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Autore: Ciuscream    02/03/2021    17 recensioni
Non è così distante eppure, con terrore sordo, le sembra impossibile raggiungerlo. A dividerli, trova tonnellate di massi, speranze, corpi e morte. A dividerli, trova le ombre di una vita ignota, di cui potrebbero essere privati: i compleanni di Teddy, le notti d’amore, le sue risate deboli e le proprie così sguaiate. Trova un muro di sopracciglia aggrottate per una battuta sciocca, le carezze fra i capelli, il suo odore così accogliente da diventare il suo giaciglio.
[Seconda classificata parimerito al contest “Canon’s Revenge” indetto da lapacechenonho sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nimphadora Tonks, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Colori, dolori
 
“L’amore è una rosa, ogni petalo un’illusione, ogni spina una realtà.”
– Charles Baudelaire


 
 
Per Remus, Dora è fatta di petali.
Ognuno di loro ha un colore diverso: sono i toni dei suoi capelli che esplodono, mischiano e fondono i riflessi del suo petto frenetico, di quel susseguirsi di emozioni goffe, accavallate.
Per un uomo che ha sempre avuto timore del bianco e del nero – quello della luna, quello della notte – i colori significano salvezza, simboleggiano pace. I colori sono il riparo da qualcosa di sinistro ma instancabilmente adeso al suo cuore, incapace di lasciarlo libero, di affrancarlo da tanto male. Una maledizione che fluttua come una condanna nelle sue vene e deflagra la sua anima, macchiando la scia di opere d’arte create con una tavolozza di coraggio e con altrettante sfumature di fatica. I petali di Dora, però, sembrano impermeabili all’inchiostro scuro del suo sgomento: lei spennella incontrollata quei suoi schizzi di energia fin dove riesce a raggiungere, in circoli ampi di fronte ed intorno a lei. La vita che lei emana, scivola sul mare piatto dell’esistenza di Remus come un sasso lanciato nell’acqua e lo increspa, lo innalza, lo ravviva.
 
Per Dora, Remus è coperto di spine.
Crescono incontrollate, spesse e robuste, attorno al suo cuore arrugginito. Si sono costruite, strato dopo strato, dalle sofferenze di una vita passata a nascondersi, a temporeggiare, a sguazzare nel grigio sbiadito della paura. La paura di ferire, di venire feriti, di non meritare la vivacità delle tempere e delle pitture ad olio ma, piuttosto, la poca lucentezza dei peli ispidi di lupo, dei capelli di Dora a cui lui ha strappato la forza di irradiare colori.
Sembrano spine le tracce della sua barba non fatta da giorni, in quella nuova vita in cui si è rifugiato, in mezzo a macchie del suo stesso colore, in mezzo a compagni privi di sfumature. È fuggito da lei, è fuggito dal panorama di un’esistenza che offriva una tavolozza radiosa, per paura di poterla distruggere con il bianco ed il nero che gli sono propri, tanto invadenti da giungere a contagiare il sangue altrui, da allagarlo della sua stessa maledizione. È scappato prima di bucare le tele con le spine di cui la sua anima è costellata, così appuntite da trapassare la stoffa e la carne, da squarciare i sentimenti di Dora e farli gocciolare di dolore e di colore, fino a farlo sparire, fino a farlo evaporare. Lui vorrebbe farle vedere questo, questa è la realtà: lui è capace di fare solo del male; di togliere, mai di dare.
 
Per Remus, Dora è coperta di petali.
Ne ha la stessa consistenza la sua pelle, a cui si avvicina con premura, come impaurito che il lupo possa emergere dall’antro più nascosto del suo debole corpo e possa aggredirla, sfinirla, sfregiarla. Sfiora piano il palmo intarsiato di piccole cicatrici sulle sue guance, in una carezza morbida. Lei profuma di rosa e di illusioni, di quella sensazione che, per un vagabondo della vita, significa irrimediabilmente casa, significa cura. Quell’amore che sboccia, giorno dopo giorno, nel suo petto sfinito non ha un solo colore, adesso: per lui, ha tutte le sfumature di lei.
Remus, con terrore, si ritrova a temere la consistenza fragile dei petali.
 
