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Autore: _Lightning_    03/01/2021    2 recensioni
Una parte di lui è ancora, ferocemente, Mandaloriana [...] È custodita in una mano tesa verso qualcuno che non ha più nulla al mondo, per fargli capire che esiste ancora una Via. E non sa se stia pensando a se stesso da bambino, a Grogu, a Cara, o a ciò che è diventato lui adesso. Sa solo che quelle fiammelle tremolano ancora nella sua armatura, riuscendo a non renderla un involucro vuoto, e che la sua mano è ora stretta attorno a una pallina argentata che è riuscita a racchiudere tutto il suo mondo.
[The Mandalorian // What if? (post-S2) // Avventura // Introspettivo // Din&Cara // Din&Grogu // Mand'alor!Din]
Genere: Avventura, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Luke Skywalker, Yoda
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales of Two Space Warriors and Their Green Womprat'
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©Lightning

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PARTE I

ROTTAMI


“I’ve got no need for open roads
’Cause all I own fits on my back
I see the world from rusted trains
And always know I won’t be back
’Cause all my life is wrapped up in today
No past or future here
If I find my name’s no good
I just fall out of line”
[Ghost Towns – Radical Face]
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Capitolo 1

 

Immobile



Dopo quell’affermazione, l’aria attorno a loro sembra vibrare metallicamente come se ci fosse ancora l’elmo a filtrargli la voce. Le sue parole vorticano ancora un istante sopra di loro e, nonostante il suo sguardo rimanga appuntato sull’oblò della Slave, a seguire i pennacchi di fumo che costellano l’orizzonte, vede comunque Cara scurirsi in volto, con una linea incerta che va a incresparle la fronte.

Nell’istante che precede la sua replica, Din si rende conto di poterla anticipare senza difficoltà, in una repentina consapevolezza di tutto ciò che le ha taciuto negli ultimi giorni.

«Una nuova nave?» ripete infatti lei, cauta, con una circospezione che solitamente non le appartiene. «Perché, la Crest è...»

«Distrutta. Da Gideon,» completa lui, con la cadenza precisa e incolore di un radar.

Intravede lo shock sul volto di Cara – lo percepisce: da lei si propaga l’onda d’urto di un muto sconcerto, che non ha davvero bisogno di guardare, per comprendere. Non è come perdere un intero pianeta, no, ma la Crest era comunque casa, e lei lo sa bene.

Ha ancora l’esplosione impressa nelle retine. Rosso, bianco accecante, nero. Un secondo, non di più. Un secondo per mandare in pezzi quasi trent’anni di vita. Poi, il grigio stinto delle ceneri e del beskar. È una perdita che gli si è incuneata nel petto, come se i frammenti della nave l’avessero trafitto. Li porta con sé, come la pallina, come l’elmo vuoto. Il sospiro che immette nei polmoni è silenzioso, appena percettibile, ma gli stringe la gola dolorante. Ha fin troppi pezzi di metallo inerte incollati addosso, e nessuno ha più alcun valore.

Cara comprime le labbra, fin quasi a sbiancarle. Il tremito che la attraversa riecheggia di rabbia sotto pressione, ma anche di rammarico e impotenza. «Sto iniziando a pentirmi di avertelo chiesto vivo.»

Din scuote con pesantezza la testa, incrocia le braccia con più forza del necessario: sulle costole pigiano i bordi della corazza, sempre più estranei con ogni minuto che scorre.

«Uccidere Gideon non avrebbe cambiato nulla.» 

Il peso della Darksaber al fianco si fa fardello, quello della pallina sopra al cuore un macigno. Gli lampeggia davanti l’immagine della punta di lancia che si arresta a pochi, vitali centimetri dalla gola del Moff, e contrae i pugni in uno scricchiolio di cuoio e nocche. 

«È meglio che tu me l’abbia chiesto. Dopo quello che ha fatto a Grogu, non so se...»

«Grogu? Si chiama così?» interviene lei deviando con prontezza il suo discorso cupo, con l’ombra di un sorriso che si fa però subito mesto.

