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Autore: _Lightning_    24/01/2021    5 recensioni
Dopo aver lasciato Nevarro, Din Djarin ha ormai poche certezze: è ancora un Mandaloriano, deve trovare il pianeta natale del Bambino, e i compagni sfuggiti al massacro di Gideon sono vivi, da qualche parte nella Galassia. Quest'ultima è più una speranza, e lui non ha idea di come si viva di speranza. Soprattutto quando tutte le altre certezze, quelle che ha sempre custodito tra cuore e beskar, sembrano sgretolarsi con ogni passo che compie.
Non tutti i suoi fantasmi sono marciati via.
Dall'ultimo capitolo: Il Moff lo conosceva – sapeva il suo nome, da dove veniva, chi fosse la sua famiglia.
Anche Din lo conosceva. Ricordava il suo nome sussurrato di elmo in elmo come quello di un demone durante le serate attorno al fuoco della sala comune, l’unica luce che potessero concedersi in quegli anni di persecuzione. Ricordava il Mandaloriano mutilato e con la corazza deforme che narrava singhiozzando della Notte delle Mille Lacrime, quando interi squadroni d’assalto erano stati vaporizzati a Keldabe dalle truppe imperiali.

[The Mandalorian // Missing Moments // Avventura&Azione // Din&Grogu // Post-S1 alternativo]
Genere: Avventura, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Jango e Boba Fett, Yoda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte I


 

 “Nessuna taglia vale così tanto da rimetterci la vita.”
— Dal Codice della Gilda dei Cacciatori di Taglie

 
Livello -93, Miniere di Kaha, Pianeta Awath

L’esplosione si propagò nell’ossatura stessa della miniera, riverberando attraverso le pareti del tunnel in un’ondata scricchiolante. Din e Cara si arrestarono brevemente, scrutando lo spazio ristretto con la tensione di chi è fin troppo consapevole della propria impotenza nel prevenire un ipotetico disastro.

Din serrò la mascella in un riflesso involontario, buttando fuori aria dal naso nel sentire le sottili vibrazioni sotto le suole degli stivali e l’inquietante sbriciolarsi roccioso attorno a loro. Gli parve di udire un contraccolpo metallico di porte arrugginite, da qualche parte nei recessi della sua memoria, ma l’unico suono fu quello argentino di sparuti frammenti di soffitto che andarono a picchiettare sul suo spallaccio. Il rombo si attenuò pian piano, divenendo impercettibile se non per il fremito sordo che scuoteva ancora loro i timpani.

Din avvertì un tintinnio acuto risuonargli nel casco, prodotto dal beskar, e strizzò gli occhi in un moto di fastidio – intravide il Bambino fare lo stesso, con le piccole mani premute sulle orecchie ad accartocciarle. Provò l’ennesima, subdola fitta di rimorso per averlo portato con sé. Sapeva che anche Cara, pur nella sua inesperienza nella Gilda, aveva iniziato a pensare che quella non fosse una situazione tipica, nemmeno nel mondo sordido di taglie illegali. Non l’aveva ancora esternato ad alta voce, ma le si leggeva in volto quanto fosse poco convinta dalla situazione. Non poteva darle torto. 

«Questa era più vicina, o sbaglio?» chiese in quel momento lei, con gli occhi acuti che perlustravano il buio azzurrino attorno a loro, in sincrono con la canna del blaster.

Din annuì, pur sapendo di essere a malapena visibile. Aveva evitato di accendere anche la torcia incorporata nell’elmo, così da essere meno individuabili nel buio denso e convoluto dei tunnel, e apriva la strada a entrambi affidandosi alla visione notturna. La culla col Bambino avanzava in mezzo a loro, protetta.

«Dobbiamo essere proprio sotto la zona d’estrazione,» osservò, inclinando d’istinto la testa verso l’alto.

«Finiranno per dover estrarre anche noi.»

Lui annuì di nuovo, distratto, assecondando quell’umorismo tetro a cui, normalmente, avrebbe contribuito. Sapeva di essere nel bel mezzo di un incarico, e di dover quindi convogliare tutta la sua attenzione al momento presente, ma la verità era che la sua mente si ostinava a divagare, seguendo le linee intersecate di più discorsi e ricordi che gli si accavallavano sotto l’elmo, dandogli l’impressione di non avere più spazio per respirare, là sotto.

