Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Miky_D_Senpai    27/02/2021    5 recensioni
Il diario mentale di uno studente che non ha ancora capito il mondo che lo circonda, tenendo per sé una regola che è chiara solo alla sua famiglia. Nascondendo con un velo di apatia il rispetto per un'unica persona, riempiendo i propri vuoti con una devozione cieca.
Sopra le leggi di una società che ai suoi occhi cade a pezzi, ma non abbastanza alto da poter godere di una buona visuale sul mondo che lo circonda.
Dal testo:
"Volevate la solita storia sulla scuola? Su quei college americani tutti fighetti in cui c’è sempre il “cattivo ragazzo” che sta con la timida secchiona di turno, che la persuade a passare nel lato oscuro? “Lato oscuro” che poi è semplicemente in penombra.
[...]
... l’avevo notato dalla finestra, fermo nel viale del mio appartamento, di fronte al mio citofono. Mi diverte vederlo sbiancare ogni volta che pronuncio il suo nome."
[AU contemporanea, quasi tutti i personaggi, provate a shippare e lui vi ucciderà]
[Nota dell'autore: Ringrazio chiunque sia passato o passerà a leggere. Devo ammettere che è la prima volta che finisco una long del genere su Efp quindi grazie di tutto il supporto, alla prossima!]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Avvertenza: Autolesionismo
 
«Ohi, Eren!» l’avevo notato dalla finestra, fermo nel viale del mio appartamento, di fronte al mio citofono.
Mi diverte vederlo sbiancare ogni volta che pronuncio il suo nome. È una mia piccola rivincita contro di lui, che mi fa perdere tempo con queste ripetizioni, e solletica il mio ego, insieme alla consapevolezza di essere superiore a quella testa vuota.
Lo so, è soltanto una consolazione, perché io non sono più in alto di Erwin e quindi compenso torturando gli altri, come mi ripete Hanji ogni volta.
Perché nella “scala sociale” della scuola lui occupa il secondo posto, sotto l’unica figura del preside. Essere addirittura sopra i professori gonfia il suo ego come un piccione le sue piume. Il fatto è che la sua ombra però si innalza possente come tavole di legge, così inamovibile che nessuno ha osato dubitare nell’approvare la sua quarta candidatura. Ci ha messo tutti in riga. E ha dato a noi il compito di fare lo stesso con i primini, quasi come se glielo dovessimo, prima che se ne vada.
Quindi me la prendo con quel ragazzino che sta per entrare dal cancelletto, che era già aperto tra l’altro. Me la prendo con lui, senza intaccare la sua salute o quella dei suoi amici, come invece farebbe la metà degli studenti del quinto anno. Anche qualcuno più giovane. È poco più di un gioco che il gatto fa con un topolino, ma forse non lo riuscirebbe nemmeno a capire.
È sul mio pianerottolo. Vediamo se lo capisce che la porta gliel’ho lasciata aperta per un motivo.
Mi verso il tè, mi siedo a tavola.
Si starà facendo coraggio, come al solito, come se dovesse andare in guerra. Eppure, dopo un mese dovrebbe aver capito che non lo voglio uccidere… forse.
Dopo deve venire qui Hanji, non sto a spiegare il perché, ma non voglio che ci sia ancora lui in giro per casa a fare domande idiote. So per certo che lei gli darebbe corda facendo saltare i piani di stasera. Ha mezzora, gliel’ho detto da subito, ma lui ancora fa passare questi cinque minuti a fissare il nome scritto sul campanello, è una sorta di feticismo?
E intanto il mio tè si sta freddando.
«È permesso?» Dio, quanto è stupido.
Ti ho lasciato aperto e sei comunque rimasto fuori per quattro minuti e quarantasette secondi, ora sì che voglio ucciderti. Sarei veramente felice se fosse la paura a trattenerti, ma da quello che ho potuto vedere non è quello il tuo limite.
La tua testa castana è solamente spazio sprecato.
«Muoviti»
Ne posso percepire lo scatto, la fretta e la sorpresa.
Ormai posso prevedere qualsiasi suo movimento: non mi ha visto seduto in sala dove mi metto solitamente e si è fermato proprio davanti la porta della cucina, dandomi le spalle. Potrei ucciderlo, prendendolo da dietro e farla finita, ma ho soltanto un cucchiaino e rischierebbe di sporcare troppo in giro dimenandosi.
«Pronto?»
Dal suo sguardo, quello stupido e imbambolato sguardo, ebbe inizio la tragedia.