Din strizza di riflesso gli occhi, ad attutire il lieve senso di colpa che lo pervade per non averglielo detto, mescolato alla puntura sorda che quel nome porta con sé.

«La Jedi ha...» si interrompe, conscio di aver appena fatto un’altra falsa partenza: non le ha detto neanche questo.

Cara a quel punto alza lievemente il mento e poggia la nuca alla paratia metallica, scrutando un punto in lontananza con evidente perplessità.

«La Jedi,» ripete, e Din capisce da suo tono che è confusa, ma anche in qualche modo divertita, e non può darle torto.

Din apre bocca per rispondere, anche se parlare di ciò che è accaduto – di Grogu – è come togliersi una spina dal cuore. Lei lo ferma, con gentilezza, il viso adesso rivolto verso di lui, ma gli occhi bassi: 

«Din. Non parliamo seriamente da quando hai lasciato Nevarro... non ho idea di cosa sia successo nel frattempo. Ti va di aggiornarmi?»

Din prende l’ennesimo respiro lento, profondo – quell’invisibile moto che gli immette aria nei polmoni sembra essere l’unico appiglio in grado di fornirgli ancora una parvenza di stabilità. Quando è piombato su Nevarro per cercare Cara – reclutarla, in effetti – non le ha spiegato nulla. E lei non ha chiesto nulla. Dovevano salvare Grogu: quello era il singolo imperativo. Non c’è stato modo per dirle nient’altro. 

Nemmeno dopo Morak. Chiude di nuovo gli occhi, con un peso plumbeo nel petto e un bruciore che sembra scaturire dal centro della sua testa andando a infiammargli il volto esposto.

Cara, consapevolmente o meno, gli sta offrendo un altro appiglio: la possibilità di mappare ciò che è successo in modo da fare un passo indietro. Per poi andare avanti, forse. Anche se non è abituato a parlare, e anche se ha difficoltà a tenere a mente tutto ciò che gli si è abbattuto addosso in quel ristretto lasso di tempo. È più di quanto gli sia capitato in una vita intera, e sa di averne vissuta una già decisamente fuori dell’ordinario.

«Vorrei parlartene con calma,» risponde infine, lentamente, con un piccolo cenno del capo verso l’uscita a indicare un probabile imminente ritorno degli altri – qualunque cosa stiano facendo.

Si rende conto in ritardo di essersi mosso come avrebbe fatto con l’elmo. Irrigidisce il collo, premendo il mento verso il basso a bloccare altri movimenti istintivi.

«Non ho fretta,» replica lei, con un’occhiata furba ma al contempo lieve, che si scontra ancora sotto al livello dei suoi occhi.

Din lo nota, ed esita per un istante. Non c’è un modo delicato per dirglielo. Gira impercettibilmente la testa verso di lei, e parla in un soffio: «Se non mi guardi è peggio.»

Lei sembra trattenere il fiato, colta in fallo, anche se in verità non ha fatto nulla di sbagliato. Poi annuisce, semplicemente, e asseconda la sua richiesta senza la più piccola esitazione, spostando gli occhi su di lui. Guardarla in volto senza preavviso lo spiazza – gli brucia ogni centimetro di pelle. È come essere di nuovo nella base imperiale, trapassato da sguardi ostili, con uno spesso velo soffocante premuto su naso e bocca.

Si rimprovera subito, aspramente: questa è Cara, non un qualsiasi lacchè dell’Impero. È quanto di più simile a una famiglia gli sia rimasto. Può fidarsi. Vuole farlo, anche se la sua parte irrazionale stenta a fidarsi anche di se stesso – del suo nuovo se stesso senza Credo.

«Non sapevo cosa preferissi,» aggiunge soltanto lei, con l’accortezza di guardarlo solo brevemente negli occhi, per poi lasciare lo sguardo a livello del volto, sì, ma in modo non più così diretto.

«Dovrò abituarmi,» è l’unica, scevra risposta che Din riesce a formulare, prima di tornare a fissare i cumuli di fumo che assediano l’orizzonte di Faeron.

Non lo sa, cosa preferisce. Dubita anche di averlo mai saputo. Quel pensiero repentino, balzato nel primo piano a colori vivi della sua mente, senza alcuna logica, gli mozza il fiato. Gli toglie di nuovo la terra – la Via – da sotto ai piedi.

