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Autore: crazy lion    04/02/2021    2 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO 110.
 
GIORNI DI RELATIVA CALMA
 
Quando Mackenzie vide suo papà gli andò incontro piano, anche se avrebbe voluto gettarglisi fra le braccia.
"Come stai, piccola?" le domandò l'uomo, accarezzandole piano la testa.
Quel tocco la rilassò appena. Mac era stata in bagno a lavarsi il viso, poco prima, sperando che la frescura dell'acqua le avrebbe dato sollievo. Aveva anche bevuto, ma non era servito a molto. Si era guardata allo specchio: era pallida, con le occhiaie come se non avesse dormito, e i capelli ricci in disordine. Sembrava un leoncino con la criniera arruffata.
Non tanto bene ammise.
La mano le tremò mentre scriveva, ma il padre capì lo stesso.
"Mi dispiace. Ora sistemo una cosa e andiamo a casa, eh?"
La maestra Rivers aveva già scritto e firmato la giustificazione, il papà fece lo stesso e poi Mackenzie andò con lui dalla direttrice, che augurò alla bambina di sentirsi meglio presto.
Scusa se ti ho fatto uscire prima dal lavoro, papà. Mi sono sentita così male!
Abbassò lo sguardo fino a puntarlo a terra. Se solo fosse stata più brava, più forte, non avrebbe avuto quel problema, né creato problemi a nessuno.
"Non dirlo neanche per scherzo. Se non ti sentivi bene e non riuscivi più a stare a scuola, era giusto che ti venissi a prendere. So benissimo che non era un capriccio e credo tu sia stata molto coraggiosa a superare quel momento."
Se non ci fosse stata la maestra Justice non ce l'avrei fatta.
"Forse, ma sei tu che l'hai vissuto e che, anche se con il suo aiuto, hai avuto la forza di affrontarlo. Non è da tutti, sai? Io sono adulto, ma non so se avrei nemmeno la metà del tuo coraggio."
Mackenzie sbarrò gli occhi: davvero aveva fatto una cosa così importante?
Dici sul serio?
"Ma certo."
Salirono in macchina e, quando il motore partì, la bambina si appoggiò al sedile anche con la testa, non prima di aver ringraziato il padre per le belle parole che non si sarebbe aspettata.
"Non devi ringraziarmi, amore. È la verità, e sono sicurissimo che la mamma sarà d'accordo con me."
Quando torna?
La voleva vicino, desiderava abbracciarla e farsi coccolare anche da lei.
"Stasera, deve lavorare."
La piccola sbuffò piano, per non farsi udire, poi chiuse gli occhi.
"Mac?"
Sbadigliò.
Voleva solo dormire e il papà la stava svegliando. Che c'era ancora?
"Scusami, piccola, ma la mamma mi ha chiesto di portarti in ospedale per assicurarmi che tu stia bene."
Quindi, se ora era distrutta,e avrebbe dovuto trascorrere forse diverse ore in una sala d'aspetto, sarebbe arrivata a casa morta di stanchezza, tanto da non poter stare in piedi, ne era sicura e no, non credeva di star esagerando. In realtà il tutto fu più veloce di quanto si aspettasse.
Demi riuscì a raggiungerli dopo una mezzoretta. Andrew le aveva detto in quale ospedale si era diretto e lei era riuscita a liberarsi per un paio d'ore.
"Tesoro, come ti senti?"
Mackenzie le volò fra le braccia, e quando la mamma la strinse a sé si sentì ancor di più sicura e protetta. Respirò il suo profumo alla lavanda, quello che metteva ogni tanto e che alla bambina piaceva un sacco, e affondò il viso nei suoi capelli.
Meglio, adesso che ci sei anche tu.
I genitori la distrassero leggendole un libretto di favole che trovarono in sala d'attesa tra alcune riviste, e Mackenzie riuscì a immergersi in quei mondi fantastici popolati da principi, principesse, fate, folletti, sirene e tantissime altre creature, tanto da dimenticarsi per qualche momento il luogo in cui si trovava, con il caratteristico odore di disinfettante e di malattia che tanto le ricordava quella notte orribile e i giorni seguenti. Dopo un'ora alcuni medici la stavano già visitando. Le fecero le analisi del sangue per controllare che tutti i valori fossero a posto, poi la piccola fu sottoposta a una visita cardiologica e a qualche altro accertamento, ma tutto era nella norma. Dato che soffriva di PTSD - il papà aveva portato delle carte che lo dicevano - Mackenzie fece anche un consulto con uno psichiatra. Gli raccontò, tremando e singhiozzando, quanto accaduto, mentre i genitori le tenevano ognuno una mano e la rassicuravano, poi l'uomo parlò un po' con Andrew e Demi e controllò gli esami fatti quel giorno e quanto scritto sulle valutazioni precedenti.
"Dato che soffre di PTSD," spiegò infine, "e da quello che mi ha detto, sono sicuro abbia avuto una serie di memorie intrusive, di flashback e che abbia rivissuto il trauma, proprio come sosteneva la sua maestra. Purtroppo, per quanto terribile sia,questi sono tutti sintomi della malattia."
"E noi come possiamo aiutarla?" chiese Demi. "A casa, intendo."
L'uomo le passò dei fogli con dei disegni da colorare e la piccola si distrasse, non ascoltando più e divertendosi a dare ai fiori dei colori stranissimi come il blu o il marrone.



