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Autore: Moriko_    27/02/2021    1 recensioni
Due compleanni, due persone, un'unica data: 12 Marzo.
Lo straordinario cammino della vita dai primi passi alla maturità, verso più grandi ed importanti traguardi.
[Il titolo, che riassume il tema dell'intera opera, è ispirato a una citazione di Jean Paul, scrittore e pedagogista tedesco: "I compleanni sono piume sulle ampie ali del tempo."]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio, Shingo Aoi
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fanfiction
IOnSbMG

Spiccare il volo.

{Quindici anni | Aoi's side}

 

 

BGM: Ludovico Einaudi - Oltremare

 

 

 

[Un anno dopo - 12 Marzo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

Se avesse voluto fare un resoconto della sua vita, Susumu lo avrebbe riassunto in una sola parola: lavoro.

Fin da piccolo quella parola e il suo rispettivo significato erano entrati a far parte della sua vita: tutti i membri della sua famiglia erano artigiani di Nakahara da generazioni, che si erano dedicati a grandi costruzioni quali abitazioni e ponti fino ad arrivare ad oggetti più piccoli ma non per questo più semplici da ideare e lavorare. Vasi, suppellettili, pentole e armi, anche cornici di quadri e piccole statuette votive: per tutta la vita Susumu aveva visto con i propri occhi i nonni, i genitori e gli zii creare o dare nuova vita ai vari oggetti che poi sarebbero serviti a loro o all’intera comunità di quel borgo.

Per lui quella era la quotidianità, vissuta tra le quattro mura del laboratorio di famiglia che egli aveva ereditato una volta adulto. Nel cuore di Nakahara, in quelle vie dove un tempo vi erano più botteghe che negozi di souvenir e ristoranti take away, Susumu aveva imparato i segreti del mestiere di artigiano, restando sempre accanto alla sua famiglia che aveva così tanto da insegnargli.

E ora, in quelle quattro mura così vetuste come il tempo, era rimasto solo lui. In quanto l’ultimo della sua stirpe di abili artigiani era rimasto sempre lì, imperterrito, chino sul suo tavolo da lavoro con le mani continuamente impegnate a creare e ricreare, a modellare e a scolpire, mentre i capelli bianchi iniziavano a spuntare sempre più numerosi e a diradarsi per tutta la testa come scie di luce.

Sistemandosi gli occhiali dalle grandi lenti, Susumu si chiedeva spesso come sarebbe stato il suo futuro. Gli era facile immaginarsi ancora nel suo laboratorio, da anziano, a dare vita a tanti altri oggetti che sarebbero stati utili a chi ne avrebbe avuto bisogno, continuando a sacrificare il suo tempo libero per ciò che amava fare. Meno facile era capire cosa avrebbero voluto fare i suoi unici due figli, i quali Susumu avrebbe voluto che seguissero le sue orme, per non far perdere nel nulla l’antica tradizione di famiglia. Quando non erano impegnati con lo studio o le attività scolastiche, Yukiko e Shingo gli davano volentieri una mano nella bottega, e nei loro occhi Susumu riusciva a vedere tutto l’entusiasmo e la dedizione che ci mettevano nelle opere che creavano: i due se la cavavano nella lavorazione di ogni materiale, e in particolare Yukiko era molto brava a modellare l’argilla, mentre Shingo lo era nell’intagliare il legno; le speranze di vedere anche solo uno di loro in quella bottega erano sempre più alte.

Nonostante ciò, ben presto Susumu aveva iniziato a capire che quella strada che aveva immaginato per loro stava diventando sempre meno concreta. Entrambi si erano interessati molto anche ad altre attività che, se avessero coltivato con altrettanta passione, li avrebbero presto portati lontano dal loro borgo: Yukiko con il kyūdō, Shingo con il calcio.

Era molto difficile prevedere cosa i due avrebbero voluto fare nel futuro, anche perché in entrambi i casi sia Yukiko che Shingo non avevano smesso di seguire la sua attività di artigiano: in particolare Yukiko, che ormai aveva terminato le superiori, aveva deciso di prendersi un anno di pausa per riflettere bene sulla scelta di entrare a far parte di una squadra agonistica di kyūdō, nel frattempo dedicandosi a tempo pieno ad aiutarlo nel laboratorio di famiglia; viceversa Shingo, andando ancora a scuola, aveva ancora abbastanza tempo per decidere se proseguire con il suo amato calcio oppure prendere in mano la sua eredità.

Almeno lui resterà qui a Nakahara, ancora per un po’...

Susumu posò il martello e lo scalpello sul tavolo e si stiracchiò le braccia. Si alzò e uscì dalla porta sul retro, affacciandosi su un piccolo cortile dove faceva qualche passeggiata nei momenti di pausa come quello.

Si portò le mani dietro la schiena e in silenzio si incamminò con l’erba che entrava nei suoi sandali, fresca per la pioggia della notte precedente.

 

 

«Arrivederci, torni presto a trovarci!»

Dopo aver salutato l’ultimo cliente che era entrato nel negozio, Yukiko si scrollò la polvere dal suo grembiule da lavoro. Aveva i capelli raccolti in un piccolo chignon, con qualche ciuffo che in quel momento penzolava sulle sue spalle; il come era vestita, prevalentemente con abiti dal colore castagno scuro, contrastava con il suo umore solitamente allegro e che riservava sempre a tutti coloro che entravano nella loro bottega.

Yukiko poggiò i gomiti sul bancone e si guardò attorno. Le vetrine del negozio l’avevano sempre affascinata: di ogni oggetto conosceva la storia perché seguiva l’attività di suo padre da così vicino e, col passare degli anni e imparando a creare proprio quegli oggetti che finivano nelle vetrine, anche lei - così come i suoi genitori - aveva iniziato a considerarli come suoi figli. Vi erano delle piccole teche dove erano esposti oggetti già pronti per la vendita come vasi e pentole, e prototipi di altri che erano dei veri e propri pezzi unici, frutto della fantasia artistica di suo padre; all’ingresso vi era uno scacciapensieri - sempre opera di suo padre - che suonava ogni volta che un cliente entrava nel loro negozio oppure con il movimento del vento quando la porta era aperta.

A quel suono dello scacciapensieri che si sentiva ancora nell’aria, Yukiko trasse un respiro profondo e chiuse gli occhi, appoggiando la testa sui palmi delle mani. Poté sentire il forte profumo del legno degli oggetti che si trovavano vicino a lei, in attesa di essere collocati nelle teche, e quello della pianta di lavanda sul bancone, che accoglieva i visitatori in modo silenzioso ma gradevole.

In quel momento le venne da pensare al suo imminente futuro, ancora una volta. Non aveva ancora deciso cosa fare a partire dal mese successivo: proseguire l’attività del padre e restare a Nakahara, o gettarsi in una nuova avventura con il kyūdō e partire alla volta di Tokyo?

Quell’ultimo anno che lei aveva preso come pausa di riflessione aveva solo contribuito a sconvolgere la sua mente ancora di più. Se avesse avuto la possibilità, avrebbe voluto fare entrambe le cose anche a costo di non dormire, ma la distanza tra Tokyo e Nakahara era davvero immensa: circa cinque ore di auto, nel caso migliore. Per lei sarebbe stato impossibile fare la pendolare, per cui restava solo una soluzione: presto o tardi avrebbe dovuto decidere se restare a Nakahara o trasferirsi a Tokyo.

Cosa... cosa devo fare?

Non sapeva proprio quale strada prendere, in più su questo sia sua nonna che i suoi genitori le avevano dato carta bianca; anche suo padre, al quale lei ben sapeva che avrebbe fatto piacere se avesse continuato a lavorare con lui, le aveva detto di fare ciò che le stava sussurrando il cuore, per cui non l’avrebbe mai ostacolata nella sua decisione finale.

Yukiko sospirò, drizzò la schiena e si portò le mani sui fianchi. Si diresse verso l’uscita per prendere un po’ d’aria ma, non appena stette per avvicinarsi alla porta, quest’ultima si aprì con un’irruenza tale che fece quasi vibrare i piatti di porcellana esposti sulla sua sinistra. La ragazza saltò all’indietro, evitando l’impatto con quel tornado umano che sembrava aver scosso la pace che regnava all’interno del negozio.

«Quante volte ti ho detto di non aprire la porta in questo modo, fratellino?» esclamò Yukiko, incrociando le mani sul petto. «Rischi di rompere i vetri: va bene che inizia a far caldo e piacerebbe anche a me tenere le finestre aperte... ma adesso non esageriamo!»

Shingo si grattò la nuca, imbarazzato. «Ops!»

Yukiko gli rivolse un dolce sorriso. Ormai era abituata alle azioni improvvise e irruenti del suo fratellino, e sapeva molto bene che non lo faceva apposta a comportarsi in quel modo spontaneo: era insito nella sua natura, essere così vivace come un vulcano in piena attività.

La cosa la faceva divertire, perché in realtà amava quando Shingo faceva così: qualsiasi sua azione era portatrice di gioia e allegria, nonostante i danni collaterali che avrebbe potuto arrecare al suo passaggio. E, ogni volta che lo vedeva così felice come lo era in quel momento, era certa che c'era qualcosa sotto che lo stava entusiasmando.

«Sentiamo...» disse Yukiko, tornando vicino al bancone, «ti è successo qualcosa di bello, vero?»

Shingo annuì, ma subito dopo la sua allegra espressione si trasformò di qualcosa di diverso dal solito. Sua sorella notò che non la stava guardando dritta negli occhi, segno che stava per dire una bella bugia o una scomoda verità: qualsiasi risposta fosse delle due, non era foriera di buone notizie per il ragazzino.

«Ti ricordi quando ti dicevo che volevo continuare a giocare a calcio?»

«Sì...» Certo che me lo ricordo: fino a ieri sera mi hai detto che volevi diventare un grande calciatore!

«Devo dirti una cosa...»

Yukiko spalancò gli occhi. Il primo pensiero che ebbe fu proprio all’attività di famiglia: che anche Shingo stesse iniziando a pensare seriamente a un eventuale futuro come artigiano? Se fosse stato così, da una parte la cosa la stava rincuorando: per un attimo, il vedere il futuro di suo padre non più da solo aveva risollevato il suo animo.

Dall'altra parte, però, la ragazza conosceva bene suo fratello e sapeva che in quegli ultimi quattro anni dedicati al calcio erano successe delle cose che lo avevano portato a fare un passo indietro, arrivando anche a pensare a rinunciare a giocare a calcio. Sapendo del suo carattere irrequieto, se fosse stato davvero così non gliela avrebbe fatta lasciare liscia, questa volta: quando Shingo era dietro ad un pallone, Yukiko vedeva gli occhi del fratello brillare di una felicità mai vista prima. Sapeva bene che negli ultimi mesi si era davvero appassionato e sperava che, forse, in realtà non fosse successo nulla del genere... ma se invece fosse stato il contrario? Se fosse successo qualcosa di grave a scuola al punto da fargli cambiare idea all’improvviso?

Yukiko andò da suo fratello e, mettendogli una mano sotto il mento, con dolcezza lo alzò fino al punto che i loro sguardi si incrociassero. «Ascolta, Shingo. Se è di nuovo successo qualcosa a scuola per cui stai pensando di rinunciare a giocare a calcio... te lo dico seriamente: fregatene, e vai avanti per la tua strada.»

Il fratello scoppiò a ridere, sotto la sempre più crescente sorpresa di lei.

