Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: ice_chikay    10/02/2021    1 recensioni
MikasaxLevi
A due anni dalla fine della guerra, Mikasa e Levi si ritrovano insieme ad affrontare le cicatrici e le ferite che la guerra ed i giganti hanno lasciato nelle loro vite. Mentre l'inverno è alle porte, il loro rapporto cambia per sempre... In un mondo popolato di memorie di amici caduti, riusciranno a guarire insieme?
Una storia introspettiva sui miei due personaggi preferiti, ideata e in larga parte scritta prima dell'uscita del capitolo 131, quindi ormai in parte off canon.
Contiene spoiler per chi segue solo l'anime.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Levi Ackerman, Mikasa Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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After the storm

(note in fondo al capitolo)


But there will come a time, you'll see,
with no more tears and love will not break you heart,
but dismiss your fears 
Get over your hill and see
what you find there
with grace in your heart 
and flowers in you hair


Era un placido pomeriggio autunnale. Una brezza leggera smuoveva le fronde degli alberi e l’erba nei prati: nascondeva in sé la promessa del freddo che presto sarebbe arrivato, ma lasciando ancora un ricordo dell’estate che era da poco finita. Il sole era già basso sull’orizzonte, il cielo volgeva verso il rosso e l’arancione del tramonto imminente. La campagna era silenziosa e sonnolenta, nelle poche case sparse tra i campi si cominciavano ad intravedere le candele e le lampade accese, pronte a rischiarare la sera.

Una figura a cavallo tirò le briglie per fermare il suo incedere e rimase qualche istante immobile, lo sguardo perso nel paesaggio collinare, con i suoi alberi, staccionate e le montagne in lontananza, con le cime già innevate. La donna – poiché di una donna si trattava – inspirò profondamente mentre un lieve tremito le percorse mani strette intorno alle briglie. La strada proseguiva senza ulteriori deviazioni verso un paese che si scorgeva in lontananza, ma lei svoltò a destra, su uno stretto sentiero che si inoltrava tra gli alberi. Non era sufficientemente largo per farvi passare un carro ed era ancora intralciato da erba ed arbusti, come se fosse stato tracciato solo da qualche animale che vi fosse passato più e più volte. Gli alberi tuttavia erano abbastanza distanziati gli uni dagli altri, quindi procedere era piuttosto agevole.

Dopo una mezz’ora, il bosco si aprì nuovamente a sinistra su terreni aperti ed erbosi, ondulate colline a perdita d’occhio. Il bosco proseguiva sulla destra dove più in là si ricongiungeva con le foreste che scendevano dalle pendici delle montagne. Qualche centinaio di metri più avanti, il portico rivolto verso i campi e il comignolo di un camino verso le montagne, era visibile una piccola casa, costruita prevalentemente con grandi tronchi di legno. La finestra che dava verso il sentiero da cui la viaggiatrice era sbucata era scura, come se la casa fosse disabitata. La donna rimase ancora qualche attimo ad osservare la costruzione, quasi come se una nuova – o antica – incertezza la bloccasse.

Da vicino, la casa sembrava meno piccola di quanto avesse creduto all’inizio. C’erano tre scalini che facevano accedere al portico sul quale si aprivano due finestre ed una porta. Camminandoci intorno, la donna scorse un orto, un pozzo di pietra, una piccola casetta di legno che, a giudicare dalla quantità di paglia e dalla porta chiusa solo per metà, fungeva da stalla ed una tettoia addossata alla parete della casa, ricolma di ciocchi di legna perfettamente tagliati e sistemati con ordine. Quella vista la fece sorridere.
I suoi passi sul portico fecero gemere il pavimento di legno ed anche questo non la sorprese. Bussò alla porta un paio di volte, ma senza convinzione, come se non si aspettasse che qualcuno le rispondesse. Quindi, dopo qualche istante di ennesimo silenzio, provò a girare la maniglia della porta, che si aprì senza indugio.

