di pelle, e alza gli occhi nei suoi. Gli dicono tutto ciò che ha bisogno di sapere.

Questa è ancora la Via. E dovunque li porterà, la percorreranno insieme.





 

– FINE –



 



Note dell’Autrice:

"Come aggirare gli stringenti dettami di un Credo millenario ripulendosi la coscienza, un manuale di Din Dork Djarin". *sigh* Di’kutla Din, non funziona esattamente così, ma ce lo facciamo andare bene, spero... anche se ve l’ho fatta sudare, ammettetelo :’) *sente il fiato dei rathtar sul collo*

Sì, questa minilong è in tutto per tutto un concentrato di self-indulgence/studi alternativi dei personaggi in cui mantengo di tanto in tanto una parvenza di IC :’) Ma la prossima shot riequilibrerà Lato Chiaro e Lato Oscuro, vedrete ♥ Perché no, non mi sono dimenticata di Grogu, ma quella parte ha bisogno di un "approccio differente" :P

Ret’urcye mhi, vode!

-Light-

P.S. [SPOILER per Cap.15] Ogni riferimento all’ultimo episodio è puramente casuale. No, davvero: è casuale, tutto ciò è stato partorito prima e non mi capacito del tempismo :’)

   
 
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