I due fidanzati si strinsero la mano, si guardarono negli occhi sentendo un peso gravare loro sul cuore e ascoltarono lo psichiatra senza interromperlo.
"Il disturbo post traumatico da stress mina il senso di sicurezza, e fa sentire vulnerabili, come se nessuno potesse far nulla per chi ne soffre. Mackenzie per fortuna ha una bella famiglia ed è seguita da una psicologa che è anche una psicoterapeuta, e queste sono tutte cose molto positive. Per quanto sia difficile, dovete cercare di restare calmi in questi momenti."
"E come facciamo?" si intromise Andrew. È la nostra bambina, è ovvio che ci preoccupiamo per lei se sta così male."
Il suo tono non era stato duro, ma aveva alzato un po' la voce a causa dell'ansia che gli schiacciava i polmoni.
"Certo che lo è, signore. E non è nemmeno facile controllare l'agitazione e il dolore in questi casi, néle mille domande che ci si pone su cosa fare. Ma se un bambino vede che i genitori sono calmi, o il più possibile tranquilli, di fronte a un evento come questo, anche lui si sente meglio. Non sto dicendo di non parlare più di quanto accaduto, anzi! Mackenzie deve parlarne e voi incoraggiarla a farlo, anche con la psicologa, ma non solo. È importante che abbiate un dialogo a riguardo, anche breve all'inizio, ma non comportatevi come se non fosse accaduto niente. Non voglio accusare nessuno, né fare nomi, ma alcuni genitori si comportano così ed è sbagliatissimo, perché il bambino ci soffre. È necessario discutere con lei non solo dell'episodio accaduto oggi, ma anche del trauma che ha subito."
Diede loro alcuni consigli, poi i tre lo ringraziarono, lo salutarono e se ne andarono.
Mackenzie si addormentò durante il tragitto in macchina.
"Era proprio distrutta" mormorò Andrew.
"Già. Vieni, piccola" sussurrò Demi una volta arrivati, prendendola in braccio.
La portò nel suo letto e le depose un bacio sulla fronte prima di allontnarsi.
"Che ne pensi?" le domandò il fidanzato, mentre preparava il caffè.
"Che abbiamo una bella gatta da pelare. L'ho sempre saputo, ma dopo oggi sono preoccupata. Insomma, a parte la questione del bullismo, che è importantissima, mi sembrava stare un po' meglio dal punto di vista degli incubi e di tutto il resto."
"Anche a me, ma a quanto pare non era così. In fondo, non sono passati nemmeno due anni dalla morte dei suoi genitori, non possiamo pretendere che abbia superato il lutto o quanto accaduto quella notte."
Decisero cosa fare per aiutarla a stare meglio, almeno per qualche ora, poi Demi mangiò qualcosa al volo e tornò allo studio di registrazione.
 
 
 
Quel pomeriggio, quando la mamma rientrò, Mackenzie non volle uscire a mangiare un gelato come i genitori le proposero. La stanchezza data da ciò che aveva vissuto era più forte di quanto si sarebbe aspettata e preferì rimanere a casa.
"Allora che vuoi fare?" le chiese il papà.
Solo giocare con voi e i gatti.
Demi era andata a prendere Hope all'asilo mentre ritornava e adesso c'erano tutti.
"Mac!" la chiamò la più piccola.
Ma quando imparerà? si lamentò la sorella.
Va bene, non era semplicissimo, e forse impronunciabile per una bambina dell'età di Hope, ma, per quanto fosse carino sentirsi chiamare così, non vedeva l'ora di sentir uscire dalle sue labbra il suo intero nome.
"Presto, tesoro, vedrai. Non ha ancora due anni, potrebbe volerci un altro po' ma secondo me non troppo" la rassicurò la mamma. "Sa già dire molte parole, anche più di tanti bambini della sua età, e questo è un segno positivo."
È vero, è molto brava.
"Dovremmo cominciare a dirle il nome parlandole da molto vicino, in modo che veda il movimento della labbra e senta bene il suono."
"Ma come ho fatto a non pensarci prima? Non è una cattiva idea, anzi! Complimenti, amore."
La ragazza si diede una manata sulla fronte. Forse, pensò Mackenzie, dato che era la madre, si era detta che quell'idea sarebbe dovuta venire in mente a lei, ma non importava, ciò che contava era che il papà l'avesse proposta.
Possiamo provare subito? Possiamo?
Mackenzie batté i piedi a terra e le mani l'una contro l'altra, mentre un brivido le fece formicolare le braccia.
"Certo!" stavano dicendo i genitori, ma lei si era estraniata dalla conversazione e dai loro tentativi.
Si era resa conto di ciò che aveva appena detto. Possiamo, come se anche lei riuscisse a parlare. Mamma e papà le avevano sempre detto che non doveva sentirsi diversa o inferiore perché non riusciva a parlare, che lei era come gli altri, ma non sempre la piccola si sentiva così. Avrebbe dovuto parlarne con Catherine, il giorno dopo. Sospirò, mentre la parola muta che aveva detto alcune volte James le tornava alla mente. Gliel'aveva sputata in faccia come fosse stata un marchio, come se lei avesse dovuto sentirsi colpevole per essere così. E tutto ciò la faceva sentire in tanti modi diversi, un miscuglio di emozioni le si aggrovigliavano nello stomaco, arrivavano al cuore e poi alla testa, confondendola. Non sapeva più che cosa stava provando, non si capiva. Sì, decise, anche se avrebbe dovuto dire altre cose importanti alla psicologa, quell'argomento non poteva aspettare.