La discussione con Scorch gli si avvitava in testa da due giorni. Pezzi di informazioni sconclusionati, per lo più. Racconti stracciati della guerra che aveva devastato e dato indirettamente nuova forma alla sua vita, e che Scorch aveva combattuto in prima persona, uscendone altrettanto a pezzi. Geonosis, Mygeeto, Kashyyyk, Coruscant: battaglie che Din conosceva di nome, per fama di sangue e caduti, su pianeti su cui non aveva mai messo piede. Frammenti di rivelazioni che gli si erano conficcati in testa, pungenti, il più acuminato dei quali gli inviava delle fitte acute dietro gli occhi, come un’emicrania insistente.

C’erano altri Mandaloriani, oltre alle Tribù. Quel pensiero si contorceva attorno al suo cervello con le spire di un verme delle sabbie, stritolandolo. Aspirò aria stantia dentro l’elmo, focalizzandosi sui propri passi in mancanza di altri appigli nell’oscurità.
Non adesso, si ripeté stentoreo, pur incapace di tenere strettamente in mano tutti i capi sfuggenti dei propri pensieri. Altri Mandaloriani, gli bussò comunque in testa, con un rintocco di beskar grezzo. 

Non erano le Tribù, gli ultimi Mando’ade sopravvissuti, gli ultimi rimasti a seguire e tracciare la Via. Esistevano dei superstiti, là fuori, che non erano stati completamente annichiliti nella Grande Purga come gli era sempre stato raccontato, nelle sere fredde passate ad ascoltare miti e leggende attorno alla forgia languente. Sfiatò dal naso, liberando una lieve scarica statica dal vocoder. Spaesamento, ma anche frustrazione. Ne avvertiva la stretta sulle costole.

Perché non ne sapeva nulla? E perché, poi, non sapeva nulla nemmeno dei Jedi? Mandalore il Grande, aveva detto l’Armaiola... millenni fa, un Ordine di stregoni estinti, perso nelle nebbie del tempo, loro acerrimi nemici. Eppure, un soldato Clone – e a quanto pareva mezzo Mandaloriano, qualunque significato avesse quell’espressione assurda – pareva saperne molto più di lui.

Certo che li conosco! Siamo stati la loro carne da macello per anni e adesso a quanto pare hanno pure salvato la Galassia. Dov’è che hai vissuto finora, ner vod? Sotto una roccia? 

Iniziava a crederlo realmente, a quel punto. L’eco di un’altra esplosione, più cupa, gli ricordò che quella sua condizione non fosse del tutto metaforica. Torse nervosamente il collo verso il soffitto: dubitava che ai piani superiori della miniera tenessero conto della stabilità di sottolivelli in teoria vuoti, se non per due cacciatori di taglie, un infante e una presunta “spia della Repubblica”. 

Se quella taglia non fosse stata una dritta di Scorch, avrebbe già piantato un colpo di blaster nella testa iridescente di Zetz – di cui aveva fiutato la divisa da ex-Imperiale a tre klick di distanza – per poi tornarsene di gran carriera all’aria aperta. Ma la curiosità aveva preso il sopravvento, come raramente era accaduto nel corso della sua carriera, e come sempre più spesso accadeva da quando aveva il Bambino con sé.

Quel Clone non era un Mandaloriano, a dispetto di ciò che lui sosteneva con veemenza – e anche a considerarlo tale, non seguiva comunque la Via. Ma Din aveva imparato già da tempo a seguire le prime impressioni. Nonostante il loro primo incontro burrascoso, l’istinto gli aveva detto di potersi parzialmente fidare. E l’istinto, subito dopo, l’aveva convinto a indirizzare Scorch su Nevarro e Cara lì su Awath.

Si lanciò un’occhiata sopra la spalla, verso il Bambino: si ritrovò i suoi occhi vigili già puntati addosso, come se avesse anticipato il suo sguardo. Din non riusciva a smettere di pensare che, in quel gioco di incastri e spostamenti, fosse stato proprio il piccolo a indirizzare lui su quell’esatto pianeta. Avvertiva ancora la lieve spinta che aveva mosso il suo sguardo sulla mappa, verso Awath. Era quella, la “forza” di cui tutti parlavano? Non avrebbe saputo dirlo. In quel momento, si sentiva nel bel mezzo del Canale di Kessel, in balia delle correnti e con masse di gas e ghiaccio in continuo movimento a circondarlo minacciose, capaci di ostacolare la sua rotta in modo imprevedibile nonostante avesse le mani ben piantate sulla cloche di volo.