«Io? Rinunciare? Ma che stai dicendo: io non mollo! Però...»

«Però... cosa?»

Shingo abbassò lo sguardo, guardando la punta delle sue scarpe. «Non ti ho mai detto una cosa, sorellina... prometti di non fare parola con nessuno fino a questa sera? Finalmente ho deciso: stasera vuoterò il sacco.»

Yukiko inarcò un sopracciglio e gli si accostò, sussurrandogli: «Papà è al laboratorio, potrebbe sentirci... perciò dimmi ciò che vuoi nel mio orecchio...»

Il ragazzo deglutì e si decise a rivelarle ciò che aveva pensato negli ultimi giorni il più possibile a bassa voce, scandendo bene ogni singola frase. Non appena Yukiko udì quelle parole, la prima cosa alla quale pensò fu un secco e deciso “È uno scherzo, vero?!”

La ragazza si trattenne dall’urlare quel suo pensiero, rischiando che la sentisse tutta Nakahara. Iniziò a camminare per tutto il negozio, con le braccia conserte; poi tornò dal fratello e mormorò: «In... in Italia? Ho capito bene?»

Shingo annuì senza aggiungere altro.

Yukiko, che era abituata alle stranezze di quel suo fratellino ingenuo, per la prima volta non sapeva come comportarsi nei suoi confronti. Si avvicinò ulteriormente a lui e gli sussurrò nell’orecchio: «Facciamo che io non so niente: te la vedi tu con mamma e papà... e soprattutto la nonna, ok? Però stasera, quando saremo soli, mi farai il favore di spiegarmi il perché... perché non lo capisco!»

Santo cielo... in Italia! - pensò la giovane, mentre si avvicinò alla porta di ingresso portandosi una mano sulla fronte. La pioggia incominciò a cadere silenziosa e rivestendo di una luce diversa il paesaggio all'esterno.

E chi vuole sentire mamma e papà, adesso?

 

Shingo era perfettamente consapevole che l’ostacolo più grande per quella decisione era rappresentato dalla sua famiglia. I suoi genitori, sua sorella e sua nonna, sebbene fossero sempre stati dolci e accondiscendenti con lui, forse non avrebbero preso di buon occhio quella che, di fatto, sarebbe stata una scelta che avrebbe cambiato non solo la sua vita ma anche quella dei suoi cari. Di tutto questo Shingo ne era consapevole: fin dall’inizio sapeva che ciascuno di loro sarebbe rimasto di stucco - allo stesso modo dei suoi compagni di scuola, così colti di sorpresa al punto da non riuscire a replicargli.

Quella che il giovane Aoi aveva in testa era un’idea che era nata qualche mese prima e maturata con il corso del tempo. Non era uno sciocco: aveva letto qualsiasi libro che lo aveva aiutato a capire di più ogni singolo aspetto di ciò che stava facendo. Le difficoltà e le conseguenze del vivere lontano dai suoi cari, amici e parenti, e lontano dal suo amato borgo, che lo aveva accolto nel suo grembo fin dalla sua nascita: Shingo conosceva rischi e pericoli, vantaggi e aspetti positivi - anche se questi ultimi sembravano ancora essere pochi rispetto ai primi.

In questo breve lasso di tempo aveva interpellato alcuni artigiani che, come suo padre, lavoravano nel centro di Nakahara: ad un certo punto della loro vita quelle persone avevano lasciato la loro terra natale per girare il mondo e avevano vissuto anni lontani dalle famiglie e dagli amici d'infanzia, a pieno contatto con culture e lingue diverse dalla loro. Probabilmente si erano sentite sole, così come Shingo stava pensando che potesse accadergli una volta partito. Ma se voleva realizzare il suo sogno, aveva capito che non poteva restare a Nakahara... e nemmeno in Giappone.

L'Italia sarebbe stata la terra perfetta per la sua rinascita.

Tutto aveva avuto inizio da un pensiero che Shingo aveva avuto durante il suo secondo anno delle medie tra i banchi di scuola, mentre osservava annoiato verso la finestra della sua aula che dava sul campetto da calcio.

 

Come posso fare per diventare un bravo calciatore come Tsubasa Ozora?

 

E quel pensiero si ricollegava a ciò che gli era accaduto qualche giorno prima, durante la partita amichevole che aveva disputato con la sua squadra contro la Nankatsu, vincitrice per due volte di seguito al campionato nazionale delle medie. In quell’occasione l’obiettivo era il riuscire a tener testa al gioco di squadra di quei giocatori fenomenali: per quanto i calciatori della Nakahara si fossero impegnati, anche solo sperare di battere la Nankatsu sarebbe stato impossibile fin dall’inizio. Però erano tutti fiduciosi: con Shingo in attacco e gli altri in difesa, sarebbe stato più semplice mettere in difficoltà quel grande team che aveva vinto per ben due campionati nazionali delle scuole medie di seguito, e che si stava preparando a trionfare anche nel terzo.

«Non preoccuparti, Shingo: quel portiere non mi sembra molto forte!»

«Quello grosso mi dà l’idea di uno “tutto fumo e niente arrosto”! Secondo me riuscirai a superarlo senza problemi!»

«L'unico problema sarà Tsubasa... ma ci pensiamo noi a marcarlo stretto! Mi raccomando, Shingo: tieniti pronto... stai sempre in attacco e corri a segnare non appena ti passiamo la palla!»

Shingo aveva sorriso: tutti i suoi compagni avevano grande fiducia in lui, e sapeva molto bene che non si stavano sbagliando. La sua non era vanagloria: nella sua squadra Shingo era davvero l’unico che avrebbe potuto segnare alla porta della Nankatsu, e se ci fosse riuscito sarebbe stato un gran risultato. I suoi amici avevano ragione: l'unico problema sarebbe stato Tsubasa... ma Shingo si fidava di loro. Li conosceva molto bene, poteva fidarsi di ciascuno di loro: di Mamoru che era diventato il capitano della squadra e Ke, che avrebbero garantito l'ottima difesa della loro squadra; di Takeo, che era la punta di diamante dei fenomenali centrocampisti composti per la maggior parte dai veterani della squadra e che ora, insieme a loro, si stava preparando a dare man forte alla difesa.

E infine c’era Tamotsu, il “Data-motsu” - come amavano definirlo. Non giocava mai se non durante le sessioni di allenamento, però era diventato molto bravo ad elaborare diverse strategie in base alle squadre da affrontare insieme al loro coach. Quel giorno, per fare bella figura, era rimasto sveglio tutta la notte, e lui era stato il primo ad avvisarli che le speranze di battere la Nankatsu erano vicine allo zero e ci sarebbe voluto più un miracolo che una buona strategia di gioco per ribaltare la situazione, ma avrebbero potuto fare un gol proprio grazie a Shingo. Per questo motivo, poche ore prima della partita, il suo amico gli aveva passato un foglio contenente tutti i dati relativi alla difesa della Nankatsu, e gli aveva consigliato sul da farsi con un unico ordine da seguire.

«Niente colpi di testa... ok, Shingo? Segui la strategia e vedrai che riuscirai a segnare!»

Shingo gli aveva sorriso, confermando che avrebbe volentieri seguito le indicazioni che le erano state date.

Tuttavia, la partita era iniziata in un modo inaspettato: nel primo tempo la sua squadra aveva subito ben cinque gol, e lui non aveva ancora avuto l'occasione di lanciarsi all’attacco e di segnare.

Nell’intervallo, Shingo aveva capito dove fosse il problema.

 

«Lo sapevo, la Nankatsu è troppo forte!»

«Io non so se voglio continuare... possiamo anche terminare qui la partita!»

«Aaaah, non vedo l'ora di finirla! Questi sono imbattibili, è inutile che ci impegniamo!»

«Chissà cosa ci sarà nel buffet... non vedo l'ora di mangiare qualcosa!»

 

Quel chiacchiericcio, partito proprio dai senpai della squadra, lo stava facendo alterare sempre più. In più sembravano essersi dimenticati della loro strategia: lui non aveva ancora preso un pallone, se l’erano già dimenticati?

Shingo tentò più volte di ricordare loro dell’obiettivo da raggiungere: segnare un gol alla Nankatsu passandogli il pallone. Ma era tutto inutile: la risposta che gli davano era sempre la stessa.

«La Nankatsu è troppo forte, e per noi è un onore poter giocare contro di loro!»

Rassegnato, Shingo era tornato da Tamotsu e gli aveva chiesto un ennesimo consiglio sulla tattica da seguire. Forse nel frattempo gli era venuta in mente qualche altra idea...

 

«Non abbiamo altra scelta: dobbiamo continuare così.»

«Come “dobbiamo continuare così”? Non lo hai visto? Stiamo perdendo cinque a zero! E i senpai sembrano essere più interessati a mangiare che a giocare questa partita!»

«Mi dispiace... ma non ci sono altre soluzioni. Cerca di stare calmo, Shingo... anzi: prega che non ci siano infortunati in questa partita, altrimenti sì che passeremo dalla padella alla brace!»

 

A quel punto Shingo era rientrato sul campo mortificato. I veterani che sembravano non vergognarsi di quel risultato, Tamotsu che non riusciva a risolvere il loro problema...

Nel vedere il suo compagno di squadra in quello stato, Mamoru gli si era avvicinato e aveva provato a consolarlo.

«Non preoccuparti, Shingo! Vedrai: ribalteremo la situazione nel secondo tempo!»

«Capitano...»

«Ehi, non è mica la fine del mondo. Tu sei bravo: riuscirai a fare cinque gol in un attimo.»

«Ma Tamotsu ha detto che–»

«E che vuoi che ti dica “Data-motsu”! Lui ha fiducia in te, così come noi. Fidati: ne ho già parlato con Takeo, e in qualche modo noi due riusciremo a passarti il pallone... però devi avere pazienza. Dobbiamo trovare solo un modo per strapparlo alla Nankatsu prima che ci facciano un altro gol...»

Il suo amico aveva ragione: doveva solo avere pazienza... ma fino a quando sarebbe stato possibile? Non per molto, perché anche nel secondo tempo la sua squadra era stata messa in grande difficoltà dalla Nankatsu. Anzi... si stava mettendo anche peggio, dato che sembrava che i veterani non avessero più voglia di impegnarsi fino in fondo.

Per un secondo Shingo si era voltato nella direzione della loro panchina. Il coach era rimasto irremovibile, ma Tamotsu era visibilmente agitato: tutta la sua strategia per la quale aveva lavorato per ore intere stava andando in fumo.

Anche Mamoru e Takeo che erano con lui sul campo si trovavano in grande difficoltà: nemmeno loro erano riusciti a toccare palla, e non sapevano proprio come aiutare il loro compagno di squadra. Gli unici che di tanto in tanto riuscivano ad impossessarsi del pallone erano i loro senpai che, per quel che sembrava, non erano più interessati a giocare quella partita.

Di fronte a tutto ciò, Shingo non ci aveva visto più. Dimenticandosi completamente della raccomandazione di Tamotsu ad inizio partita, si era lanciato da solo verso l’area di rigore della loro squadra ed era riuscito a strappare il pallone ad uno dei giocatori della Nankatsu che era pronto a segnare. Ke lo stava guardando con meraviglia, come se fosse appena accaduto il miracolo da lui tanto atteso: dalle sue labbra era uscito un sommesso e quasi commosso «Grazie...» che, per un attimo, aveva fatto tornare il sorriso a Shingo.