La bambina tornò alla situazione presente quando la mamma, avvicinatasi a Hope, iniziò a ripeterle "Mackenzie" con lentezza e marcando con la voce ogni lettera. La piccola provò a ripeterlo, ma disse solo cose incomprensibili o il nome della sorella nel modo in cui per il momento lo conosceva. Portarono fuori Danny, sempre con il guinzaglio, e lo allungarono al massimo lasciando che il micio, che aveva ormai cinque mesi, annusasse ed esplorasse per quanto possibile. Ogni tanto drizzava le orecchie perché captava rumori che gli umani non udivano, o l'abbaiare di un cane in lontananza.
"Ha proprio voglia di esplorare il territorio da solo" osservò Andrew, mentre gli facevano fare il giro del giardino.
"A dicembre lo lascerò libero, ma non prima di allora."
Lo accompagnarono anche a vedere le zone vicine alla casa, lasciandogli il tempo per abituarsi a quei posti a lui sconosciuti. Era bello vederlo mentre annusava, giocava con le foglie secche o qualche rametto, alzava la testa di scatto e poi la riabbassava. Era un gattino vivace e curioso, come tutti i cuccioli.
La giornata proseguì in tranquillità. I quattro fecero merenda con le crèpe alla nutella, guardarono i cartoni, giocarono ancora con gli animali di casa e la sera, dopo aver salutato Andrew che tornò a casa da Jack e Chloe, madre e figlie si addormentarono presto.
"Domani resti a casa" disse Demi a Mac prima che questa chiudesse gli occhi. "Ho parlato con la zia Madison, verrà lei a farti compagnia."
Non lavora? chiese la bambina, sbadigliando.
"Domani no, non ho capito perché."
Benissimo allora, grazie.
Sorrise.
La zia Maddie le era sempre piaciuta e sarebbe stato bello passare un po' di tempo con lei.
Il giorno dopo Demi rimase a casa con Mackenzie. Uscì con le bambine solo per portare Hope all’asilo e andarla a riprendere. Mac giocò per la maggior parte del tempo, ma si prese anche avanti con i compiti da svolgere per il giorno seguente. Andrew venne a trovarle nel pomeriggio.
“Andiamo a fare shopping per il battesimo?” propose Demetria.
Tutti accettarono e così passarono l’ora successiva per negozi a comprare vestiti e scarpe. Per le bambine la ragazza trovò due graziosi abiti la festa composti da jeans eleganti, maglia e felpa, tutti di colore bianco e comprò loro un nuovo paio di stivaletti. Dopo che anche gli adulti ebbero acquistato abiti per loro, i quattro si diressero subito da Dianna per lasciare lì Hope, dato che Mackenzie doveva andare dalla psicologa.
 
 
 
Prima di entrare nello studio, la bambina si fermò e guardò prima i genitori e poi Catherine.
“Qualcosa non va, tesoro?” le chiese quest’ultima con dolcezza.
Voglio parlare con tutti di una cosa importante. Posso? chiese, incerta.
La penna e il blocchetto rischiarono di caderle dalle mani. E se Catherine avesse detto che non si poteva? Avrebbe dovuto spiegare la stessa cosa due volte.
“Ma certo, venite” invitò i due adulti, accompagnando le parole con un gesto della mano.
Quando furono tutti seduti, la bambina prese un respiro profondo.
“Di che si tratta? Parla pure liberamente, Mackenzie, non aver paura” la incoraggiò Catherine.
“Non hai proprio idea di cosa voglia dirci?” chiese la mamma.
“Infatti, non ha mai accennato nulla a riguardo, nelle sedute precedenti?” domandò il papà.
A Mackenzie dispiaceva vederli tutti confusi e in attesa, ma riuscire a trovare le parole giuste per spiegarsi era difficile, soprattutto perché non sapeva come l’avrebbero presa.
“Vi assicuro di no, non ho idea di cosa ci voglia parlare, ma sta facendo un grande sforzo per riuscirci. Diamole i suoi tempi.”
Mac fu grata alla psicologa per quell’aiuto. Ciò che doveva dire non era facile e aveva bisogno di concentrazione.
Io... io non voglio più ricordare, per ora.
Ecco, l’aveva detto, finalmente. Libera da quel peso, trasse un lunghissimo respiro e buttò piano fuori l’aria, guardando negli occhi i genitori e Catherine. Nessuno parlava, ma gli sguardi interrogativi dei quattro fecero sentire la bambina a disagio. Quando era arrivata in casa-famiglia, molto tempo prima, per giorni gli altri bambini e ragazi l’avevano guardata con curiosità, sia perché già non parlava più, sia perché era la nuova arrivata. Mackenzie, immersa com’era nel suo dolore, scioccata da quanto successo e terorizzata, non ci aveva fatto molto caso, né aveva risposto alle domande dei bimbi riguardo i suoi genitori naturali.
“Cos’è successo? Vi hanno abbandonate?” le avevano chiesto e poi le avevano raccontato la loro storia.