Si riscosse, riportando lo sguardo davanti a sé, per poi spostarlo di nuovo verso Cara, che si lanciava occhiate nervose alle spalle mentre riassestava la presa sul blaster. L’istinto gli suggeriva anche di mettere lei al corrente dell’intera situazione, e alla svelta, prima che precipitasse. O che lei scoprisse per conto proprio i doppifondi di quella che non era esattamente una semplice taglia. Un’omissione del genere, specie se protratta più del dovuto, sarebbe andata a minare una fiducia importante, che non aveva nemmeno avuto bisogno di essere costruita: si era dipanata tra loro con la stessa naturalezza di un respiro.

Il claustrofobico tunnel in cui stavano avanzando si allargò un poco d’un tratto, permettendo loro di proseguire affiancati, sempre con la culla a galleggiare di mezzo – le orecchie del Bambino sporgevano curiose dal bordo, recettive a ogni minimo rumore. Di tanto in tanto, la luminescenza degli stick si rifrangeva su qualche sparuto cristallo di sale colorato che sporgeva dal soffitto e dalle pareti. Non sembrava una zona particolarmente ricca di giacimenti.

«A te sembra normale una segretezza simile per del semplice contrabbando di sale?» chiese Cara, adocchiando uno dei prismi variopinti e semitrasparenti con fare dubbioso.

Din non rispose immediatamente, sollevato di non dover introdurre lui quell’argomento più spinoso di un nexu.

«Non lo è, infatti,» rispose nel modo più naturale che gli riuscì. «Zetz ti sembra un trafficante?»

«A me puzza di Imperiale.»

Din si limitò ad annuire in conferma, affatto sorpreso dalla sua perspicacia. Rallentò poi un poco l’andatura nello scorgere delle chiazze rossastre sul visore, a segnalare del pietrisco smosso. Difficile dire se fossero stati dei passi, un mezzo di trasporto o qualche animale: i segni erano appena percettibili. Si fermò del tutto, analizzando la zona e lasciando momentaneamente cadere il discorso.

«Te n’eri accorto,» ruppe il silenzio Cara, in tono blandamente accusatorio.

«Lo sapevo già,» colse al volo l’occasione lui. «Questa taglia è... particolare.»

«L’avevo intuito,» lo rimbeccò Cara, fermandosi del tutto e rivolgendo lo sguardo allo stesso punto nel terreno che lui stava esaminando. «Tracce?»

«Forse. È stato attento a non lasciarne.»

«La nostra “spia”, dici.» Cara incrociò le braccia, fissando il suolo, e riportò poi lo sguardo da terra a lui. «Vuoi spiegarmi?»

Din scosse la testa, liberando un mezzo sospiro.

«La “ricerca e recupero” è per conto di Scorch. L’obiettivo è un suo informatore che è finito nei guai con la banda di Zetz... è un ex-Imperiale, ha messo lui la taglia come esca. A quanto pare, sono solo capitato nel posto giusto al momento giusto,» scrollò le spalle, con un moto inquieto e uno sguardo invisibile al Bambino, che nel mentre trafficava tranquillamente col suo ciondolo in beskar.

Gli occhi di Cara si assottigliarono, sospettosi.

«Un “informatore”. Che finisce nei guai proprio con un Imperiale,» ripeté, scandendo le singole parole. Poi chiuse brevemente gli occhi, con un fremito. «Per chi stiamo lavorando?»

Din si distolse dalla sua perlustrazione, ritenendo giusto fronteggiarla del tutto, nel rispondere.

«Non l’ha detto esplicitamente. Ma è plausibile che sia la Nuova Repubblica,» rispose, senza riuscire a trattenere una sfumatura colpevole nella voce.

Prevedibilmente, Cara distolse di scatto lo sguardo, voltando la testa di lato a fissare l’oscurità attorno a loro. Una linea rigida le segnò la mandibola.

«Sul serio, Mando?» sbottò poi in un soffio irritato, gesticolando col blaster e tornando a guardarlo con un lampo nelle iridi un palmo che andò a piantarsi sul fianco. «Sai benissimo che non voglio affiliarmi a loro. Né tantomeno fare i loro lavori sporchi.»

«Lo so,» replicò lui, senza negare, né giustificarsi.

Inclinò senza volerlo il capo verso il piccolo, che adesso li stava osservando a turno, con una scintilla preoccupata negli occhi e il volto seminascosto dal bordo della culla, a cui si aggrappava con insolita forza. Non stavano esattamente litigando, ma forse riusciva a percepire la stilla di tensione tra loro, in quel suo modo che non comprendeva appieno.

