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Autore: AleeraRedwoods    01/02/2021    2 recensioni
Dal testo:
“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo,
riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.
A caro prezzo.”
(Revisionata e corretta)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Aragorn, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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-La fine del gioco-


    Saedor strattonò le catene con impietosa violenza e Alatar cozzò nuovamente contro il suolo, con un gemito miserevole. Odio, rabbia, rancore e desiderio di vendetta s’inseguivano nelle profondità oscure dell’occhio sinistro dell’elfo e lo stregone li avvertiva senza filtri, sulla pelle, taglienti come schegge di ossidiana.
    Si trascinò in avanti, tentando di sollevarsi, ma le braccia non reggevano più il suo stesso peso. Crollò come una bambola di pezza, il respiro mozzato dal dolore al costato.
    -Alzati.- Sibilò l’elfo oscuro, con voce disincarnata e metallica.
    Per oltre una settimana, lo stregone, l’elfo e il gruppo di non morti avevano viaggiato sotto terra, nei cunicoli dei grandi Vermi, le cui uscite erano ben celate dalle solide illusioni di Lhospen.
    Giunti nella pianura del Gorgoroth erano riemersi, solo per attraversare i numerosi gruppi di cadaveri, zitti e rigidi come pennacchi piantati nel terreno, in file ordinate. Essi attendevano ordini, vuoti come orrendi vasi deformi. Erano la minaccia, no, la promessa di un nuovo imminente attacco.  
    Affamato e stanco in quelle terre che ricordava fin troppo bene, Alatar non aveva avuto una singola occasione per scappare. Saedor non lo perdeva mai di vista, quasi provasse un depravato piacere nel tormentarlo in quel modo.
    Adesso, gli immensi bastioni caduti della fortezza di Barad-dûr sfilavano attorno a loro come montagne aguzze, pronte a inghiottirli. Erano infine giunti nel Regno di Pallando.
    -Ti prego, ti prego- Lo stregone strinse debolmente le catene arrugginite con le dita, puntando i piedi nel terreno secco.
    Non voleva vederlo, non voleva incontrare suo fratello.
    Ne sarebbe morto.
    Ma Saedor non si curava delle sue parole, continuando a trascinarlo senza nemmeno troppo sforzo. Attraversarono un ingresso fatiscente, scendendo inesorabilmente nel buio della terra sterile di Mordor.
    Alatar strizzò gli occhi, cercando di individuare i contorni di quelle che parevano enormi sale e infiniti corridoi, ormai in balìa della sua più profonda paura: stava per affrontare definitivamente i fantasmi del suo passato e, questa volta, non si sarebbe semplicemente ridestato da scomodi ricordi.
    Alla fine del corridoio buio, una luce attirò la sua attenzione, mentre il sangue aveva preso a scorrere tanto veloce nelle sue orecchie da assordarlo.
    Saedor entrò per primo, socchiudendo gli occhi per la fastidiosa luce delle candele.
    La grande sala era quasi completamente vuota e il buio si ammucchiava negli angoli e nelle volte di granito, lasciando ai presenti la vaga sensazione di trovarsi in un luogo infinito, al di là di ogni confine fisico. E per Alatar il Blu, anche il tempo parve divenire labile come il battito d’ali di una farfalla.
    Solo una scrivania occupava lo spazio dinanzi a loro, lucida e scura come un altare sacrificale. La figura che quivi sedeva si alzò lentamente, attirando su di sé gli sguardi dei due ospiti.
    Alatar tremò nel profondo, attanagliato da un gelo nato dalle sue stesse viscere e, con sgomento, seguì i movimenti della figura, intenta ad abbassare il cappuccio blu. -Quanto tempo è passato, fratello mio.- Sorrise Pallando, offrendosi alla luce tremolante delle candele.
    L’altro crollò in ginocchio, la bocca deformata in un’espressione disperata e gli occhi offuscati dalle lacrime.
    Non riusciva a distogliere lo sguardo, tanto era il suo sconcerto.
