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Autore: Acinorev    03/03/2021    3 recensioni
Missing moment ambientato dopo la fine di "High Hopes".
Dal testo:
"Il letto accanto a lei era vuoto e per un attimo, un solo fuggevole attimo, Emma pensò semplicemente che Harry doveva essersi già alzato per andare a lavoro come tante altre mattine. Ma le lenzuola erano ben stirate nella sua parte di materasso, fredde e solitarie: le suggerirono che quella non era una mattina normale.
Emma si alzò ed andò in salotto: lo trovò vuoto.
Harry non c’era."
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Little girl'
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27 Maggio 2018
04:15 pm
 
Alle nove Harry accompagnò Emma ad eseguire gli esami del sangue prescritti dal Dottor Jills per un controllo di routine. Per fortuna il tutto non durò molto - Emma aveva sviluppato una certa avversione per gli ambienti sanitari – e loro quasi non si rivolsero la parola: erano sospesi in una sorta di tregua precaria dai loro problemi, come se la discussione di sole poche ore prima avesse concesso loro di riprendere fiato in attesa della successiva e prolungata apnea, come se i sospiri di desiderio che avevano condiviso stessero esaurendo il loro effetto lenitivo. Un cupo presentimento era percepibile nel modo in cui si toccavano, in cui si guardavano.
Più tardi nella mattinata, Emma ricevette la visita di sua sorella Melanie e di Zayn: Harry si era dileguato poco prima con la scusa scarsamente credibile di dover andare a fare un po’ di spesa. I due si trattennero per circa un’ora tergiversando fino all’ultimo, quando furono obbligati ad uscire per andare a prendere il piccolo Christopher all’asilo nido. Con immensa gratitudine da parte di Emma, non le rivolsero molte domande, ma entrambi, a turno, si erano guardati intorno almeno una volta come per scovare la presenza di Harry. Emma non aveva detto niente a riguardo.
Harry tornò per pranzo e cucinò per entrambi, sordo all’insistenza con la quale Emma cercava di rendersi utile. Lei continuava ad evitare le piastrelle dove si era accasciata tra le braccia di Pete: non voleva guardarle, né metterci piede. Aveva il vago sentore che non fosse l’unica ad aggirare il tavolo piuttosto di non passare da lì.
Mentre Harry lavava i piatti, schivando lei mani di Emma che di tanto in tanto cercavano di rubargli una stoviglia per aiutarlo, ricevettero la telefonata di Adam Styles: il padre di Harry non aveva voluto disturbarli con visite a sorpresa, a suo dire, anche se dalla voce impaziente si era dimostrato piuttosto in difficoltà nel rispettare quella sua decisione. Il suo tono comprensivo ed affettuoso aveva intenerito Emma, che l’aveva rassicurato e ringraziato, prima di salutarlo con gli occhi lucidi.
Quando Constance la chiamò per avvisarla che lei e Ron sarebbero passati a trovarla da lì a poco, Harry si ricordò improvvisamente di aver dimenticato qualche altra vaga commissione e scomparve di nuovo. Emma era convinta che fossero due i motivi dietro le sue frettolose uscite: sicuramente desiderava lasciarle dell’intimità con la sua famiglia, ma con altrettanta certezza credeva che non si sentisse a proprio agio nel rivederli. Era persino possibile che se ne vergognasse.
I suoi genitori le portarono uno sformato magicamente avanzato per intero dal pranzo appena trascorso – straordinariamente simile al preferito di Harry, forse un discreto tentativo di mostrare vicinanza. Le promisero che Fanny sarebbe andata a trovarla il giorno dopo: Emma l’aveva sentita al telefono, più volte di quante non si fosse aspettata da una quindicenne vagamente introversa. Anche loro, come Melanie e Zayn, avevano cercato di capire se Harry fosse presente in quel momento. Fu Ron l’unico a chiedere se andasse tutto bene “in casa”: Emma aveva annuito accennando un sorriso incerto e sperando di risultare convincente, ma non si era sentita pronta a scoprire le carte e ad affrontare il discorso con loro. Come le aveva anticipato sua sorella maggiore, non le erano sembrati arrabbiati o risentiti né con lei né con Harry, ma semplicemente apprensivi.
Dopo un paio d’ore, nelle quali Constance aveva insistito per pulire l’intera casa da cima a fondo nonostante non ce ne fosse bisogno, Emma si sentiva letteralmente esausta. Un vago senso di colpa le bussò nel petto, ma non la trattenne dal porre l’accento su un’improvvisa debolezza per la quale si sentiva in dovere di riposare. Constance e Ron si dileguarono scusandosi per il disturbo e mettendosi a sua completa disposizione per qualsiasi cosa.
 
Messaggio inviato alle ore 04:15 pm
A: Harry
“I miei se ne sono andati… Puoi tornare, se vuoi”
 
Avrebbe voluto chiedergli di tornare, ma si era trattenuta dal farlo.
Nonostante avesse intenzionalmente cercato la solitudine, si scoprì debole nel goderne. A disagio.
La casa le sembrava particolarmente vuota, tanto da risultare soffocante.
Inoltre in qualche modo non riusciva a stare lontano da Harry. Non dopo quella mattina, non dopo ciò che le aveva detto. Non dopo il conforto impagabile che le aveva donato.
“Non sai cosa darei per vederti con quel bambino tra le braccia.”
Sapeva che avevano affrontato solo una parte dei problemi che li avevano divisi, ma nonostante questo era lui che cercava nella stanza quando sua sorella la osservava con compassione. Quando suo padre le stava accanto con la paura di vederla cedere da un momento all’altro. Era lui che cercava quando le mani le tremavano appena sotto la pietà che tutti gli altri le mostravano inconsapevolmente.
La ferita di Emma era ormai ulcerata, infetta. Era consapevole del tempo che avrebbe impiegato a risanarsi, del dolore e della pazienza che l’avrebbero accompagnata nel processo. Ma nulla le vietava di godere di un placebo, nulla le vietava di cercare un balsamo che avrebbe potuto alleggerire le sue pene.
Nulla le vietava Harry.
 
Harry tornò a casa poco dopo.
Non si tolse nemmeno la giacca, si diresse semplicemente verso di lei per racchiuderle il viso tra le mani e saggiarle le labbra lentamente, lasciandosi sfuggire un sospiro. Emma pensò che in quel gesto ci fosse la dimostrazione di quanto i loro bisogni fossero simili, di quanto la lontananza di quelle poche ore avesse messo a dura prova entrambi.
Harry non approfondì il bacio. Le accarezzò il collo con una mano fredda e lasciò che lei posasse il viso sul suo petto, abbracciandola. Lei stava ingenuamente cercando di sincronizzare i loro respiri, come se avesse potuto aiutarli a stare meglio, quando il suo cellulare squillò nella tasca dei suoi pantaloni. Rispose distrattamente, senza controllare il mittente, ma soprattutto senza allontanarsi da Harry. «Sì?»
«Kent, ehi!»
Harry dovette udire la voce ovattata proveniente dal suo cellulare, perché subito si irrigidì come infastidito, allentando la presa intorno al suo corpo.
Emma alzò gli occhi su di lui, non lo trattenne quando cercò di allontanarsi senza guardarla. Si schiarì la voce. «Ciao, Pete.»
«Come stai?»
Harry si andò a sedere sul divano, togliendosi le scarpe e la giaccia ed allargando entrambe le braccia sullo schienale. Il capo abbandonato all’indietro, le palpebre abbassate.
«Ehm, bene, Pete. Grazie» rispose senza convinzione. Le dispiaceva essere così distante, soprattutto con la persona che le era stata accanto nel momento più buio che potesse ricordare. Cercò qualcos’altro da dire, ma Pete la anticipò senza smorzare il tono incalzante: non l’avrebbe mai costretta in aspettative scomode.
«Io e quella rompiscatole di Nikole pensavamo di passare a trovarti, questa sera» la informò. «Le ho detto che magari non hai voglia di vedere nessuno, soprattutto lei e tutto il casino che si porta puntualmente dietro. Ma non sono riuscito a convincerla.»
Emma sorrise al pensiero dei suoi due amici.
L’ultima volta che aveva visto Pete, erano entrambi ancora in ospedale, ma lei era così confusa da non riuscire a distinguere la sua presenza con lucidità. Si erano sentiti spesso, anche contravvenendo alla ben nota repulsione per il contatto umano di Pete: Emma aveva snocciolato qualsiasi parola le venisse in mente per esprimere anche solo in parte la gratitudine che provava nei suoi confronti. Lui, d’altra parte, l’aveva trattata con accondiscendenza per evitare di sbraitarle contro che non doveva permettersi di ringraziarlo.
Con Nikole si sentiva in debito, invece. Oltre a non averle detto niente della gravidanza, era stata anche l’ultima a sapere del suo ricovero in Pronto Soccorso. Emma se ne era scusata più volte, mentre l’amica piangeva al telefono sostenendo che non era importante e che non avrebbe dovuto preoccuparsi.
Avrebbe voluto rivedere entrambi, ma non credeva che quel giorno ne sarebbe stata in grado.
L’incontro con Melanie ed i suoi genitori l’aveva stremata.
Ed Harry era ancora immobile sul loro divano.
«Pete, mi dispiace… Stasera non sarei di buona compagnia, non… Oggi a casa c’è stato un via vai non indifferente, ed ora mi sento letteralmente esausta» cercò di scusarsi, massaggiandosi la fronte con una mano. «Possiamo vederci domani, magari?»
«Certo, figurati, non c’è problema!» Pete si affrettò a dire. «Questo mi dà l’opportunità di chiamare Nikole e di dirle un grande, anzi gigantesco, soddisfacente e presuntuoso: “Te l’avevo detto!”» scherzò subito dopo, forse cercando di alleggerire la conversazione.
Emma abbozzò una breve risata. «Non darle fastidio.»
«Io? Infastidirla? Mai.»
«Bugiardo.»
Pete restò in silenzio qualche istante. «Ci sentiamo domani, allora.»
Emma annuì, cercando di aggrapparsi al tepore che quella promessa portava con sé. «A domani.»
Dopo aver posato il telefono sul tavolo, si avvicinò al divano e si sedette accanto ad Harry. Avvertì la tentazione di abbandonarsi contro il suo corpo, che sembrava invitarla a farlo, ma si trattenne.  «Harry?» Lo chiamò a bassa voce, quasi a non volerlo disturbare. Il cipiglio sulla sua fronte le suggeriva che si stava addentrando in pensieri rischiosi.