«C’entra lui?» chiese secca Cara, notando il suo gesto.

«Spero di sì,» rispose Din, senza riflettere. Intercettò lo sguardo affilato di Cara, che lo spronò a elaborare: «Non mi interessano le beghe della Repubblica. Ma Scorch ha delle informazioni rilevanti, sull’Impero, sui Jedi...» esitò, cogliendo la repentina sorpresa sul viso dell’altra, che aumentò col continuo: «... e su altri Mandaloriani.»

A quell’ultima parte non poté fare a meno di scuotere appena l’elmo, ancora restio ad accettare quell’ipotesi assurda, che incrinava tutte le convinzioni che aveva sempre avuto. E ne rinsaldava altre a cui non pensava da anni, da quando aveva giurato e indossato il beskar. Altri Mandaloriani, sopravvissuti. Di cui era stato attivamente tenuto all’oscuro. Gli si seccò la bocca come se vi fosse passata una folata di vento di Tatooine, a fomentare di nuovo speranze vane e amare sopite da tempo.

Cara a quel punto annuì appena, tirando le labbra. Qualche nodo contratto si sciolse sul suo volto, anche se i suoi occhi rimasero duri, ridotti a schegge sottili.

«Una taglia ricca.»

«Ne ho accettate di peggiori, per molto meno.»

Vi fu un battito silenzioso ad echeggiare tra loro. Din sentiva addosso, nel beskar, quell’ombra grigia dell’incarico che non aveva portato a termine e che, a volte, ancora gli corrodeva la coscienza quando posava lo sguardo sul Bambino. Cara distolse brevemente gli occhi dal suo visore, fissando proprio il Bambino. Allungò una mano delicata a sfiorargli la guancia, suscitando da parte sua un versetto entusiasta.

«Pensi davvero che questo Scorch possa aiutarti?» chiese poi Cara, in tono più morbido, ancora senza guardarlo.

Din si accostò a sua volta alla culla, avvertendo l’aria tra loro che si distendeva appena, anche se l’irritazione della guerriera era ancora palpabile.

«Potrebbe dirci di più su Gideon. E sa qualcosa sui Jedi. Più di qualcosa. Da quanto ho capito li ha incontrati di persona. Erano... militari, nelle Guerre dei Cloni,» aggiunse, senza nascondere il proprio sconcerto nel ripetere quei fatti privi di qualunque contesto o appiglio.

Di quel conflitto ricordava solo droidi ed esplosioni. La fame, i rombi dei caccia in picchiata, i volti sempre più preoccupati dei suoi genitori, ormai annacquati dal tempo. Nessun guerriero armato di spade luminose, come quelli descritti da Scorch. Cara inarcò le sopracciglia, ma sembrò perplessa, più che sorpresa.

«Allora non erano leggende.»

«Tu almeno le hai sentite,» replicò lui, in uno scatto d’acredine che non riuscì a reprimere, rivolto a tutti e nessuno.

Cara gli scoccò un’occhiata interdetta, e Din si rese conto di aver alzato la voce, almeno per i suoi standard. Rivolse lo sguardo altrove, traendo un respiro lento, a calmare parole e pensieri. Lei passò una mano a scostarsi la frangia dal volto, in un gesto nervoso.

«Senti, capisco perché tu abbia accettato, ma io ho un conto aperto con l’Alleanza. Non mi piace ritrovarmi a lavorare per loro senza poter decidere.»

Din annuì piano, serrando una mano sul bordo della culla – il Bambino vi posò subito entrambi i palmi. Poi annuì di nuovo, con più intento, a segnalare che aveva capito davvero. Non si era sentito a posto sin dal principio, con la decisione di omettere quel particolare, e trovarne conferma da parte sua gli causò una sensazione viscida nello stomaco, visto che stava iniziando a capire come ci si sentisse, ad essere all’oscuro di qualcosa.

«Scusa,» disse soltanto, senza agghindare quella semplice parola di aggiunte superflue. 

Bastava a se stessa, dopotutto. E se così non fosse stato, Cara avrebbe avuto tutte le ragioni della Galassia per risentirsi e mantenere il punto. Lei, però, gli indirizzò un sorrisetto inaspettato.

«Ti avrei aiutato lo stesso,» specificò poi, con disarmante semplicità, prima di rimettersi in marcia come se non si fossero mai nemmeno fermati.