Cade un silenzio così denso da colargli addosso come ferro fuso, che poi si solidifica lasciandolo pietrificato in se stesso, nei suoi pensieri circolari e al contempo imbizzarriti e imprevedibili. Ha quasi timore che facciano rumore, ma nella stiva si ode solo il mugghiare lontano delle ciminiere e l’occasionale rombo di un’astronave di passaggio. 

Uno particolarmente vicino sembra riscuotere Cara, che riprende a parlare come se quella parentesi nella discussione non fosse mai avvenuta.

«Che tipo di nave cerchi?»

Din scatta appena di lato con la testa in un moto noncurante – di nuovo, con la falsa convinzione di avere l’elmo – e frena tra i denti la risposta istintiva, ridicola che gli è salita alle labbra. «Un trasporto leggero, agile, bene armato, media stazza. Nulla di troppo sofisticato,» dice invece, in fretta, fin troppo consapevole di cosa stia descrivendo.

Cara sembra rimuginare per un attimo, una piccola smorfia a storcerle la bocca. «C’è questo contrabbandiere, su Nevarro, a cui abbiamo sequestrato un mercantile classe Monarch. Non è molto maneggevole e ha bisogno di un po’ di lavoro nel comparto offensivo, ma per il momento potrebbe fare al caso tuo.»

«Per il momento?» ripete Din in modo falsamente stolido, ma il dubbio di essere fin troppo leggibile si fa strada in lui, gelido.

Cara inarca le sopracciglia, in quell’espressione che le assottiglia lievemente gli occhi quando si trova a ripetere qualcosa di ovvio. «Ti ci vorrà un bel po’ per recuperare un modello Crest che non cada a pezzi.»

Din si agita sul sedile, rifiutandosi di voltarsi verso di lei, ma anche di negare ciò che lei ha appena intuito. Non sa se sia solo merito della sua perspicacia, o se abbia davvero ogni pensiero stampato in volto. In ogni caso, ha colpito fin troppo vicino al bersaglio.

Recuperare un’ombra della Crest è comunque un obiettivo tangibile, per quanto fragile e di poco spessore. Gli serve qualcosa di reale a far da collante a tutto il resto, a quella massa gassosa di pensieri in continua espansione nella sua testa – vie che si diramano, labirintiche, imperscrutabili, e una sola Via nitidamente cristallina che però lo terrorizza più di qualunque droide o esplosione.

Non può riavere Grogu, né la sua Tribù, né il suo Credo, né può gettare via la Darksaber. Può comunque sperare di trovare un simulacro della sua vecchia nave sperduto in qualche pianeta-discarica, o racimolarne un pezzo alla volta da un capo all’altro della Galassia. È una missione collaterale che gli rimetterebbe sotto ai piedi qualche tassello incrinato, ma solido, seppur lontano dalla Via. Sospira tra i denti.

«Sì. Anche se non sarà comunque la stessa cosa,» ribatte infine, più per ricordarlo a se stesso.

«Non è mai la stessa cosa,» ribatte lei, pacata, ma con una stilla di dolore che raggrinzisce quell’affermazione. «Ma a volte è meglio dell’alternativa.»

Din socchiude gli occhi. Lui non ha alternative. O forse ne ha troppe. È lieto, almeno, che non gli abbia chiesto dove voglia andare di preciso, con quella nuova nave che sarà solo un surrogato di una vita che, in effetti, non esiste più. Quella è un’altra domanda a cui non saprebbe rispondere. O almeno, non a parole. 

Il coacervo di pensieri ed emozioni che gli si rimescola dentro come magma ribollente non ha un nome, né un ordine logico. È un impulso. Per seguirlo, non importa dove, come o perché, gli serve una nave. Non può rimanere bloccato – anche se lo è già, dentro se stesso. E se proprio deve, vuole che sia in un posto che può perlomeno fingere di chiamare “casa”. Su quello, Cara ha ragione.