Lui si inumidì le labbra, sospirò. Si chinò in avanti per appoggiare i gomiti sulle ginocchia, passandosi le mani tra i capelli.
Emma non sapeva se toccarlo.
Dopo qualche secondo Harry si voltò a guardarla, appoggiando uno zigomo sul suo pugno chiuso. La osservò con calma, senza lasciarsi sfuggire nessun dettaglio di un volto che conosceva già a memoria. Schiuse le labbra come a voler parlare, ma non disse niente.
Lei corrugò le sopracciglia, confusa.
Harry raddrizzò di nuovo la schiena, sospirò di nuovo, sfregando brevemente le mani sulle proprie cosce. Sembrava che il suo corpo non riuscisse a trovare pace, così come probabilmente la sua mente.
Emma si mosse di conseguenza, senza sapere se allontanarsi o avvicinarsi.
«Pete ha ragione» esordì Harry in poco più di un sussurro. Gli occhi fissi sulle sue mani.
Lei si ritrovò a risparmiare respiri, come se investita dal presagio che presto ne avrebbe avuto più bisogno. La telefonata di Pete doveva aver innescato qualcosa nella sua mente, qualcosa che l’aveva portato ad isolarsi e a riflettere: ne era un chiaro segnale il fatto che Harry si fosse teso al solo udire la sua voce, che si fosse allontanato come per allontanare anche l’idea del legame tra Pete ed Emma. In fondo era stato proprio Pete ad anticipargli quali fossero le sue colpe: forse in un luogo inadatto, forse in modo inappropriato, forse toccando il suo orgoglio prima ancora che i suoi sensi di colpa. Emma sapeva di dover annoverare quell’episodio tra i pensieri rabbuiati di Harry.
Lui si voltò e cercò i suoi occhi, serrando i pugni. «Avrei dovuto esserci io con te, l’altro giorno.»
Emma era incapace di rispondere. Distolse lo sguardo.
Lui allungò una mano e con l’indice le sollevò il mento come per invitarla a guardarlo. «Avrei dovuto essere lì con te» ripeté, come per impedirle di fuggire da quella verità. «Scusa, Emma» aggiunse lentamente.
Era la prima volta che pronunciava quella parola da quando lo conosceva. Aveva sempre dimostrato pentimento, quando necessario, aveva sempre trovato un modo per farsi perdonare e per apparire sincero, ma non aveva mai chiesto esplicitamente scusa. Emma si rammaricò del fatto che avesse scelto quell’occasione per farlo, che l’avesse fatto quando lei non avrebbe potuto gioirne internamente, quando uno “scusa” non avrebbe potuto risolvere niente.
Emma si ritrasse, interrompendo il leggero contatto con il quale lui aveva cercato di tenerla legata a sé.
Il discorso si era orientato verso qualcosa di difficile, tanto da sembrare insormontabile: qualcosa che aveva aleggiato su di loro fino a quel momento, minacciandoli dall’alto e privandoli di una via di fuga. Ebbe l’impressione di aver varcato un confine senza possibilità di ritorno, che il limbo dietro al quale si era barricata si stesse sgretolando, non lasciandole più alcuna scelta. Harry aveva pronunciato quelle parole forse nella speranza, o addirittura nella convinzione che li avrebbero aiutati. Ma non sapeva di sbagliarsi terribilmente.
Aveva appena sancito il termine della tregua.
Emma avvertì l’ormai familiare e fastidiosa sensazione delle lacrime che si accalcavano dietro ai suoi occhi. Cercò di spingerle indietro, di non lasciarle trasparire.
Era stato infinitamente doloroso arrivare alla conclusione di aver commesso entrambi un errore simile, quando avevano discusso quella mattina. Riconoscere di aver ceduto alla paura e di aver parlato istintivamente, senza progettare quello che avrebbe rappresentato una ferita per l’altra persona. Capire di essersi fraintesi. Era stato doloroso, certo, ma era stato anche relativamente semplice.
A questo punto, però, non c’era più nulla di semplice.
Emma aveva sepolto molto in fondo dentro se stessa il viscerale rancore che provava nei confronti di Harry per averla lasciata sola. Il risentimento per l’abbandono che le aveva inflitto per orgoglio. L’aveva nascosto sotto l’ingombrante sofferenza per il bambino mai conosciuto e sotto il terrore che Harry avrebbe potuto non volerlo, sotto l’ustione provocata dalle parole di Harry e sotto il senso di colpa per le proprie. Aveva cercato di respingerlo il più possibile, perché consapevole del pericolo che celava in sé e della difficoltà che avrebbe comportato estinguerlo.
Non si trattava più di un comportamento spontaneo e dettato dalla paura. Non era qualcosa pronunciato d’istinto e senza pensare. Era la chiara conseguenza di una scelta ben studiata, di una distanza ben calcolata che, per quanto ingenua, aveva causato qualcosa di così grave da somigliare ad un tradimento.
Emma poteva perdonare più facilmente uno scatto d’ira o una difesa improvvisa, ma non sapeva come affrontare un’intenzione elaborata consapevolmente.
Harry sembrava non volerle dare il tempo di ragionare.
«Il pensiero di come devi esserti sentita…»
Lei serrò la mascella, continuando a non guardarlo. Era impegnata con tutte le sue forze a restare distaccata dalle sue parole, a non lasciare che innescassero ricordi ancora troppo vicini.
Harry si passò di nuovo le mani tra i capelli, forse sperando di allentare la tensione. «Quando ho saputo che hai chiesto di me prima di… Cristo, Emma…»
Emma chiuse gli occhi, una lacrima sfuggì al suo controllo. Solo una.
Non voleva pensare. Non voleva ammettere, ricordarsi che quello era davvero accaduto.
«E quando sono tornato a casa, c’era il tuo sangue sul pavimento» Harry abbassò la voce nel pronunciare quelle poche sillabe. Emma singhiozzò sommessamente, incapace di trattenersi. Ripensò al pungente odore di candeggina che ancora si poteva percepire. «Il tuo sangue… Come una cazzo di punizione.»
Emma arpionò lo schienale del divano con una mano. Forse per reggersi, forse per impedirsi di colpire Harry.
«Mi dispiace» continuò lui. «Avrei dovuto esserci» ripeté ancora. Il tono roco incrinato dal rimorso.
«Ma non c’eri» gli ricordò Emma lentamente, finalmente voltandosi a guardarlo.
Harry dovette percepire qualcosa di gelido nei suoi occhi, perché sembrò risentirne.
«Hai scelto di non esserci.»
Restarono in silenzio per qualche secondo.
«E proprio tu parli di punizioni?» Gli chiese con un falso stupore nella voce. Parlava piano, stava cercando di misurare tutto ciò che poteva controllare: era convinta che un solo tassello fuori posto avrebbe potuto scatenare il caos che imperturbava nel suo petto. «Non era forse per punirmi che sei sparito per giorni? Che mi hai evitato?»
Harry la guardava esterrefatto, i suoi respiri avevano iniziato ad accelerare. «Se avessi saputo-»
Emma lo interruppe alzandosi di scatto dal divano e lasciandosi sfuggire un verso carico di frustrazione. Avrebbe voluto continuare a mantenere la calma, ma si ritrovò ad urlare. «Non funziona così! Non funziona così, cazzo!» Sbottò, voltandogli per un attimo le spalle con le mani sulle tempie. Quando riportò gli occhi su di lui, cercò di trasmettergli qualcosa che non era sicura sarebbe riuscita ad esprimere a parole. «Non puoi pentirti dei tuoi comportamenti quando il danno è fatto! Non puoi startene qui a dirmi quanto tu ti sia sentito una merda mentre io passavo il momento più brutto della mia vita senza di te! È solo colpa tua se è successo!»
Harry si era alzato, allungando istintivamente una mano verso di lei ma ritraendola subito. 
«Ti ha sconvolto il fatto che io abbia chiamato il tuo nome prima di svenire? Mentre pensavo di perdere il nostro bambino? Mentre sanguinavo sul nostro pavimento?» Emma non riusciva a fermarsi, aveva di nuovo la vista appannata dalle lacrime. Le bruciava la gola per le urla. «Ti dirò di più, Harry. Io non ti ho chiamato, io ho pregato Pete di portarti da me! E- non mi toccare, cazzo!» Gridò, quando lui provò di nuovo ad avvicinarsi, ammutolito. «Non mi toccare» ripeté freddamente.
«Tu eri la persona di cui avevo più bisogno» riprese, stavolta abbassando la voce tremante. «Nonostante non ci parlassimo da giorni, mentre perdevo il bambino che ero convinta tu non volessi, eri comunque la persona che volevo al mio fianco.»
Harry fece un passo indietro.
«Invece tu… Tu eri troppo impegnato ad evitarmi, a non rispondere alle mie chiamate, a non rispondere nemmeno ad un misero messaggio, a scappare della stanza se per caso mi azzardavo ad essere presente. Non mi hai mai chiesto come stessi. Se fossero iniziate le nausee. Se andasse tutto bene. Mai. Non te ne è fregato un cazzo, non in confronto al tuo ego ferito!»
Emma non aveva mai visto Harry non trovare le parole per replicare, ma non ne traeva alcuna soddisfazione. Era solo il sintomo della crepa nel loro rapporto.
«A cosa ti ha portato tutto questo?» Continuò, senza aspettarsi una risposta. Serrò i pugni. «Io voglio essere più importante del tuo orgoglio. Voglio poter sbagliare sapendo che non te ne andrai per giorni. Voglio sentirmi in grado di affrontare qualsiasi cosa sapendo che tu sarai al mio fianco. Che non mi lascerai sola». Puntò gli occhi nei suoi, vuoti perché sconfitti. «Non voglio più sentirmi così sola.»
Harry era immobile, inerte.
Emma sapeva, dall’espressione del suo viso, che non avrebbe replicato. In fondo sperava che non lo facesse, perché non credeva che le sue gambe l’avrebbero sostenuta ancora per molto.
Si voltò e si allontanò, dirigendosi verso il bagno.
 
Si diede un’ultima occhiata allo specchio.
Credeva di poter scorgere un’ombra scura nei propri occhi, impregnata dell’orrore che l’aveva pervasa quando durante la doccia aveva notato altro sangue scivolarle lungo la coscia. Le perdite si stavano facendo più rare ed erano sempre meno abbondanti, ma erano dettagli che non riuscivano a consolare Emma. Ogni volta che scorgeva quel rosso intenso, il suo stomaco si serrava in una morsa di ribrezzo.