Per Dora, Remus è fatto di spine.
Eppure, è lui che si fa indietro quando la sua mano tenta di sfiorarlo, impaurito di vederla ferita da quel tocco. Dora non paventa per qualche zampillo di sangue o per il bianco ed il nero: sa che sono solo luce o mancanza della stessa. Da tutta la sua breve vita ha l’occhio allenato a cogliere il buio dentro le anime più cupe, dentro i maghi più oscuri. Dentro Remus, però, lei vede solo chiarore: una fiammella assopita, tremula, camuffata sotto pesanti mantelli. Ancora accesa, però: lei ci sbuffa sopra il tanto ossigeno dei suoi polmoni, mentre i suoi capelli si fanno turchesi e lo scrutano con occhi dello stesso colore.
Dora, con amore, non ha mai temuto la cima appuntita delle spine.
 
*
 
Per Remus, Dora è uno sfavillare morbido di illusioni.
Sta vomitando quei pensieri in un angolo del Paiolo Magico, allagato e anestetizzato di Firewhisky. Ha perso il conto delle ore e dei bicchieri, accumulati sul legno in una piccola pila instabile. Instabile come si sente lui, schiacciato contro la sedia dal peso del dolore e del rammarico. Le parole di Harry sono spine e le sente nella gola che si rifiuta, ardendo, di far scendere altro liquido, di fargli emettere anche una sola, insulsa, sillaba. Non le merita, lui, le parole. Quelle con cui Dora l’ha invaso, l’ha solleticato e carezzato per quei lunghi mesi. Quelle d’amore che lei gli ha fatto scivolare addosso come petali, addolcendo il fondo del pozzo in cui si era rintanato, permettendo solo alla luna di affacciarsi e a nessuna faccia amica. Quelle che si mischiano alle risate per il suo scanzonato, goffo modo di vivere la vita, così in antitesi con l’inospitale metodo che si è sempre riservato.
È sempre stato un codardo, un fuggiasco, un animale. Non ha mai meritato di conoscere il calore dell’amore, il dolore morbido dello struggimento, la pienezza del ventre della donna che ama colmo del germoglio della loro unione. Lui riesce solo a portare dolore, a trascinare tormento: ai suoi genitori, a cui ha imposto una vita da vagabondi; a Dora, che ha costretto ad un’esistenza da reietta con il suo sconfinato egoismo, per quel suo malsano ed erroneo desiderio d’amarla, di vedersi amato. A quelle poche cellule che saranno presto suo figlio, che potrebbe aver condannato ad una vita di dolore e suppliche, di odio verso sé stesso e verso la luna, di porte divelte e schegge di spine, in cui i petali sono appannaggio di pochi, di cui loro sono privati.  
 
«Problemi di…?» Tom, il proprietario, si puntella una mano all’altezza del cuore, a fargli capire cosa intenda. Remus prima scuote il capo, poi annuisce, poi batte un colpo aperto della mano sul legno del tavolo, facendo tintinnare i bicchieri impilati come i suoi errori. Ne sta commettendo uno dietro l’altro, in una scia di dolore che segna il suo incedere con orme di abbagli.
Tom annuisce comprensivo, anche se lui non ha proferito sillaba. Sorride di quel sorriso bucato da denti mancanti, le pieghe della vecchiaia che si addolciscono sui tratti. È abituato alle pene d’amore, ne sa riconoscere i sintomi e gli strascichi. Si considera anche lui un Guaritore, nel suo particolare modo.
«A tutto c’è un rimedio» sentenzia verso l’uomo, aggrappando la pila dei bicchieri esanimi. È il suo strano tipo di assoluzione: toglie il corpo del reato e, con quello, tutto ciò che l’ha causato. «Tranne alla morte.»
Remus alza gli occhi su di lui. Si ritrova, debolmente, controvoglia, a sorridere. La fiammella che sta strizzata tra le spine e le spire del suo cuore guizza appena. Svuota il poco che ha nelle tasche per pagare; vi trova un piccolo pezzetto di pergamena accartocciata. È un appunto che Dora gli ha lasciato scritto qualche giorno prima: ne riconosce la calligrafia dal corsivo grande e un po’ sbilenco – come lei. Una morsa lo stringe in un punto imprecisato tra la gola e l’ombelico: fa più paura del plenilunio, è più scura della notte, più definitiva della morte.
Non può permettersi di essere vigliacco, questa volta. Le grida di Harry gli salgono lungo la gola e riesce a contenere a stento un conato, dovuto all’alcol, al dolore, al senso di colpa che sgretola le palizzate alzate in una vita trascorsa a difendersi dalle ingiurie del mondo, a difendere questo da lui. Non può permettere che suo figlio, sua moglie, si vergognino di lui quanto si vergogna di sé stesso. Strizza appena le palpebre a ricacciare indietro qualche goccia di sale e poi scivola fuori.
 