 
La loro “spia” si era data da fare nel celare ogni più piccolo segno della sua presenza. In due decenni abbondanti di carriera, Din aveva raramente avuto a che fare con una scarsezza tale di tracce, e la sua tariffa lo annoverava chiaramente tra i professionisti del settore. Da un lato, ciò tramutava la caccia in una sfida che non poteva definire del tutto spiacevole; dall’altro, col rischio tangibile di una minaccia Imperiale tra capo e collo, avrebbe preferito ritrovarsi tra le mani l’ennesimo Weequay sbrigativo e superficiale che segnava la sua rotta a forza di bottiglie di spotchka abbandonate. Stavolta, iniziò a ritenersi fortunato nel cogliere qualche sassolino smosso, o una mezza impronta semi cancellata su una parete, invisibile se non tramite il rilevatore organico.

Quella parte della miniera sembrava scavata in modo più grossolano, a rozzi colpi di piccone e senza nessuna levigatura finale, al contrario dei livelli superiori. Già da qualche minuto, procedevano in tunnel ramificati, invasi da pietrisco residuo e costellati di piccoli smottamenti affatto rassicuranti, soprattutto vista la progressiva rarità dei puntelli di sostegno. Molti spazi sembravano invece naturali: ampie cavità tondeggianti in cui si scorgevano stalattiti e stalagmiti, oltre a cristalli di sale più imponenti.

Il lato positivo era che, su un terreno così dissessato, riusciva a cogliere con più facilità strascichi di eventuali passaggi, per quanto minimi. Notò che il Bambino iniziava a dare qualche cenno di irrequietezza, emettendo di tanto in tanto qualche vagito o trillo scontento, placato da lui o Cara a seconda di chi si trovasse più vicino alla culla. Non lo considerò di buon auspicio, e anche gli occhi di Cara si erano fatti via via più mobili, suscettibili al minimo scricchiolio o lieve eco che si propagava nei tunnel bui. Le esplosioni sopra di loro si erano rarefatte, a malapena udibili se non per le vibrazioni più gravi, che avvertivano direttamente nelle ossa.

Proprio quando Din stava per suggerire di tornare indietro, frustrato dalla totale assenza di tracce negli ultimi trecento e passa metri, fu distolto da un fugace sfarfallio rossastro del visore. Si arrestò di colpo, con la culla che andò a urtargli contro le reni.

«Mando?» gli arrivò subito la voce di Cara, seguita dal rumore meccanico del blaster impugnato più saldamente.

Non rispose subito, all’erta ma non ancora in allarme, e portò una mano ai comandi esterni del visore, mettendo a fuoco le vivide macchie che costellavano il suo campo visivo. Segni di una lotta, apparentemente: solchi profondi sul brecciolino indicavano una specie dotata di artigli, possibilmente massiccia, e comunque dotata di una forza considerevole. Vide con la coda dell’occhio Cara che si accostava a una parete, sulla quale, ben distinguibile, spiccava il segno biancastro di due paia d’unghie che avevano scalfito nettamente la superficie.

«Ho una mezza idea di che fine abbia fatto la nostra spia,» asserì tetra, inginocchiandosi a raccogliere qualcosa.

Sollevò tra due dita un brandello di stoffa di un arancione vivo, mostrandoglielo nella luce fioca.

«E del perché non siano andati loro stessi a stanarla,» completò Din, afferrandolo e prendendo nota dell’assenza di sangue sul tessuto. «Dei krykna?» suppose poi, scandagliando il buio con un fremito sulla nuca al solo pensiero.

«Non vedo ragnatele,» scosse la testa lei. «E avremmo sentito già da tempo dei fyrnock. Ci avrebbero braccati.»

Strinse le labbra in una linea tesa, rivolgendogli uno sguardo significativo, a indicare l’unica altra creatura feroce e indesiderabile che avrebbero potuto trovare in una miniera, nel buio assoluto e a quelle profondità. Din gettò la testa all’indietro, ruotando sul posto a guardarsi le spalle d’istinto, rilasciando al contempo un’imprecazione soffocata.

«Dank farrik

«La taglia non prevedeva di strappare le orecchie a un gundark.»

«A saperlo, avrei chiesto molto più di un Verpine.»

«Le tracce ti sembrano recenti?»

«No. Almeno non credo. E non c’è sangue.»

«Possiamo prenderlo per un buon segno, almeno.»