Le guance avevano riacquistato un colorito roseo grazie al vapore umido che aleggiava nella piccola stanza. Emma evitò di pensare che fosse anche dovuto al pianto silenzioso che si era concessa sotto il getto caldo della doccia: forse se le lacrime si fossero confuse con l’acqua, avrebbe potuto far finta che non esistessero.
Si sentiva frastornata, instabile.
Aveva bisogno di dormire e di svegliarsi solo il giorno dopo.
Si avvolse i capelli nell’asciugamano e si legò in vita l’accappatoio. Afferrò la maniglia della porta, ma non la abbassò: si concesse pochi secondi per raccogliere qualche straccio di energia, prima di decidersi ad uscire.
Harry era seduto contro la parete accanto alla porta, con un ginocchio piegato ed un braccio a riposarci sopra: la stava aspettando. Emma sobbalzò nello scorgerlo all’angolo del suo campo visivo. Era decisa ad ignorarlo, ma lui glielo impedì.
«Dovresti iniziare a pensare che quello è stato anche il momento più brutto della mia vita» disse lentamente, impedendole di fare un altro passo. Non la guardava. «E che probabilmente non mi perdonerò mai di non averlo affrontato con te.»
“Non sai cosa darei per vederti con quel bambino tra le braccia.”
«Mi chiedo se tu riuscirai mai a perdonarmi.»
Emma esitò, ma non gli rispose. Non avrebbe saputo cosa dire.
Si chiedeva la stessa cosa.
Lo superò e si diresse in camera da letto.
Non cenò quella sera. Si addormentò presto in un letto vuoto.
Quando si svegliò nel mezzo della notte, Harry non era accanto a lei, ma per la prima volta da giorni non credeva la stesse allontanando orgogliosamente. Sembrava le volesse concedere spazio.
 
 
28 Maggio 2018
09:24 am
 
Uscì dalla camera da letto e trovò Harry intento a preparare del thè. Emma si avvolse intorno alle spalle una piccola coperta di cotone che avrebbe dovuto proteggerla dalle temperature in ribasso di quella mattina piovosa. Le ciabatte provocarono un flebile fruscio sul pavimento mentre camminava, Harry si voltò a guardarla ed increspò le labbra in una linea bizzarra, un impacciato segno di riconoscimento.
Emma si mordicchiò l’interno di una guancia, in silenzio.
Non aveva fame, per cui si limitò a sedersi al tavolo sbadigliando, ancora assonnata. Harry afferrò la tazza di thè fumante e si appoggiò al bancone della cucina, soffiando piano sul liquido scuro e sorseggiandolo lentamente.
Non era facile decidere come comportarsi, destreggiarsi tra la quotidianità di quella semplice scena e la straordinarietà del punto in cui si trovava la loro storia. Era come vivere una realtà incompleta, dove Emma faceva compagnia ad Harry durante la colazione consumata in cucina, ma senza poterlo toccare. Senza volerlo toccare.
«Posso venire con te?»
La domanda di Harry la colse di sorpresa e carpì la sua attenzione: si era quasi dimenticata dell’appuntamento dal Dottor Jills previsto per quella mattina, o forse aveva inconsapevolmente represso quel pensiero in un angolo della sua mente.
Non era da Harry chiedere il permesso di fare qualcosa, soprattutto non con quell’innocenza ad accarezzargli la voce. Di solito si mostrava piuttosto egocentrico nelle sue decisioni e, se anche fingeva di chiedere un parere, finiva per ignorarlo genuinamente a seconda dei propri interessi. Emma era stranita da quel suo lato quasi premuroso, ma non lo guardava con sospetto: ne era anzi rassicurata.
Non era poi così cieca da non accorgersi dei gesti nei suoi confronti. Solo la sera prima, Emma gli aveva intimato di non toccarla, gli aveva rinfacciato mancanze incolmabili e aveva evitato di rispondere ad una insinuazione pessimistica riguardo il loro futuro. Gli aveva vomitato addosso un carico emotivo non trascurabile, che l’aveva persino reso inerme ed incapace di rispondere. Era quasi normale che di conseguenza Harry le chiedesse di accompagnarla all’appuntamento, come per sapere se poteva ancora vantare quel diritto.
Ma per quanto fosse normale, era anche superfluo.
Emma sarebbe stata la più grande ipocrita della storia, se avesse davvero pensato di escluderlo. Gli aveva detto di non voler mai più sentire una solitudine così straziante e lo credeva davvero. Non voleva essere sola nemmeno nello studio del Dottor Jills. Anzi, non si trattava nemmeno di un concetto così egoista come il semplice rimanere soli: Emma più che altro non voleva affrontare più nulla senza di lui.
«Certo» gli rispose, stringendosi nelle spalle.
 
L’ultima volta che era stata in quella piccola sala d’attesa, Pete, seduto nervosamente al suo fianco, sospirava regolarmente e frequentemente, agitandosi sulla sedia in legno ogni volta che posava accidentalmente lo sguardo su una delle riviste illustrative ginecologiche o sulle caviglie gonfie di una delle donne incinte lì presenti. Intanto Emma cercava di non scattare in piedi ogni volta che la segretaria passava davanti alla porta, troppo impaziente ed entusiasta nell’attesa che qualcuno chiamasse il suo nome.
In quel momento, invece, era tutto completamente diverso. Il contrasto era quasi soffocante.
Harry le era seduto accanto, ma, a differenza di Pete, sembrava non essere affatto turbato da ciò che lo circondava. Non perché fosse tranquillo, ma perché provava completo disinteresse per qualsiasi cosa al di fuori di loro: era concentrato su altro e niente poteva reggere il confronto. Emma poteva scorgere la sua orgogliosa determinazione nel verde dei suoi occhi, nelle dita nervose.
Emma cercava di attingere parte della sua compostezza, ma non per combattere una snervante agitazione: al contrario, per imporsi una forma e per evitare di appiattirsi sulla sedia in preda alla completa apatia. Era svuotata di qualsiasi emozione l’avesse accompagnata durante la visita precedente. L’unica ombra che di tanto in tanto la minacciava, era la nausea al pensiero di ciò che la aspettava.
Sperò che l’orario dell’appuntamento slittasse per un improvviso ritardo nella tabella di marcia, ma il destino sembrò farsi beffa dei suoi desideri: la segretaria chiamò il suo nome alle undici in punto, proprio come da programma. Emma sbarrò gli occhi e trattenne il respiro.
Harry si era già alzato, muovendo i primi passi in direzione dello studio medico. Quando si accorse che era l’unico ad aver reagito, si voltò ed osservò Emma per qualche istante. Tornò indietro e le afferrò delicatamente una mano, che lei stava serrando intorno alla giacca piegata sulle sue ginocchia: in qualche modo le chiese di nuovo il permesso, non a parole, ma tramite la cautela con la quale l’aveva toccata. Quando lei non lo respinse, la aiutò ad alzarsi. «Andiamo?» Le domandò a bassa voce.
Emma annuì, lui le lasciò la mano lentamente: sembrava non voler approfittare delle tregue che lei gli concedeva. Emma d’altra parte sentì la necessità di mostrarsi più generosa: si chiese se per compiacere i bisogni di Harry o i propri.
«Ah, signorina Clarke! Ben arrivata!» La salutò il Dottor Jills, di nuovo seduto dietro la sua scrivania: il tono garbato era impregnato di qualcosa di molto simile alla compassione, era più composto, trattenuto.
Emma sollevò l’angolo della bocca nell’orribile copia di un sorriso. «Buongiorno» lo salutò, entrando nello studio seguita da Harry.
Il Dottor Jills spostò l’attenzione su di lui, con una patina di stupore sul viso: magari si era aspettato di rivedere Pete. Emma si affrettò a presentarlo: «Lui è Harry» esclamò. Forse avrebbe dovuto aggiungere qualcos’altro, ma dentro di sé quel semplice nome racchiudeva mille significati: a volte si stupiva di come fosse necessario descriverli agli altri, di come potessero non essere così evidenti.
Il ginecologo annuì, facendole cenno di accomodarsi. Si soffermò brevemente su come Harry la stesse accompagnando con una mano al centro della sua schiena, come per guidarla o anche solo per farsi sentire alle sue spalle. «Certo, capisco» commentò, osservandoli con attenzione.
Harry ed Emma si sedettero davanti alla scrivania.
Il Dottor Jills non le diede tempo di ambientarsi, né di prepararsi. «Vorrei dirvi subito quanto io sia rammaricato per la vostra perdita» esordì, utilizzando la stessa voce con la quale il medico del Pronto Soccorso aveva comunicato ad Emma dell’aborto in atto. Lei serrò la mascella, improvvisamente le mancava il fiato.
Né lei né Harry risposero.
Il Dottor Jills sembrò non aspettarsi che lo facessero. Rovistò lentamente tra le cartelle davanti a lui, ne recuperò una ed iniziò a leggerla. Con gli occhi ancora fissi su quei fogli di carta, domandò: «Per caso ha portato con sé il referto dell’ecografia che avevamo fatto durante la scorsa visita?»
Un movimento impercettibile al suo fianco attirò l’attenzione di Emma: all’improvviso le sovvenne che Harry non sapeva praticamente nulla di quella visita, né del fatto che si fosse già sottoposta ad una ecografia, nonostante non fosse nemmeno visibile l’embrione. Emma aveva nascosto le fotografie con l’intento di fargliele vedere quando gli avesse detto della gravidanza, ma le cose non erano andate esattamente come previsto: da allora non le aveva più toccate.
Si schiarì la voce e sporse al ginecologo la cartellina con tutta la sua documentazione. «Sì» affermò. «C’è anche il referto del Pronto Soccorso». Era grata di non dover nuovamente ripercorrere a parole l’intera vicenda, che fosse tutto scritto nero su bianco: aveva già dovuto farlo al telefono, quando l’aveva chiamato per informarlo dell’accaduto e per prenotare l’appuntamento, ma fortunatamente il ginecologo aveva mostrato comprensione e non l’aveva obbligata a scendere in dettagli dolorosi, limitandosi a domande indispensabili e dirette.