Per Dora, Remus ha i tratti spigolosi e crudi della realtà.
Sa che se n’è andato per non tornare, per fuggire – di nuovo! – da quel suo invadente modo d’amare, coprendosi gli occhi con quel dispiacere per sé stesso che lei detesta, la disgusta. Gliel’ha detto più volte, in quell’inciampare che è stato il loro maldestro modo di innamorarsi: lo ama abbastanza per entrambi, lo ama tanto che può donargliene un po’ da rivolgere a sé stesso. Lei non ha mai avuto paura, non ha mai tentennato: non davanti all’uomo, non davanti al lupo insonnolito dalla pozione. La paura è un sentimento confortante, alle volte; ti permette di sgusciare via senza far troppo rumore, senza dare nell’occhio, senza dover addurre scuse. Dalle responsabilità, dalle sfide ingiuste che tutta una vita ti ha posto ad ostacolo, dall’amore. Dora non ne ha mai evitata alcuna; ha sempre preso gli schiaffi dell’insonnia, del terrore, degli scontri, della nausea per una vita in grembo, senza indietreggiare di un solo, minuscolo, millimetro. Ha preso i silenzi dell’uomo cupo a cui si è donata e li ha trasformati in melodie nuove, nel rumore del ghiaccio che si scioglie e si plasma; ha preso il suo cuore coperto di spine e l’ha sgusciato, rompendosi la carne, fino a trovare i petali. Li ha sfogliati uno ad uno, per vedere se lui l’ama o non l’ama: anche se il gioco è truccato – non sono petali di margherita, i suoi – la risposta è stata sempre e solo una. Perché, allora, è andato? Perché ha lasciato, di nuovo, le sue mani vuote di quello spazio incolmabile che è la solitudine, che è l’abbandono? Vuote tanto che nemmeno stringere le dita intorno alla Gazzetta del Profeta, alla gigante foto di Harry riportata sopra, le fa sentire ingombre. Non le riempie nemmeno fare a pezzi la carta e, insieme a quella, le valanghe di menzogne a caratteri cubitali in inchiostro scuro.
Dora straccia quelle parole e straccia quelle bugie; è sfinita, è stanca, è satura delle bugie. È stanca del vuoto, dei tentativi vani, della paura. Suo figlio non nascerà in un mondo di timori e frottole, finché lei sarà al suo fianco – anche se sarà sola. Il giornale ormai è ridotto a brandelli dalla sua furia, dai suoi ormoni impazziti, dai suoi capelli che si sono fatti fiammeggianti. Le pagine sono petali sparsi per il salone, li annaffia con la cascata di lacrime che è scesa, rapida, oltre l’orlo delle sue ciglia e adesso la bagna di rabbia e solitudine. Odia la realtà, odia le spine, odia le illusioni in cui non riesce fare a meno di crogiolarsi, la fragilità dei petali che ora avverte nelle sue membra stanche. E, allo stesso tempo, non riesce a fare meno di amarle. Di amare Remus, di amare quella sua paura che lo allontana e lo avvicina a lei, senza sosta, senza posa.
Dora afferra il mantello, lo chiude attorno alla gola e fa per scomparire dal salone; prima che riesca, una mano la afferra e le stringe l’avambraccio con forza di fune, la trattiene con ansia di supplica. Gli occhi di lei e gli occhi di lui si incontrano in un punto a metà fra due sgomenti, due terrori, due ansiti premuti dentro il petto.
 
