Singing
is the answer
23 – Grethe
«Stai zitta, fatti i cazzi tuoi…» le parole di Raon s’erano ridotte a un semplice sussurro, nel tentativo
di non farsi sentire, di non farsi scoprire. «Non dire cose del genere
quando c’è lui vicino, ti prego, non fare la stronza.» Era visibilmente
arrossita, le guance rosee avevano assunto un colorito sorprendentemente
acceso.
Aya la scosse osservandola con la dovuta attenzione,
cercando di cogliere quella verità che cercava da qualche tempo. No, non stava
parlando di quell’antipatico tizio che avevano incontrato in fumetteria,
decisamente no: Per Fredrik Åsli stavolta non era
coinvolto. L’imbarazzo che aveva colto sul suo volto era causato da ben altro.
«Aspetta, vuoi dirmi che?» indicò infatti con il capo la stanza della biblioteca
dove ancora risiedeva Tae, docile nei modi, sarcastico nelle parole, carino
forse, ma nulla di più. Questo ciò che pensava senza mezzi termini. «Sul serio?
Raon, davvero?»
La ragazza osservava il pavimento piastrellato, seguendo le fughe con interesse
incredibilmente profondo.
«Ma non ha senso, e Åsli?»
Piccata, l’altra alzò lo sguardo e la fulminò, incapace di nascondere il
malcontento e tante altre cose non dette che certo l’amica non avrebbe potuto
immaginare.
«Lui potrebbe anche andarsene a fare in culo, sul serio.»
L’aveva detto.
Dopo quel bacio amaro dal sapore mischiato d’alcool e nicotina, umido, che si è
portato dietro più domande irritanti che risposte soddisfacenti, dopo aver
accantonato la cosa come fosse stato un semplice gesto impulsivo dato
dall’irrazionale bisogno di contatto fisico, si era ripromessa di non pensarci
più. Durante la convalescenza aveva deliberatamente evitato di rispondere a
quei messaggi, aveva soltanto colto l’anteprima di qualcuno di essi per poi
bloccare lo schermo. Lo aveva fatto apposta? Certo. Non avrebbe risposto
ancora, ovviamente. Aveva ben altro a cui pensare rispetto ad un instabile
ragazzino troppo cresciuto con la pappa sempre pronta e la testa piena di sé.
Un ego smisurato, un bisogno ossessivo di trovare risposte addosso agli altri e
mai dentro se stesso. Questo pensava. Tae invece era…
era diverso, si disse in quel momento guardandolo voltato verso i libri,
intento a studiare per un esame di chissà quale corso. Da quanto era lì? Da
dove veniva? Quanta strada doveva percorrere per venire a studiare? E poi, la
facoltà a cui era iscritto? Si rese conto di non conoscere nulla di lui né
della famiglia.
Sapeva solo che era gentile, premuroso, forse un filino cinico e un
chiacchierone. Bastava?
«Raon?»
Sì, bastava.
«Raon, ehi, mi senti?»
«Mi allunghi ancora un sorsetto, signor Per Fredrik.»
Åsli scosse la bottiglia constatando con una certa
punta di divertimento quanto liquido fosse stato trangugiato dai due in quel
tempo indefinito. Infine Raon
aveva contattato sua nonna al telefono, anche se alla richiesta di raggiungerla
senza nemmeno confermare luogo e ora, la ragazza aveva rifiutato per una
sessione di studio. Il telefono s’era poi spento, lasciando cadere la chiamata.
Aveva riso Luciye, ammettendo di non aver nemmeno
pensato di caricarlo prima di uscir di casa e andare a passeggiare con le gambe
stanche: non abbastanza da evitarle di raggiungere l’ex appartamento.
«Ne è sicura? Penso abbia bevuto abbastanza, mi rifiuto di servirle ancora da
bere.»
Rassegnata la donna poggiò il bicchierino e raccolse le proprie mani in grembo,
rovesciando all’indietro il capo sul divano: sospirò, lasciandosi andare ai
ricordi socchiudendo le palpebre rugose. Le labbra si incresparono in un
sorriso tirato, lasciando fuoriuscire le parole in un monologo che voleva non essere
interrotto in alcun modo.
«Sa, i suoi occhi mi ricordano molto quelli Grethe.»
I pochi secondi successivi lasciarono il tempo al ragazzo di metabolizzare: Grethe Jensen era sua nonna, la madre di sua madre. Luciye la conosceva dunque. Doveva stupirsene? Stupirsi di
come Benedikte avesse indirizzato il figlio in quella
precisa città, in quel quartiere fuori mano, distante dal centro, dai maggiori
luoghi di divertimento, lontano da casa propria abbastanza da non trascinarsi
dietro i problemi? Fallito miseramente poi. Sapeva quando dare la giusta
attenzione alle informazioni, e quello era il momento adatto.
«Chiari, lucidi, immensi. Per, lei è squisitamente bellissimo, proprio come sua
nonna. Rivedo in lei la sua determinazione, il suo essere ribelle, stanca della
vita che le stava troppo stretta.» Una seconda pausa, più breve: Luciye si accoccolò chiudendo definitivamente gli occhi,
biascicando assonnata un’ultima frase: «dovevamo scappare assieme, io e lei.»