La casa era composta da due stanze. La prima, sulla quale si apriva la porta, aveva a destra la cucina, con una vecchia stufa a legna metallica ed un lavabo di pietra sotto alla finestra che si scorgeva all’uscita del sentiero. Davanti alla porta c’era un tavolo di legno massiccio grezzo e semplice, con quattro sedie attorno, anch’esse di semplice fattura. A sinistra della porta vi era la rete di un letto, con un materasso sopra coperto da una pezza di stoffa verde militare, del tipo dal quale si sarebbero potute tagliare delle uniformi. Infine, sul muro opposto alla porta, davanti al divano improvvisato, c’era una poltrona malmessa ed un camino. Accanto al camino, vi era una seconda porta che si apriva su un piccolo corridoio dal quale si accedeva alla seconda stanza, ad un piccolo ripostiglio pieno di scope, secchi e saponi, e ad un gabinetto. Sul pavimento del corridoio si apriva una botola, con il suo occhiello di ferro.
A quella vista la donna rabbrividì vistosamente.

La camera da letto era piccola, ma confortevole. Il letto non era proprio a due piazze, ma una trapunta colorata ed una testiera di legno rozzamente scolpita lo facevano sembrare molto invitante. L’arredamento era completato da un armadio - anch’esso di legno e senza specchio - un ciocco che fungeva da comodino, qualche mensola con dei libri ed un grosso baule scuro ai piedi del letto. La donna accarezzò distrattamente la coperta, esaminandone la fantasia a patchwork. Con qualche esitazione, si lasciò vincere dalla curiosità ed aprì l’armadio. Al suo interno erano appesi pochi abiti maschili: due paia di pantaloni, qualche camicia e maglione, una sciarpa, un paio di lenzuola di ricambio. Tutto era perfettamente stirato e profumava di bucato. La donna si concesse un sorriso malinconico, inspirò profondamente e poi richiuse l’anta.

Alla fine, si convinse ed aprì il baule.

Trovò al suo interno ciò che aveva involontariamente cercato con lo sguardo dal primo istante in cui i suoi piedi avevano varcato quella soglia.

Il meccanismo di movimento 3D giaceva, immobile e scintillante, sopra ad un paio di divise militari, un cappotto e un mantello verde, con l’immancabile stemma del Corpo di Ricerca ricamato sopra. La donna trattenne il fiato. Aveva visto quelle uniformi continuamente, anche dopo la fine della guerra, persino lei stessa conservava le proprie in un ripiano dell’armadio, eppure vedere le sue le fece uno strano effetto: come se si stesse affacciando su un passato remoto che cercava allo stesso tempo di custodire e dimenticare. Sollevò una vecchia scatola di latta e la aprì. Al suo interno giaceva una grande quantità di distintivi rappresentanti le Ali della Libertà. Avevano tutti i bordi frastagliati, come se fossero stati tagliati di fretta dalle uniformi sui quali erano stati cuciti. La donna sentì gli occhi che cominciavano a pizzicarle. Cercò di guardare verso il soffitto per impedire alle lacrime di formarsi mentre chiudeva rapidamente la scatola e la rimetteva a posto.
Sospirò lentamente e si chiese per la milionesima volta cosa ci facesse davvero lì. Sentiva un dolore dentro al petto, come se qualcosa si fosse contratto dentro di lei, portandole il cuore in gola e allo stesso tempo facendole contorcere lo stomaco. Era un dolore che conosceva bene, con cui conviveva da più di due anni, che la lasciava in pace solo quando qualcosa riusciva a distrarla a sufficienza. Trovarsi in quella casa, al contrario lo acuiva.
Tornò di nuovo nella prima stanza con la fronte corrucciata, sentendosi in colpa per aver curiosato in giro senza permesso. Il sole stava ormai scomparendo e lei era quasi certa che il proprietario della casa non sarebbe tornato per quella sera.
Senza neanche accendere una candela, si stese sullo spoglio materasso sotto alla finestra inspirando di nuovo l’odore di pulito che si espandeva anche dalla vecchia coperta di stoffa militare. Poi chiuse gli occhi e pregò di addormentarsi.
 