«Dora…» La voce di Remus è un sussurro flebile, una supplica soffiata a mezza voce. Lei lo fissa: sollevata, sorpresa, felice, infuriata e stanca – tutto assieme. Sono così tante le emozioni che le si affollano in gola che non riesce a fare altro, non è capace di far altro: esplode.
«Ma che ti è preso, Remus? Che ti è preso? Non puoi andare, tornare, sparire! Non puoi!»
Dora scoppia e scoppia ancora; preme pugni sul suo petto magro. Dora grida; urla improperi e li mischia di un tono opposto, di sollievo, di contentezza. Remus si prende quella scarica di rabbia – la merita. La lascia scivolare su di sé come le fiottate di lacrime dai suoi occhi. Le stringe le braccia, la tira al suo petto; lei si divincola come può, non come vorrebbe.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto.» Le sillabe sono tanto leggere da sembrare respiri, quelli ansanti e sfiniti dopo una lunga corsa. La corsa che l’ha portato lì, morso alle caviglie dai mostri di una vita intera.
«Solo questo sai dire? È così che vuoi vivere? Una vita passata a dispiacerti?» Dora rimbecca la sua furia scomposta, che strappa la paura al passato e l’impronta al futuro e le mescola. «C’è una guerra, là fuori! Una guerra contro di te, contro di me, contro quelli come noi. E tu cosa fai? Te ne vai!»
«Lo so. Lo so. Perdonami.» Glielo sussurra mentre ancora la scuote, l'attira verso di sé; la sua è una resistenza tenue, ammollata dal piacere di sentire ancora il suo odore, anche se sporcato da quello di pioggia e di whisky. Poggia la guancia contro il completo consunto e macchiato mentre i capelli, da rossi fiammeggianti, tornano verso il rosa consueto, quello che tanto le dona e mette in risalto il pozzo sconfinato delle sue iridi. Queste sono nascoste, però, dalle palpebre abbassate; tiene la pelle premuta contro il petto di Remus, a cercare la verità tattile di quella presenza, del suo ritorno. Può sentirci martellare dentro tutto il cruccio, il senso di colpa, la verità di quelle poche sillabe.
Lui la allontana il tanto che basta a prenderle il viso tra le mani, in attesa che rialzi quegli occhi variabili. Poi scivola. Scivola perché le ginocchia cedono, scivola ai suoi piedi con l’arrendevolezza che prende le sue membra e le scaraventa a terra. La abbraccia da lì, la guancia sul suo ventre, le labbra così vicine a suo figlio.
«Perdonami, Dora. Non succederà mai più. Non ti lascerò mai più.»
 
*
 
«Hai visto Remus?»
 
Per un uomo che ha sempre avuto paura del bianco e del nero – quello della luna, quello della notte – i colori significano salvezza, simboleggiano pace. Quelli che invadono Hogwarts adesso, però, trasudano paura, preannunciano morte. Sullo sfondo grigio delle pietre millenarie del Castello, i colori si scagliano con violenza bruta, ne intervallano e ne screziano lo scudo. Non c’è il verde delle spine, c’è quello degli smeraldi della clessidra di Serpeverde sparpagliati e perduti, spaccata come gli studenti della scuola, spezzata come le mura fortificate. Non c’è il rosso dei petali: c’è quello del sangue, delle vite spente, degli occhi di Percy e dei capelli di Fred. Ci sono le grida, il terrore, le esistenze che si estinguono sotto quei guizzi colorati, ci sono bacchette che volano, corpi spezzati. Ci sono le lacrime calde, le mani gelide strette intorno al legno come ad un’ancora di salvezza. Remus si dimena tra i mille colpi di frusta delle maledizioni, delle risate di scherno, delle urla di terrore, dei rombi di crolli e fatture. Hogwarts, un tempo la sua casa, sta crollando; il mondo sta crollando su di lui.
Dolohov ride della sua espressione perché tradisce ciò che c’è di più vero: la morte fa molta più paura a chi ha qualcosa, qualcuno, da perdere. È a quelle paia di occhi che pensa mentre muove la bacchetta con movimenti rapidi ma arrancanti, dietro la furia folle del Mangiamorte. Vede i prati scozzesi in cui ha corso con lei dopo quel matrimonio arrangiato in fretta; li ritrova nel verde delle maledizioni che gli fiottano addosso e che schiva sempre più a fatica. Pensa all’azzurro del cielo di quel giorno e a quello dei capelli di suo figlio, nello squarcio d’occhi che vede dietro la maschera d’argento. Vede il rosso di quel buffo abito da strega, quello con cui lei aveva dipinto le labbra e poi aveva sporcato le sue, nel sangue che gli cola da una guancia e gli insozza la camicia logora.
 