Il russare si mangiò quasi le ultime lettere, ma la parola “lei” era stata
colta chiaramente.
Åsli si sedette sul tappeto di fronte al tavolino
dove ancora giacevano umide le ultime gocce di liquido alcolico in bicchieri
abbandonati, la bottiglia accanto vuota per tre quarti. Alzò la testa al
soffitto senza dire niente, non voleva disturbare la vecchietta che s’era
addormentata, complici l’assunzione di una dose decisamente interessante di liquore
e la camminata precedente. Era passata a trovarlo appositamente per rivelare
quelle informazioni? Avrebbe mentito a se stesso
dicendo di non voler interessarsi a ciò che era stato detto: era coinvolta la
sua famiglia, la famiglia di sua madre, come era coinvolta quella di Raon.
Che fosse così stupido da non ricordare parte dell’infanzia, una parte
fondamentale, in cui loro avevano intrecciato il quotidiano, dividendo
settimane intere o mesi forse? Poteva essere, ma in quel caso l’unico stupido
non era lui. Si alzò insicuro sul da farsi, stava metabolizzando le poche
nozioni apprese mischiandole con un fumoso tentativo di scavare nella memoria.
Raccolse tra le mani la cornice della foto di Raon,
era certo l’anziana l’avesse notata prima, ci aveva buttato lo sguardo soffermandosi
qualche secondo di troppo. Osservò l’immagine sforzandosi di ripescare qualcosa,
andava bene qualunque cosa. Qualunque altra.
Come aveva fatto la volta scorsa? Era in post sbornia forse, o ubriaco. Nel
dubbio raccolse ciò che era avanzato in un paio di bicchieri e mandò giù. Se
avesse funzionato sul serio, se ne sarebbe accorto a breve. Reggeva
relativamente bene ciò che assumeva, che fosse un bene o meno, fino alla
penultima goccia – perché la colpa era sempre dell’ultima, d’altronde; girovagò
alla ricerca di una coperta con cui avvolgere il corpo della signor, si sporse poi
e le carezzò i capelli sbiancati dal tempo ponendosi la domanda più semplice
che il cervello perso potesse concepire: perché Raon
e la madre erano orientali di origine – era palese, i tratti distintivi erano
evidenti – ma la padrona di casa portava un nome europeo?
«Come ho fatto a non chiedermelo prima? Quante cose nasconde, in realtà?»
“Più di quelle che pensi, idiota.” Il proprio pensiero esaustivo concluse la
breve crisi di notizie.
«Avete intenzione di studiare, sì o no?» Tae s’era presentato con la tracolla
carica del lavoro delle ore precedenti, visibilmente stanco ma con una
espressione poco tesa. Pareva ben sicuro delle nozioni apprese, contrariamente
ad Aya che andava facilmente in crisi e ormai l’esame
era vicino, troppo vicino.
«Ovvio, siamo qui per questo, giusto Raon?» Aya cercava supporto, ma voltando lo sguardo trovò l’altra
torturare l’orlo della manica dello sgargiante maglione a quadri che indossava.
«Anche perché abbiamo l’appello tra meno di una settimana. Te lo ricordi? Io
non ho intenzione di aspettare il prossimo, devo prepararmi.»
«Eh? Ah, beh, cazzo è vero…» Si rabbuiarono quei sottili occhi scuri, per poi illuminarsi
all’idea salva giornata. «ormai è tardi, andiamo a mangiare?»
«Raon, dobbiamo studiare, devo recuperare un sacco di
appunti, poi le immagini, il libro. Dobbiamo sapere tutto, altrimenti non
pass-»
«All you can eat, dai.»
Tae sbuffò divertito alla proposta, quando una signora dal buon bagaglio d’età
gli si avvicinò picchiettando il dito artritico sulla spalla, lamentandosi
della confusione perpetrata; ella sistemò gli occhiali a mezzaluna sul profilo
aquilino, riducendo le palpebre a due fessure ed indicando l’uscita. Una
indistinta minaccia riguardo all’esclusione obbligatoria e lo stracciare delle
tessere ipotetiche le uscì in un soffio, mentre i tre uscivano scoppiando a
ridere poco dopo.
«Allora? Io ho fame, una gran fame.»
«Non mi stupisce, sai? Io opterei volentieri per un giap…
un cin… Ehm, Tae, giusto? Per non fare gaffe…»
«Sono coreano, tranquilla. Kim Tae, piacere.»
«Io sono Aya Grady,
piacere.» strinse la mano che le era stata porta, ancora poco convinta. Era un
nemico, lo stava identificando come colui che poteva seriamente rovinare il
quadretto futuro che aveva immaginato per Raon e Åsli, nonostante i due fossero peggio di cane e gatto. La
strinse forte, pensando a quanto potesse essere un intruso nei fili che stava
tessendo nella storia perfetta.
«Vi chiedo solo di non portarmi in uno di quei vostri locali dove pensate
davvero di conoscere il cibo orientale, vi prego. Vi ci porto io, piuttosto,
detesto mangiare schifezze.»