«Non preoccuparti, Ke. Da qui in poi ci penso io. Ti prometto che non segneranno più... anzi, ora sarò io a segnare!»

Così, Shingo si era lanciato a tutta velocità verso la porta avversaria, dribblando tutti i giocatori che provavano ad opporsi, invano. La sua grande agilità aveva colto tutti di sorpresa, tranne un giocatore... l’ultimo da superare prima di trovarsi a tu per tu con il portiere della Nankatsu.

Tsubasa Ozora.

La prima volta che Shingo l’aveva affrontato era stato proprio in quell'occasione: lo conosceva di fama, e sapeva bene che non sarebbe stato semplice metterlo in difficoltà, però voleva provarci. Se avesse superato lui, non ci sarebbero più stati problemi a segnare.

Il primo gol alla Nankatsu. Il suo gol.

Ma, alla fine, Shingo non era riuscito a farcela. Era stato proprio nell’affrontare quel grande calciatore che il giovane Aoi si era ritrovato improvvisamente a terra, e il pallone ormai lontano. Quel Tsubasa era riuscito ad anticiparlo, mettendolo fuori gioco per qualche secondo.

Però... però la partita non è ancora finita!

Shingo si era subito rialzato, ignorando le urla dei veterani che, più che incoraggiarlo, stavano protestando per ciò che aveva fatto, e senza curarsi di un accecante dolore alla gamba sinistra dovuto al contrasto con Tsubasa. Stava per riprendere a correre quando le sue orecchie avevano udito un suono ben distinto.

Un fischio.

E i suoi occhi si aprirono non appena vide, proprio dalla loro panchina, la tabella del cambio giocatori con un numero ben preciso.

Il suo.

Solo allora aveva iniziato a capire il significato delle profetiche parole di Tamotsu, e di ciò che gli aveva detto Mamoru subito dopo.

 

«Prega che non ci siano infortunati...»

«“Data-motsu” ha fiducia in te, così come noi...»

 

E, tra tutti, proprio lui si era infortunato... eppure sentiva che poteva ancora giocare; non sembrava esserci nulla di rotto, e riusciva ancora a muovere entrambe le gambe. Aveva provato a far desistere il coach, tuttavia a nulla stavano servendo le sue proteste: egli non lo stava sostituendo per la ferita alla gamba, ma solo perché...

«Non hai seguito le mie indicazioni. Ora riposati e rifletti su ciò che hai fatto!»

Questa era stata la spiegazione del suo coach, per lui inconcepibile e inaccettabile. Nonostante ciò, Shingo era costretto a seguire i suoi ordini: restare seduto in panchina, a guardare con i propri occhi la sua squadra che perdeva inesorabilmente. Ogni gol che prendevano sembrava come una freccia scagliata verso il suo petto: faceva male.

Se solo ci fossi stato ancora io... se solo...

Per il resto del secondo tempo Shingo non aveva rivolto la parola a nessuno, né al suo coach né agli altri giocatori; nemmeno loro l'avevano fatto, come un muro invisibile che fosse comparso all’improvviso tra loro. Nessuno che avesse provato a consolarlo, né a dirgli che aveva ragione... perché infatti quella partita, quella maledetta partita, stava dando ragione proprio a lui. A Shingo non importava che fosse solo un’amichevole: la sua squadra stava perdendo in modo vergognoso, e lui non poteva più farci niente.

Al fischio finale il piccolo Aoi aveva alzato gli occhi verso il tabellone dei punteggi, puntando la riga dei gol subiti dalla sua squadra nel corso dei due tempi di gioco.

Cinque... sei... undici!

E come sottofondo stava udendo delle urla di gioia, ma non dei giocatori della squadra vincitrice: proprio dai suoi senpai che, nonostante avessero perso in quel modo, erano felici di aver giocato contro i campioni nazionali.

Shingo era scattato in piedi con l’intenzione di lasciare il campo da gioco, ma non aveva fatto in tempo: in men che non si dica lo avevano raggiunto i suoi amici di sempre. Mamoru non aveva proferito parola, mentre Ke si era limitato ad un semplice «Scusa»; Takeo, invece, con una mano sulla spalla gli aveva rivolto un sorriso.

«Sei stato bravo! Con il tuo fuoriprogramma eravamo vicini al gol!»

“Fuoriprogramma”?! - aveva pensato Shingo. Come si era permesso il suo amico di giudicare il suo intervento in quel modo? Quello non era affatto un “fuoriprogramma”: aveva preso il pallone e stava per segnare... in fondo non era quella la loro strategia?

«Stai zitto!» gli aveva tuonato. «E tu ti sei fatto fregare per ben undici volte! Non me l'aspettavo da te, Takeo!»

L'altro rimase in silenzio, chinando il capo e mormorando un lapidario «Nemmeno io...»

Di fronte al suo atteggiamento, Shingo si era subito reso conto di aver esagerato con il suo rimprovero. In fondo non era colpa sua... non era solo colpa sua. La colpa era di ciascuno di loro, che aveva gettato la spugna prima ancora che la partita finisse.

Shingo aveva portato una mano sulla ferita e aveva iniziato così ad allontanarsi dai suoi compagni, zoppicando. «Scusate, ora voglio stare da solo. Fate i complimenti alla Nankatsu anche da parte mia...»

«Vengo con te! Ti accompagno in infermeria!»

Di fronte a lui si era parato Tamotsu, con le braccia aperte: il suo blocchetto degli appunti con i dati della partita era caduto a terra, ma lui sembrava non essersene accorto. Nonostante l’invito dell’amico, Shingo gli aveva rivolto un amaro sorriso e scosso la testa.

«No, Tamotsu. Lasciami in pace.»

Tutti erano rimasti in silenzio, guardandolo piuttosto sorpreso. Per la prima volta da quando sia Tamotsu che Shingo erano nel club di calcio, quest'ultimo voleva restare da solo... solo nel vero significato della parola, anche senza colui che in quei tre anni era diventato il suo migliore amico.

Shingo aveva sentito quegli sguardi increduli pesargli addosso. A lui sembravano essere sguardi di pietà e compassione, che iniziavano quasi a dargli fastidio. In silenzio superò Tamotsu e si allontanò lentamente mentre le sue orecchie avevano iniziato ad udire il rumore di veloci passi e un chiacchiericcio che da sommesso man mano stava diventando sempre più forte.

Quel mondo stava andando avanti, anche senza di lui.
E lui... lui non era più al centro di quel mondo. A nessuno più importava cosa egli stesse facendo, né tantomeno a cosa stesse pensando, e quando si voltò ne ebbe l’ennesima conferma: i giocatori e gli allenatori delle due squadre stavano allegramente conversando, come se non fosse successo nulla.

Pacche sulla spalla, strette di mano e anche qualche battuta.

Come se non fosse successo nulla.

Shingo era lì, ormai distante da quel mondo, mentre a pochi metri da lui gli altri giocatori della Nakahara, compresi i suoi amici, si stavano congratulando con i vincitori, come se non fosse successo nulla.

Tutti sembravano già essersi dimenticati di lui, anche lo stesso Tamotsu che, anzi, si era avvicinato all’allenatore della Nankatsu per chiedergli informazioni sulla sua strategia di gioco. Quelle belle parole che alcuni di loro gli avevano rivolto cinque minuti prima ormai sembravano essere svanite nell’aria come delle bolle di sapone.

E io che mi sono fidato... e io che credevo in loro!

Per un secondo, Shingo strinse i pugni e si morse le labbra. All’improvviso tutti i ricordi di calcio legati a quelli che fino a quel momento aveva considerato suoi amici erano andati in frantumi, lasciando spazio ad un grande vuoto che sembrava non avere senso: la fondazione del club delle elementari, i duri allenamenti, le partite che avevano affrontato fino alla settimana precedente, le uscite e i pranzi insieme... per lui era tutto finito, svanito nel nulla.

Stupidi... stupidi...

Con quale coraggio Shingo avrebbe affrontato il suo senpai, con una squadra del genere? Come avrebbe fatto a diventare come lui, se aveva dei compagni che lo stessero ignorando? Nessuno di loro aveva avuto premura di insistere, di seguirlo nonostante i suoi “no”...

... siete solo un branco di idioti! Dovreste solo vergognarvi: per voi questo significa giocare a calcio?!

Come avrebbe fatto Shingo a diventare come il suo amato senpai, se come compagni di squadra aveva al suo fianco ragazzi ai quali non importava del risultato? Avevano perso undici a zero... undici! Non due, non tre... undici!

Quella era una differenza troppo grande, sulla quale qualsiasi sorriso era del tutto inaccettabile. Per lui quell’atteggiamento che traspariva dai volti dei suoi compagni di squadra era solo ridicolo, anche contro una squadra potente come la Nankatsu.

In quel momento a Shingo non restò altro da fare se non un’ultima cosa, prima di tornare negli spogliatoi del suo team.

 

Ho deciso: lascio il club di calcio! Anzi... non giocherò mai più a calcio... mai più!

 

Si era ferito ad una gamba, si era messo in forte contrasto con il coach per non aver seguito le sue direttive, e i compagni lo stavano ignorando come se lui non avesse contato davvero nulla per tutti loro.

Pensò che sarebbe stato meglio chiudere lì la sua carriera...

... tanto a cosa serve continuare a giocare, a questo punto? Alla fine non conto nulla per nessuno... forse il calcio non fa per me. Forse... alla fine nemmeno io sono così bravo... non potrò mai essere come il senpai...

Ma proprio in quel momento un raggio di luce tornò ad illuminare la sua mente offuscata dalla disperazione e a dargli conforto, dicendogli che non valeva la pena gettare la spugna, sussurrandogli che era davvero bravo e aveva tutte le carte in regola per diventare un giocatore in gamba.

«Se ti piace il calcio, non arrenderti!»

Quelle non erano parole che provenivano dal suo coach, e nemmeno da qualcuno dei suoi compagni. Quelle parole, accompagnate da un sincero e dolce gesto, erano state pronunciate da uno dei suoi avversari.

Tsubasa Ozora.

Ancora lui, che gli aveva posto una mano sulla spalla - come aveva già fatto il suo amico Takeo qualche minuto prima... ma con un significato che gli sembrava diverso. Proprio lui, un giocatore prodigio, si stava congratulando con lui, e sempre quel calciatore non lo stava affatto rimproverando per come si era comportato sul campo qualche minuto prima.

Shingo l’aveva visto allontanarsi con un sorriso e unirsi ai suoi compagni di squadra. Probabilmente quel grande giocatore non si aspettava nemmeno di sentirsi dire “grazie” da lui: gli aveva solo detto quelle parole, senza aggiungere né sentire altro.

Tsubasa... aveva pensato Shingo, mentre con ammirazione lo guardava ormai sempre più distante da lui; poi il suo sguardo era caduto sul pallone che giaceva abbandonato sul campo, in quel momento vicino ai suoi piedi. Shingo aveva tirato su il naso e sorriso, per poi raggiungere la sua squadra che, sorprendentemente, lo stava aspettando ed era pronta ad accoglierlo a braccia aperte, come se non se ne fosse mai andato.

«Era ora, Shingo! Il buffet non può iniziare senza di te!»

«Prima corri in infermeria: la tua gamba continua a sanguinare!»

Shingo si asciugò le lacrime e annuì contento, scusandosi con loro che lo guardarono piuttosto sorpresi dal suo atteggiamento.