Non osate dire che è adorabile se mentre beve il tè mi fissa, tenendo la tazza con due mani, è solo terrorizzato. Ed è anche incredibilmente lento e non si concentra sul suo quaderno di matematica, ovviamente non riesce a fare due cose alla volta. E non è ancora capace di scomporre un polinomio senza guardare gli appunti. Né di fare una semplice divisione senza calcolatrice, io lo faccio solo per i soldi.
Ti odio.
Come se non bastasse, il tempo passa più velocemente quando il tuo io interiore sta bestemmiando santi che non conoscevi e sei distratto dal capire perché la grafia dell’essere inutile davanti a te faccia così schifo. Come può capire i suoi ideogrammi lo sa solo lui.
«Cos’è quella, una “r” o una “z”?» Inutile dire che era una “a”. Come diavolo è possibile?
 
Mi alzo, ne ho fin sopra la testa e sono solo due minuti che ce l’ho davanti. Non ho assolutamente paura di lasciarlo nella sua confusione, non può nuocere più del mio gatto. Anzi, se li lasciassi soli avrei più paura per quanto si potrebbe macchiare il pelo di Swiffer.
Noto con piacere che ha sistemato le scarpe nel mobile di fianco all’entrata, non avrei sopportato di vedere un’altra volta le sue zampate sulle mattonelle. L’ultima volta gli ho insegnato a passare lo straccio per terra e quando il signor Jeager è tornato a prenderlo si è addirittura scusato con altri dieci euro. Forse non dovevo dirgli della scarpiera.
Sento un miagolio.
Tornando in cucina mi viene voglia di fare finta che non sia casa mia. Il tavolo che sfrutto per fargli ripetizioni è stato monopolizzato da quella palla di pelo bianca, del tè sta gocciolando sul pavimento, quell’assassino l’ha rovesciato mentre non c’ero. In tutto ciò, ancora più patetico è quel cretino che ha preso un paio di scottex e tenta di asciugare il danno dell’animale senza spostarlo dalla sua posizione, chiedendogli di smettere di leccarsi le zampe ormai marroncine. Lo voglio morto.
E, proprio mentre la mia pazienza aveva raggiunto il punto più basso, il citofono iniziò a suonare. Uno, due… tre, prima di affacciarmi alla finestra sapevo già fosse Hanji, spinge sempre quel pulsante tre volte, con una pausa tra la seconda e la terza.
«Ohi, Levi!» Non ho idea di quale accento usi per allungare così la “o”, ma la fa sembrare sempre più scema di quello ch-. Nemmeno il tempo di finire i miei pensieri che devo salvare il divano dai suoi stivaletti volanti. Mi rimangio il mio pensiero incompleto: è scema quanto sembra. Come può una persona sana di mente apprezzare la pulizia del pavimento tanto da togliersi le scarpe e poi tentare di assassinare i mobili?
Ovviamente non ho il tempo materiale per andare a sistemare il disastro in cucina che questo esce in sala. Uno correndo, ricordandosi di odiare la sensazione di umido sotto i polpastrelli, l’altro spero per lui che abbia pregato chi di dovere.
«È saltato sul tavolo mentre scrivevo e-» si è ammutolito da solo, fortunatamente. Sarà che vede il mio sguardo a metà tra una crisi isterica e una omicida.
Io e Hanji non abbiamo molta coordinazione e cominciamo a parlarci sopra.
«Ora tu vai a sistemare il casino sul tavolo…»
«Ehi Eren! Ti ricordi di me? Ci siamo visti all’orientamento!»
«… se non è pulito tempo che asciugo per terra…»
«C’è ancora del tè?»
«… sei morto.»
Non ci avrà capito un cazzo.
 
Ho appena finito di torturare Swiffer con l’elemento che più gli sta antipatico: l’acqua, ma dall’altra stanza continuo esclusivamente a sentire un chiacchiericcio degno di una serata tra donne.
«Chi avete di ginnastica?» Gli aveva fatto elencare tutti i professori, per dargli consigli su cosa fare e cosa evitare. Ma lui sembrava non aver memorizzato ancora i nomi di tutti e si limitava a darne delle descrizioni. Come per il prof Shadis, che aveva descritto come pelato e con lo sguardo truce.
Fare la corsa campestre con un personaggio del genere era una vera tortura. Ma come lo stava avvertendo lei «È lui che decide le sorti dei primini, chi passa con ottimi voti può puntare in alto, per gli altri non c’è molta speranza, nonostante sia solo educazione fisica!».
Lo sento scalpitare mentre mi avvicino con il mocio. Come se in questi dieci minuti non avesse fatto altro che rispondere all’interrogatorio della mora. Ma il tavolo è già asciutto, così come il pavimento, al quale un’altra pulita servirebbe.
«Quando hai finito di importunarlo, mi vuoi dire perché il gruppo è esploso?»