Non tutti, solo quelli che se la sentivano. Se c’era una cosa che aveva capito in quel periodo, è che il proprio passato può fare davvero molto male. Solo qualche bambino in casa-famiglia si era aperto a riguardo. Gli altri erano rimasti chiusi in loro stessi, come lei.
“Perché, Mackenzie? Ti spaventa ricordare?” le chiese Catherine.
Non c’erano rabbia o accusa nel suo tono.
La bambina non rispose, non sapeva come spiegarsi e ora veniva la parte difficile.
“È normale che tu sia spaventata, te l’assicuro” continuò la psicologa. “Con tutto quello che ti è successo, mi stupirei del contrario. Ma hai fatto passi in avanti da quando hai iniziato la terapia, sei stata bravissima. Se mi spieghi cosa ti succede, ne possiamo parlare insieme.”
“Esatto. Aiutaci a capire” aggiunse la mamma con dolcezza.
Io voglio ricordare, ma non voglio provare ancora spiegò, non facendo caso a quella ripetizione. Ho voglia di parlare di altre cose: della scuola ma soprattutto delle mie amicizie, di come vanno le cose a casa... Ho paura che non riuscirò a ricordare altro e forse starò bene anche senza ricordi, o con quei pochi che ho. Posso stare bene, vero Catherine?
La donna sorrise.
“Certo che puoi, siamo qui per questo. Vi posso assicurare,” disse guardando alternativamente Andrew e Demi, “che non l’ho mai forzata a ricordare. Ho solo seguito ciò che lei mi diceva facendole qualche domanda. L’obiettivo principale della terapia è che Mackenzie stia bene con se stessa e gli altri e che superi il PTSD. Per farlo deve affrontare il trauma, ma se ha bisogno di una piccola pausa non credo ci siano problemi, anzi, potrebbe servirle per tornare più forte di prima.”
“Capisco” disse Andrew. “Quindi secondo te non è una cosa sbagliata che parli d’altro? Non che io la ritenga tale, voglio solo capire.”
“No, non lo è. Lei ha il diritto di parlare di quello che vuole, qui dentro. Non ricordare per un po’ è una decisione importante e non dev’essere stato facile arrivarci, ma il fatto che si sia resa conto che alla sua mente serve un po’ di riposo è importante, significa che, pur essendo piccola, sa – magari inconsciamente – che deve prendersi cura di se stessa.”
Mackenzie ammise che era stata la decisione più difficile che avesse mai preso e che aveva temuto l’ira dei genitori. La mamma le si avvicinò e le diede un bacio.
“Non siamo arrabbiati, tesoro, solo che non ce l’aspettavamo. Se ti senti di fare così, va bene.”
“Affronteremo tutto, Mac. Non posso dirti se ricorderai o meno, ma non ti forzerò mai a farlo” ribadì la psicologa.
Non ricordando, magari non avrò più flashback come quello di ieri.
“Quale flashback?”
Fu solo allora che Mackenzie si rese conto di no averne parlato a Catherine. Era stata così concentrata sul resto che non ci aveva più pensato. Cercò di spiegarglielo a mezze frasi intervallate da tantissimi puntini sospensivi, perché ricordare ciò che aveva vissuto era difficile.
“Non puoi controllare i tuoi pensieri, Mackenzie, e questo flashback ne è la prova. Non puoi sapere se e quando ricorderai. Può essere che la settimana prossima, mentre sarai qui o stara ifacendo altro, ti verrà in mente qualcosa, capisci?” le chiese Catherine alla fine.
La bambina annuì e poco dopo Catherine la fece uscire. Le spiegò che doveva dire una cosa solo alla mamma e al papà e che l’avrebbe fatta rientrare subito.
 
 
 
 
Quando la bambina si fu seduta fuori dalla stanza, i tre rimasero in silenzio per qualche istante. Quella seduta era stata importante per tutti, avevano parlato di una decisione fondamentale per la bambina e per Andrew e Demi non era facile.
“Come vi sentite?” chiese loro la psicologa.
“Strana” ammise Demi. “Non credevo avrebbe detto una cosa del genere.”
“Sapevamo che a volte questi colloqui erano stressanti per lei, che ricordare la faceva stare male, ma non immaginavamo quanto” ammise Andrew e la ragazza annuì,
“Forse non le siamo rimasti abbastanza vicini.”
“Perché dici questo, Demetria?”
Lei sospirò e abbassò lo sguardo.
“Perché mi sarei dovuta accorgere che stava soffrendo tanto! E invece l’ho capito solo in parte.”
Come diavolo aveva fatto a non rendersene conto? Era solo una stupida.
“Non darti colpe che non hai” le raccomandò la donna. “Tu e Andrew state facendo tutto il possibile per aiutare Mackenzie in ogni modo, lo dimostra anche il fatto che siete qui adesso. Mac è una bambina molto riflessiva, che fatica un po’ ad aprirsi. E bambini un po’ chiusi come lei hanno difficoltà a far capire agli altri come si sentono. Non è né colpa vostra, né sua. L’importante è che oggi lei abbia avuto il coraggio di dirci tutto.”
“Hai ragione” convenne Andrew, ma lui e la fidanzata si guardarono e quello sguardo disse ogni cosa.
Il senso di colpa li attanagliava, era schiacciante e non se ne sarebbero liberati facilmente.