    -Sì. Sono. Vivo.- Scandì il fratello, picchiettando con le unghie appuntite sul legno pieno. -Cosa provi, nel rivedermi? Descrivimelo.- Lo interrogò, sinceramente curioso.
    L’altro non riusciva a formulare pensieri o parole e tenne la bocca schiusa, respirando a fatica. Suo fratello. Pallando.
    -Non fraintendermi, anch’io mi sono chiesto spesso cosa avrei dovuto dirti, una volta che tu fossi giunto qui.- Il maggiore degli Stregoni Blu camminò piano, con passi strascicati, quasi fosse un povero e indifeso vecchio aggrappato al suo bastone ricurvo.
    -Avevo pensato di accoglierti seduto su un grande trono, circondato da creature mostruose. D’effetto, non ti pare?- Sorrise, mostrando appena i canini innaturalmente appuntiti. -Poi ho cambiato idea. No, non serve tanta scena, ora come ora.-
    Aveva ragione: la sorpresa, il disagio e la paura di Alatar erano tali da aleggiare nella stanza al pari di un’irritante nebbia, quasi tangibili. -E poi, non mi va più di giocare con te.- Concluse, quasi rammaricato. Si rivolse all’elfo oscuro, per la prima volta da quando i due ospiti erano entrati: -Come stai, Maestro dei Veleni? Hai riposato, durante il viaggio?-
    Saedor seguì Pallando con lo sguardo, gli occhi spaiati ricolmi di un sentimento puro e sconfinato: -Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto, durante la battaglia.- La sua voce sgradevole gracchiò piano, tinta di una sfumatura docile e quasi infantile.
    -Lo so. Sei stato molto bravo!- Lo stregone si avvicinò per posargli una mano sulla spalla, in un gesto affettuoso: -Grazie, Saedor. So che desideravi tanto uccidere quella stella, mi dispiace aver rovinato il tuo momento.- L’elfo chinò il capo, sotto quel contatto.
    Alatar arretrò silenziosamente, cercando di tirarsi in piedi, ma gli occhi del fratello lo pietrificarono in un attimo, tornando su di lui: -Dunque, i tuoi amici ti hanno sbattuto in prigione.- Commentò, quasi divertito.
    Nonostante quell’atteggiamento distaccato e ironico, Alatar lesse tutte le emozioni del fratello maggiore come fossero proprie. Il suo viso familiare non era mai riuscito a celargli un segreto e, anche se ciò lo lasciava turbato e sconvolto, lo stregone constatò che non era affatto cambiato: una tempesta stava avendo luogo, dietro i suoi vecchi occhi grigi, più in profondità di quanto volesse far trasparire.
    Quella consapevolezza gli diede la forza per reagire.
    Chi aveva dinnanzi era suo fratello ed era vivo, reale, tangibile.
    -Come hai fatto a conoscere i nostri movimenti?- Sussurrò, cercando di controllare il tremito della propria voce. Pallando sollevò un sopracciglio, lo sguardo tagliente: -Tu eri la mia spia.-
    -Non è vero. Tu eri morto per me.- A quelle parole, il fratello maggiore sbatté violentemente una mano sul legno lucido della scrivania, cogliendo i presenti di sorpresa. Persino Saedor sussultò, fissando l’occhio ambrato sullo stregone. -Morto a causa tua.- Rispose questi, la voce terribilmente calma, in netto contrasto con il suo gesto rabbioso.
    Alatar distolse lo sguardo, sentendo il cuore martellare nel petto dolorosamente. -Sì. Sì, per causa mia.- Mormorò, la testa china.
    Pallando lo fissò per un po’, senza commentare. Poi, si decise a voltarsi, fischiando debolmente. A quel suono inaspettato, Alatar sollevò il capo, per poi vedere il suo fedele falco Lelya planare nella sala, con gli acuti occhi fissi su di loro. Quando Pallando sollevò un braccio, la graziosa volatile vi si posò con sicurezza, arruffando le penne.
    Alatar sgranò gli occhi, seguendo le carezze distratte del fratello, senza comprendere. Temette che le dita dell’altro si chiudessero attorno al collo della povera creaturina, cui era così affezionato. Invece, questa pareva perfettamente a suo agio, sotto le premurose attenzioni del vecchio.