Il Dottor Jills annuì soddisfatto e prese a sfogliare i vari referti. Emma riconobbe subito quello dell’ospedale: era stropicciato, portava i segni di quando l’aveva stretto incontrollabilmente tra le mani come a volerlo minacciare o pregare di cambiare versione.
Lanciò una veloce occhiata ad Harry: notò che si era lievemente sporto in avanti, forse nel cauto tentativo di scorgere l’ecografia che aveva attirato la sua attenzione. Dovette percepire lo sguardo di Emma su di sé, perché dopo pochi istanti lo incrociò con un velo di domande senza risposte.
Entrambi si riscossero solo quando il Dottor Jills riprese la parola. «Nonostante l’evento assolutamente doloroso, è stata fortunata ad aver espulso quasi completamente… da quanto emerge dal referto… sì, di aver espulso praticamente del tutto la camera gestazionale.»
Emma non credeva che la parola “fortuna” avrebbe mai potuto essere accostata a ciò che era successo.
«Quando la gravidanza è alle prime settimane, è molto più facile che il materiale venga eliminato spontaneamente tramite il canale vaginale. Nel suo caso è possibile che sia avvenuto nel corso dell’emorragia, e forse senza nemmeno che lei se ne accorgesse.»
Emma corrugò la fronte. «No, io… Non…»
Nei suoi ricordi e nei suoi incubi vedeva solo sangue vivo. E forse se proprio doveva esserci qualcosa di fortunato, era proprio quel dettaglio: non sapeva come avrebbe reagito nello scorgere qualcosa tra le sue perdite ematiche.
Il Dottor Jills riprese subito dopo. «Ovviamente oggi faremo un’altra ecografia per accertarci che non ci siano effettivamente residui e che non sia necessario intervenire farmacologicamente per completare la pulizia dell’utero.»
Ad Emma venne di nuovo la nausea.
«Ha avuto ulteriori perdite in questi giorni?»
Lei annuì.
«Ha notato qualche cambiamento nella frequenza o…?»
«Sono meno frequenti» rispose a fatica. Prese a stringersi le mani l’una con l’altra. «E meno abbondanti.»
Il Dottor Jills soppesò le sue parole. «Bene. Con il passare dei giorni diverranno sempre più rade, ma ovviamente se così non fosse non esiti a contattarmi. Ha avuto altri disturbi?»
Emma scosse la testa. Lo osservò recuperare altri fogli dalla sua scrivania e leggerli tra sé e sé.
«L’emoglobina è stabile. I valori delle beta-HCG sono in discesa, compatibilmente con l’aborto avvenuto ed il numero di giorni trascorsi. Ci vorrà ancora un po’ affinché si azzerino, ma avremo modo di ricontrollarle alla prossima visita.»
I valori delle beta-HCG erano consistenti con la presunta data del concepimento. «Lei è incinta di circa quattro settimane, signorina Clarke» decretò il ginecologo, con un largo sorriso sul volto.
Emma inspirò a fondo, cercando di fuggire dalla sua stessa mente. Sentì Harry guardarla, ma non era in grado di accertarsene.
Si distaccò dalla realtà come tante altre volte era successo negli ultimi giorni: si assentò quasi del tutto, restando collegata alla realtà tramite un flebile filo di coscienza. Partecipava alla conversazione e rispondeva alle domande del Dottor Jills, lo ascoltava spiegarle ciò che avrebbe potuto sperimentare da lì in avanti come conseguenza dell’aborto, suggerirle alcuni accorgimenti che sarebbe stato saggio assumere, consigliarle di evitare rapporti intimi completi almeno fino al termine delle perdite ematiche. Eppure non registrava tutte le informazioni consapevolmente.
La bolla ovattata nella quale si era barricata scoppiò qualche minuto più tardi, quando il filo di coscienza che la ancorava a quello studio venne strattonato vigorosamente dalla voce di Harry. «Perché è successo?» Domandò soltanto.
Emma si voltò a guardarlo, stupita dal suo intervento ed altrettanto dai suoi occhi concentrati, attenti. Melanie le aveva detto di aver tenuto aggiornato Harry sulle notizie mediche, durante il suo ricovero in ospedale: era sicura gli avesse anche detto che era impossibile stabilire le cause dell’aborto con certezza. Ma Harry sembrava non volersi accontentare di un passaparola stentato: non sembrava scettico, solo avido di informazioni.
Emma realizzò con un vago rammarico quanto effettivamente Harry fosse stato costretto ad un ruolo marginale in quei momenti.
Il Dottor Jills unì le mani sulla scrivania, sospirò. «Purtroppo questa è una domanda alla quale non posso rispondere» commentò sconfortato. «È accaduto troppo presto. Con una madre in perfetta salute, in quest’epoca gestazionale si possono fare solo supposizioni azzardate.»
Emma ed Harry restarono in silenzio. Di nuovo la straziante sensazione dell’assenza di un colpevole.
Il ginecologo li osservò, si rilassò sulla sedia. «Non voglio che-»
«Potrà avere altri figli?» Harry lo interruppe. Emma spalancò gli occhi, trattenne il respiro. «Il fatto che abbia già avuto un aborto…» Quella parola stonava terribilmente tra le labbra di Harry. «C’è il rischio che succeda di nuovo?»
Harry le aveva già detto che avrebbe voluto quel figlio più di qualsiasi altra cosa, per cui non avrebbe dovuto stupirsi nel sentirlo cercare informazioni riguardo all’eventualità di future gravidanze. Eppure le era difficile aggrapparsi a quella lontana speranza ed era altrettanto difficile scontrarsi con il puro terrore che ne derivava. Emma non sapeva se sarebbe mai stata in grado di rivolgere al ginecologo quelle stesse domande.
«Un primo aborto spontaneo è un precedente ed un fattore di rischio, certo, ma non implica necessariamente aborti successivi» spiegò il Dottor Jills. «Per quanto sia orrendo da dire, rientra nelle statistiche. Quasi il 37% delle donne ha un aborto spontaneo entro l’ottava settimana di gravidanza e, a parte nei casi di malattia materna nota, è quasi sempre impossibile stabilirne la causa, soprattutto nelle primissime settimane gestazionali. In seguito ad un primo aborto sporadico, il rischio di incorrere in un secondo aborto aumenta, ovviamente, ma non diventa assolutamente una certezza.»
Fece una pausa.
«Non voglio che abbiate paura di tentare una seconda gravidanza, se è questo che volete» aggiunse poco dopo. «Dopo un primo aborto, nel 90% dei casi la seconda gravidanza procede fisiologicamente.»
Emma tentava con difficoltà di affiancare alle proprie cieche ed irrazionali paure la sicurezza delle statistiche.
Fu di nuovo Harry a parlare al suo posto. «Come facciamo a sapere se siamo in quel 90%?»
Il Dottor Jills lo guardò con comprensione. «È impossibile testare i genitori fino ad avere una certezza matematica di quando potrebbe verificarsi un aborto. Ci sono certamente esami che possono analizzare alcune delle possibili cause, come disordini genetici non noti, ma per il resto è un’impresa pressoché impossibile, soprattutto se si tengono in conto i problemi che potrebbero derivare dall’embrione stesso o qualsiasi altra complicanza non prevedibile. Il mio consiglio è di prendervi del tempo per elaborare l’accaduto… E di riprovarci in futuro senza aver paura di quello che potrebbe o non potrebbe succedere, per il semplice fatto che non è dato di sapere. Non siamo di fronte ad un caso di infertilità, voglio che questo sia ben chiaro. Come vi ho detto, gli aborti spontanei sporadici sono molto frequenti, purtroppo, ma non pregiudicano di per sé la capacità di una donna di portare a termine una gravidanza.»
Emma non riusciva a distinguere esattamente tutte le emozioni che la stavano animando. Non sapeva dire se a prevalere c’erano lo sconforto ed il pessimismo, o la mite speranza di un’altra gravidanza. Sapeva solo che, accanto lei, Harry le faceva compagnia in quell’altalenare di sensazioni.
Il Dottor Jills aspettò qualche secondo, dando loro il tempo di esprimere altri dubbi o di porre altre domande, ma alla fine si arrese al loro silenzio. «Ed ora, se per voi va bene, proseguirei con l’ecografia della quale abbiamo parlato poco fa» annunciò, alzandosi dalla sedia ed aggirando la scrivania, mentre faceva cenno ad Emma di accomodarsi sul lettino.
Il Dottor Jills si affrettò a recuperare il paravento che durante la visita precedente aveva interposto tra Emma e Pete, ma si arrestò nel sentirsi osservato. Harry aveva già spostato la propria sedia accanto al lettino da visita, aspettando che Emma finisse di prepararsi senza alcun imbarazzo: guardava il ginecologo con un cipiglio confuso sul volto. Un eloquente cipiglio.
Il Dottor Jills, infatti, si sciolse dall’imbarazzo con una risata bonaria. «Scusate» esclamò, rimettendo a posto il paravento. «Ricordando il giovanotto dell’altra volta, ho dato per scontato che… Ma no, no. È stato sciocco da parte mia» aggiunse, raggiungendoli serenamente, quasi con soddisfazione.
Harry assottigliò lo sguardo e lo puntò su Emma, che intanto si stava sdraiando.
Lei si sentì in dovere di rispondere prima ancora di sentirlo elaborare la domanda. Ce l’aveva scritta sul viso serio. «Alla prima visita ho chiesto a Pete di accompagnarmi» disse a bassa voce, cercando di nascondere anche a se stessa quanto le sue parole le suonassero improvvisamente come il sunto di un errore. Non le era sembrato sbagliato in quell’occasione, ma forse solo a causa del timore e del proprio egoismo: nel sapere quanto Harry tenesse a quel bambino, ora non poteva eludere il pentimento che provava.
Harry serrò la mascella. Non rispose, ma non per questo non disse niente. Si voltò e prese ad osservare il Dottor Jills, che stava preparando gli strumenti e si stava infilando i guanti.
Emma si riscosse solo quando iniziò la visita.
La familiare sensazione del gel sul suo addome la fece rabbrividire. Teneva lo sguardo fisso sul muro alla sua sinistra, cercando di evitare del tutto lo schermo dell’ecografo o quello appeso di fronte al lettino. Si sentiva tesa al punto di temere di spezzarsi da un momento all’altro. Il Dottor Jills non parlò durante l’esame addominale, ma solo alla fine: «Ora tocca all’ecografia transvaginale» la avvertì. «Potrebbe darle più fastidio rispetto alla scorsa volta.»