«Perché ti stai scusando? Non c’è nulla per cui devi chiedere scusa... anzi, dobbiamo essere noi a farlo!»

«Avevi ragione: abbiamo fatto una brutta figura... ma ora non pensiamoci più! Dai, andiamo!»

Però... però io mi sono comportato male: ho pensato male di voi, mentre in realtà eravate ancora preoccupati per me. Sono io l’idiota!

Il piccolo Aoi aveva ritrovato i suoi amici - che credeva di aver perso per sempre e che, invece, erano ancora al suo fianco - e, proprio grazie a quel Tsubasa che lo aveva sconfitto, sapeva cosa fare.

Ha ragione Tsubasa... non posso arrendermi proprio ora! Finché ci sarà un pallone con me, continuerò a giocare a calcio!

Da quel momento Shingo si era impegnato a portare avanti la sua squadra, allenandosi ancora di più del solito; a volte restava in piedi a giocare nel giardino o nei pressi della sua casa anche tutta la notte, facendo preoccupare i genitori perché non volevano che disturbasse i vicini con il suo baccano, finché non crollava stanco dove si trovava.

Ancora un altro po’... solo un po’...

Al terzo anno delle medie era riuscito a conquistare il ruolo di capitano e a portare avanti il gioco di squadra che aveva ideato insieme ai suoi coetanei. Ke, Mamoru, Takeo e anche lo stesso Tamotsu erano migliorati molto e, sebbene nemmeno al terzo anno fossero riusciti ad arrivare al campionato nazionale, come lui erano sempre più determinati a motivare la squadra e i loro kohai; inoltre il loro legame si era rafforzato molto, e ora avevano piena fiducia nelle capacità del loro nuovo capitano.

Quando Mamoru aveva deciso, di comune accordo con gli altri, di cedergli la fascia di capitano, Shingo aveva esitato a prenderla, ancora memore di ciò che era accaduto qualche mese prima; ma Mamoru aveva insistito, dicendogli che solo lui sarebbe stato in grado di portare avanti la squadra.

«Shingo, non sei come noi. A te piace troppo il calcio... e sei davvero in gamba! In questo momento solo tu puoi essere il nostro capitano. Non pensare più al passato: sei migliorato molto da allora!»

A dispetto di quelle parole, però, Shingo non aveva mai pensato di aver raggiunto il suo limite. Era diventato capitano della sua squadra, tutti lo stavano rispettando ed era diventato molto più forte di prima; eppure gli pesava ancora il fatto di non essere riuscito né ad approdare al campionato nazionale, né a farsi notare da qualcuno per entrare nella nazionale giovanile.

Shingo sapeva di poter fare di più. Doveva fare di più.

Sarebbe stato in grado di raggiungere il livello dei più bravi giocatori al mondo, se solo ci fosse stato un modo... e quel modo era arrivato nella maniera più inaspettata.

Qualche mese prima della fine delle medie, Ke aveva portato in aula un magazine di calcio che gli avevano regalato per il suo compleanno. Era interamente in lingua inglese, ma il ragazzo era entusiasta di mostrare ai suoi compagni il contenuto di quella rivista: notizie sui giocatori, loro interviste e tattiche di gioco di alcuni famosi club del mondo; tutto materiale che aveva interessato un sacco Tamotsu che, affamato di notizie sul calcio, gli aveva strappato il magazine dalle mani e lo stava contemplando come se fosse stato qualcosa di prezioso.

«Ke, ti prego: devi prestarmelo! Ci metterò un po’, ma qui ci sono notizie molto interessanti: ti prometto che te lo restituirò prima della fine dell’anno scolastico!»

Anche Shingo lo stava osservando, mentre Tamotsu stava sfogliando le pagine come un forsennato. Ad un certo punto i suoi occhi avevano notato un articolo dal titolo “Italia, tra leggenda e realtà”, e aveva subito invitato il suo amico a fermarsi per approfondire la lettura.

Con un po’ di fatica Shingo era riuscito a tradurre il contenuto di quell’articolo, che poteva riassumere con una sola frase: “L’Italia, la patria di molti calciatori fenomenali che hanno lasciato un segno nella storia del calcio.”

Il piccolo Aoi aveva chiesto a Ke se avesse potuto fare una fotocopia dell’articolo presso la biblioteca della loro scuola e, dopo averla ottenuta, aveva deciso di raccogliere quante più notizie possibili sulla squadra italiana e i suoi giocatori di punta. Ed era stato proprio in quel momento che Shingo aveva trovato la risposta a quella domanda che si era posto qualche tempo prima.

Come posso fare per diventare un bravo calciatore... come Tsubasa Ozora?

La risposta, per lui, era una sola.

Andare in Italia per continuare a giocare a calcio.

 

«Cosa vuoi come regalo di compleanno, Shingo?»

Quella domanda gli era stata rivolta da Tamotsu, mentre avevano fatto una pausa dagli allenamenti dopo la scuola. Quando erano a scuola Tamotsu si allenava insieme a Shingo e, anche se alla fine non aveva mai giocato in nessuna partita, con lui era riuscito a creare delle tattiche che avevano aiutato il suo amico a migliorare.

Quel giorno Shingo festeggiava il suo quindicesimo compleanno, e ciò stava a significare la fine di un altro anno scolastico: il gruppetto composto da Ke, Takeo, Mamoru, Tamotsu e Shingo calcolavano la durata dell’anno proprio in base al compleanno di quest’ultimo, che per tutti loro diventava una sorta di “capodanno”.

Shingo lo aveva guardato negli occhi. Alla fine Tamotsu era riuscito a restare per ben tre anni a Nakahara, ma i suoi genitori stavano già preparando le valigie per un’imminente partenza verso la prefettura di Aomori, per realizzare delle riprese fotografiche tra il parco nazionale Towada-Hachimantai e la capitale. La sua nuova città probabilmente sarebbe stata Aomori, e una volta terminate queste riprese i genitori sarebbero partiti alla volta della regione dell’Hokkaido, verso il parco nazionale Daisetsuzan. Con il grande lavoro che avrebbero avuto, Tamotsu sarebbe rimasto per un anno - e forse anche di più - lontano da Nakahara... e da tutti loro.

«Vorrei che tu restassi qui, ma è impossibile!»

E Tamotsu gli aveva sorriso amaramente. «Anch’io lo vorrei tanto... e mi dispiace che non possiamo farci niente. Mi mancherai tanto!»

«Beh, era inevitabile! Anche se tu fossi rimasto qui... io...»

Shingo aveva volontariamente troncato la frase. Non sapeva come dirlo al suo amico, confessargli che forse a breve anche lui sarebbe andato via dalla loro adorata Nakahara: se sua madre e suo padre avessero acconsentito alla sua folle richiesta, nel giro di due settimane sarebbero stati in due a lasciare il club di calcio.

Lui, e Tamotsu.

Quest’ultimo, conoscendolo bene, aveva capito che c’era dell’altro nell’ultima frase che aveva pronunciato.

«Shingo...» aveva chiesto con aria sospettosa, socchiudendo i suoi piccoli occhi. «C’è qualcosa che devo sapere? Non vorrai mica lasciare il calcio solo perché io mi trasferisco... spero.»

«No, no, no! È solo che io... ecco... quando finirò le medie...»

Proprio in quel momento Mamoru e Takeo stavano richiamando i due compagni di squadra che stavano conversando.

«Shingo, Tamotsu! Venite qui: si ricomincia!»

Shingo ne aveva così approfittato per alzarsi di colpo dalla panchina e dirigersi subito verso gli altri, lasciandosi sfuggire di bocca una frase detta così velocemente senza alcuna pausa tra una parola e un’altra.

«Partirò per l’Italia e diventerò un grande giocatore!»

Tamotsu aveva sgranato gli occhi. Di quel subbuglio di parole aveva solo capito “partirò” e “Italia”, ma nonostante ciò aveva capito cosa avesse in mente il suo amico: di recente si era fin troppo appassionato al panorama calcistico italiano, a tal punto da vederlo sempre con libri e fascicoli dall’argomento “Italia”: sul panorama, sul cibo, sulle persone e sul modo di vivere.

Tamotsu aveva spalancato la bocca, per poi urlare con sbigottimento la prima frase che gli era passata per la testa.

«Aspetta, cosa... Cosa fai tu?!»

 

 

 

«... Shingo, ci sei? Terra chiama Shingo, Terra chiama Shingo!»

Shingo sobbalzò. Quei ricordi erano improvvisamente sfumati, mostrando le pareti della bottega dove si trovava e, di fronte a lui, sua sorella che stava cercando di riportarlo alla realtà.

«Sono dieci minuti che ti dico che stiamo per chiudere il negozio; papà è uscito dal retro, perciò ti lasciamo dentro se non ti muovi!»

«Scu... scusami! Arrivo subito!»

Il ragazzo corse verso l’uscita e, quando arrivò sulla soglia della porta, si voltò verso il bancone della bottega. Quel luogo, che sapeva di un’antichità perduta nel resto del mondo ma che lì ritornava a vivere, lo stava silenziosamente invitando a rimanere ancora un po’. Un giorno lui e Yukiko avrebbero ereditato quel locale, e sarebbe stato a loro decidere se continuare l’attività di famiglia o lasciarlo per sempre: a lui piaceva molto l’idea di fare l’artigiano e poteva iniziare a lavorare accanto al suo papà come già stava facendo sua sorella, se solo l’avesse voluto.

Ma Shingo scosse la testa, mentre le sue labbra si curvarono in un commosso sorriso. Chiuse gli occhi e con un balzo si ritrovò fuori dal negozio, chiudendo con delicatezza la porta del negozio.

Mi dispiace, papà... ma ho deciso: voglio continuare a giocare a calcio.

 

 

 

«Eccoci, mamma!»

Shingo, Yukiko e Susumu erano appena entrati a casa: al rumore della porta d’ingresso che si apriva, accompagnata dall’allegro vociare dei tre familiari, Yumi aveva fatto capolino dalla cucina: con il mestolo in mano, si era sorpresa nel vederli tornare nella dimora prima del solito.

«Di già?» domandò la donna.

«Papà ha deciso di chiudere prima la bottega,» disse Yukiko, riponendo il giubbotto all’appendiabiti posto nell’ingresso. «Ha detto che per oggi si poteva fare un’eccezione, dato che è il compleanno di Shingo...»

«Caro, è vero?»

Yumi si avvicinò a suo marito, che nel frattempo si era seduto sul divano: «Caspita, che stanchezza... che stanchezza...» stava mormorando l’uomo, massaggiandosi la schiena dolorante. Non appena Yumi gli rivolse quella domanda, Susumu alzò gli occhi come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno.

«“Vero” cosa?»

«Uffa, non stavi a sentirmi?» esclamò Yumi, sedendosi accanto a lui. «Ti ho chiesto se è vero che hai chiuso la bottega prima per il compleanno di Shingo... oppure avevi voglia di fare una dormita?»

«Un po’ tutte e due le cose. Il tempo non prometteva nulla di buono, io non avevo altro lavoro da fare al laboratorio... e Yukiko ci ha messo lo zampino, dicendomi che Shingo non vedeva l’ora di darci una notizia importante.»

«Shingo deve dirci qualcosa?»