-Non sei mai stato particolarmente sveglio, mio caro Alatar.- Sibilò Pallando, riscuotendolo dal suo stupore: -Sono sempre stato io il più intelligente.-
    Lelya ricambiò lo sguardo del suo compagno d’avventura, incredibilmente eloquente. -L-Lelya- Provò a chiamarla, ma l’altro parlò in fretta: -Non ti ascolterà. Ha un frammento sul dorso, dunque risponde solo a me. Io vedo ciò che i suoi occhi vedono.-
    Alatar sentì la gola seccarsi, le gambe nuovamente deboli.
    Cominciava a capire. 
    Dannazione, cominciava a realizzare: -F-Frammento?- Pallando estrasse con noncuranza un grosso pezzo di vetro nero dalla veste sdrucita, posandolo senza delicatezza sulla scrivania.
    Il Palantir di Sauron. La Pietra Veggente.
    Attraverso i frammenti, suo fratello poteva vedere e udire tutto, riflesso in quel grosso pezzo di vetro scuro. E Lelya era stata la sua spia per tutto il tempo, dall’incontro con il Re degli Uomini, al Nido delle Aquile, all’alleanza riunitasi a Minas Tirith.
    Anche Pallando guardò il Palantir per qualche secondo, ricordando il giorno del suo ritrovamento. La fortezza era crollata, le macerie li avevano investiti, ma lui e i due elfi erano sopravvissuti. Distrutti, nel corpo e nell’animo, però ancora vivi.
    E nella polvere di quel luogo che non riuscivano ad abbandonare avevano raccolto le magie e gli artefatti dell’Oscuro Signore, persino quella pietra veggente ormai ridotta in schegge inutilizzabili. Almeno, così pensavano.
    Rivolse nuovamente la sua attenzione su Alatar, che fissava il Palantir senza riuscire a dire una singola parola. -Mi aspettavo una reazione più esaltante, dopo questa rivelazione.- L’altro deglutì, senza nemmeno accorgersi del suo tono canzonatorio:
-Sei stato tu a mandarla da me, anni fa?-
    -L’ho addestrata bene, vero? Non si è mai tradita. Mi è stata utile per allenare i miei poteri, perfezionare i miei incantesimi. Si rivelano di difficile esecuzione, se l’essere è ancora vivo. Decisamente un buon esercizio.-
    Alatar sentì l’angoscia fendergli il petto: Pallando l’aveva osservato per anni, per quasi due lunghi decenni.
    Pallando l’aveva trovato e osservato, quando lui era dannatamente convinto che egli fosse morto e sepolto. -Grazie a questi frammenti e ai nostri incantesimi, noi tre soli abbiamo mosso centomila cadaveri e quattro Mangia Terra ancora vivi e vegeti!- Quasi si pavoneggiava l’altro, accanto a Saedor: -E l’attacco si è rivelato un successo, grazie per averlo chiesto.- Commentò, ironico.
    Alatar serrò i pugni, rifiutandosi di ascoltare quei deliri sconclusionati: -Hai perso. Se avessi vinto, a quest’ora staresti marciando su Minas Tirith tu stesso.- Pallando scoppiò a ridere, una risata sguaiata e senza colore.
    Rise per molto tempo, tanto da rendere quel gesto estremamente inquietante e sgradevole. -Tu- Cominciò, tra le risate: -Tu osi immaginare le mie azioni. I miei intenti!- Si tenne una mano sul ventre, quasi tremante: -Hai sentito, Saedor? Lui crede di sapere!- Con un gesto furioso, al limite della follia, spazzò il contenuto della scrivania per gettarlo a terra, lo sguardo puntato in quello del fratello.
    Ansimò, senza smettere di sorridere: -Avanti, spiegati. Cosa avrei fatto, io? Quali brillanti deduzioni vuoi offrirmi, Morinehtar, Stregone Blu, servo del Bene?- Lo derise.