Il giorno dopo fu altrettanto solitario.
La donna si svegliò alle prime luci dell’alba e rabbrividì nella fresca aria ancora azzurra. Si alzò lentamente, ma con un unico movimento fluido, con la grazia di una ballerina. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori dalla finestra, in direzione del sentiero. Le fronde degli alberi del bosco ondeggiavano lievemente nel vento. Attorno a lei c’era un completo silenzio, interrotto ogni tanto solo dal cinguettio di qualche uccello mattiniero. Si ritrovò a pensare che era da molto tempo che non sentiva un silenzio del genere. Forse da quando aveva lasciato la casa dei suoi genitori. Abbassò lo sguardo sul piano sgombro della cucina, poi si accucciò davanti agli armadietti al di sotto del lavabo e li aprì, come cercando qualcosa.

Sorrise non appena vide in bella mostra un vecchio bollitore di ghisa ed un paio di tazze, accanto ad una scatola di latta che conteneva, già poteva sentirlo dall’odore, delle foglie di tè nero essiccate. Prese la scatola tra le mani e la aprì, tuffandoci dentro il naso. Sentì una nuova ondata di nostalgia che la sopraffaceva. Rimase immobile, con il profumo de tè che la avvolgeva, persa dietro chissà quali lontani ricordi. Rimise a posto la scatola ed uscì dalla casa, chiudendo la porta alle sue spalle.

Scese dal portico e si avviò alla stalla, dove il suo cavallo la aspettava. Prese delle gallette da una delle bisacce legate alla sella e tornò a sedersi sul prato davanti alla casa. Lanciò uno sguardo all’orto sulla sua destra: tutto sembrava essere perfettamente organizzato. Era strano immaginarlo mentre curava delle piante però. Forse era l’idea di lui che facesse nascere qualcosa ad essere sbagliata, si ritrovò a pensare. Lui che non aveva fatto altro che togliere vite per così tanti anni.
Sobbalzò, sorpresa dai suoi stessi pensieri. Non è neanche vero, e tu lo sai…
Lui aveva sempre fatto di tutto per salvare chi aveva attorno. Anche quando non c’era nessuna speranza, anche quando l’unica speranza era racchiusa in lui. Era piuttosto lei, che aveva continuamente tolto vite e speranze in modo completamente egoistico, non per la salvezza di sconosciuti, non per la salvezza del mondo, ma solo per la salvezza di…

Rabbrividì di nuovo, stringendosi nel cappotto troppo leggero. Non sarebbe mai dovuta venire. Sono passati due anni, cosa speri di trovare? Eppure sapeva che non c’era nessun altro posto al mondo dove avrebbe potuto cercare quello che le serviva. Per fare cosa? Andare avanti? Lo sai che non c’è niente avanti…
Si passò una mano tra i capelli, accarezzando la cicatrice che le segnava la fronte sull’occhio destro, facendo il paio con quella sullo zigomo sotto l’occhio, poi addentò la galletta, seguendo il sole che sorgeva dalle montagne in lontananza.
 


Passarono tre giorni. La sera, quando faceva buio, la donna entrava nella casa e dormiva sul materasso davanti al camino. La mattina usciva di nuovo e trascorreva la giornata ad aspettare sul prato, mangiando gallette e di tanto in tanto accudendo il cavallo. Non le dispiaceva aspettare, non era mai stata una persona impaziente. Oh Eren, eri così diverso da me…
A dirla tutta, le piaceva stare da sola in quella radura. Le piaceva la vista davanti alla casa, così immensa e libera, senza mura o palazzi che la bloccassero. Le piaceva il rumore del vento tra le fronde del bosco, il canto degli uccelli, l’acqua gelida che tirava fuori dal pozzo, la piccola volpe che ogni tanto faceva capolino dal sentiero per venire a studiare quella strana intrusa che passava tutta la giornata sul prato o sul portico.
Le piaceva soprattutto la sensazione data dalla consapevolezza che praticamente nessuno al mondo sapesse dove si trovasse in quell’istante. Era la prima volta nella sua vita che decideva di se stessa in autonomia. Era scappata da questa libertà per altri due anni, dopo che il mondo era crollato ai suoi piedi. Adesso invece sentiva che la libertà di poter stare quattro giorni da sola, seduta in un prato senza fare assolutamente nulla, fosse la cosa più preziosa che avesse mai posseduto in tutta la sua vita. Allo stesso tempo era terrificante, perché voleva dire che era davvero sola, per la prima volta. Non c’era nessuno ad aspettarla, nessuno che si preoccupasse di lei, nessuno di cui preoccuparsi.
 