“Le staremo ancora più vicini” mormorò la ragaza ad Andrew.
“Sì, ma senza assillarla.”
L’uomo non desiderava che la bambina si allontanasse da loro o si chiudesse ancora di più, così come non lo voleva Demi.
“La mente umana sembra forte, ma in realtà è fragile” proseguì la psicologa rivolta ai due adulti. “I ricordi di Mackenzie potrebbero essere distorti, veritieri ma anche in parte no. Non sto dicendo che ricorderà cose che non sono mai successe, ma che potrebbero essere vaghe, non precise.”
“Immagino tu non abbia voluto dirlo con lei presente per non farla star male” disse Demi.
“Esatto, non volevo che sentisse tutti questi discorsi, anche perché sono complicati per una bambina della sua età. Ora la faccio rientrare e parleremo un po’ io e lei, a meno che non abbiate domande da farmi.”
“Quando starà meglio?” chiese Demi senza pensarci due volte.
Si rendeva conto che era una domanda difficile, forse impossibile a cui rispondere, ma da mamma desiderava sapere. Avrebbe solo voluto che la sua bambina fosse felice.
“Non te lo so dire con sicurezza, anche se lo vorrei tanto. Potrebbero volerci anni per guarire dal PTSD, o mesi, non ne ho idea. Starà meglio quando no avrà più incubi, né flasgback, né farà giochi ripetitivi e quando dormirà di più.”
“Capisco” sussurrò la ragazza e sospirò.
Cos’hai detto ai miei genitori? chiese Mackenzie quando rientrò.
“Cose da grandi. Non te le posso dire, ma non è nulla di brutto o che ti deve preoccupare, davvero.”
La bambina abbassò lo sguardo.
Ieri mi sono spaventata tantissimo. È stato molto brutto.
“Se me ne vuoi parlare di più, ti ascolto.”
Non  ho ricordato cose nuove, solo quello che già sapevo. E quando la maestra mi chiamava, io praticamente non la sentivo, però sapevo che c’era una voce fuori dalla mia testa.
“E poi cos’è successo?”
Ho capito di essere di nuovo nel presente e mi sono sentita un po’ meglio, anche se poi ho capito che stavo... come si dice?
“Rivivendo il trauma?”
Esatto. La maestra mi ha calmata e poi abbiamo chiamato mio papà, che è venuto a prendermi. Catherine, sembrava tutto così reale! La casa, gli spari, tutto!
La bambina tremò.
“Sei sicura di non aver ricordato proprio niente di nuovo?” le chiese la donna.
Niente. La sirena della scuola ha suonato, io mi sono spaventata e ho ricordato, ma non pensavo sarebbe stato così brutto!
La psicologa le diede dell’acqua.
“Rivivere un trauma non è mai bello né facile” le disse. “Ma tu hai affrontato quel momento e sei riuscita a tornare al presente, è questa la cosa importante.”
Sì, ma non da sola.
“Non importa. Ognuno di noi ha bisogno di appigli a cui aggrapparsi, che possono essere persone, animali o cose, che lo aiutano a stare meglio. Tu hai avuto la maestra Justice, ma non significa che non sia stata forte. Sei stata bravissima, Mackenzie, davvero!”
La bambina sorrise.
Non l’aveva mai vista in quel modo. Si era limitata a pensare di non essere stata abbastanza brava o forte, se non era riuscita a venirne fuori da sola.
Con Elizabeth e Katie va molto bene continuò. Non conosco Katie tanto quanto Lizzie, ma è molto simpatica e penso potrà diventare mia amica.
“Mi fa piacere che le cose vadano così a meraviglia fra voi.-”
Dopo aver parlato un altro poì di quell’amicizia, la seduta dovette concludersi.
“Ci vediamo lunedì, come al solito” la salutò Catherine e Mackenzie la abbracciò e le strinse la mano, poi uscì con i genitori.
 
 
 
“Che ne dici di invitare Bill, stasera? E magari potrei chiamare anche Selena” propose Demi mentre tornavano a casa dopo essere andati a prendere Hope.
“Sei sicura? Mackenzie sarà stanca e abbiamo avuto tutti giornate difficili, non vorrei che ti sforzassi a cucinare.”
No, intervenne la bambina,  ho voglia di conoscerlo.
“Non è un problema fare una pasta, non ci metto molto.”
Andrew sorrise.
“Alloira d’accordo.”
Per la cena con Bill, Demi aveva deciso di preparare un piatto che le cucinava spesso sua madre: pasta con pesto e patate lesse. Era facile da fare. Il sugo era già pronto, ben amalgamato con la panna da cucina e il profumo era ottimo. Mise la pasta in pentola, dicendosi che doveva stare attenta che non cuocesse troppo. A lei piaceva parecchio cotta, ma sapeva che non tutti la gradivano così.
Andrew stava aiutando Mackenzie a fare i compiti.
"Mamma, potto assaggiae la tolta?"
Era Hope che, con la sua pronuncia ancora non così perfetta, arrivò in cucina saltellando.
Demi le scompigliò i capelli.
"No, amore, quella si mangia dopo. Non si può assaggiare se devono venire degli ospiti, non è una bella cosa."
"Pelché?"