Emma serrò le palpebre e trattenne il respiro, mentre sentiva la punta dell’ecografo sfregare contro di sé. Allungò una mano alla sua destra, alla cieca, ed afferrò l’avambraccio di Harry, affondando le dita nella sua pelle. Harry le coprì la mano con la sua.
Non voleva sottoporsi a quell’esame. Non voleva scontrarsi per l’ennesima volta contro la realtà, come se non ne avesse già avuto abbastanza.
Una volta inserito l’ecografo, Emma poté ricacciare in gola il gemito di dolore che aveva cercato di trattenere. Sentì la pressione allentarsi, nonostante continuasse a percepire una sensazione fastidiosa al basso ventre, che si esacerbava ad ogni movimento del ginecologo.
«La parte peggiore è passata» annunciò il Dottor Jills, come a volerla consolare.
Emma sospirò a fondo, riaprì gli occhi lentamente. Aveva freddo, le stavano sudando le mani. Si voltò verso Harry e lo trovò con gli occhi fissi su di lei, come se la stesse aspettando. Decise che preferiva perdersi nelle sue iridi indecifrabili, piuttosto che nell’intonaco color pastello delle pareti.
«Bene» esordì il Dotto Jills dopo qualche istante, senza interrompere i movimenti dell’ecografo. «Direi che non ci sarà bisogno di alcun intervento farmacologico. Non sembra ci siano residui all’interno dell’utero.»
A quelle parole, vide Harry voltarsi verso lo schermo che gli stava di fronte. Lo vide perdere parte della compostezza che l’aveva caratterizzato fino a pochi istanti prima, lasciare spazio alla disillusione e all’arrendevolezza.
Emma venne meno a qualsiasi istinto di sopravvivenza senza nemmeno rendersene conto. Seguì lo sguardo di Harry verso le immagini in bianco e nero, confuse ed in lieve movimento. Inutilmente cercò quella piccola macchia nera che alla prima ecografia l’aveva fatta gioire su quello stesso lettino: la cercò pur sapendo che non c’era.
Emma era vuota.
Era una sensazione orripilante, che le mozzava il respiro.
Lasciò la presa sull’avambraccio di Harry e si portò entrambe le mani sul volto: se non poteva resistere al pianto soffocato che la stava minacciando, poteva almeno cercare di nasconderlo.
Avvertì il Dottor Jills rimuovere delicatamente la sonda. «Vi lascio soli per qualche minuto».
Emma udì dei rumori ovattati intorno a sé, il chiudersi di una porta.
Sentì la mano di Harry posarsi tra i suoi capelli, accarezzarla dolcemente. «Ehi…»
Si vergognava così tanto della propria debolezza, di quel costante stato di fragilità al quale era relegata. Non le importava di essere sdraiata in posizione ginecologica, nuda e con l’addome scoperto, ancora imbrattata di gel e con il volto rigato dalle lacrime, in una scena patetica e drammatica. Le importava solo di essere vuota e inerme. «Mi dispiace, non volevo piangere… Io…»
«Emma, di cosa stai parlando?»
Lei non gli rispose.
«Guardami.»
Non lo fece.
Harry spostò la sedia più vicino, facendola gracchiare contro il pavimento. «Emma, guardami.»
Emma non oppose resistenza quando Harry le scostò le mani dal viso. Tirò su con il naso, si strinse nelle spalle come per farsi più piccola e passare inosservata, per quanto impossibile.
Ma non aveva nulla da temere dallo sguardo di Harry, dal modo in cui le prese ad accarezzare di nuovo i capelli, dal modo in cui appoggiò la fronte alla sua respirandole vicino, quasi a volerle donare un ritmo che potesse contrastare i suoi singhiozzi sconnessi.
 
Una volta tornati a casa, Harry si sedette stancamente al tavolo del salotto e si accese una sigaretta, fumando con aria assente. Emma lo osservò per pochi istanti, sicura che qualcosa lo stesse disturbando: da quando erano usciti dallo studio del Dottor Jills, non si erano più rivolti la parola. In alcuni momenti Harry le riservava una premura così intensa da farle tremare le gambe, ma in altrettanti piccoli gesti sembrava allontanarsi da lei come a ricordarsi di qualcosa, quasi fosse combattuto tra l’istinto di starle accanto e la logica che cercava di trattenerlo. Avrebbe potuto essere sconvolto quanto lei dal peso emotivo che la visita del Dottor Jills aveva comportato, ma qualcosa nel suo comportamento le suggeriva che ci fosse dell’altro.
Emma non capiva di cosa si trattasse, ma non poteva dire di essere pronta a scoprirlo: era stremata.
Andò a lavarsi per temporeggiare e per sbarazzarsi delle tracce di gel ancora sul suo corpo, eppure quando tornò in salotto sentì di nuovo una morsa di preoccupazione allo stomaco. Harry non si era mosso di un centimetro, ma nel posacenere davanti a lui giaceva qualche mozzicone di sigaretta in più.
Emma gli si avvicinò con cautela, o forse con timore. Non aveva le forze di affrontare qualsiasi cosa stesse aleggiando tra di loro, quel presagio amaro che li avvolgeva, ma non poteva ignorarlo.
Si sedette accanto a lui ed aspetto qualche secondo, sperando reagisse alla sua presenza.
Non lo fece.
«Harry?» Mormorò allora, allungando una mano per sfiorargli un braccio. «Cosa c’è?»
Prima che potesse toccarlo, lui si scostò. «Lascia stare» sbottò, mordendosi un labbro ed aspirando nuovamente dalla sigaretta.
Emma era confusa: era rabbia quella nella sua voce. «Ha-»
«Sto cercando di non…» Harry la interruppe con il nervosismo a smorzargli la voce, sospirò. «Lasciami stare.»
Da una parte era un suo diritto avere dello spazio per pensare, per elaborare qualsiasi cosa lo stesse agitando a tal punto. Lei per prima aveva impugnato quello stesso diritto più e più volte, anche in modo egoista ed infantile. Dall’altra parte, però, Emma temeva che il suo spazio potesse espandersi fino ad escluderla, come era già successo. E se lucidamente avrebbe potuto giungere ad un compromesso, lasciarlo solo e provare a parlargli più tardi, istintivamente finì per arrendersi alla paura. I suoi meccanismi di regolazione erano ormai compromessi.
«No» disse soltanto, ritraendo la mano.
Harry si voltò, lo sguardo carico di risentimento.
«Parlami, Harry.»
«Finiremmo per litigare» le preannunciò lui, duro, nervoso. Sembrava una bomba pronta ad esplodere. «Ed io non voglio litigare. Te lo chiedo per favore, Emma.»
Lei inarcò le sopracciglia. «Litigare?» Era convinta di aver ripetuto quella parola nella sua mente, invece le scivolò via dalle labbra. Harry le chiedeva di evitare un litigio secondo lui inevitabile e questo non faceva altro che rendere più insistente la curiosità di Emma, la sua necessità di non lasciare che nient’altro si aggiungesse alla lista di cose pronte a dividerli.
Harry tornò con lo sguardo sul posacenere, in silenzio. Muoveva ritmicamente e velocemente la gamba destra sotto al tavolo. Non resistette a lungo alla tentazione, al suo debole tentativo di farlo aprire. «Perché hai chiesto a Pete di accompagnarti?» Le domandò infatti, diretto. Spense energicamente la sigaretta, tornò a guardarla con le braccia incrociate. In attesa.
Emma aprì la bocca per dire qualcosa, la richiuse subito dopo. Le tornò in mente come Harry l’aveva guardata quando l’aveva saputo: avrebbe dovuto immaginare che non avesse semplicemente accantonato la cosa e che la stesse solo rimandando, eppure non pensava potesse innervosirlo in quel modo.
«Perché non sei venuta da me
«Volevo essere sicura prima di dirti della gravidanza: avevo fatto un paio di test, ma non ero sicura che… Insomma, prendevo la pillola, pensavo che magari…» ammise Emma a bassa voce, aveva la gola secca. «Quando te l’ho detto ero appena tornata dalla visita: volevo solo essere sicura.»
Harry non era soddisfatto di quella risposta, corrugò la fronte, incredulo. «E non hai pensato che a me sarebbe piaciuto accompagnarti, anche se non ne eri sicura?» Le chiese indispettito. «Dovevi andare da Pete
«Perché continui a dire Pete in quel modo? È di lui che si tratta? Sembra che tu sia g-»
«Geloso?» La anticipò lui, prima di alzarsi con un gesto frustrato e fare qualche passo accanto al tavolo. Emma lo seguiva con la confusione nel cuore, ma Harry non le diede tempo di articolare un pensiero coerente a riguardo. «Geloso del fatto che la mia fidanzata sia andata da un altro a dirgli che pensava di essere incinta? Geloso che si sia fatta accompagnare da lui alla prima visita dal ginecologo? Alla prima ecografia, cazzo?!» Serrò la mascella, cercò di calmarsi. Poi continuò. «Geloso perché avrei voluto esserci io al suo posto? Perché spettava a me essere lì?»
Emma dovette arrendersi alle sue parole. Abbassò lo sguardo, strinse i pugni. Non aveva una giustificazione per la mancanza nei confronti di Harry: era vero, aveva voluto coinvolgerlo solo dopo aver saputo con certezza della gravidanza, ma non aveva scuse sul perché non avesse pensato che Harry avrebbe voluto essere coinvolto anche in quei momenti. Perché non gliel’aveva concesso?
«Mi dispiace, Harry» si scusò, tornando a guardarlo. «Quando ho fatto il test ero confusa, non potevo crederci. Sono andata da Pete solo perché sarebbe stato più facile, perché magari mi avrebbe aiutato a schiarirmi le idee prima di parlare con te e-»
Mentre pronunciava quelle parole, un fitto senso di incoerenza la pervase.
Non sfuggì nemmeno ad Harry, che la osservò con lo sguardo sottile di chi prova rancore. «A te era concesso essere confusa, allora. A te era concesso. Quanto tempo ti sei presa con Pete per schiarirti le idee? Scommetto molto di più dei tre minuti che hai concesso a me
Emma fu colpita dalla quella verità, anche se non ne fu stupita: aveva già riconosciuto il proprio fallimento nel tentativo di permettere ad Harry di reagire come meglio credeva senza scoraggiarsi. Quello che non aveva mai fatto, però, era soffermarsi a confrontare lo svantaggio di Harry con il privilegio che lei si era donata nel prendersi tempo per elaborare la notizia della gravidanza.