A quell’ultima affermazione, il ragazzo rizzò le orecchie: nel frattempo aveva iniziato con Yukiko a fare il gioco delle ombre cinesi con la piccola lampada da tavolo posta accanto al divano; non appena aveva udito la voce del padre che stava dicendo che lui doveva dirgli qualcosa, si era subito immobilizzato. Spostò lo sguardo verso i genitori, che lo stavano osservando incuriositi e, in un lampo, fece due più due.

«Sorellona...» mormorò, e mostrò a Yukiko uno sguardo di disappunto; incrociò le braccia e sbuffò con sarcasmo. «Grazie dell’aiuto, davvero...»

Yukiko scosse la testa con un sorriso. «Ormai ti conosco troppo bene, Shingo: sai... ho sempre dubitato che questa sera l’avresti davvero detto di tua spontanea volontà.»

«Ma se tu hai detto che dovevo vedermela io con mamma e papà...»

«Appunto. Per caso ricordi anche che ti ho detto che dovevo restare in silenzio e non darti una mano?» La ragazza gli rivolse un occhiolino, prima di appoggiare la mano sulla spalla del fratello e sussurrare: «Andrà tutto bene. In fondo... è o non è il tuo compleanno, oggi?»

Mentre Yukiko si recò in cucina per prendere un bicchiere d’acqua, Yumi e Susumu non avevano mai smesso di fissare il loro secondogenito, in attesa di ciò che egli avrebbe dovuto comunicare a loro; nel vederlo invece con lo sguardo basso, rivolto verso le punte degli indici che faceva combaciare in continuazione come se fosse stato imbarazzato, l’artigiano si alzò, ridusse le distanze con suo figlio e batté più volte la mano sulle spalle del ragazzo.

«Allora, campione? Ha ragione tua sorella: oggi è il tuo compleanno, non dovresti mostrarti così abbattuto!» sentenziò Susumu. «Dicci tutto, c’è qualcosa che non va?»

«Lo sai che per qualsiasi cosa noi saremo sempre al tuo fianco» aggiunse Yumi, che subito affiancò suo marito e afferrò le mani del secondogenito. «Perciò non avere paura, Shingo: qualunque cosa ti sia accaduta, puoi contare su di noi.»

Shingo deglutì rumorosamente. Notò un guizzo di serenità mista a preoccupazione negli occhi dei suoi genitori, e quello sguardo amorevole contribuì alla sua esitazione.

«Ecco...»

Nel vedere sua madre e suo padre sorridere per infondergli fiducia, pensò che sua sorella avesse ragione: doveva decidersi a dirlo, prima che fosse troppo tardi e non avesse più l’occasione di farlo.

«Io...»

Ma quei due sguardi lo stavano bloccando, ancora una volta: il giovane non sapeva se sarebbe riuscito a sostenerli ancora per molto prima di cedere.

«... io... io voglio...»

E Shingo lo sapeva meglio di chiunque altro. Sapeva che nessuno dei due gli avrebbe mai permesso di partire per una meta così lontana solo per diventare più bravo nel calcio, ma allo stesso tempo quel desiderio stava ardendo sempre più dentro di sé, rischiando di bruciare anche le sue stesse ossa se l’avesse trattenuto ancora per altro tempo.

Perché... perché è così difficile dirlo? Mamma... papà...

Quello sguardo dei suoi genitori, che l’avevano cresciuto con tanto affetto e che gli volevano molto bene, gli stava facendo sempre più male. Ogni secondo che passava stava diventando sempre più insopportabile, al punto che Shingo lasciò le mani della madre e crollò ginocchioni a terra, con la testa bassa.

«Figlio mio, cos’hai?»

«Non stai bene?»

Vi prego, fermatevi... non rendete tutto più difficile! - pensò il ragazzo, di fronte a suo padre e sua madre che si erano chinati su di lui per cercare di capire cosa gli fosse preso. Quanto avrebbe voluto che in quel momento al loro posto ci fosse stato Riku, due cartonati dei suoi genitori oppure anche solo un muro: in quel caso sarebbe stato più facile, molto più facile che il suo desiderio fosse emerso con la stessa forza di un fiume in piena.

Con la coda dell’occhio, Shingo notò a pochi passi da loro la punta delle calze che stava indossando Yukiko: anche sua sorella li aveva raggiunti, e probabilmente stava osservando in silenzio l’intera scena.

A quel punto il ragazzo non riuscì più a trattenere le lacrime, che stavano scorrendo finalmente libere lungo le sue guance, fino a cadere sul tatami del soggiorno. Eccetto sua nonna, tutte le persone alle quali voleva bene - e che a loro volta hanno voluto bene a lui - erano lì, in quella stanza. Shingo pensò di essere stato fortunato a nascere in quella famiglia che lui non aveva scelto: una famiglia di artigiani che gli avevano sempre insegnato i valori più semplici ma essenziali della vita come l’amore, l’onestà e il rispetto reciproco... e anche la verità, quella che lui stava facendo fatica a rivelare.

«Ascoltatemi, c’è una cosa che devo dirvi. Io...»

Nel soggiorno cadde un silenzio assordante, e tutti restarono in attesa di capire cosa stesse affliggendo l’animo di Shingo. Fu proprio in quel momento che il cuore del giovane iniziò a battere all’impazzata: di fronte a quegli sguardi così dolci e comprensivi non se la sentì più di trattenere quel suo desiderio che stava portando dentro da intere settimane.

Shingo ricacciò le lacrime e, alzando il capo, proseguì con un grande sorriso e rinnovata determinazione: «Io... io voglio partire per l’Italia. Se voglio diventare un grande calciatore, non ho altra scelta: devo andare là e impegnarmi al massimo!»

I suoi genitori spalancarono gli occhi, increduli per ciò che avevano sentito. Susumu fu il primo a prendere la parola, dopo essersi sistemato gli occhiali da vista che erano scesi sul naso. «Shingo... ti prego: dimmi che stai scherzando. Dimmelo perché mi sembra talmente assurda come idea che... o forse ho sentito male io: in effetti devo riconoscere che gli anni passano anche per me... perché è davvero assurdo che tu voglia andare in Italia solo per dare due calci ad un pallone.»

«Invece è così!» replicò suo figlio, ancora in ginocchio. «E non si tratta di “dare due calci ad un pallone”, ma di diventare un bravo calciatore!»

«Quel che è» rispose il padre, mantenendo una calma impeccabile. «Cerca di ragionare, Shingo: ti rendi conto di quanto è lontana l’Italia? Non è qui, a due passi dalla nostra casa... ma c’è un intero continente che ci separa. Secondo me puoi diventare un bravo calciatore anche se resti qui, in Giappone...»

«Se resto qui, papà?»

Shingo strinse i pugni con determinazione. Sul suo volto c’era solo uno sguardo serio: non avrebbe mai permesso che qualcuno infrangesse quel sogno che voleva raggiungere a tutti i costi. «Gioco a calcio da ben cinque anni, proprio come stai dicendo tu: restando qui... e quali sono stati i risultati? Niente di niente: non sono riuscito nemmeno a giocare un campionato nazionale fino alla fine. Con gli amici è divertente, ma io non voglio giocare a calcio solo per divertirmi, ma anche... anche per...»

... diventare un vero campione, anche a costo di lasciare il Giappone e la famiglia che tanto amo!

Il giovane smorzò la frase che stava per dire, perché sapeva che avrebbe fatto del male sia a lui che, soprattutto, a suo padre. Ciò che stava dicendo equivaleva all’abiura di quella che in teoria sarebbe dovuta essere la sua naturale vocazione: diventare un artigiano di Nakahara, seguendo le orme della sua famiglia. Ma, in realtà, col passare degli anni Shingo aveva scoperto che la sua vera vocazione era un’altra: essere un calciatore, dedicarsi appieno a questo sport, per diventare sempre più forte e un giorno portare il Giappone sulla vetta del mondo.

Per quanto a lui piacesse molto anche il mondo dell’artigianato, Shingo sapeva che non poteva ricoprire entrambi i ruoli perché erano in antitesi tra loro: in lui non potevano coesistere sia un lui artigiano che un lui calciatore. Una cosa del genere sarebbe stata impossibile per cui la sua era stata una scelta sofferta, che quasi gli spezzava il cuore ogni volta che ci pensava.

«Mi dispiace... papà...» mormorò il giovane, guardando il genitore dritto negli occhi. «Grazie per tutto quello che tu e la mamma avete fatto per me... ma ho deciso: andrò via da Nakahara, per cui... per cui mi dispiace ma non potrò più lavorare con te. Perciò, vi prego... mamma, papà: lasciatemi andare in Italia e non provate a fermarmi... perché non cambierò idea...»

«Shingo...»

Nel vedere suo figlio così determinato, ma allo stesso tempo dispiaciuto, gli occhi di Yumi si riempirono di lacrime. Si strinse al braccio del marito, sussurrando con stupore: «Figlio mio... ci tieni così tanto ad andare in Italia? A rischiare tutto, a vivere da solo... in un territorio così diverso dal nostro? Lo sai, noi... noi non possiamo accompagnarti: non abbiamo i soldi per affrontare tutti un viaggio così lungo... anzi: non possiamo pagare nemmeno il viaggio per te e la stanza in affitto che dovrai prendere...»

«Proprio così: sono pronto a tutto. Mamma, papà... io andrò in Italia, a qualunque costo!»

La risposta di Shingo tuonò per tutto il soggiorno, lasciando i presenti di stucco. I suoi genitori non sapevano bene cosa replicare a quel figlio così ostinato nell’inseguire quello che sembrava essere il suo più grande sogno, mentre Yukiko fece qualche passo in avanti verso di loro, decisa ad intervenire.

«Non dovete preoccuparvi per Shingo...» esclamò lei con serenità. «È sempre riuscito a cavarsela, anche nelle situazioni più difficile: vedrete che anche in Italia saprà come comportarsi per restarci il più a lungo possibile!»

«Yukiko...» dissero in coro i genitori.

«Shingo non è più un bambino, ormai sa quel che fa... e penso che dovreste permettergli di fare ciò che vuole. Sarà consapevole dei rischi che dovrà affrontare in un luogo così lontano... vero, caro fratellino?»

Il ragazzo guardò sua sorella con occhi pieni di gioia. Lei era stata sempre al suo fianco, anche nelle sue idee più assurde, e anche quel momento stava dimostrando che lei lo avrebbe sempre aiutato in qualsiasi situazione.

«Sorellona...» sussurrò, con la bocca spalancata per lo stupore.

«Però, Yukiko...» interruppe il padre, «Shingo non può andare in Italia.»

I due giovani Aoi esclamarono in coro: «Perché?!»

«È proprio come ha detto la mamma: non abbiamo soldi sufficienti per permettere di pagargli il viaggio di andata e le prime spese per restare in Italia. Entrambi siete molto grandi per capirlo: di certo i soldi non piovono dal cielo all’improvviso...»

Tutti abbassarono leggermente il capo, scambiandosi di tanto in tanto fugaci sguardi di tristezza. Nessuno di loro aveva la soluzione per risolvere il problema che si era creato con la folle richiesta di Shingo e, così, dopo qualche minuto Yukiko e suo fratello seguirono in silenzio la madre in cucina mentre Susumu si lasciò cadere sul divano.

«Certo che questa è una bella gatta da pelare...» disse l’artigiano, grattandosi la fronte.