La ragazza si domandò se Hope avesse capito davvero ciò che le aveva detto. Probabilmente no, quindi sarebbe stato inutile dirle che se l'avesse mangiata avrebbe fatto una brutta fiura. Era meglio spiegarglielo in modo semplice e chiaro:
"Hope, non si fa, punto."
Lo disse con dolcezza, ma allo stesso tempo cercando di mantenere un tono di voce fermo.
"Okay" mormorò la bambina, un po' delusa.
"Ti prometto che quando la mangeremo ti darò la prima fetta, va bene?"
Demi odiava vederla triste. Quando lo era faceva una faccina ancora più adorabile, era varo, ma la donna non sopportava davvero di vederla così, nemmeno se era giù per una sciocchezza come quella.
"Sìììììì!" esclamò la piccola, ritrovando subito il sorriso. "La più glande?"
"La più grande" confermò la donna.
Poi, se non starò attenta, una parte finirà sulla tovaglia o sui suoi vestiti pensò divertita.
Aveva iniziato proprio in quel mese di dicembre a insegnarle come si usavano la forchetta e il cucchiaio. Hope aveva quasi due anni e poteva cominciare a farlo da sola, così come era già in grado di sollevare il bicchiere e portarselo alla bocca per bere senza bisogno di aiuto.
In quel momento suonò il campanello e Demi si precipitò ad aprire.
"Ciao!" esclamò, quando vide Bill.
"Ciao, ho portato una bottiglia di vino rosso. Spero vi piacerà" rispose sorridendo.
"Oh, non dovevi disturbarti, ma grazie!"
"Beh, non si va mai a casa di chi ti ospita a mani vuote, giusto?"
Le passò la bottiglia.
"La metto subito in frigo. Entra."
"Sono arrivato troppo presto?" le chiese, quando vide che la pasta stava ancora cuocendo.
"No, sono stata io che mi sono presa indietro. Hope voleva giocare e ha pensato di chiedermi di farlo proprio quando stavo iniziando a preparare ogni cosa, quindi, dopo aver pulito un po' la casa, mi sono concentrata su di lei e mi sono presa in ritardo. Scusa."
"Figurati! Non ti devi scusare. Credo che occuparsi dei propri figli, per quanto stressante sia, trasmetta una grande gioia."
"Sì, è vero!"
"Bill, giochi con me, pel favole?"
Hope, che era in cucina ad osservarli, aveva aspettato che rimanessero un attimo in silenzio per mettersi, come al solito, al centro dell'attenzione. Demi stava per dire a Bill che se non lo desiderava non era necessario, ma lui sorrise alla bambina, si chinò alla sua altezza e rispose:
"Va bene, andiamo signorina! Mi hai riconosciuto, brava!"
"Sì, tu sei l'amico del mio papà."
"Esatto."
Hope accompagnò Bill sul tappeto, lo fece sedere per terra e gli mostrò tutte le sue bambole, dicendogli come si chiamavano, poi giocarono insieme a preparare a tutte il tè. Demi, intanto, li guardava e sorrideva. L'uomo sembrava perfettamente a suo agio e pareva che si divertisse.
"Mi sono sempre piaciuti moltissimo i bambini" disse a Demi.
"Sì, Andrew me l'ha detto. È una bella cosa, Bill."
"Già. Mia madre mi diceva sempre:
"Se non sarai padre non starci troppo male: si può essere genitori in tanti modi diversi."
Quando vado a casa di qualche mio amico che ha figli gioco sempre con loro. Non pretendo certo di sostituirmi ai genitori, non mi permetterei mai, figuriamoci! Quel che volio dire è che quando i bimbi mi sorridono, o mi dicono che si sono divertiti con me, o mi domandano di giocare ancora, o di tornare un'altra volta, allora capisco  che mia madre intendeva semplicemente questo: che un sorriso di un bimbo ti scalda il cuore e ti riempie di gioia. Non ho figli, è vero, ma quando mi diverto con qualche piccolo e la cosa è reciproca, mi dico che è questo il mio modo di essere genitore."
Demi si avvicinò ai due e strinse la mano a Bill.
"Andrew mi aveva detto che eri una persona sensibile, ma io aggiungo che sei anche straordinario. Hai detto delle cose meravigliose!"
"Grazie; ma, ehi, non vorrai farmi piangere, vero?"
I due si scambiarono un piccolo sorriso.
"Bill, non credevo che ti piacesse giocare con le bambole!" esclamò Andrew, scendendo le scale.
"Cretino!" gli rispose l'uomo, che poi diventò tutto rosso perché, oltre a Hope, anche Mackenzie l'aveva sentito.
Oddio, che figura di merda! pensò
Poco dopo arrivò anche Selena. Quando Andrew le fece conoscere Bill, quest'ultimo diventò tutto rosso.
"P-piacere di conoscerti" balbettò.
"Il piacere è tutto mio!" esclamò Selena, sorridendo apertamente.
"Scusa, è che non credevo ti avrei mai incontrata da vicino" si giustificò. "Comunque, dato che ora ho la possibilità di dirtelo, sappi che mi piacciono tutte le tue canzoni, dalla prima all'ultima."
"Ne sono lusingata! Demi mi ha detto che tu ed Andrew siete molto amici e che sei bravissimo nel tuo lavoro."
"Scusate," li interruppe la sottoscritta, "vado a vedere a che punto è la preparazione della cena."