Il gruppo WhatsApp dei rappresentanti di classe e istituto era solitamente taciturno, soprattutto prima che le candidature fossero confermate dai professori. Ma evidentemente non mi vogliono far arrivare a novembre intero.
«Ah, sì!» Beve un sorso, giusto per creare quell’inutile suspense che potrebbe avere effetto solo sull’amichetto effemminato di Eren. E anche su di lui, che pare curioso finché non gli faccio cenno di tornare sul suo quaderno.
«Erwin se ne va»
Tu le vedi quelle parole? A me non sono ancora arrivate.
Eppure, lei continua a parlare sopra a quel pensiero, non capendo che sto ancora metabolizzando.
«Comunque siete fortunati ad avere il prof Ness per matematica, è un santo»
«Sì, beh, io non sono molto bravo in matematica»
«Ah, ma nemmeno Levi lo è, o almeno, non come media. Ma lui non ci fa caso»
«E perché ha deciso di aiutarmi con le ripetizioni?»
Ehi aspetta, cosa?!
«Come Erwin se ne va?» mi intrometto in quella conversazione, tentando di riportare la loro attenzione sull’argomento più importante. Ma lei preferisce prendersi gioco di me.
«Solo perché altrimenti sarebbe veramente a corto di soldi» lei sta ancora rispondendo a lui, seduta sullo sgabello, quindi le afferro la testa, facendola girare verso di me. I suoi occhi spensierati incontrano il mio sguardo omicida e non cambiano di una virgola. L’ho abituata troppo male.
Però noto un cambiamento in quello sguardo, una nota leggermente malinconica prende il sopravvento e d’un tratto mi torna in mente quella volta al bagno dei professori.
 
Okay, so che starete scalpitando ora, pieni di domande su cosa diavolo sia accaduto in quella mattinata fredda e poco primaverile durante il primo anno.
La secchioncella la cui testa ora pende dalla mia mano, nonostante sia molto intelligente, è solita sperimentare ogni sorta di cosa, con il suo corpo e quello degli altri. Quella volta in particolare era sul punto di togliersi la vita in nome della scienza.
La sentivo mentre si lamentava, ridendo del suo successo e piangendo per il dolore, per essersi tagliata l’interno coscia con la lama di un temperino.
Doveva dimostrare che fosse un’arma letale? Probabile.
Era depressa a quel punto? In un primo momento avevo pensato fosse così.
Si era sfiorata l’arteria femorale? Fortunatamente no, altrimenti non l’avrei mai trovata.
Fatto sta che mentre saltavo l’ora di religione, lei se la “spassava” al bagno, in una pozza di sangue.
Perché fossi entrato in quel bagno? Il bagno dei professori del primo piano, avevo scoperto, era l’unico in cui l’odore di una sigaretta scompare in cinque minuti. No, non fumo, mai fumato e, per colpa di Hanji, non fumerò mai. Assocerò sempre la prima sigaretta a quel ricordo.
Ero appena entrato, controllando il corridoio almeno tre volte, facendo quell’azione mi sarei guardato le spalle anche se fossi stato appoggiato al muro. Lei invece, ho scoperto più tardi, era entrata salutando anche la professoressa Brzenska, sfoggiando cacciavite e temperamatite come se nulla fosse.
Stavo, appunto, per accendere la sigaretta, quando la sentii. Non credo ci sarei riuscito comunque al primo tentativo, avrei fatto un tiro, anche io per la “scienza”. Dovevo valutare quanto fosse appagante l’effetto della nicotina quanto dicevano. E sì, volevo anche provare di nuovo il brivido di compiere un’azione illegale sotto il naso di tutti.
Forse, sotto sotto, speravo di riuscire a rilassarmi almeno quei dieci minuti che sarebbe durata. Ma mi sbagliavo.
In quei due minuti in cui mi ero deciso finalmente ad accenderla, lei era rimasta in silenzio. Si era dovuta rannicchiare sulla tazza e quindi non avevo avuto modo di notarla, ma quella posizione le aveva soltanto amplificato il dolore.
«Brucia!» aveva urlato qualche istante dopo, rilassando i muscoli e appoggiando i piedi a terra. Se non avessi visto quel movimento, avrei pensato che la sigaretta si stesse lamentando del calore a cui la stavo per sottoporre. Invece, abbassandomi, notai anche le piccole gocce rosse che contornavano la piccola lama, lasciata incustodita sul pavimento.
Corsi ad aprire lo sportello del bagno, dalla voce l’avevo riconosciuta subito e, nonostante non ricordassi il suo nome, ero davanti al suo corpo mezzo nudo per soccorrerla.
«Oh, ciao Levi!» mi accolse ridendo.