Si fissarono in silenzio per qualche secondo, scambiandosi sguardi inquieti col Bambino nel mezzo che, al contrario, ora sonnecchiava beato e ignaro del loro turbamento. Anche quello, almeno, era un buon segno.

«Quanto vuoi quelle informazioni?» proruppe infine Cara, rialzandosi in piedi.

Din sospirò a fondo, con l'impressione di intercettare ombre inesistenti nell
oscurità. Un esemplare adulto avrebbe potuto farli a pezzi senza difficoltà, soprattutto in un ambiente così angusto, e non volle pensare alla possibilità di un branco intero. Rinfoderò il blaster e imbracciò l’Amban, impostando la modalità shock – meglio un gundark stordito che inferocito da una ferita non letale.

«Sono le uniche che ho trovato finora,» replicò quindi, facendo un gesto deciso verso la continuazione del tunnel con la baionetta biforcuta.

Gundark o meno, avevano un incarico da portare a termine. E non era certo che tornare indietro a fronteggiare un branco di Imperiali sotto mentite spoglie sarebbe stato poi così pacifico, soprattutto se, come sospettava, avevano intuito che non erano ordinari cacciatori di taglie. Avanzò di qualche passo, e notò qualcos’altro di insolito: a qualche decina di passi da loro, un chiarore sfumato tingeva l’oscurità.

«C’è una luce, più avanti,» annunciò sommessamente, sollevando in automatico la canna del fucile.

«Non so se sperare che sia un’uscita,» commentò altrettanto piano lei, imitando il gesto difensivo.

«Non credo. Non è luce solare,» confermò lui, osservando l’insolita lunghezza d’onda riportata in sovrimpressione al visore. «E nemmeno artificiale.»

Cara gli rivolse uno sguardo interrogativo, ma lui si limitò a un’alzata di spalle, a nascondere la perplessità. Vivevano in una Galassia troppo vasta e ricca di stranezze, per interrogarsi troppo a lungo su quel dettaglio. Riprese ad avanzare con più cautela, distribuendo accuratamente il peso sulla suola degli stivali per ridurre il rumore. Cara gli tenne dietro allo stesso modo.

Il cambiamento di luce divenne man mano percettibile a occhio nudo, e Din scorse quello che sembrava uno spazio più vasto, nel quale sbucava il tunnel. Sembrava punteggiato da fievoli lumicini, a stento distinguibili. Pochi istanti dopo, fecero il loro ingresso in quella che era a tutti gli effetti una caverna naturale, dal soffitto che s’impennava sopra di loro con un’altezza inaspettata. Nella sua vastità, avrebbe potuto accogliere senza problemi l’intera cittadina di Gyra.

Un’infinità di cristalli di sale punteggiava ogni centimetro di roccia, dalle pareti, al soffitto, alle formazioni rocciose e stalagmiti che la occupavano. Erano molto più piccoli di quelli che avevano visto finora, grandi al massimo come il bossolo di un proiettile, ma sembravano in qualche modo più puri, quasi fossero gemme preziose. Cara si lasciò sfuggire una sommessa esclamazione di meraviglia, e anche Din trattenne a stento lo sconcerto nel trovarsi in un luogo simile. Ruotò sul posto, scorgendone a malapena i confini e sentendosi d’un tratto microscopico, inghiottito nelle viscere stesse della terra, inaspettatamente belle.

Anche il Bambino sembrò ridestarsi, d
’un tratto incuriosito da ciò che lo circondava, e prese ad osservare con rapita curiosità quei piccoli lumicini cangianti attorno a lui. Fu allora che Din notò l’ennesima stranezza: i cristalli non si limitavano a rifrangere semplicemente la luce. Sembravano brillare: una fioca ma tenace luminescenza che diffondeva un tenue chiarore ben distinguibile. Din si accostò a un’escrescenza rocciosa, fermandosi a debita distanza da essa.

«È... sale?» chiese ad alta voce, esprimendo il suo dubbio e osservando uno dei piccoli prismi più vicini, che sembrò ammiccare in risposta con uno scintillio.

«Non mi sembra,» rispose Cara, incerta, fermandosi a sua volta a qualche passo da quelle bizzarre pietre che, almeno finora, sembravano innocue.

Din osservò meglio la sua compagna, notando un suo movimento insolitamente brusco: sembrava turbata, quasi agitata.

«Tutto bene?»

«Non lo senti?» replicò lei, in tono confuso, mentre si guardava intorno.

«Cosa?»