Strinse i pugni lungo i fianchi. «Mi dispiace» ripeté. «Forse sono stata una stupida, ma volevo parlartene quando avrei potuto farlo senza dare di matto. Pensavo ti meritassi almeno questo». Gli afferrò una mano per evitare che si allontanasse, infastidito. «Ho sbagliato a non dare a te la stessa possibilità: me l’ero ripromesso. Te lo giuro, Harry: mi ero ripromessa di accettare qualsiasi tua reazione, ma… Te l’ho detto, te l’ho già detto: in quel momento ho avuto troppa paura.»
Harry la ascoltò in silenzio, il petto agitato.
Emma scorse nel suo comportamento la possibilità di continuare. «E riguardo la visita…» riprese, ammorbidendo la presa sulla sua mano quando capì che Harry non se ne sarebbe andato. «Per quanto io avessi cercato di affrontare la cosa, non riuscivo ancora a capire come fosse possibile: volevo essere sicura che non ci fossero errori. Non sapevo che durante la visita avrei fatto un’ecografia: era talmente presto che non si vedeva nemmeno l’embrione. E in quel momento ero così felice che riuscivo solo a pensare alle ecografie successive, a quelle dove ci saresti stato anche tu e dove si sarebbe visto il nostro bambino, non… Non pensavo che quella per te potesse significar-»
«Cristo, Emma, smettila di darmi per scontato!» La interruppe gridando. «Non pensavi che volessi assistere alla prima ecografia, non pensavi che volessi un bambino… Con chi cazzo credi di stare, si può sapere?! Ti è tanto difficile non pensare solo a te stessa?!»
Emma si sentì accaldata, scottata da quelle accuse e dal modo in cui le proprie parole erano state ignorate così drasticamente. Alzò la voce anche lei, nel mettersi in piedi per fronteggiarlo: si preparò all’ennesimo errore dettato dal dolore. «Stai davvero dando a me dell’egocentrica? Proprio tu? Devo ricordarti che dopo aver saputo che ero incinta hai passato dieci giorni ad ignorarmi, senza chiedermi assolutamente niente a riguardo? Ed ora urli contro di me, mi dai dell’egocentrica, incazzato perché ti sei sentito escluso-»
«Tu mi hai escluso!»
«Eppure quando ne hai avuto la possibilità non hai fatto un cazzo, Harry!» Lo contraddisse. «Io avrò anche sbagliato, ma tu non sei molto più coerente di me: dov’era la tua voglia di partecipare, in quei maledetti dieci giorni?»
Harry la trafisse con uno sguardo risentito. «Sono così stanco di sentirti sminuire qualsiasi cosa io dica o pensi. Te l’ho detto, io quel bambino lo volevo: non l’hai perso solo tu. Lo abbiamo perso entrambi. E se io ho sbagliato a reagire in quel modo quando mi hai detto di essere incinta, me ne sono già scusato, ma non significa che lo volessi meno di te. Non significa che non mi penta ogni cazzo di giorno del mio comportamento e di non esserti stato accanto come avrei dovuto. Non significa che io non possa essere geloso di qualcuno che si è preso alcuni dei pochi momenti… alcuni dei momenti che avrebbero dovuto essere nostri. Continui a mettermi in dubbio, come se io non avessi diritto di provare certe cose, ma io le provo, Emma. E se tu non hai voglia di sforzarti un minimo per capirlo, se non hai voglia di ascoltarmi, spiegami con chi cazzo ne dovrei parlare. Mi chiedi di parlarti, ma non mi ascolti.»
“Lo abbiamo perso entrambi.”
Emma si era barricata dietro la convinzione di essere l’unica a provare determinate emozioni e una così profonda sofferenza, si era raggomitolata in un antro di solitudine così buio da non riuscire a estendere lo stesso diritto a qualcun altro. Sembrava che l’aver combattuto relativamente sola per quel bambino, la costringesse ad affrontare la perdita altrettanto sola.
Ma Harry in fondo aveva ragione.
Non era stata solo Emma a perdere il bambino. L’aveva perso anche lui. E gli errori che aveva commesso non toglievano significato a quella verità, né potevano delegittimare i suoi sentimenti a riguardo. Forse Harry aveva fatto bene ad accusarla di egocentrismo, forse Emma era davvero cieca nel non riconoscere di non essere l’unica a provare dolore.
«Io sto cercando di rimediare» riprese Harry, incessante. «È difficile, cazzo se lo è, ma sto cercando di fare tutto quello che posso, Emma. Se hai bisogno di urlare e di urlare contro di me, io ci sono. Se hai bisogno di piangere, io ci sono. Ci sono persino se hai bisogno di stare sola. Ma ogni tanto anche io ho bisogno di qualcosa. Ogni tanto anche io ho bisogno di te.»
“Lo abbiamo perso entrambi.”
Emma avrebbe pensato che Harry le avesse tirato un pugno in pieno petto, se le sue mani non fossero state lungo i suoi fianchi, inerti. Possibile fosse stata così egoista? Possibile che non si fosse resa conto di quanto stesse usando Harry e l’amore che provava nei suoi confronti per risanare una propria ferita, senza curarsi affatto della sua? Magari pensando che si sarebbe rimarginata di riflesso?
All’improvviso le tornò in mente l’immagine di Harry che si sdraiava dietro di lei nel suo letto d’ospedale, che provava a toccarla e a stringerla pregandola di non rifiutarlo. L’immagine di come invece lei l’aveva cacciato via, annebbiata dal dolore e dalla rabbia e convinta che stesse cercando di starle vicino, ma che fosse mosso soprattutto dal rimorso. L’immagine di come lei non aveva pensato nemmeno per un attimo che anche Harry in quel momento stesse sperimentando un dolore lancinante e che avesse solo bisogno di stare lì con lei.
Emma non trovò parole adeguate per rispondere a quella richiesta straziante, né per esprimere il disgusto che provava per se stessa. Restò semplicemente in piedi, a fissarlo con la bocca socchiusa e tremante.
Harry distolse lo sguardo e si sedette di nuovo al tavolo. Improvvisamente il suo corpo si era rilassato, come se non avesse più alcuna vitalità ad animarlo, a tenderlo.
Emma fu tentata di esprimere tramite il contatto ciò che non riusciva a mettere in parole, ma poi cambiò idea. C’era qualcos’altro che avrebbe potuto funzionare, che avrebbe potuto essere utile non solo a se stessa ma anche e soprattutto a lui.
Si diresse in camera da letto, chiedendosi cosa stesse pensando Harry del fatto che si era allontanata senza nemmeno rispondergli. Quando tornò, stringeva tra le mani le fotografie della prima ecografia: nel recuperarle non le aveva guardate. Harry continuava a tenere lo sguardo fisso sulla superficie del tavolo, giocherellando distrattamente con l’anello al suo indice sinistro: Emma decise di riporle proprio dove i suoi occhi sembravano essersi incantati.
Aspettò in piedi al suo fianco, stringendosi le mani l’una nell’altra, ma Harry non si mosse nemmeno di un millimetro. Sembrava non averle viste, non averle nemmeno notate. Le sue spalle continuavano ad alzarsi ed abbassarsi ritmicamente in base al suo respiro calmo e regolare.
Dopo qualche istante, Emma si chiese se dovesse dire qualcosa, ma Harry la anticipò. Lentamente posò gli avambracci sul tavolo, ai lati delle fotografie: la sua schiena si tese. Harry incastrò le mani tra i propri capelli, senza parlare.
Quando Emma notò le sue spalle sussultare senza alcun rumore ad accompagnarle, non comprese subito cosa stava accadendo. Solo quando i sussulti si fecero più frequenti ed un singhiozzo sommesso arrivò alle sue orecchie, realizzò che Harry stava piangendo.
Non l’aveva mai visto piangere.
Aveva giurato di aver visto i suoi occhi inumidirsi e la sua voce incrinarsi in due occasioni, ma non aveva mai visto il suo viso rigato di lacrime. Non aveva mai percepito il suo respiro interrotto dai singulti. Non aveva mai assistito ad una così totale assenza di difese.
Non sapeva come reagire.
Allungò una mano per toccarlo, ma la ritrasse subito dopo, esitante.
Ci riprovò l’istante successivo: non appena gli sfiorò la spalla, Harry rispose a quel contatto voltandosi ed afferrandola per un polso per attirarla a sé. Non le diede nemmeno il tempo di scorgere il suo viso, lo nascose contro il suo addome stringendola tra le braccia e continuando a singhiozzare contro di lei. Emma trattenne il fiato, stupita e con il cuore infranto nell’assistere alla scena: lo abbracciò a sua volta e si chinò su di lui fino a posargli la bocca tra i capelli.
«Anche io sono qui per te» gli sussurrò, in una promessa che mai in quel momento doveva essere rimarcata.
Harry sollevò il volto: i suoi occhi acquosi ed arrossati la studiarono, come per valutare le sue parole, come per decidere se fidarsi. Emma gli prese il viso tra le mani, accarezzandogli le guance con i pollici per asciugare le lacrime: sostenne il suo sguardo, nonostante non le fosse facile. Sapeva cosa stava cercando.
«Io ci sono, Harry» gli ripeté, avvicinandosi a lui fino a respirargli sulla pelle.
Harry si sporse in avanti e la baciò.
Glielo fece giurare.
 
 
29 Maggio 2018
05:47 pm
 
Harry era dovuto tornare a lavoro: il suo capo si era categoricamente rifiutato di allungare il suo permesso, ignorando senza rimorsi il fatto che avesse ancora settimane intere di ferie da smaltire ed ore di straordinario da recuperare.
Era la prima volta in cui Emma era obbligata ad affrontare la sua prolungata assenza da quando era tornata dall’ospedale: erano trascorsi solo pochi giorni, ma erano stati così intensi da farle credere di aver passato mesi interi tra quelle quattro mura a leccarsi le ferite, a litigare, a piangere, ad amare. Ritrovarsi improvvisamente senza Harry era stato piuttosto debilitante: Emma si aggirava per casa senza uno scopo, sbirciando l’orologio ad intervalli regolari solo per appurare che il tempo si era schierato contro di lei. Avrebbe potuto uscire e prendere un po’ d’aria, ma non si credeva dell’umore giusto per permettersi una passeggiata solo il sole caldo di quel giorno. Avrebbe potuto chiamare la sua famiglia e loro avrebbero litigato per decidere chi si sarebbe trasferito a casa sua pur di farle compagnia, ma Emma non stava cercando una compagnia qualsiasi – che anzi era in grado di spaventarla: cercava solo la sua. Avrebbe potuto contattare Pete e cercare sfogo nei suoi modi duri, ma rassicuranti, eppure persino lui sembrava inadeguato per i suoi bisogni. Per cui non aveva messo piede fuori dall’appartamento, quasi come un animale timoroso barricato nella propria tana in attesa del ritorno del compagno.