    Alatar cercò di regolare il respiro, sentendo il sudore freddo colargli lungo la schiena: -Tu non sei questo, Pallando. Sauron ti ha avvelenato la mente. Il Male ti ha piegato ma puoi tornare in te, tu sei più forte.- L’altro si batté la polvere via dalla veste, scuotendo la testa: -Il Male… Sauron… Sarebbe una bella storia, no?-
    Si avvicinò a Saedor, aggiustandogli qualche piega della mantellina color prugna in un gesto gentile e premuroso: -Noi saremmo solo povere vittime inghiottite dall’Oscurità.- Tolse le catene dalle mani dell’elfo oscuro e le gettò a terra, senza scomporsi: -Ma ti sbagli, fratello mio. La tua è una favola senza alcun fondamento.-
    Alatar guardò le catene cadere, libere dalla stretta del suo carceriere. Con uno schiocco di dita, Pallando fece scattare le serrature ed esse abbandonarono i polsi del giovane stregone.
    Questi deglutì, tornando a guardare il fratello con fare sospettoso. -Noi non siamo al servizio di nessuna Oscurità.- Lo informò l’altro, come se stesse spiegando un’ovvietà a un bambino: -Tutt’altro. Abbiamo soltanto deciso che questo era il modo migliore per liberare il mondo da essa. Domandati quanto giusta sia la causa della tua cara amica stella, piuttosto.-
    Alatar non capiva.
    E la sua confusione era evidente, tanto che Pallando si ritrovò a sospirare. -Vieni. Ti mostro una cosa.- Come si aspettava, il fratello minore non poté fare altro che seguirlo, come mosso da un’invisibile forza magnetica.
    Lo guidò in un corridoio buio, fino a un’anonima porta di legno. La aprì delicatamente, permettendo ad Alatar di vederne l’interno. Era una stanza disordinata ma vissuta, caotica ma accogliente. Piena di manufatti, libri e pergamene. -La stanza di Lhospen.- Precisò, Pallando.
    Alatar fissò il letto sfatto, pieno di coperte rattoppate ma pulite. Non era certo una stanza… sgradevole.
    Seguì il fratello e si affacciò nella stanza successiva, più grande ma più spoglia. Su due tavoli vi erano poste con ordine tante provette, sacchetti, ampolle, piccole armi da taglio e, nell’angolo più lontano, cresceva un’invasione di grandi piante dalle foglie scure e lucenti, rigogliose e ben curate. -La stanza di Saedor.-
    Alatar si voltò verso il fratello, confuso: -Cosa significa?-
    -Tu parli del Male e dell’Oscurità, di come essi ci abbiano resi servi. Ma sembri non conoscerci affatto. Certo… dopotutto, potevo aspettarmelo. Sei sempre stato superficiale e sprezzante, caro fratello mio.- Si incamminarono con calma, in silenzio, salendo una gradinata apparentemente pericolante, che proseguiva per molti piani. In cima, due finestre si aprivano sul cielo plumbeo di Mordor, a pochi metri dal terreno brullo. Davanti ad esse, si trovava un grande tavolo, pieno di oggetti anonimi. Qualche libro, un paio di bottiglie. Quello doveva essere il luogo dove i tre passavano più tempo.
    La cosa che sorprese Alatar oltre ogni immaginazione però, fu la grande mappa dall’aspetto consunto, piena di piccole pedine intagliate. Doveva essere opera dei tre abitanti del luogo, senza dubbio. La minuzia e la bellezza di quelle pedine stonava con tutto il resto: pareva quasi un gioco da tavolo, più che uno strumento di strategia.