Sta per dirglielo, e sta anche per accennarle quale sia il suo vago, confuso piano, ma si interrompe sul nascere. Nel quadrato luminoso dell’ingresso, occupato dalla terra chiara e riarsa, scorge tre sagome ben note avanzare verso la 
Slave a passo deciso: Fett, Fennec e Bo-Katan. Il cacciatore di taglie e l’ex-sicaria camminano affiancati, mentre la Mandaloriana si tiene leggermente discosta da loro, mezzo passo più avanti, l’andatura svelta. Indossa il casco e le orbite oblunghe da strigide sembrano appuntarsi direttamente su di lui, anche a quella distanza.

Din si irrigidisce di riflesso, i muscoli del collo che si tendono stuzzicando la tumefazione ancora fresca sotto al pomo d’Adamo. Cara deve leggergli l’inquietudine in faccia, perché si volta bruscamente, percependo il pericolo alle sue spalle: inquadra i tre in avvicinamento, e quando torna a rivolgersi a lui lo fa con espressione tetra. Si alza, spostandosi in modo di non trovarsi in mezzo a loro, e si siede dalla parte opposta della stiva con fare noncurante, anche se è evidente come anche lei avverta l’elettricità nell’aria. Din le scocca un’occhiata fugace, apprezzando il fatto che si stia tenendo fuori da quel contenzioso ridicolo con Bo-Katan. 

Deglutisce, mentre un retrogusto amaro gli ristagna sulla lingua – una nota acidula di responsabilità mai volute. Una parte irrazionale di lui ha sperato di non veder tornare la Mandaloriana, nonostante lui porti al fianco ciò che evidentemente brama di più nella Galassia.

Si impone di mantenere lo sguardo puntato fermamente sull’elmo bianco e blu in avvicinamento. In qualche modo, è più semplice di mantenere un contatto visivo diretto: la T del visore è più familiare e leggibile di qualunque volto. E quella della ormai ex-Mand’alor è tutt’altro che amichevole.

Un fremito ben noto gli attraversa i tendini, gli irrora i muscoli di sangue bollente in preparazione allo scontro. È una reazione istintiva, codificata nel suo DNA di cacciatore di taglie e Mandaloriano – di guerriero, di cacciatore e preda, nervoso e pronto al balzo. Il tramestio dei suoi pensieri tace di schianto, sovrastato dal fischio acuto d’allerta che affina i suoi sensi. Din, per quel singolo istante, non si sente poi molto diverso da quando indossava l’elmo, e si immerge a capofitto nella sensazione di essere di nuovo nel pieno controllo di se stesso.

Bo-Katan è la prima a mettere piede sulla rampa d’accesso, e lo fa come se stesse scendendo sul campo di battaglia. I suoi passi marziali risuonano secchi sul metallo e, sebbene mantenga un’andatura elastica, è ben udibile la forza che imprime sui talloni.

Din si alza in un solo, fluido movimento prima che arrivi direttamente di fronte a lui: non le lascia il vantaggio di essere in piedi, e muove un passo laterale in modo da non avere le spalle al muro, senza schiodare gli occhi da quelli dipinti sull’elmo dell’altra. Lascia le braccia lievemente discoste dal corpo, in modo non direttamente ostile, ma con la destra pronta a serrarsi sul calcio del blaster o sull’elsa della vibrolama. La Darksaber rimane fuori portata a battergli sulla coscia, un’arma estranea che non ha intenzione di testare adesso.

Bo-Katan si arresta a un passo da lui. Sembra divertita dalla sua manovra, lo deduce dal modo in cui inclina appena di lato l’elmo, scrutandolo come farebbe un convor che abbia puntato una preda dall’alto, nonostante lui la sovrasti di una testa intera. Din ha addosso abbastanza cicatrici da sapere di non dover mai sottovalutare un avversario più gracile, soprattutto se Mandaloriano. Lo fissa da dietro il suo beskar, senza accennare a togliersi l’elmo come ha sempre fatto di fronte a lui. Lui chiede, con un morso di bruciante stizza, se non sia un gesto di scherno verso il suo Credo infranto. Le sue dita si tendono di riflesso, arricciandosi nell’aria circostante il blaster.