La sera del quinto giorno, capì che lui stava tornando perché qualcosa cambiò nell’aria.

Le fronde si muovevano allo stesso modo di sempre nel vento ormai freddo, il sole scendeva sull’orizzonte come tutti gli altri giorni, ma l’atmosfera era cambiata completamente. Poteva percepire il suo approssimarsi, come il crescere di una sensazione, come l’arrivo della pelle d’oca, un lieve pizzicore alla base della nuca.
D’improvviso si sentì inquieta.

Si concentrò per mantenere lo sguardo verso i campi e le colline davanti alla casa, senza guardarsi attorno con impazienza.

Lui uscì dalla foresta alle spalle della casa accanto al suo cavallo, che trasportava alcuni sacchi ricolmi sul dorso. Era la stessa persona che popolava i suoi ricordi, nonostante fosse anche profondamente diverso. Il suo incedere era sempre aggraziato e sicuro, anche se non riusciva a nascondere un lieve zoppicare della gamba sinistra. Il suo viso era incorniciato dal solito doppio taglio di capelli neri, ma una benda scura gli copriva l’occhio destro da cui una cicatrice partiva verso la fronte ed il mento, segnando le labbra sulla destra. La mano destra non aveva più l’indice e il medio, tranciati di netto appena sopra le nocche, ma le altre dita erano quelle lunghe ed affusolate che lei ricordava, la ruvidità ed i calli identici a quelli che caratterizzavano le sue.

Indossava un giaccone di pelle foderato di pelliccia, un capo adatto ai cacciatori, e stivali che arrivavano a metà polpaccio, anch’essi imbottiti. Era uno strano abbigliamento per lui, era strano non vederlo in verde e neanche con le sue giacche e camicie inamidate. Sembrava che quella figura uscita dalla foresta fosse una versione più selvaggia e rude del Capitano che lei era abituata a ricordare. Eppure, stranamente gli si addiceva.

L’uomo camminò fino alla stalla. Ancora prima che notasse il cavallo che aveva usurpato il posto del proprio, la donna sapeva che lui aveva già percepito una presenza nella radura. Tutto in lui trasudava la sua solita sicurezza. Chiunque fosse l’intruso che lo stava aspettando, avrebbe aspettato finché non gli fosse stato comodo. Era il padrone di quelle terre e i suoi gesti lo rendevano lampante. Non aveva fretta. Non si voltò nella sua direzione prima di aver accompagnato il cavallo vicino alla stalla ed aver accarezzato la sua criniera con fare rassicurante.

La donna si alzò in piedi, rendendosi molto più visibile. Sentiva il cuore batterle in petto con forza, ma una strana calma si impossessò di lei. Era la calma che lui le aveva sempre – o quasi – trasmesso e ritrovarla in un istante le fece trattenere il fiato.

A questo punto, lui si voltò.

Per un istante, mentre il suo sguardo la inquadrava, l’occhio visibile rimase impassibile come sempre. Poi, in un battito di ciglia, si spalancò, riconoscendola.
Nessuno disse niente per qualche istante, né fece cenno di muoversi incontro all’altro, l’unica cosa che si agitava era il vento che le scompigliava i capelli, che le arrivavano ormai fino alle spalle.

Poi, le labbra di lui si separarono impercettibilmente.

«Mikasa»

La sua voce era la stessa di sempre: bassa, ma non troppo profonda, tagliente come una lama. Un brivido le percorse la schiena: non pensava che l’avrebbe mai più sentito pronunciare il suo nome.

«Capitano»

 
​Ciao a tutti!
E' la prima volta che scrivo - e soprattutto pubblico - una fanfiction. I personaggi di questo manga e il loro livello di profondità mi hanno ispirato (e il lockdown ha dato una mano!) ed ho scritto questo slowburn rivamika. Non ho finito di scrivere la storia, ma per ora ho già diversi capitoli pronti :) 
Spero vi piaccia! 

Chikay

   
 
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