Harry era leggermente in ritardo. Emma lo stava aspettando appoggiata contro lo schienale del divano, le braccia incrociate ed il labbro inferiore torturato da leggeri morsi impazienti. Picchiettava il piede contro il pavimento, ma era inutile mettere fretta al trascorrere dei secondi.
Quando udì le chiavi scattare nella serratura della porta, si raddrizzò all’istante e sentì il cuore alleggerirsi. Eccolo, sembrava gridarle. Emma si era riscoperta avida della sua presenza come non mai.
Harry entrò con aria stanca, sospirando nel chiudersi la porta alle spalle e nel togliersi le scarpe all’ingresso. Emma fece spontaneamente qualche passo in avanti per andargli incontro, ma si arrestò quando un vago pudore le impedì di mostrarsi così smaniosa. «Bentornato» gli disse, quasi imbarazzata.
Lui le si avvicinò massaggiandosi il collo con un mano. «Come stai?» Le domandò, la voce roca.
Emma si alzò sulle punte per potergli sfiorare la bocca, allacciando le braccia intorno al suo collo.
Ora meglio, avrebbe voluto replicare, nella più banale e veritiera delle risposte. Sentì la tensione allentare la presa, sciogliersi.
«Ti stavo aspettando» mormorò invece, accarezzandogli le labbra lentamente, godendo del suo respiro caldo.
Harry si lasciò accogliere dai suoi baci lenti, affondò una mano tra i suoi capelli e l’altra al centro della sua schiena per invitarla a stringersi di più al suo corpo. «Eccomi» sussurrò: sembrava offrirsi a lei completamente.
Emma reagì a quella semplice parola mordendogli un labbro, imprimendo un velo di passione nel tornare a baciargli la bocca: posò le mani sul suo petto, stringendo nei pugni il tessuto della sua maglia come a volerlo maledire. Aveva l’imprescindibile necessità di compensare l’intera giornata trascorsa senza di lui, quasi fosse una ricompensa per i propri sforzi.
Harry si accorse del cambiamento nei suoi movimenti, le respirò contro la pelle, mentre lei lambiva l’angolo della sua mandibola. «Emma… Dovrei farmi una doccia» protestò debolmente.
«Non mi importa» replicò lei, masticando le parole tra i baci che continuava a lasciare lungo il suo collo. Qualcosa di molto simile alla bramosia le impediva di fermarsi, o peggio ancora di controllarsi. Aveva così bisogno di Harry, che nessun razionale avrebbe potuto ostacolarla, non ora che lo aveva finalmente tra le braccia.
Lui reclinò il capo all’indietro quanto bastava ad incoraggiarla, ma non abbastanza da autorizzarla. «Emma…»
«Non mi importa» ripeté lei, tornando a torturargli le labbra per farlo tacere, per convincerlo a dare e a ricevere.
Harry sospirò contro la sua bocca e si lasciò contagiare dalla sua insistenza. Si arrese a quella lotta che non aveva combattuto con convinzione. Fece scivolare le mani lungo la sua schiena, fino ai suoi glutei: li afferrò e se la tirò contro, facendole emettere un flebile suono di stupore e desiderio. Harry la sollevò ed Emma avvolse le gambe intorno al suo bacino, abbassando il viso verso il suo per non interrompere il contatto tra le loro bocche affamate.
Si diressero verso la camera da letto: Harry dovette fermarsi un paio di volte, perché troppo concentrato sulle sue labbra umide per badare a dove mettere i piedi senza inciampare. La fece sdraiare sul letto, seguendola senza più alcuna esitazione: Emma percepiva il suo desiderio crescere ad ogni carezza più sfacciata che le dedicava.
Per qualche minuto continuarono a baciarsi come due adolescenti infantili, come forse nemmeno anni prima erano stati in grado di fare: lentamente, assaporando la pelle l’uno dell’altra, accarezzandosi con la lingua, avvolti da una passione tenera e mite, nostalgica. Il corpo di Harry era sdraiato per metà sul suo, una gamba incastrata tra le sue, ma le sue mani erano stranamente ferme, anche se non innocue.
Emma non poteva disprezzare la quiete che quella vicinanza innescava in sé, nel suo petto e tra i suoi pensieri: il potere che aveva nel riportare un certo equilibrio. Eppure non poteva e non voleva ignorare il fuoco che ardeva al di sotto di quella stessa blanda pace, il caos dirompente che era pronto ad esplodere e a divorarla: portava il nome di Harry e mai come in quel momento il masochismo l’aveva ammaliata a tal punto.
Diede un’ultima carezza alla guancia di Harry, tracciando il profilo della sua spalla e poi passando a disegnare i contorni dei suoi fianchi. Percepì il suo corpo tendersi ad ogni carezza e desiderò averlo su di sé, nudo. Da quanto tempo non accadeva? Da quanto tempo non respiravano l’una sull’altro, così vicini da non potersi distinguere? Una sottile dichiarazione di colpa era pronta a sporcare quei pensieri nostalgici, ma Emma tentò con tutte le sue forze di sopraffarla e di accantonarla.
Harry lesse le sue intenzioni con una tale semplicità da farla tremare. Si sfilò la maglietta, reprimendo un respiro sofferto per i pochi secondi nei quali aveva dovuto abbandonare la sua bocca, ed Emma approfittò del momento per fare lo stesso con la propria. Non persero tempo ad osservarsi, preferirono toccarsi con crescente avidità: Harry doveva aver già percepito l’assenza del reggiseno al di sotto del suo pigiama in cotone, ma le massaggiò un seno come se non avesse mai sperato di poterlo sfiorare direttamente. Vi posò le labbra e lo morse delicatamente, lo leccò provocando un gemito in Emma. Lei intanto non sapeva come evitare di impazzire, come districarsi tra ogni più piccolo lembo di pelle che la invocava: continuava a delineare gli addominali poco definiti dell’addome di Harry, il suo petto e la linea sporgente della sua clavicola. Non le sembrava di poterne avere abbastanza, non credeva di poter sopravvivere a tentazioni così numerose ed imperative.
Emma strinse un fianco di Harry mentre lui tracciava un percorso umido lungo il suo addome: passò le dita al di sotto dei suoi pantaloni, sperando di poterli far scomparire ad un solo tocco. Le sembrò che Harry soffrisse nel prendere atto delle sue intenzioni. Quando tornò a respirarle sul volto, infatti, il suo petto era ormai ansante: «Meglio di no» disse, parlando sulla la sua bocca ma senza risultare convincente.
Emma lo ignorò e cercò di abbassargli i jeans lungo i fianchi, che Harry spinse contro il suo corpo.
«Emma…»
«Voglio sentirti» si giustificò lei. «Su di me. Contro di me.»
Harry sembrò quasi singhiozzare per quanto quelle parole lo scossero. «Credi che io non voglia la stessa cosa?» Replicò, baciandola di nuovo come per riversare in lei ciò che stava cercando di spiegarle. Posò una mano sul suo collo, invocò il suo sguardo: «Sai quanto sarebbe difficile averti qui, così…» Le si fece più vicino, se possibile. «… E non poter andare oltre?»
Emma lo capiva. Ricordava le parole del Dottor Jills, la necessità di evitare rapporti completi fino al termine delle perdite ematiche, che non l’avevano ancora abbandonata. Sapeva che, arrivati a quel punto, sarebbe stata letteralmente un’impresa non cedere alla tentazione e trattenersi. Sapeva che sarebbe stata una tortura per entrambi. Eppure sapeva anche che c’era di peggio: glielo ricordò. «Non è più difficile fermarsi adesso?» Sussurrò, in tono quasi supplichevole. Non sentiva anche lui quella smania viscerale ed irrefrenabile?
Harry sospirò in un bacio sofferto, impaziente: evidentemente concordava con lei, ma allo stesso tempo sembrava si stesse offrendo volontario ad una condanna crudele. Emma cercò di andargli incontro sfilandosi i propri pantaloncini e gli slip, mentre Harry continuava a accarezzarle l’addome con i palmi delle mani aperti, come a voler toccare di lei quanto più possibile.
Notando la sua esitazione, Emma ebbe l’impressione di essere sul punto di bruciare viva. I jeans di Harry erano troppo stretti, non riusciva a raggiungere la sua erezione al di sotto della stoffa, per cui sfregò la mano contro il cavallo dei pantaloni. Lentamente, facendolo irrigidire. «Non possiamo fermarci adesso» gli ripeté.
Harry si inumidì le labbra, boccheggiò per un istante. «Invece dovremmo» tentò.
Emma lo baciò per distrarlo dalle sue motivazioni e sperando di abbassare le sue difese. Con l’altra mano afferrò la sua e la fece scivolare verso la propria intimità: «Sei sicuro?».
Harry imprecò, per un attimo vendicandosi con un morso appena più accentuato, poi si affrettò a spogliarsi e tornò su di lei. Emma rabbrividì nell’averlo contro di sé, si prese qualche istante per godere del suo peso che le mozzava il respiro con desiderio, il profumo della sua colonia mischiato all’odore di olio dell’officina e ad una punta su sudore acre.
Una volta ceduto terreno, però, Harry non era solito elargire molti altri privilegi.
Sfuggì alle mani di Emma che gli stavano stringendo le spalle, alla sua bocca vorace, e si chinò sul suo petto per baciarle le lentiggini. Lei gli afferrò i capelli e chiuse gli occhi, invitandolo a non fermarsi: Harry, d’altro canto, non l’avrebbe fatto nemmeno se l’avesse pregato. Le saggiava la pelle come se non potesse saziarsene, manifestando ad ogni tocco quanto fosse intensa la mancanza che fino a quel momento l’aveva tediato. Tergiversò per qualche istante al di sotto del suo ombelico, poi respirò sul suo pube facendole inarcare la schiena. Emma si concesse un solo sguardo, trovò Harry ad osservarla con la bocca sulla sua pelle: la risposta definitiva alla sua provocazione. Serrò gli occhi quando percepì la sua lingua accarezzarla con movimenti lenti e sapienti, alternati a veri e propri dispetti passionali. Emma gemeva sotto il suo tocco, incapace di resistere all’eccitazione che la stava sconvolgendo: afferrò le lenzuola tra i pugni stretti e serrò la mascella, ma appena credette di non riuscire più a trattenersi, Harry si interruppe e scivolò verso il suo inguine, dedicandosi a baciare con delicatezza il suo interno coscia e le fini smagliature bianche che lo decoravano.