 

Intanto Atsuko stava per bussare alla porta di ingresso di casa Aoi, ma si era bloccata non appena aveva udito l’inizio di quella discussione che era avvenuta tra Shingo e il resto della famiglia. L’anziana donna si era così avvicinata di soppiatto alla finestra del soggiorno e da quel punto, senza farsi notare dai presenti, era riuscita a sentire tutto.

Così Shingo vuole andare in Italia...

Quella notizia aveva sconvolto anche Atsuko, al punto che la donna si era accasciata lungo la parete dove si trovava, arrivando a sedersi sull’erba del giardino. Cercò di trattenere le lacrime sapendo molto bene che, se quel suo nipotino fosse riuscito a partire, non lo avrebbe rivisto per un bel pezzo.

Non appena riuscì a riprendersi, Atsuko si levò in piedi e tornò alla porta d’ingresso, ma anche questa volta esitò nel battere la porta con le nocche della mano.

Forse... forse non è il caso, ma...

Aveva sentito tutto: l’ostinazione di Shingo di partire alla volta dell’Italia con la speranza di diventare un grande calciatore, il forte sostegno di Yukiko pur essendo nel bel mezzo della sua decisione tra il kyūdō e l’attività di artigianato, e i tanti dubbi di Yumi e Susumu nel sostenere la scelta del loro secondogenito, a cominciare dall’ostacolo più grande rappresentato dal denaro.

Mille pensieri passarono per la mente di Atsuko che, per cercare di rimetterli a posto, diede un forte sospiro e voltò le spalle all’abitazione, iniziando ad allontanarsi sempre più da essa.

Forse è meglio così. Forse... dobbiamo lasciare liberi questi giovani di fare ciò che vogliono.

 

 

«Yukiko, controlla il forno mentre non ci sono! Accidenti: possibile che mia madre deve farmi preoccupare così tanto?»

Yumi si mise il giubbotto e si precipitò verso l’uscita della sua abitazione; corse all’impazzata per raggiungere la vicina casa dove viveva Atsuko, e bussò più volte alla porta senza nemmeno riprendere fiato.

Non udendo alcuna risposta ma vedendo le luci del piano terra ancora accese, Yumi subito prese dalla tasca una chiave con la quale riuscì ad entrare nell’abitazione: era un duplicato che sua madre le aveva affidato proprio in caso di emergenza... e quella che aveva di fronte, per la donna, era al pari di un’emergenza. Era quasi ora di cena e l’anziana non era ancora arrivata a casa degli Aoi per festeggiare il quindicesimo compleanno del suo adorato nipote: caso strano, dato che ogni anno non mancava mai l’appuntamento arrivando sempre in largo anticipo, oppure avvisando i suoi familiari in caso di ritardo.

Quella sera, invece, Atsuko non aveva fatto nulla di tutto questo, e sua figlia Yumi era sempre più preoccupata.

Speriamo che non si sia sentita male... che si sia solo appisolata da qualche parte!

Yumi chiamò più volte la madre, attraversando il soggiorno per finire nell’angolo cucina. Fu in quel luogo che l’attenzione della donna venne catturata da un foglietto di carta che si trovava sul piccolo tavolo, che subito afferrò e lesse con grande attenzione.

[Non aspettatemi per cena, arrivo presto per portare il regalo a Shingo! - Atsuko]

«Grazie mille, mamma...» mormorò Yumi, roteando gli occhi. «Se mi avessi avvisata prima... e avessi anche scritto dove sei andata, mi avresti fatto un grande favore!»

 

Pochi minuti dopo, la famiglia Aoi si era radunata di nuovo intorno al tavolo della cucina dove stavano consumando la cena. A differenza di ciò che solitamente avveniva in quell’angolo della casa, tutti erano rimasti in silenzio: Shingo e Yukiko si guardavano spesso negli occhi, mentre di tanto in tanto Yumi e Susumu provavano almeno a sorridere ma, per quanto si sforzassero, nessuno di loro riusciva a dire qualche parola che potesse rallegrare l’atmosfera che nel frattempo si era creata.

Tutti erano pensierosi, incapaci di trovare il filo di Arianna che li avrebbe portati fuori da quel labirinto che l’idea di Shingo aveva creato. Non riuscivano ancora a trovare quella che doveva essere la soluzione il più possibile ideale per tutti: la partenza di Shingo alla volta dell’Italia che non comportasse come conseguenza il tracollo economico della famiglia e, allo stesso tempo, che avrebbe permesso al ragazzo di restare il più possibile nel continente europeo.

Ad un tratto le orecchie dei presenti udirono un insistente bussare alla porta d’ingresso; Yumi si precipitò e la aprì, rivelando dall’altra parte l’allegra presenza di Atsuko.

«Era ora!» esclamò la donna. «Ma si può sapere dove sei stata, mamma? Con questo tempo nuvoloso, poi...»

«Non posso dirtelo, è un segreto!» rispose Atsuko, avvicinandosi a Shingo che salutò con un affettuoso abbraccio. «E tu, come stai?»

«Abbastanza bene, nonna!» Shingo rispose con altrettanta gioia, che però si spense subito quando il suo sguardo si posò su sua sorella, suo padre e sua madre. «Però... però ora abbiamo un problema, nonna.»

«Quale problema?» domandò l’anziana: fece finta di non saperne nulla, per vedere come le avrebbero raccontato di ciò che era accaduto qualche ora prima. Vedendo che tutti stavano esitando nel dirglielo, Atsuko pose il palmo della mano aperta in avanti come se avesse voluto intimare uno “stop”. «Aspettate, lasciatemi indovinare! Vediamo... allora... c’entra Tamotsu?»

«In parte...» rispose Shingo.

«Perché “in parte”?»

«Perché sono gli ultimi giorni di scuola, e se continua a piovere non riusciremo mai ad allenarci insieme... sai, nonna: lui sta per andare via da Nakahara, verso Aomori...»

L’anziana diede un’affettuosa pacca sulla schiena a suo nipote. «Aomori è molto, molto lontana da qui... e sei preoccupato per la vostra amicizia, non è così?»

Shingo abbassò la testa. «Ecco, un po’...»

«È normale, nipotino mio: in questi tre anni vi ho visti sempre insieme, e avete condiviso un sacco di cose... ma ricordati che la vera amicizia non svanirà nemmeno con una distanza così grande! Tamotsu ti vuole bene, no? Vedrai che non ti dimenticherà mai, anche se dovesse andare dall’altra parte del mondo!»

Il ragazzo annuì, e la guardò negli occhi. «Vedi, nonna...» disse, cercando di trattenere le lacrime, «lui non sarà l’unico ad andare via da Nakahara.»

«Ah, sì?»

«Nonna, io...»

Shingo alzò lo sguardo verso sua madre, che annuì silenziosamente come se avesse voluto sussurrargli: «Non preoccuparti, nonna Atsuko è forte: riuscirà a reggere il colpo come abbiamo fatto noi!»

Poi tornò a guardare la nonna e continuò: «Dall’altra parte del mondo... ci andrò io

Atsuko perse la presa della spalla di suo nipote, lasciandola cadere lungo il suo corpo; subito rivolse lo sguardo prima su Susumu e poi su Yumi, capendo che era arrivato quel momento.

«È così, eh... alla fine ti sei deciso a dirlo» mormorò, mentre a lenti passi raggiungeva i suoi genitori. «Lo so, lo so... ci tieni tanto ad andare in Italia, non è così? Faresti di tutto per poterci riuscire, no?»

Shingo restò sorpreso da quell’improvvisa domanda. Come stava facendo sua nonna a dirgli quelle parole senza nemmeno rimproverarlo? «No... no...» balbettò, iniziando ad agitare le sue mani e scuotendo la testa ripetutamente. «Non... non è così! Cioè... sì: voglio andare in Italia, ma...»

«Non c’è bisogno di nasconderlo, Shingo. Lo so che vuoi andare in Italia per diventare un bravo calciatore» mormorò la nonna, ancora con le spalle rivolte verso di lui. Guardò negli occhi Yumi e le disse: «Mi faresti un favore?»

Al cenno di assenso di sua figlia, Atsuko aggiunse: «Posso andare con Shingo nella sua cameretta? Ho bisogno di restare con lui per un po’... solo io e lui, capisci?»

«Va... va bene» rispose Yumi, con aria piuttosto pensierosa. «Non vedo cosa ci sia di strano... ma ti confesso che sto sospettando che tu abbia in mente qualcosa. Allora: cos’hai in mente, mamma?»

Con un dolce sorriso Atsuko prese per mano suo nipote e con lui si incamminò verso le scale che portavano al primo piano dell’abitazione; prima di mettere il piede sul primo gradino, si voltò verso sua figlia e fece un occhiolino.

«Te l’ho detto: è un segreto!»

 

Giunti nella stanza dei nipotini, Atsuko lasciò la mano di Shingo e si avvicinò alla finestra, iniziando a fissare il cielo ancora terso di nuvole; dopo un breve momento di silenzio, si voltò verso suo nipote e riprese a parlare. «Caro Shingo... lo sapevi che io ho un parente proprio in Italia?»

Shingo spalancò gli occhi per la sorpresa: non ne sapeva niente di quella storia, almeno fino a quel preciso momento. «Davvero?»

«Sì. È un mio lontano cugino: si chiama Shinnosuke, ed è italiano a tutti gli effetti. Nato e cresciuto a Milano, non si è mai voluto trasferire a Nakahara e non ho mai capito il perché... almeno fino a quando non sei arrivato tu e la tua passione per il calcio!»

«Io?»

«Sì. E ora capisco da chi hai preso, caro nipotino mio! Lo zio Shinnosuke è un grande appassionato di calcio: è stato il manager di diverse squadre, e così ha conosciuto da vicino diversi campioni di questo mondo... almeno, è così ciò che mi ripete ogni volta che parliamo al telefono. Pensa un po’: anche oggi l’ha fatto!»

A Shingo brillarono gli occhi per la felicità. Uno zio appassionato di calcio, proprio in Italia! Questo sì che è un bel colpo di fortuna! Se vuole, posso stare un po’ da lui finché non troverò una casa!

Di fronte al suo entusiasmo Atsuko si inginocchiò al suo fianco e gli rivolse un franco sorriso. «Però so molto bene che il trasferimento in Italia non è una cosa sulla quale si decide su due piedi, per cui credo che tu ci stia pensando già da un bel pezzo... perciò dimmi una cosa: perché ti sei deciso solo ora a dirci che volevi andare in Italia? Se l’avessi detto prima, sarebbero riusciti a trovare una soluzione...»

Shingo rivolse lo sguardo verso il pavimento della stanza. Conosceva benissimo il motivo, che egli stesso aveva visto con i propri occhi: di certo sua madre e suo padre gli avrebbero detto di no, sua nonna si sarebbe preoccupata ancora di più per lui... e per questo aveva sempre esitato a dirlo nonostante ci tenesse così tanto.

«È perché i tuoi genitori non sarebbero stati d’accordo, non è così? E anche perché hai pensato a me, a Yukiko... e a ciò che abbiamo potuto provare di fronte a questa tua idea?»

Il ragazzo annuì e alzò gli occhi verso la nonna, stringendo i pugni. «Però... però scusami, nonna... ma io ci tengo così tanto! Voglio andare in Italia, e ci voglio andare subito... a qualsiasi costo!»

«E dimmi una cosa: come farai senza soldi? Qualcuno dovrà pagarti il viaggio, e anche se volessi scappare di casa e riuscire a prendere un aereo come nei film, nascondendoti in qualche bagaglio... hai pensato a questa eventualità? E come farai con l’affitto? Non sai nemmeno dove abita questo zio Shinnosuke...»