«Pensavo di essere stato chiaro, principessa,» li raggiunge la voce raschiante di Fett, accompagnata dal suo incedere pesante e cadenzato e da quello più leggero di Fennec, che gli tiene dietro come un’ombra silenziosa. «Tenete le vostre questioni fuori dalla Slave.»

Si ferma accanto a loro nel superarli e degna entrambi di uno sguardo che, anche dietro al visore, si abbatte su di loro con la sorda devastazione di un maglio Tusken, mettendo in chiaro che, finché sono sulla sua nave, non c’è Mand’alor o Darksaber che possa sfidare la sua parola.

«E se vedo anche solo il riflesso di una spada laser, la prossima tappa che faccio è al pozzo di Carkoon,» quasi ringhia infine.

Invece di fissare Din, che sente l’elsa metallica trascinarlo con ancor più chiarezza verso il basso, oltre al volto perennemente in fiamme per i molteplici sguardi che vi si appuntano, il visore di Fett si fissa con breve intensità su Bo-Katan, con chiaro fare intimidatorio.

«Nessuno scontro, Fett,» replica lei, in quel suo tono sempre ondeggiante tra serio e faceto. «Io e il “
legittimo Mand’alor dobbiamo solo parlare

Din quasi sobbalza. Una scossa ustionante gli scuote le sinapsi nel sentirsi apostrofare a quel modo, con quel tono provocatorio, e deve fare appello a tutto il suo autocontrollo per non muovere un passo e travalicare la zona neutra per entrare in quella offensiva. Non ha mai chiesto quel titolo, ma non vuol dire che possa essergli ritorto contro per deriderlo. È certo che quella gamma di emozioni gli sia appena lampeggiata in volto, e si sforza di attenuarla.

«Parlate, allora,» sbotta Fett, sembrando quasi divertito e cogliendolo di sorpresa – persino Bo-Katan distoglie impercettibilmente lo sguardo per fissare il cacciatore di taglie più anziano.

Fett non dice altro, però. Si allontana repentinamente da loro, voltandosi con un unico, militaresco movimento che è quasi un dietrofront, e fa cenno a Cara di seguirlo in cabina di pilotaggio. 

Quest’ultima è evidentemente già occupata da Fennec, visto che l’improvviso rombo del motore scuote la Slave, vibrando chiassosa attorno a loro. Din non si volta, rifiutandosi di staccare gli occhi dal visore di Bo-Katan, ma percepisce comunque lo sguardo di Cara sulla nuca, seguito dal suono metallico dei suoi stivali sui pioli.

In quel momento la nave si solleva dal suolo, inclinandosi appena e ricordando loro perché sia una pessima idea stare in piedi su una Firespray in volo. Barcollano entrambi, e Din si appoggia alla parete per evitare di finire gambe all’aria.

«Avete tutto il tempo che vi serve,» si lancia dietro Fett a metà scala, proprio mentre lui e Bo-Katan rompono il contatto visivo per assicurarsi ai due sedili opposti, riprendendo a fronteggiarsi a distanza. «La rotta per Trask è lunga.»


 


 



Note dell’Autrice:

Su’cuy an!

No, non ho dimenticato questa storia: semplicemente ho avuto poco tempo/voglia/ispirazione per scriverla e questo capitolo ha richiesto una gestazione di giorni interi, perché ci sono fin troppi fili da tenere a mente. Spero solo che non ne uscirete matti come me e che tutto risulti comprensibile :’) ♥
In tutto ciò, Koska, l’altra Mandaloriana, non è scomparsa nel nulla: il perché non stia andando su Trask con Bo-Katan troverà spiegazione nel prossimo capitolo.


NB. La versione di Bo-Katan che trovate qui è ricalcata su quella della serie; quella della mia long Vode An, invece, è modellata su Clone Wars più miei headcanon, quindi non stupitevi delle differenze: sono volute e intenzionali :)
Bonus: ho scritto la parte finale del capitolo sentendo i Rage Against The Machine e probabilmente si nota. Ops.

Grazie a tutti coloro che hanno commentato/letto/aggiunto la storia agli elenchi!

-Light-

   
 
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