«Non... non lo so. Una specie di pressione

Din fece cenno di no, arricciando le sopracciglia sotto l’elmo in un riflesso automatico, e scoccando un
’occhiata diffidente ai cristalli. Gli parvero vivi, e arretrò di mezzo passo, serrando la stretta sull’Amban.

«Che intendi con– ad’ika! no!» sbottò allarmato, nel vedere il Bambino sporgersi dalla culla e tendere la piccola mano verso uno dei cristalli lì vicino.

Si slanciò verso di lui per tentare di fermarlo, mosso dal puro istinto protettivo nei confronti di qualcosa di sconosciuto, ma non fu abbastanza rapido: il piccolo toccò con intento una delle pagliuzze colorate, di un verde brillante e rigoglioso come le foreste di Sorgan dopo la pioggia.

Vi fu un istante di stasi elettrica. Din inchiodò nei propri passi, quasi perdendo il fiato per la tensione.

Poi, il cristallo si accese, brillando di luce propria. E così quello accanto, di un blu pallido, e quello accanto ancora, di un verde più intenso, smeraldino, in un’onda luminosa che andò a investire ogni singola gemma incastonata nella caverna. Blu, verde, viola, arancio, bianco: l’intero spettro dei colori si rifranse da ogni angolo in brillii ritmici, pulsando lievemente di un chiarore soffuso.

Din ruotò sul posto, dimentico del presunto pericolo, rimanendo a fissare quello spettacolo di luci a bocca aperta. Il suo beskar catturava i riflessi, dipingendosi delle più varie sfumature che ne accarezzavano la superficie. Mosse un passo trasognato, la testa inclinata verso l’alto, verso il soffitto che si era animato di migliaia di stelle multicolori, come un secondo cielo. Si accostò piano alla culla, dove il Bambino continuava a tenere un palmo premuto contro quel cristallo, gli occhi semichiusi per la concentrazione.

Un gruppo di cristalli lì vicino brillò con più intensità: raggi oro, turchese e indaco intaccarono la penombra, per poi affievolirsi e brillare di nuovo, uno ad uno, ritmicamente, in una danza imprevedibile. Un’altra manciata di cristalli pulsò in rapida successione, disegnando una scia intermittente che terminò in un fulgore di luce a qualche metro di distanza, dove altri ancora si rianimarono in una corolla verde e arancione, screziata di rosa. Cara gli si affiancò, con la stessa espressione di estasiata meraviglia dipinta in volto.

Seguirono muti quel susseguirsi di coreografie luminose, finché Din non riportò lo sguardo al piccolo, che sfoggiava, tra le minute rughe di concentrazione, un’espressione beata e indiscutibilmente felice che gli inclinava la bocca verso l
’alto. Stava... giocando, realizzò Din. Sentì un piccolo sorriso affiorargli alle labba nel guardarlo e, immediatamente, il Bambino alzò la testa verso di lui, aprendo gli occhi e illuminandosi a sua volta come i cristalli attorno a loro. Din avvertì una lieve pressione sullo sterno, come se una mano minuscola vi si fosse posata, incorporea, eppure reale. Portò una mano alla corazza, sull’esagono che la decorava. Trovò solo beskar, ma anche l’orma di un tepore invisibile. E per un attimo, nel suo petto in tumulto vi furono solo quiete, silenzio, e il sussurro di pensieri sereni, di voci amate, di ricordi tiepidi, vicini e lontani.

Din
’ika – un mormorio lontano, insabbiato nella memoria, accompagnato da una carezza sul mento – Din – un richiamo più vicino, infantile, sconosciuto e noto al contempo, accostato al cuore con un peso lieve. Trattenne il respiro, quasi a trattenere nel petto anche quelle sensazioni impalpabili.

Quel momento s’incrinò, con un suono udibile, assieme al cristallo scelto dal Bambino: la superficie si crepò di netto. Il lucore si spense, e la pietra divenne di un grigio smorto. Il piccolo riportò l’attenzione su di esso, imbronciandosi e lasciando scivolare i frammenti tra le dita tozze. Una ad una, la miriade di luci che li aveva avvolti in una Galassia si spense quietamente, come se fosse arrivata l’alba a dissiparla.

Din batté le palpebre, scoprendole umide e sentendosi come se si fosse risvegliato da un sonno particolarmente profondo. Cara rilasciò un respiro brusco, altrettanto disorientata.

«Cosa... cos’era?»