«Con i soldi troverò una soluzione nei prossimi giorni... e su zio Shinnosuke ti riempirò di domande finché non mi darai tutte le informazioni che mi serviranno! Anzi, le darai a Riku!»

Shingo corse a prendere l’orsacchiotto, che si trovava in cima al cesto dove vi erano gli altri giocattoli, e simulando la sua voce disse: «Ti prego, nonna! Se non vuoi dirlo a Shingo, dillo a me: muoio dalla curiosità di sapere chi è questo zio e soprattutto dove abita perché... perché... così, ecco!»

Atsuko gli rivolse un sorriso divertito, soffocando qualche risata. Con quelle poche domande laconiche pensava che prima o poi suo nipote si sarebbe rassegnato, rinunciando al desiderio che teneva molto; invece Shingo non si era mai arreso e, anzi, perseverando sulla sua determinazione aveva iniziato anche a scherzarci su.

Sei davvero unico, nipote mio... e vedrai: la tua cocciutaggine ti premierà sempre!

«Allora dimmi un’altra cosa,» sentenziò l’anziana, e subito incrociò le braccia, «vediamo se riesci a rispondere anche a questo. Secondo te perché stasera non mi hai visto entrare in casa con un regalo enorme tra le mani?»

«Perché è ancora nel tuo laboratorio e non ce la fai a portarlo, nonna!»

«Non sottovalutarmi: guarda che ho ancora abbastanza forze per sollevare i massi di queste montagne!»

«Allora è così piccolo che ce l’hai in tasca! Anche se faccio fatica ad immaginare cos’è... ora sono molto curioso, nonna! Dai, dimmi: dov’è il mio regalo?»

Atsuko scoppiò a ridere di fronte all’affermazione di suo nipote. Gli voltò le spalle, fece qualche passo e, frugando al di sotto della felpa che stava indossando, si voltò nuovamente verso di lui e gli mostrò una busta voluminosa.

«Ta-da! Fresco fresco di giornata!» esclamò l’anziana donna. «Questo sarà il tuo regalo di compleanno, per quest’anno e forse per gli anni a seguire. All’interno c’è un biglietto solo andata per Milano, l’indirizzo di zio Shinnosuke con il suo numero di telefono e dei soldi che ti serviranno per i primi giorni di permanenza. Dopo ne parlerò anche con i tuoi genitori, ma credo che saranno d’accordo... purché non succedano casini. Mi raccomando, Shingo: se dovesse andare storta anche solo una cosa, tornerai immediatamente qui a Nakahara e non farai mai più ritorno in Italia. Siamo intesi?»

Atsuko pronunciò le ultime due frasi con un tono più severo, ma lo stava facendo con l’intento di spronare suo nipote a fare del proprio meglio in un luogo che era molto diverso da quello nel quale abitava; notò con immensa soddisfazione che Shingo stava ammirando il contenuto della busta che ora aveva tra le mani come se fosse stato rivestito di oro zecchino, senza mai perderlo di vista.

Il piccolo Aoi si lanciò verso di lei e la strinse più forte che poteva, ringraziandola tra le lacrime.

«Mi raccomando, nipotino mio: vai sempre dritto per la tua strada e non farti abbattere da nessuno...» sussurrò Atsuko, con qualche lacrima che stava iniziando a rigare anche le sue guance.

 

 

 

Dopo la cena, durante la quale Atsuko aveva svelato quel suo segreto a tutta la famiglia Aoi - seguito dal commento di Yumi che nel corso della serata più volte le aveva ripetuto che non doveva preoccuparsi così tanto per lei e per i suoi cari - il nucleo familiare si preparò per la notte. Atsuko lasciò la dimora, soddisfatta per il grande aiuto che aveva dato a suo nipote, mentre Yukiko fu la prima ad andare in bagno per cambiarsi.

Mentre era sotto la doccia, la giovane stava ripensando a tutto ciò che stava accadendo nella vita della loro famiglia, ma soprattutto della decisione di Shingo.

Mio fratello in Italia. In Italia... e così ci separeremo per tanto tempo...

Yukiko uscì dalla doccia, vestendo un largo pigiama in flanella che aveva lasciato sul piccolo lavatoio che in quel momento era chiuso e dove prima aveva riposto gli abiti da lavare il giorno dopo. L’unica cosa che portò con sé, allacciandoselo alla vita, fu il grembiule che aveva indossato per la cucina e che era ancora miracolosamente immacolato: c’era un motivo per il quale aveva deciso di indossarlo sopra il pigiama, col rischio di farsi prendere in giro da suo fratello.

Chissà se Shingo sarà tornato in camera. È passato molto tempo da quando l’ho lasciato nel soggiorno...

Yukiko uscì dal bagno e, salendo una manciata di scalini in legno, raggiunse l’unica stanza sopraelevata del primo piano. Notò che la porta era chiusa - segno per lei che qualcun altro stava occupando quella stanza - e decise di bussare.

«Posso entrare, fratellino?»

Alla voce entusiasta del fratello dall’altra parte della porta, la ragazza sospirò e si decise ad entrare.

 

Fin da piccoli Yukiko e Shingo avevano condiviso la stessa stanza. Fino al terzo anno di vita Shingo aveva dormito con i genitori; poi questi ultimi avevano deciso che il loro figlio minore dovesse iniziare ad abituarsi all’idea di un ambiente condiviso con sua sorella.

Fortunatamente per i loro genitori, Yukiko non si era lamentata per questo improvviso cambiamento, tutt’altro. Lei e Shingo erano sempre andati d’accordo: nei momenti di gioco e prima di andare a letto i due piccini si ritrovavano nel loro regno - la loro cameretta - per trascorrere del tempo insieme; nei momenti di studio, invece, fino al giorno in cui Shingo non aveva iniziato a frequentare le scuole elementari, Yukiko studiava da sola in quella stanza mentre suo fratello giocava nel piccolo soggiorno della casa o nel loro giardino.

Col tempo, gli spazi per Yukiko e Shingo erano stati divisi con armonia e cura nei dettagli, nonostante i vari oggetti fossero l’uno accanto all’altro: i letti e le due scrivanie - realizzate dal loro padre - erano state personalizzate con incisioni dai due ragazzi che, seguendo le orme di famiglia, si erano esercitati lasciando in esse delle tracce della loro proprietà. Crescendo, Shingo si era ritrovato fianco a fianco della sorella, imparando a condividere quell’ambiente con lei durante le loro ore di studio; a volte le chiedeva aiuto quando non riusciva proprio a risolvere un esercizio, e lei era sempre ben disposta a dargli una mano.

Tutto questo fino al terzo anno delle superiori di Yukiko, dopodiché la ragazza si era dedicata appieno all’attività di famiglia e al kyūdō, in attesa di prendere una decisione definitiva sulla strada da seguire: nel corso dell’anno era stata invitata a partecipare alle competizioni di kyūdō a livello agonistico, ma fino ad allora aveva rifiutato per aiutare il padre con la sua attività; ora la ragazza doveva decidere ciò che avrebbe voluto fare per il suo futuro, ma non aveva ancora le idee del tutto chiare. Se avesse avuto la possibilità, si sarebbe volentieri dedicata ad entrambe le cose, ma con gli allenamenti a Gifu e le competizioni a Tokyo lavorare nella bottega di famiglia non sarebbe stato più così semplice come prima.

Da una parte non le piaceva l’idea di lasciare suo padre da solo. “Solo” per modo di dire: era pur sempre vero che al suo fianco ci sarebbe stata anche la mamma e sua nonna, però a Yukiko piaceva molto fargli compagnia e lavorare con lui; d’altro canto, la ragazza amava molto l’arte del kyūdō, e sapeva che avrebbe fatto strada se avesse deciso di proseguire con questa disciplina.

Alla fine di quell’anno sabbatico, Yukiko si sentiva ancora smarrita e quella pazza decisione di suo fratello aveva solo contribuito a complicare le cose.

Shingo... in Italia?

Caspita! - pensava da quando l’aveva saputo, cioè da mezza giornata: stentava ancora a crederci. Anche per lei, se suo fratello avesse voluto diventare un campione di calcio, avrebbe potuto tranquillamente proseguire con il suo percorso alle superiori con la sua squadra e cercare di farsi notare da qualcuno di importante - come aveva fatto lei - per entrare nel circuito dei professionisti.

Più ci pensava, e più le veniva il mal di testa. Pensando alla grande fatica che il loro papà aveva sempre fatto per non far mai mancare a tutti loro il pane a tavola, un viaggio del genere - e senza la certezza del come sarebbe andata a finire per lui - non era affatto da prendere sottogamba. Inoltre, in questo modo suo fratello sarebbe finito lontano da tutti loro... quasi dall’altra parte del mondo!

A Yukiko non piaceva l’idea di saperlo così distante nel giro di qualche settimana, ma nel profondo del suo cuore di sorella sentiva di dovergli dire qualcosa. Era per questo che era lì, dando le spalle a quella porta che aveva sempre varcato per entrare nel suo regno, nel loro regno, per ricordargli ancora una volta quel profondo legame e unico che condividevano, un legame che né una distanza così grande né altre difficoltà sarebbero riusciti a spezzare.

Le luci della stanza erano spente e Shingo era sdraiato sul pavimento: lui aveva avuto l’accortezza di posare una coperta per non prendere troppo freddo, e lo aveva fatto per osservare il cielo illuminato dalla luce della luna attraverso quella finestra che si apriva nella parte superiore della mansarda. Era la prima volta che succedeva dopo tanto tempo: negli ultimi giorni lo aveva visto chino sulla scrivania, a consultare libri sul continente europeo, sull’Italia in particolare. Aveva pensato che fosse per qualche ricerca a scuola, e invece...

... ora capisco il perché.

Yukiko gli si avvicinò e si inginocchiò. «Posso... posso sedermi accanto a te?»

Shingo la guardò stranito prima di dare una risposta. «Come mai mi stai chiedendo il permesso, sorellina? Qui puoi fare quello che vuoi!»

«Anche accendere la luce?»

«Ti prego, no! Voglio stare ancora un po’ a guardare il cielo da qui. Non posso uscire fuori: oggi fa freddo...»

Yukiko sorrise e, prendendo un'altra coperta dall’armadio, lo stese accanto a quello del fratello e si sdraiò al suo fianco. La luce della luna stava illuminando delicatamente parte di quella mansarda, creando un’atmosfera rilassante e piacevole intorno ai due ragazzi; un’atmosfera dove si potevano dire qualunque cosa, dove nessun altro a parte loro avrebbe ascoltato i loro sussurri.

«Così hai deciso. Andrai davvero in Italia?»

«Già... e non vedo l’ora!»

«E come farai con la scuola? E gli amici?»

«Con la scuola mi arrangerò! Mentre gli amici... beh, gli amici saranno qui ad aspettarmi! Dovevi vedere Tamotsu quando oggi gliel’ho detto: si è messo a piangere e mi ha abbracciato forte! Mi ha anche detto “Stai attento, mi hanno detto che in Italia ti rubano i soldi! E se dovessi ammalarti, sarai da solo! Ti prego, telefonami tutti i giorni!” Sembrava quasi la mamma per come era preoccupato!»

«Ti credo: vai a Milano, non a Tokyo... e, conoscendo Tamotsu, anche se avessi deciso di trasferirti a Gifu ti avrebbe detto quelle parole.»