    -Ormai ti sarà chiaro. Qui nessuno ha smesso di considerare il nostro strano gruppo una famiglia. Tranne te, ovviamente.- Sorrise, Pallando. -Tu che ci additi come malvagi. Beh, non è come credi. Non saltare a conclusioni affrettate.-
    -Da tempo pianificavate una guerra. Avete ucciso delle persone.-
    -Sì, è vero. E continueremo a farlo. Nemmeno la stupida Stella dei Valar potrà impedircelo.- Alatar allargò le braccia, frastornato: -Perché?!-
    -Perché noi abbiamo uno scopo.- Pallando respirò a fondo, come assaporando le parole che stava per pronunciare: -Noi vogliamo uccidere tutto.- Alatar, istintivamente, desiderò arretrare lontano da lui ma non lo fece: -Tutti.-
    -No. Tutto. Cancelleremo ogni vita su questa Terra. Distruggeremo ogni cosa. Così, finalmente, nessuno dovrà più soffrire.- Solo allora, Alatar lo afferrò per il bavero, fuori di sé: -Per questo stupido, insensato motivo avete mosso centomila non morti contro una città?!-
    Pallando sollevò una mano, fermando Saedor, già pronto a riportare Alatar all’ordine. -Non ti sembra una motivazione sufficiente, fratello? Quanti ancora dovranno cadere nel dolore della guerra, della povertà, del tradimento?- Sibilò.
    -Fa parte della vita.- Ringhiò Alatar, le nocche divenute bianche a causa della forza della sua stretta. Ma Pallando non sentì ragioni: -Ciò che abbiamo sofferto faceva parte della vita? Di una giusta vita?-
    -Era il volere dei Valar.-
    -Sei un ipocrita. Tu e i tuoi dannati Valar. Non hai mai creduto nel loro agire, pensi che l’abbia dimenticato? Ora li tiri in ballo invece, tutto tronfio nella tua misera idea di giustizia. Né tu né loro vi siete preoccupati per le sorti di noialtri, quando il dolore era tale da invocare la morte!- A quelle dure parole, Alatar distolse lo sguardo. -Troppo a lungo hanno giocato con noi. Uomini, Elfi, Nani, pedine dei loro voleri. Questa vita attira il Male ed esso vi sguazza tanto bene da non poter fare altro che tornare! Io scriverò la parola Fine, adesso.- Gli occhi di Pallando rilucevano, come fiaccole nella notte.
    Credeva profondamente in quelle parole. Ma Alatar non voleva ascoltarle. -Sei ferito, hai sofferto, non sei lucido!-
    -Anche tu hai sofferto, quando Sillen ti ha sbattuto nelle prigioni.-
    -L’ha fatto per delle buone ragioni!- Esclamò, sentendo comunque una stilettata ferirgli il cuore.
    -Non aveva prove. Ha semplicemente preferito eliminare il problema, anziché cercare di comprendere. E nemmeno sa cosa hai passato, prima di spacciare i miei disegni come tuoi e inventarti tante belle frottole per cercare redenzione nell’Ovest.-
    Il fratello minore contrasse la mascella: colto sul fatto, meschino e bugiardo.
    Osava davvero giudicare la follia di Pallando?
    Questi continuò, inflessibile: -Ella è una miserabile, come i Valar che l’hanno creata. Siete esseri così superficiali.- Alatar allentò la presa, suo malgrado.
    No, Sillen era diversa. Lei era pura, giusta, buona.
    Era lui quello sbagliato. E lo era Pallando.
    -Non sai di cosa parli.-
    -Lo so meglio di te, ingenuo fratello. Io mi sono allontanato dall’influenza dei Valar e ho coltivato un potere tutto mio, in grado di porre fine alla vita stessa. Liberi dal destino. Niente più soldati, niente più schiavi. Nessun sentimento.- Lo fissò negli occhi: -Nessuno che possa tradirti.-
    Alatar lo lasciò, nascondendo il viso tra le mani.
    Quelle surreali parole l’avevano scosso più di quanto volesse ammettere. Donare una Fine al mondo… sarebbe stato davvero un dono? Pallando, nella sua follia, stava davvero cercando di liberare la Terra di Mezzo dal Male?