"Spesso ripeto alla mia ragazza quanto tu faccia bene l'avvocato, Bill" disse Andrew.
"Grazie ma, sapete, io faccio solo il mio dovere meglio che posso."
"A tavola!" chiamò Demi.
Hope e Mackenzie non se lo fecero ripetere due volte e corsero in cucina come fulmini.
Iniziarono a mangiare in silenzio, finché Bill ruppe il ghiaccio dicendo:
"Demi, questa pasta è qualcosa di divino."
"Addirittura?" chiese lei, stupita.
"Ti assicuro che è una delle cose più buone che io abbia mangiato in vita mia!"
"Oh, è un bellissimo complimento. La ricetta è di mia madre, comunque."
Dopo un po' lei, Selena, Andrew e Bill iniziarono a parlare dei loro rispettivi lavori. Demetria raccontò che stava componendo alcune canzoni e spiegò ai tre il contenuto.
"A me invece è stato proposto di recitare in un film e di fare la parte di una donna poliziotto."
"Che fico!" esclamò Bill, facendo scoppiare a ridere gli altri.
"In effetti è un ruolo interessante. Non ho mai avuto una parte del genere, prima d'ora."
"Hai accettato?" le chiese l'amica.
"Sì. Comincerò a lavorare da domani."
"Congratulazioni!" esclamarono tutti e bridarono a lei, alla sua bravura e alla fortuna che, speravano, il film avrebbe avuto.
Fu quindi il turno dei due uomini, che parlarono dei casi che stavano cercando di risolvere. La donna avrebbe voluto chiedere a Bill qualcosa, ma non sapeva cosa. Sapeva già molto di lui e non voleva rischiare di fargli domande che avrebbero potuto ferirlo o riportargli alla mente Oscar. Anche Selena aveva saputo dall'amica tutto questo, quindi non c'era pericolo che ponesse all'uomo certe domande. Fu proprio lei a chiedere:
"Cosa fai nel tempo libero, Bill?"
"Uhm, la verità è che non so neanche cosa significhino queste due parole. A parte il calcetto non ho altri hobby o sfoghi. Ogni tanto esco, vado a bere qualcosa; sì, lo so, non ho una vita particolarmente originale" sghignazzò.
"Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per Andrew" disse Demi. Insomma, è anche grazie a te se ora sta meglio."
Il suo fidanzato annuì e sorrise, come per far capire che la ragazza aveva detto una cosa giusta.
"Non mi sembra di aver fatto così tanto; in ogni caso, sono felice di essergli amico."
Domandò poi a Selena cosa facesse lei quando aveva tempo.
"Beh, o vengo da Demi, oppure vado a fare shopping, anche se una volta mi piaceva di più. Dopo che sono stata male, sono cambiate molte cose di me, di come sono, del mio stile di vita. Adesso sono più, come dire, tranquilla e quando torno a casa, la sera, anziché uscire a fare festa preferisco infilarmi nella vasca da bagno, non prima di aver collegalto lostereo e ascoltare la musica di qualcun altro. Comunque, cambiando argomento, Bill, non credi anche tu che Andrew e Demi dovrebbero andare a convivere?"
I diretti interessati arrossirono, sentendosi a disagio. Insomma, due amici stavano parlando del loro futuro in loro presenza! Quando Bill esclamò, sicuro:
"Assolutamente sì!"
Andrew e Demi divennero, se possibile, ancora più rossi.
"Ragazzi, ci state imbarazzando" disse lei.
I due si scusarono e dissero che non era stata loro intenzione.
"Che ne dite di assaggiare il dolce?" chiese Andrew, al quale non andava di parlare di cos e tanto private in presenza di altri.
Tutti furono d'accordo.
Il salame al cioccolato che Andrew aveva preparato era buonissimo. Finito di mangiare, Mackenzie pose a Bill molte domande:
Da quanto tempo fai l'avvocato? Ti piace il tuo lavoro? Sei più o meno bravo del mio papà?
Lui lesse i foglietti e rispose tranquillamente, poi raccontò qualche barzelletta che fece piegare tutti dalle risate.
"Aspettate, ne ho un'altra!" esclamò. "Un carabiniere si arrampica su un albero, passa il suo maresciallo, che lo vede, si avvicina e gli chiede: "E tu che ci fai sopra quell'albero?" e quello risponde: "Ho chiesto al maresciallo forestale che tipo di alberi sono questi, e lui mi ha risposto: Salici!"."
Demi ci mise qualche secondo a capire, poi rise, seguita dagli altri. Anche Mackenzie si lasciò andare e fece sentire la  sua risata, per la gioia di tutti.
Prima che Bill se ne andasse, sussurrò ad Andrew:
"Non lasciarti scappare una ragazza così, amico!"
"Non ho nessuna intenzione di farlo. Difatti, le farò una sorpresa in questi giorni."
"Che state confabulando, voi due?" chiese Demi, raggiungendoli alla porta per salutare Bill.
"Niente" si affrettò a dire il suo fidanzato.
"Ho capito, discorsi da uomini, eh?"
"Già" confermò l'altro, al quale Selena fece l'occhiolino, perché anche se non aveva sentito i loro discorsi, li aveva indovinati.
"Vado anch'io" disse quest'ultima, "domani sarà una giornata stancante, lunga ma soprattutto emozionante."
Entrambi salutarono e abbracciarono Demi e le bambine, dicendo che si erano divertiti tantissimo.