«Però alla fine era felice per me: sia lui che tutti gli altri mi hanno detto “Torna qui da vincitore!” Ed è quello che farò!»

Yukiko sorrise di fronte alla spontaneità del suo adorato fratellino. Concentrò l’attenzione sulla finestra della mansarda, e appoggiò le mani incrociate sul ventre. «Dimmi una cosa, Shingo. Sei... sei preoccupato all’idea di essere lontano da mamma e papà?»

Il breve silenzio che era sceso su di loro sembrò essere infinito, prima di poter udire la risposta del fratello, sommessa ma sincera:

«Un po’...»

E... e da me?

Yukiko stava per aggiungerlo, ma dalla sua bocca semiaperta non uscì un filo di voce.

Con un groppo in gola che si stava intensificando di secondo in secondo, a fatica la ragazza riuscì a replicargli. «Ma perché proprio l’Italia? Potevi restare qui e continuare ad allenarti come hai sempre fatto... perché stai insistendo ad andare in Italia?»

«Perché non voglio deludere nessuno. Mai più.»

Quando Yukiko si voltò verso suo fratello, nonostante la stanza fosse poco illuminata riuscì a vedere qualcosa che brillava sulla sua guancia.

Una lacrima.

«Non sono stupido: lo so benissimo. Andrò in un posto dove non sono mai stato, in una città dove parlano una lingua diversa dalla mia, e non avrò nessuno a parte zio. So che devo iniziare tutto daccapo, e non so nemmeno se alla fine riuscirò a farmi degli amici... anche se io ci spero tanto! Ed è per questo che continuerò a sorridere, come ho sempre fatto. Mi impegnerò così niente e nessuno riuscirà a strapparmi la felicità... e tornerò qui solo quando sarò un grande calciatore!»

Yukiko spalancò gli occhi, sbalordita. Stentava a crederci: davvero suo fratello aveva tutta questa grande forza di volontà nascosta dentro di sé, al punto da voler tentare una nuova strada dall’altra parte del mondo, lasciando anche i suoi affetti familiari? Per tutti quegli anni si era sempre chiesta cosa gli passasse per la testa e cosa avrebbe voluto fare nel futuro, ma mai avrebbe immaginato che suo fratello sarebbe arrivato a certe balzane decisioni.

Se lei fosse stata al suo posto, era certa che avrebbe continuato ad esitare proprio per il fatto di separarsi dalla sua famiglia, dai suoi amici e anche dalle sue abitudini di vita. Le era molto duro da affrontare già il pensiero di non poter vedere i propri cari per mesi o anche per anni interi, mangiare cibi completamente diversi e svegliarsi con un paesaggio singolare rispetto a quello al quale era abituata; figuriamoci se una cosa del genere fosse diventata reale!

Nonostante ciò, in quel momento non le passò per la testa l’idea che suo fratello fosse un pazzo. In quegli occhi neri Yukiko scorse la sua forte determinazione, il grande coraggio di affrontare quella che per chiunque sarebbe stata un’impresa quasi impossibile... per chiunque, tranne che per lui.

Yukiko si sforzò di sorridere a fatica, e gli sussurrò: «Shingo... è questo che vuoi? Ne sei proprio sicuro?»

«Sì!»

«E se non dovesse funzionare?»

«Andrà tutto bene, vedrai!»

Le labbra di Shingo si curvarono in un sorriso ampio e divertito, che illuminava tutto il suo volto. «Non preoccuparti, sorellona» concluse, prendendole la mano. «Ti prometto che se non dovessi stare bene sarai la prima a saperlo.»

Quel gesto e quel suo sorriso raggiante fece commuovere Yukiko fino alle lacrime. Le labbra della ragazza tremarono un po’ mentre lei rimase immobile a guardare suo fratello; poi si sedette e mise una mano nella tasca del suo grembiule da lavoro.

«Chiudi gli occhi, Shingo.»

«Perché?»

«Perché è il tuo compleanno. Chiudi gli occhi e esprimi un desiderio.»

Il ragazzino fece subito come gli aveva detto la sorella: chiuse gli occhi, poi iniziò a muovere la testa a destra e a sinistra mentre canticchiava una melodia. «Vorrei che mia sorella venisse con me in Italia... così mi sentirò meno solo...» sussurrò.

Nel vederlo Yukiko soffocò una risata divertita e commossa allo stesso tempo. Mi mancherà tutto questo... e mi mancherai davvero tanto, fratellino!

Prese la sua mano e, aprendo il palmo gli passò l’oggetto che nel frattempo aveva recuperato dalla tasca del suo grembiule. «Ora puoi aprire gli occhi» gli disse con dolcezza.

Subito Shingo osservò l'oggetto che si era ritrovato nella sua mano. Era un bracciale di cuoio intagliato, intessuto e dai nodi complicati, che al suo interno da un lato recava un nome: quello della sorella.

«L'hai... l'hai fatto tu?» domandò basito.

«Sì, fratellino... così puoi portarmi sempre con te, in qualsiasi luogo del mondo!»

Il ragazzo non perse più tempo: indossò il bracciale e lo ammirò entusiasta, girando più volte il polso per osservare ogni singolo particolare. Poi, con uno slancio gettò le braccia intorno al collo di Yukiko, facendo cadere entrambi a terra.

Tra le lacrime i due scoppiarono a ridere, felici che quella grande lontananza che li avrebbe separati per molto tempo non avrebbe mai distrutto il loro legame.

Sarebbero stati sempre insieme, qualsiasi cosa sarebbe accaduta da quel momento in poi.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Prima di tutto, vi chiedo scusa per la frase che Tamotsu dice a Shingo verso la fine di questa parte: non era un tentativo di mettere in evidenza uno dei classici stereotipi di alcune zone dell'Italia, che sono note (ahinoi) per il furto. In questo momento penso a Napoli, una delle città più belle della nostra nazione, che - però - salta subito all'occhio dei più per tutto ciò che di negativo accade in quel territorio... e, davvero, non è una cosa piacevole: sarebbe bello se di ciascuna zona del nostro Bel Paese si mettessero più in risalto le cose belle e positive che ci sono (il buon cibo, il panorama...) piuttosto che le cose negative come la criminalità... :'(

Ad ogni modo, sapete tutti che una delle prime cose che capitano a Shingo è l'essere truffato. Di colpo, il nostro piccolo protagonista si ritrova senza soldi in una terra straniera... però sapete come finisce, per fortuna. :) Ma su questo ci torneremo prossimamente!

Con questo capitolo siamo giunti ai suoi quindici anni: ciò significa che Shingo è in procinto di partire alla volta dell'Italia, terra dove troverà la sua fortuna - ma non senza difficoltà. Questa parte, dunque, si riallaccia all'inizio del World Youth, dove vediamo Shingo già a Milano: parliamo pur sempre di un quindicenne improvvisamente catapultato in una nazione diversa dalla sua, con abitudini e tradizioni diverse dalle sue, dove (almeno ai veri inizi) nessuno lo accetta solo perché è straniero - tranne quelle poche persone alle quali si affezionerà...

... ok, ma come è arrivato a Milano? Dal manga abbiamo pochissime informazioni su questo: uno zio (Shinnosuke) che si trova già in quella città, una motivazione che lo ha spinto in quella direzione (Tsubasa, coff coff) e la sua testardaggine che è riuscita a vincerla sui genitori che (giustamente) erano un po' titubanti all'idea di far partire il figlio da solo a circa novemila e settecento chilometri di distanza. Io penso che anche in Giappone, per quanto i ragazzi abbiano più libertà di movimento rispetto ai nostri, normalmente i genitori non lasciano che i figli vadano da soli dall'altra parte del mondo... ma potrei sbagliarmi.

Shingo è un personaggio unico anche su questo aspetto, con una famiglia altrettanto unica che, alla fine, supporta i suoi sogni. Questo era ciò che volevo far trasparire da questa parte: d'altronde se di fronte alla richiesta di Shingo i suoi genitori avrebbero reagito con un "Va bene, puoi andare" sarebbe stato piuttosto strano, non trovate? (Una reazione, tra l'altro, confermata anche nel manga, dove nel capitolo 54 vediamo i genitori che si convincono - o possiamo immaginare che si siano convinti - solo dopo l'intervento della sorella... :3)

A parte questo pensiero, come sempre vi lascio qualche nota di approfondimento:

 

- A proposito di grandi distanze... la prima riguarda Gifu-Tokyo, la seconda Gifu-Aomori. È evidente che né Yukiko né Tamotsu (rispettivamente) non potranno mai tornare a Gifu nel giro di una sola giornata; da qui i dubbi di Yukiko e il futuro "arrivederci" non solo di Shingo ma anche di Tamotsu;

- Riguardo proprio la zona dove si trasferirà la famiglia di Tamotsu, tutte le zone citate si trovano in questa mappa, mentre il parco nazionale Daisetsuzan si trova qui. Chi ha letto il manga forse avrà già intuito perché ho fatto finire Tamotsu proprio in quelle zone, soprattutto nella prefettura di Aomori che - guarda caso! - si trova ai confini di quella di Akita...

- Inoltre, sempre chi ha letto il manga avrà sicuramente intuito che tutta la parte nella quale Shingo si ricorda della partita tra la Nankatsu e la Nakahara è una libera interpretazione di ciò che accade nel capitolo 1 del World Youth. Ci sono dei paragrafi che ricalcano la canonicità degli eventi, altri che rivelano dei momenti inediti, altri ancora che sono una rielaborazione...

... e, "purtroppo", qui non ho inserito un'altra scena che avverrà qualche tempo dopo quella partita e che è altrettanto importante per il personaggio: il famoso incontro all'aeroporto con Tsubasa, prima della partenza di quest'ultimo alla volta del Brasile. Ammetto che in fase di progettazione doveva esserci anche quella; tuttavia, in fase di scrittura, mi sono lasciata coinvolgere dal flusso degli eventi che, ad un tratto, hanno riguardato i compagni di squadra di Shingo - e non solo Shingo stesso e il suo (tormentato) rapporto con il calcio;

- A proposito della squadra, vi ricordate di quando vi dicevo che Shingo era diventato il capitano al suo terzo anno di medie? Ecco, anche in questo caso vi è una parte che è una libera interpretazione del ricordo che compare nel capitolo 2 del manga (e non solo quello, anche il fatto che Shingo consultasse libri sull'Italia e si allenava fino a tarda serata, LOL);

- Un'altra libera interpretazione riguarda lo zio di Shingo, Shinnosuke. Zio del quale sappiamo ben poco tranne le informazioni che ci fornisce il già citato capitolo 1, ma che di certo non è parente della mia Atsuko... magari lo fosse, ahahah!

- Per finire, avete notato che nei primi capitoli del World Youth Shingo indossa un bracciale al polso sinistro? A differenza delle tre monete che gli regalerà Tsubasa, di quel bracciale non sappiamo nulla di nulla, così ho immaginato che si trattasse di un dono di Yukiko, visto che lo accompagna da quando arriva in Italia fino a quasi metà di quella serie... :')

 

Detto questo, vi ringrazio per essere giunti fino a qui: avrete già intuito che nella parte successiva vedremo Shingo in Italia, a tre anni dal suo arrivo. Chissà cosa starà facendo il nostro eroe... ok, in realtà già lo sappiamo per cui niente sorpresa, o quasi! :3

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

   
 
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