«Fiuto io la tua paura da qui, lupo. Divertente, no?» Il Mangiamorte ride ancora, di una risata così scura che sorpassa anche il baccano che hanno intorno. Le parole sono schiocchi secchi, li sente colpi di frusta sulle mani aperte di tagli e conficcate di schegge. Remus non si affatica a rispondere ma quelle sillabe gli frizzano gli occhi di una nostalgia appena nata e già lunga mille ere. Ogni paura della sua vita, ogni terrore che lo ha allontanato dalla gioia, da Dora, adesso torna sotto forma di lamento di rimpianto e lo affoga in un dolore tanto sordo da ovattargli i timpani. Ogni spina torna a bucarlo con forza bruta – sente la realtà che inghiotte ogni illusione mai pensata. Sta perdendo, sta per cedere, sta per lasciare tutto ciò che ha faticosamente costruito con lei, con loro. Pensa agli strilli di Teddy e alle risate di Dora, mentre muove la bacchetta come un direttore d’orchestra impazzito, cercando di passare sotto le difese rapide, inespugnabili di Dolohov che ancora ride, lo sbeffeggia, lo manca per quei pochi millimetri che separano la vita e la morte.
«Non… vincerete» mugugna soltanto, con fatica, mentre fa un piccolo balzo all’indietro per evitare una maledizione che gli fischia accanto all’orecchio con suono sinistro di proiettile.
«Se ne sei così sicuro…» Dolohov mormora altro, con i denti stretti di concentrazione, il corpo piegato in avanti ad indirizzare meglio ogni suo colpo. Il resto viene sorpassato da un suono molto più docile, molto più caldo, che fa tremare di ossigeno nuovo lo stoppino infiammato dentro il suo cuore. Per un secondo, la sente e, per un secondo, la vede: prima che l’eternità lo inghiotta di un nero densissimo, incrocia per l’ultima volta il suo sguardo.
 
«Hai visto Remus?»
 
Dora lascia Teddy nelle mani di Andromeda con uno sguardo veloce, fulmineo, come se incocciare ancora il rosa delle sue guance potesse farla desistere; deve fuggire, deve scappare da quell’immobilità che le ingolfa i polmoni e li riempie di spine. Non può restare ferma, non così. È anche la sua battaglia, la battaglia che conduce da tutta la vita: contro chi ha condannato a morte suo padre, contro chi vuole condannare a morte suo figlio – il frutto dell’amore tra una Mezzosangue e un Lupo mannaro.
 
È ad Hogwarts ancora prima che riesca ad avere il tempo di cambiare idea. Corre fra i corridoi, la bacchetta dritta di fronte a sé: schegge ed esplosioni la fanno tossire, abbassare, schiantare. La voce di Moody le preme sulle tempie, come se fosse accanto a lei come mille altre volte, in mille altre battaglie. Vigilanza costante, Tonks. Ma Dora non ascolta, non ascolta lui, non ascolta il mondo che le preme intorno: non è più un soldato, non si sente più un’Auror. Si sente una moglie, una madre e si odia per queste debolezze che vengono a rammollirle le gambe, ad appannarle gli occhi. Le servono, quegli occhi. Deve trovare Remus, deve scorgerlo fra i tanti corpi che si fanno la guerra, fra gli scoppi di scintille smeraldine. Le servono, quelle gambe. Deve correre fino a raggiungerlo, perché se lo sono detti: fino alla morte. Non gli permetterà di infrangere quella promessa: ha detto che non se ne sarebbe andato, che non l’avrebbe più lasciata.
Una maledizione le sfiora il braccio, si gira di scatto: prima di pensare, un fiotto rosso dalla sua bacchetta fa volare un mantello nero e il suo abitante dall’altra parte del corridoio. Non pensare a lui, Tonks. Pensa a tuo figlio. Moody parla ancora, con la sua voce remota e perentoria; Dora si domanda se sia già morta, se siano le allucinazioni del dopo. Prova ad ignorarla; cerca di scacciare quella voce con movimenti della bacchetta ancora dritta di fronte al suo viso, all’erta. Non sa quale sia la direzione intrapresa: si lascia guidare da quella domanda che ripete ad ogni angolo, ad ogni viso amico.
 