«Non ne ho idea,» mormorò, la voce incastrata in gola, per poi accennare col mento al Bambino, che gli rivolse uno sguardo quasi colpevole. «Ma sei stato tu. Vero?» aggiunse, con dolcezza che gli sovvenne spontanea, inclinando appena il capo di lato nel guardarlo.

Il piccolo tubò sommessamente, sporgendo il labbro e allungando subito la mano verso di lui. Din fece lo stesso, lasciando che si aggrappasse alle sue dita e vi si abbracciasse del tutto, quasi avesse
 bisogno di conforto. Sembrava improvvisamente stanco e, se non fossero stati lì, in quel momento, l’avrebbe preso in braccio per farlo addormentare sulla sua spalla, come tante altre volte sulla Crest.

«L’ho sentita. Quella… sensazione che dicevi,» proruppe, senza guardare direttamente Cara, sentendosi insensatamente elettrizzato nel parlare. «Ma... credo dipendesse da lui. Non mi è mai capitato, prima.»

Scosse la testa, confuso, con ancora l’ombra di quel contatto sullo sterno e l
’eco di una voce spenta da tempo nella mente.

«A me sì. Una volta, su Endor.» Cara fece una pausa, corrucciandosi. «Ma è stato diverso. Era più... rumoroso. Più cupo. Non saprei come altro spiegarlo, ma non era una sensazione neutra, come questa.»

Il Bambino, in quel momento, aumentò la stretta sul suo guanto, emettendo uno squittio. Din voltò subito il capo verso di lui, incontrando i suoi occhi sgranati. Chiuse appena il pugno, inglobando le sue mani, non capendo il motivo del suo turbamento e sentendosi ancora estraniato dalla realtà.

«Non era neutra. Era...» si interruppe, per poi proseguire senza curarsi di quanto ridicolo potesse suonare, fissando il Bambino e desiderando, per la prima volta con una nitidezza accecante, che potesse vederlo in volto, «... rassicurante.»

Aveva appena finito di parlare, quasi inciampando in quelle parole, che un ruggito riecheggiò nella caverna, facendo tintinnare i cristalli. Din ebbe appena il tempo di chiudere la culla e imbracciare l
’Amban, prima che un’ombra massiccia si scagliasse dal buio verso di loro.

 
 
 

Note dell’Autrice:

Cari Lettori: MANDO IS BACK!
Scusate la lunghissima assenza... rimedio con un capitolo di lunghezza biblica, però!
Penso ormai la maggior parte di chi mi segue sappia che sono stata impegnata coi mostri chiamati tesi&laurea (altro che gundark...), quindi il tempo e la concentrazione sono stati abbastanza rarefatti. Ora, però, sono libera di dedicarmi nuovamente a questa storia con regolarità ♥ 


Come annunciato nella descrizione, Vode An è stata sottoposta  a revisione completa, con svariate aggiunte e modifiche – nulla, però, che vada a intaccare la trama in sé, quindi procedete tranquilli nella lettura. Semplicemente, ho ampliato un paio di dialoghi e sistemato il layout, oltre ad aggiungere le citazioni (fittizie o meno) in stile Dune che trovate in apertura. 
La scena dei cristalli era in fabbricazione dalla bellezza di sei mesi, quindi spero davvero che vi sia piaciuta (e che si sia capita la natura degli stessi *wink*). Il prossimo capitolo porterà con sé l'ennesima ventata di rilevazioni, quindi... tenetevi pronti B). 

La smetto di dilungarmi e... è bello essere tornati in questa Galassia. Un grazie gigantesco a tutti coloro che hanno votato, letto e commentato questa storia, in particolare a AMYpond88CossiopeaHelmwige, leila91OldFashioned, che hanno letto e commentato assiduamente la storia. E a quella Guascosa di miryel che mi sopporta in ogni dove e ancora non s’è stufata, la possino ♥ 

Grazie ancora, e alla prossima!

-Light-

Glossario (o forse bestiario, in questo caso):
– nexu: creatura feroce dotata di due paio d'occhi e aculei.
– krykna: i simpatici ragnetti che appaiono nella S2 (non confermati ufficialmente) e in Rebels.
– fyrnock: creature simili a cani-pipistrello, timorosi della luce del sole. Molto aggressivi e rumorosi, cacciano in branco.
– gundark: grandi creature rosse dotate di artigli, zanne e quattro zampe, più due braccia prensili sul ventre. Per niente amichevoli, esiste il detto "così forte da strappare le orecchie a un gundark" [cit. Han Solo – Episodio V, per inciso], di qui il commento di Cara.

 

   
 
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