    -Oltrepassare le mura di Minas Tirith significa abbattere le maggiori difese dell’Ovest, ora che i tuoi stolti amici si sono riuniti.-
    -T-tu hai già fallito.-
    -Ho semplicemente sondato il terreno. L’unica perdita subìta, sono stati cinque frammenti. È irrilevante, come puoi vedere.-
    -Ti fermeranno di nuovo.-
    -Come? Loro hanno perso centinaia di soldati e, dimenticavo di avvisarti, la stella ha perso il suo potere.- Lo apostrofò Pallando, osservando gli occhi del fratello sgranarsi. -C-cosa? No, non è possibile.-
    -È stata l’ultima cosa che ho sentito, prima che qualche suo alleato più sveglio isolasse i miei frammenti.- Alatar gli puntò il dito contro, furioso: -Tu menti!-
    -Saedor l’ha quasi uccisa, in battaglia. Non era così forte, quel suo potere divino.- Sollevò le spalle l’altro, con noncuranza: -Alla fine, lo ha ceduto in cambio della salvezza del Re degli Uomini.-
    A quella rivelazione, che suonava davvero plausibile, Alatar sentì il terreno scivolare via da sotto i suoi piedi e dovette reggersi al tavolo per non cadere. Era tutto perduto, dunque?
    -Non puoi prendere un Regno da solo… è impossibile… Anche sottomettendo Gondor, non riuscirai mai a distruggere l’intera Terra di Mezzo.- Pallando annuì: -Su questo siamo d’accordo. Lhospen e Saedor sono diventati forti, io sono potente. Ma da soli, sarebbe troppo faticoso guidare un’armata di non morti più grande di questa.-
    Alatar lo fissò negli occhi, soppesando quelle parole. Ancora una volta, lesse i pensieri del fratello e impallidì, realizzando: -Per questo mi hai riportato qui…- Pallando sorrise, quasi teneramente. Tentennò per un momento, poi rispose: -Se vorrai, potrai tentare di convincere la stella a schierarsi dalla nostra parte. A me non ha dato ascolto. Ma a te…-
    Non era possibile. Doveva aver capito male, pensò Alatar.
    Suo fratello gli stava offrendo un posto al suo fianco, ancora una volta. -Io ti ho abbandonato…- Sussurrò.
    L’altro sospirò, distogliendo lo sguardo ferito: -Lo hai fatto. E sarà difficile per noi perdonarti.- Ma volevano provarci.
    Era quello il sentimento sottointeso, ciò che si celava dietro la maschera di sprezzante ironia del vecchio fratello. Mai una volta, davanti a lui, si era sentito davvero minacciato. Solo… atteso.
    Pallando lo attendeva.
    Lo attendeva dietro ad ogni suo passato errore.
    Alatar sentì ogni certezza svanire, ogni saldo principio crollare.
    I pensieri si colpivano un con l’altro, come tessere di domino destinate a mostrare un unico disegno.
    -Fa che le tue azioni passate vengano davvero riscattate.- Sibilò Saedor, come uno spettro sputato fuori dall’oltretomba. -Ripaga il tuo debito nei nostri confronti.-
    Alatar lo guardò a lungo, divorato dal dubbio. Il suo posto… qual era il suo posto? Aveva cercato di aiutare la Stella dei Valar, quella ragazza che aveva adorato come i fiori adorano il sole, e aveva fallito. Aveva tentato di rinascere per trent’anni, nell’anonimato, ricostruendo la sua identità su bugie e inganni.
    Con la sua meschina messinscena, aveva infangato la memoria di suo fratello, usando la sua morte come espediente. Si era nascosto, codardo, dietro un nome che non meritava e una banale storia inventata.
    Forse, la follia di Pallando era solo colpa sua. Ma, se così fosse stato, poteva sottrarsi alle sue responsabilità ancora una volta?
    Fu come la rottura di un argine, una diga crepata che finalmente cede sotto al peso della piena. -Perdonami.- Sussurrò di getto, fissando gli occhi spaiati dell’elfo oscuro.
    Poi tornò a guardare suo fratello, le lacrime che cominciavano a sgorgare copiose e brucianti: -Fratello, perdonami!- Supplicò, singhiozzando. S’inginocchiò di colpo, abbracciando il corpo così familiare dell’unico essere che l’avesse amato per quello che era, l’unico ad amarlo al punto da perdonare le sue meschine azioni, pur conoscendo ogni suo vergognoso segreto.
    Pallando gli accarezzò la testa, respirando a fondo: -Sei stato solo tutto questo tempo…- Lo consolò, lasciandolo piangere.