“Ma che cazzo ridi, squilibrata?” quella sarebbe stata la risposta giusta, ma preso dalla situazione decisi di togliermi la camicia e coprirle le gambe. Ho perso anche una camicia quella mattina, tra le altre cose.
Mi sono ritrovato a petto nudo, intento a toglierle i pantaloni, ormai solo d’intralcio e zuppi di sangue.
«Non ti preoccupare, non mi sono fatta niente» tentava di rassicurare me, ridendo e lanciando urletti ad ogni movimento.
L’aiutai a raggiungere il lavandino, tentando nel frattempo di asciugare per terra.
«Levi… mi scappa»
Stavo per vomitare.
Il pavimento era tornato pulito, lei era seduta da dieci minuti sul WC e io attendevo fuori dalla porta che ci beccassero. Non mi ero reso conto di quanto tempo fosse passato, ma sapevo perfettamente che le probabilità di essere scoperti si sarebbero impennate ogni minuto che passava.
Per farla breve, appena lei uscì dal bagno si ritrovò circondata da professori che già mi stavano cazziando. E lì, solo nel preciso istante in cui gli occhi di tutti si puntarono su di lei, sulla mia camicia umida e l’assenza dei suoi pantaloni, le vidi fare quello sguardo. Lo sguardo di un cucciolo di cane a cui hai tolto di bocca l’osso, ma che sta anche controllando dove lo vai a nascondere.
Non so come diavolo ci sia riuscita, ma quella faccia da schiaffi che si ritrova ci ha aiutato a uscire da quella situazione in tempo per la campanella.
 
Per quella storia, siamo finiti così. Lei che viene a casa mia quando le pare, lei che può seguire da vicino le vicende dei rappresentanti di istituto e che mi aiuta quando ho bisogno di essere tirato fuori da situazioni ambigue. La odio.
Swiffer, nonostante abbia rischiato di diventare una delle sue cavie, è quasi più affezionato a lei che a me. Sarà anche perché lo lavo molto frequentemente. Forse l’unica motivazione che ha per restare qui è il suo problema con il cibo e il fatto che io conosca l’unica marca di croccantini che digerisce. O perché lo tengo chiuso in questa gabbia dorata come unico prigioniero.
Mi vedo nel riflesso delle sue lenti e devo superare il mio stesso sguardo per tornare sul suo. Odio anche i suoi stupidi occhiali.
«Torna sulla Terra» I suoi capelli non sono per niente morbidi, costretti in quella coda.
«Ah già! Il prof Smith si deve trasferire» Anche Eren sembra capire la situazione, restando in silenzio.
Nonostante il suo tono serio mi faccia, talvolta, apprezzare le conversazioni con lei, stavolta non riesco proprio a farmi andare giù il fatto che lei stia ragionando mentre parla. È come se stesse cercando delle scuse, ma io voglio solo informazioni.
Sta per parlare di nuovo, ma la interrompo: «Gli hanno dato quella cattedra alla fine».
Mi guarda quasi sorpresa, come se non sapesse che parlo con Erwin anche delle cose extrascolastiche. Quella che lui chiama famiglia è una completa tortura: insanamente perfetta. Il padre che ora diventerà professore universitario, la madre che non ricordo quante lauree avesse, passata a miglior vita per uno stupido incidente.
Almeno una cosa che ci accomuna c’è, più o meno. Sarei finito a pensare che quel ragazzo fosse solo un qualche tipo di esperimento altrimenti.
Nel momento in cui la mia mente torna nella mia cucina, mi accorgo che Hanji mi sta abbracciando.
È strano.
A volte si arriva al punto in cui avere le braccia di qualcuno che ti circondano può risultare più strano che confortante. Pur sapendo che le sue intenzioni sono buone. Ti ritrovi sopraffatto da un bombardamento sensoriale che intasa il tuo sistema nervoso. Non so ancora se mi piace essere abbracciato, se mi piace sentire il profumo di un’altra persona, il suo battito cardiaco, il calore della sua pelle.
Soprattutto perché abbracciarmi davanti a lui? Così sembra che la mia ostilità nei suoi confronti sia solo una finta. Non voglio che cominci a pensare che io sia un pezzo di pane.
Sta accadendo tutto così in fretta che non posso accorgermi di quanto lei possa preoccuparsi per me.
«Eren, girati» Non credo di avergli dato il tempo materiale per eseguire l’ordine, in quel corpo poco sviluppato ci abita un bradipo.
Mentre Hanji alza per quello che può lo sguardo, la mia mano scivola tra le sue gambe. Lo sento sputacchiare per lo stupore, mentre lei si lamenta soltanto di non essere stata avvertita.
«Levi…?»
   
 
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