Ed in mezzo al subbuglio che preannuncia la fine del mondo, lo scorge: Remus e Dolohov si danno battaglia poco lontano. Non è così distante eppure, con terrore sordo, le sembra impossibile raggiungerlo. A dividerli, trova tonnellate di massi, speranze, corpi e morte. A dividerli, trova le ombre di una vita ignota, di cui potrebbero essere privati: i compleanni di Teddy, le notti d’amore, le sue risate deboli e le proprie così sguaiate. Trova un muro di sopracciglia aggrottate per una battuta sciocca, le carezze fra i capelli, il suo odore così accogliente da diventare il suo giaciglio.
Dora trova, a dividerli, tutto quello che ancora non hanno avuto e hanno così ardentemente immaginato. Un brivido l’attraversa: è quello di una determinazione cieca, categorica. Quello che dà il via alla bacchetta, che inizia a muoversi a passo di una danza incalzante, quella del suo terrore e del suo tormento: deve raggiungerlo. È dimentica di tutto: del suo perenne inciampare fra i suoi stessi piedi, fra le pieghe della vita; del dolore, anestetizzato da un orrore che la fa avanzare, arrancando, verso l’esistenza a cui non possono rinunciare. Gli riconosce in viso l’espressione sfinita del lupo che torna uomo, quella che ha così spesso raccolto fra le sue mani di petalo. Grida con un rantolo disperato, con la voce che il terrore non le ha succhiato via, mentre allontana smaniosa qualsiasi cosa tenti di ostacolarla.
«Remus! REMUS!» Mai nella vita lo ha sentito più lontano, nonostante li dividano una manciata di metri. Le lacrime che accompagnano quelle sillabe sono ormai secche sul suo viso; disegnano una cascata fangosa, così mischiate alla polvere che si solleva dalla battaglia. Lui non riesce a sentirla: è troppo il rimbombo e l’eco che sbatte sui muri e li assorda, li confonde. Continua a perdifiato a chiamare il suo nome e, alla fine, per un brevissimo istante, lui alza gli occhi su di lei. Si incontrano dopo quelli che a Dora paiono secoli; si incontrano un istante prima della fine, ad un millimetro dal buio.
La maledizione di Dolohov lo colpisce in pieno petto e lo fa volare molti metri indietro. Ha ancora sul viso le sopracciglia aggrottate dalla sorpresa di trovarla lì, mentre la sapeva lontana, al sicuro, salva. Dora vede la morte, la sente: la sente dentro il suo corpo a cui viene risucchiato ogni colore, rimpiazzato dalla ingombrante violenza smeraldina. Grida di una disperazione così antica che sorpassa ogni schianto, sorpassa le urla di giubilo di Dolohov e la maledizione che arriva alle sue spalle, a colpirla appena prima che riesca a voltarsi.
 
*
 
La guerra è finita, il nemico è sconfitto. Remus e Dora, adesso, sono solo due rose. Recise, sgualcite, spezzate – vicine. Gettate ai piedi di un monumento alla vittoria, sdraiate accanto nel grigio della pietra di Hogwarts: sono fatti di carne lacera e di petali, coperti da polvere e da spine. I loro corpi sono immobili, stanchi, ingrigiti; solo qualcosa si muove e colora la tasca interna della giacca dell’uomo: sono i pugnetti paffuti di un germoglio dai capelli turchesi e dal sorriso malandrino, impressi in una fotografia screziata di sangue. Hanno mantenuto la loro promessa: fino alla morte.
 
 
 
 

Nda: Come anticipato in introduzione, questa storia partecipa al contest “Canon’s Revenge” indetto da lapacechenonho sul forum di EFP. Ho scelto il pacchetto numero 12, così composto: “Prompt: L’amore è una rosa, ogni petalo un’illusione, ogni spina una realtà. (Charles Baudelaire). Genere: angst. Raiting: giallo.”
Ho deciso di parlare di Remus e Dora perché li ho sempre immaginati una coppia dicotomica, capace di combinare petali e spine, realtà ed illusioni, per arrivare a costruire un amore compiuto, completo, bello come una rosa. Ho voluto percorrere brevemente il periodo iniziale in cui si sono innamorati e poi allontanati, quello antecedente alla Battaglia della Torre di Astronomia per poi analizzare il momento in cui Remus scappa da Dora per andare da Harry e chiedergli di andare con lui nella missione per Silente; fino alla fine, nella Battaglia di Hogwarts. Nel mio headcanon, Tonks è riuscita a raggiungere Remus appena prima che questo fosse ucciso da Doholov e che venisse uccisa lei stessa.
Ho voluto giocare sulla frase del prompt per descrivere come per Remus, Dora rappresenti i petali – l’illusione di quell’amore che non crede di meritare e come, per Dora, Remus rappresenti, invece, le spine, quella realtà in cui è certa di volerlo, in cui tenta di trascinarlo con tutte le sue forze, nonostante le indubbie resistenze.
Questa storia è anche un po’ un esperimento (aiut!), quindi spero di aver ottenuto un risultato quantomeno accettabile. Molte delle informazioni sottotesto sono estrapolate dalla pagina su Remus scritta dalla Rowling per Wizarding World.
Vi ringrazio di essere arrivati fino qui!
Un abbraccio
   
 
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