    -Adesso sei a casa. Ti aiuteremo a tornare sul sentiero del Bene e, insieme, avremo la forza per fermare questa folle esistenza.- Alatar annuì, prepotentemente.
    Andava bene. Sarebbe andato tutto bene, adesso.
    Potevano stare insieme ancora una volta e se il prezzo era camminare insieme nella follia, così sarebbe stato.
    Così doveva andare.
    Ora, doveva riprendere il suo posto accanto al maggiore degli Stregoni Blu, un posto che da sempre gli spettava.
    Non era morto con loro, quel giorno. Nessuno di loro era morto. Questa volta, sarebbero morti insieme.
    Avrebbero messo fine a tutto, insieme. Insieme.
    -Alzati, mio caro Alatar.- Pallando lo aiutò a risollevarsi, stringendogli le spalle. Il minore si guardò attorno, i capelli brizzolati incollati al viso e al collo: -Dov’è Lhospen? Voglio chiedere perdono anche a lui.- Confessò, sentendo una stretta al cuore al pensiero delle dure parole che l’elfo oscuro gli aveva rivolto nelle prigioni di Minas Tirith.
    Pallando sorrise, indicandogli la mappa scolorita dietro di loro. Una pedina, blu come gli occhi del Maestro delle Illusioni, era posta un po’ più a sinistra delle altre, vicino al mare. Alatar si avvicinò, aggrottando le sopracciglia.
    -Mhm, a quest’ora dovrebbe aver portato a termine il suo compito. Lo incontreremo presto.- Lo rassicurò il fratello, voltando lo sguardo verso le finestre di pietra. Un grosso corvo nero, vecchio e spelacchiato, si era posato sul davanzale, gracchiando fastidiosamente e con insistenza.
    Alatar scrutò la mappa attentamente e sgranò gli occhi: Lhospen si trovava a… Dol Amroth. Pallando rise, prendendo nuovamente il bastone che aveva appoggiato al muro: -Stupido, da parte degli Uomini, radunare tanti civili in un solo luogo.-
    Il più giovane seguì con il dito il tracciato delle gallerie sotterranee, percorrendo quella che da Minas Tirith aveva portato Lhospen a Belfalas. Deglutì. Doveva abituarsi. Doveva abituarsi ai gesti violenti di suo fratello, alle sadiche azioni di Saedor, alla cieca determinazione di Lhospen.
    Così doveva andare.
    Accarezzò con la punta delle dita il nome della città di Minas Tirith, tremante: forse, non era sarebbe stato così insensato. Forse, in un’altra vita, i Valar sarebbero stati felici di vederlo tornare da suo fratello. Forse, la sua causa sarebbe stata giusta.
    In qualche modo, sperò, poteva ancora cercare Sillen. Aveva ancora una possibilità, una soltanto, e tutto era, ancora una volta, posto nelle mani della Stella dei Valar.
    -Questo è tuo.- Lo richiamò, il Maestro dei Veleni. Teneva nella mano bendata il suo bastone nodoso, porgendoglielo, senza espressione: -Lhospen ha detto di non deluderlo, questa volta.-
    Pallando rise, prendendoli per le spalle. Le sue parole accarezzarono l’orecchio di Alatar come un sibilo freddo, sinistro: -E adesso, il momento della partita che preferisco. La fine del gioco.-




 
N.D.A

Bentrovati!

Wow, che capitolino leggero eh? Anche se penso sia il più corto che scrivo da un saaacco di tempo ahaha Ma volevo dare l’idea di urgenza, di imminente pericolo. Una passeggiata insomma XD Come dice Pallando, ci siamo: la fine dei giochi. Tiriamo le fila, cosa accadrà adesso!? Sono ansiosa di farvelo scoprire!

Fatemi sapere cosa ne pensate e grazie per essere arrivati sino a qui!

Un bacio grande grande,

la vostra
Aleera


P.S Qualcuno avrà sicuramente colto la cit finale: è di Ade, il villain più strafigo della storia, dal lungometraggio d’animazione Hercules, della Disney XD Scusate, DOVEVO FARLO



 

 
   
 
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