Per tutti era stata una bella serata, spensierata e divertente.
 
 
 
Il weekend passò tranquillamente. Danny uscì di nuovo con i padroni, imparando a esplorare meglio il giardino e le zone circostanti, ma sempre al guinzaglio. La mamma voleva farlo muovere così per un paio di settimane, prima di lasciarlo libero. La sola idea di vederlo scorrazzare per il giardino metteva ansia a Mackenzie. La bambina lo guardava mentre si muoveva fra l’erba e si diceva che, una volta libero, il gatto avrebbe potuto andare dovunque e farsi male, magari sotto una macchina. Non voleva pensare al peggio, ma sapeva che poteva capitare.
“Starà attento e non succederà niente” si disse per calmarsi.
Questo non la aiutò molto a ttranquillizzarsi, ma Danny era un bravo gattino e, lo sperava con tutto il cuore, non sarebbe andato in posti pericolosi. In quei giorni, la mamma continuò la lettura di Luce e ombra a lei e a Hope e la domenica si tatuò anche il simbolo di Kaleia sul braccio – una foglia – per farle felici. Le stava benissimo. Il papà trascorse con loro più tempo possibile e un paio di volte andarono anche a casa sua a vedere i gatti.
Il lunedì mattina arrivò anche troppo presto, prima di quanto Mac avrebbe desiderato. Tornare significava rivedere Brianna e Yvan e non sapeva come sarebbero andate le cose, ma non voleva continuare ad avere paura. La situazione era migliorata e sperava che non ci sarebbero stati problemi.
La prima ora la signorina Beth Rivers disse che avrebbero avuto un ospite e fatto una lezione speciale.
“Chi ariverà?” chiese Katie.
“Ora lo vedrete.”
Qualcuno bussò alla porta. Si trattava della signorina Jodie Foster, la psicologa della scuola.
“Buongiorno, bambini. Sono qui per parlare del bullismo. So che in questa classe è successo. Qualcuno sa dirmi se conosce il significato di questa parola?”
Katie alzò la mano.
“È quando un bambino prende tanto in giro un altro bambino e lo fa stare male.”
“Esatto, una cosa del genere. Ora vedremo un video.”
La psicologa accese il suo computer e fece avvicinare i bambini. Il video riprendeva una bambina che veniva presa in giro dai suoi compagni perché era grassa.
“Sei grassa e brutta” le dicevano. “Oh, guardate, sta piangendo!”
“Quindi comportarsi così è sbagliato, giusto?” chiese Ivan.
“Esatto. Pensate a una piantina. Se cresciuta con parole gentili, questa verrà su meglio,  mentre se le rivolgete parole ngative non sarà così.”
“Va be’, questa è una stupidaggine!” esclamò Brianna.
“No no, è vero. È un esperimento scientifico che è stato fatto.”
“E i bulli prendono in giro o fanno anche altro?” chiese un altro bambino.
“Possono far male fisicamente, dando botte, pugni e calci e offendere in vari modi con le parole, anche su internet, benché succeda ai ragazzi più grandi. Quello si chiama cyberbullismo.”
“E cosa possiamo fare se vediamo qualcuno che viene bullizzzato?”
“O se siamo bullizzati noi?”
Queste erano le domande che circolavano fra i banchi.
“Parlarne, anche se è difficile. Chi è vittima di bullismo spesso ha paura,” continuò a questo punto la signorina Rivers, “e non dice nulla a causa di ciò. Ma non parlare lo farà sentire ancora più solo e indifeso.”
“La vostra maestra ha ragione. Se vivete episodi del genere o se vedete qualcuno in difficoltà, non aspettate. Parlatene subito con un genitore e un’insegnante.”
L’incontro terminò poco dopo. Mackenzie aveva imparato che esisteva il cyberbullismo e sperò che le parole della psicologa sarebbero state utili a tutti per capire dove avevano sbagliato o come non commettere gli stessi errori.
Giochiamo un po’? Chiese la bambina alle amiche, quando si ritrovarono a pranzo a mensa.
Si divertirono con un gioco fatto con le mani.
“I miei genitori mi hanno detto che mi prenderanno un  cagnolino per il mio compleanno, sapete?” chiese Katie.
Davvero? E quando compi gli anni?
“Il primo maggio e non vedo l’ora che arrivi.”
Io il 21!
“Io il 13 dicembre” disse Elizabeth.
Quelli erano stati giorni di relativa calma, e Mackenzie si augurò che in seguito le cose sarebbero andate sempre meglio, sia a scuola che nella sua vita.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
mi vergogno tantissimo di aggiornare dopo così tanto tempo. Scusatemi. È stato un anno difficile per tutti e, quando stavo riprendendo a scrivere a settembre, la mia gatta è morta e ho avuto altri problemi. Sto ancora facendo molta fatica a scrivere, nonostante pubblichi spesso. Continuerò la storia, ho già tutta la scaletta, ma aggiornerò a distanza di alcuni mesi, credo, fra un capitolo e l’altro. Più di così per ora non posso fare. Amo scrivere, ma non sto bene psicologicamente, quindi mi viene più complicato.
Grazie a chi continua a seguirmi e a leggere. Siete importantissimi e mi scuso ancora mille volte con voi. Grazie per il vostro supporto.
   
 
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