Emma si abbandonò sul materasso, completamente svuotata. Arrabbiata. «Harry, stavo per-»
«Lo so» la anticipò, inginocchiandosi tra le sue gambe e chinandosi su di lei. «Non ho ancora finito» le promise. O forse la minacciò.
Emma respirava velocemente, stordita. Raggiunse la sua erezione ed iniziò a muoversi lungo di essa in base ai gemiti che Harry riversava direttamente nella sua bocca: voleva ripagarlo con la stessa moneta e voleva fingere che non servisse anche ad appagare un proprio bisogno, voleva costringerlo a sperimentare il suo stesso sadismo e voleva sentirlo arrendersi tra le sue mani.
Harry si concesse qualche minuto di piacere e le concesse qualche minuto di generosità, prima di scostarle la mano con un sospiro mozzato. Si sdraiò sul suo corpo accaldato, la baciò sfacciatamente fino a farle chiedere cosa stesse aspettando, ma prima che lei potesse effettivamente formulare quella domanda, iniziò a muoversi su di lei: la sua erezione sfregava contro la sua intimità in un contatto che Emma non riusciva a sopportare per quanto risultava piacevole ed allo stesso tempo doloroso. Gettò il capo all’indietro, Harry prese a succhiargli un lembo di pelle al di sotto della sua mandibola.
Aveva ragione, era difficile resistere. Dover sottostare ad un limite, per quanto imposto da ragioni mediche, era straziante per chi come loro non potevano concepirsi altrimenti. Emma continuava a sperare che da un momento all’altro Harry entrasse in lei facendola gemere, continuava a ripercorrere ricordi di quando riusciva a percepirlo dentro di sé, ma puntualmente era strappata da quei pensieri dalla realtà dei fatti, dal non poter oltrepassare una linea invisibile e punto cardine del proprio desiderio. Dal non volerlo nemmeno fare, perché era comunque una sevizia che la stava portando all’orgasmo.
Per un istante i movimenti sempre più intensi di Harry portarono la sua erezione a scivolare in basso, verso l’intimità di Emma: entrambi gemettero sonoramente, stringendosi l’uno all’altra come per affrontare insieme quel piacevole dolore. Harry esitò impercettibilmente prima di posizionarsi meglio. «Cristo, Emma…»
«Lo so» lo rassicurò, avvolgendogli le braccia intorno al collo ed alzando il bacino verso di lui per pregarlo di non fermarsi.
«No, non lo sai» ribatté lui, ricominciando ad oscillare contro il suo corpo, ansante e sudato. Emma gli rubò un bacio, ma non venne ricambiata con la stessa lucidità: lo conosceva abbastanza bene da sapere che il modo in cui si stava muovendo, persino il modo in cui stava respirando manifestava il piacere che stava crescendo a dismisura in lui. «Te l’ho detto anche la prima volta…» disse Harry, appoggiando la fronte contro la sua. «Tu non sai cosa si prova a stare dentro di te.»
Un tiepido ricordo della notte trascorsa a casa di un Harry diciannovenne le invase il petto.
«Ed ora mi costringi a…»
Non terminò la frase. Un gemito gli rubò la parola.
«Non ti costringo, io-»
«Come se avessi altra scelta» precisò Harry, affondando ancora una volta sul suo corpo e provocando un attrito che gli fece raggiungere l’orgasmo.
Emma affondò le dita nelle sue spalle, percependo l’umidità sul proprio addome ed i singulti di Harry sopra di sé. Continuò ad andargli incontro con il bacino per rincorrere un piacere simile, finché lui non fu di nuovo in grado di muoversi ritmicamente: non dovette aspettare molto prima di soffocare un urlo di piacere contro la sua bocca.
«Io non ho scelta, Emma.»
 
Si svegliò lentamente, così come si era assopita: non doveva aver dormito molto, perché la luce diurna illuminava ancora la stanza. Si sentiva stranamente riposata, avrebbe osato dire persino tranquilla.
Harry la stava osservando con un braccio piegato sotto il viso.
Erano entrambi sdraiati sul fianco, così vicini da sfiorarsi ad ogni respiro. Ancora nudi.
Emma non credeva al destino, né tanto meno ai suoi segni e ai suoi significati nascosti, ma non poteva negare un sottile filo conduttore che arrivava fino a quel momento. Poteva rivivere il giorno in cui si era sdraiata alle spalle di Harry, quasi nascondendosi al suo sguardo, per dirgli del loro bambino: lo stesso giorno in cui Harry non si era voltato a fronteggiarla nemmeno una volta, decretando un apparente rifiuto che l’avrebbe tormentata per giorni interi. Con la stessa intensità, ma con una marcata fitta di dolore, poteva ricordare come Harry si fosse sdraiato alle sue, di spalle; erano in una camera d’ospedale, entrambi abbattuti e sofferenti: uno in cerca di un disperato conforto, l’altra completamente sorda a qualsiasi cosa non riguardasse il dolore lancinante che provava, decisa a rifiutarlo con ogni briciolo di forza in suo possesso. Poteva ricostruire quando aveva trovato Harry intento a lavare il pavimento con della candeggina che non avrebbe cancellato anche i ricordi, quando l’aveva riportato a letto: quella volta si erano sdraiati l’uno di fronte all’altra, ma distanti, come a voler mantenere un fittizio senso di protezione che un centimetro in meno avrebbe completamente sopraffatto; poco dopo avevano cercato di consolarsi a vicenda in un contatto straziante e carico di parole non dette, stridente per ciò che nascondeva e rimandava.
Anche il quel momento erano l’uno di fronte all’altra, ed Emma non credeva nelle allegorie, ma le era impossibile non notare come fossero vicini, diversi. Come se la loro posizione potesse rappresentare anche l’evoluzione del loro rapporto.
Non pensava che i loro problemi fossero scomparsi, era convinta che avrebbero dovuto lavorarci ancora molto. Avevano scoperto le proprie fragilità, si erano rinfacciati errori e sofferenze, si erano accusati e si erano scusati: non avevano mai effettivamente risolto quei punti critici del loro rapporto, forse perché non ancora in grado di affrontarli a dovere, ma erano stati sinceri e trasparenti nel prenderne coscienza.
Emma era convinta che qualcosa fosse cambiato tra loro, che qualcosa si fosse mosso.
Forse erano pronti.
Una volta abbassata ogni difesa e deposta ogni arma, forse erano pronti a combattere insieme anziché l’una contro l’altro.
Harry le accarezzò il viso con le dita, aveva l’espressione pensierosa.
Emma posò una mano sulla sua.
«Ricordi quando ti ho chiesto se saresti mai riuscita a perdonarmi?» Domandò Harry in un sussurro, fingendo di essere concentrato su un particolare del suo volto prima di incontrare i suoi occhi.
Lei annuì. «Harry, abbiamo entrambi delle cose da perdonarci» gli assicurò a bassa voce, cercando di smorzare il tono colpevole con cui le aveva parlato. Non voleva individuare vittime e carnefici: per quanto fosse difficile non abbandonarsi a quella tentazione, non voleva farlo.
Harry si inumidì le labbra: le era così vicino, che quel semplice movimento la fece reagire impercettibilmente, spingendola ad avvicinarsi come per baciarlo. Il suo sguardo sembrava volerla contraddire, ma non venne sostenuto da alcuna parola a riguardo. «In alcuni momenti sembra che tu non riesca nemmeno a guardarmi in faccia» disse invece, di nuovo concentrandosi sulle lentiggini sui suoi zigomi anziché sui suoi occhi. Le spostò una ciocca di capelli ricaduta sul viso. «In altri momenti invece sembra che tu non voglia altro che me. Prima… Prima sembrava tu non avessi bisogni di nient’altro. Solo di me.»
Emma lo ascoltava attentamente, senza sapere se e cosa rispondere. Non le era chiaro dove volesse arrivare.
«Ho visto cosa ti ho fatto, Emma» mormorò piano, serrando la mascella. «Ho visto a cosa ti ho ridotto.»
«Harry-»
«Non voglio che tu cerchi di perdonarmi per i motivi sbagliati» la interruppe.
Lei corrugò la fronte, confusa.
Harry le posò una mano sul fianco, leggera ma difficile da ignorare. «Non voglio che tu faccia come con Miles, che torni da me solo perché è più semplice o perché sarebbe peggio starmi lontana.»
Improvvisamente le fu chiaro a cosa si stava riferendo. Per quanto lo trovasse assurdo, però, non poteva ritenerlo incomprensibile.
Quando Miles l’aveva tradita, Emma aveva provato a lasciarlo fallendo miseramente: la sofferenza che aveva provato era stata così intensa da riportarla sulla sua soglia di casa poco tempo dopo, alla ricerca di chi l’aveva ferita tanto e che avrebbe potuto anche alleviare le sue pene. Emma ed Harry avevano discusso a lungo sul suo comportamento da codarda, lui si era stupito di quel suo lato fragile e spaventato: Emma non voleva perdonare Miles per il tradimento che le aveva inflitto, ma doveva farlo per restare a galla.
Forse Harry pensava che, nonostante tutte le colpe che gli aveva addossato e tutto il dolore che le aveva procurato, Emma non l’avesse lasciato per paura di quella solitudine che gli aveva così duramente rinfacciato. Forse temeva che anche e soprattutto in quella situazione Emma cercasse di restare aggrappata a qualcosa, a lui, pur di non sprofondare in un abisso di sofferenza. Che non lo facesse in onore del sentimento che li legava, ormai macchiato da rimorsi e condanne, ma solo per spirito di sopravvivenza.
Emma non poteva ritenerlo folle nel pensare qualcosa del genere. In fondo inizialmente l’aveva egoisticamente usato per i propri confusi bisogni: persino quando credeva di odiarlo con tutta se stessa, aveva usato l’amore nei suoi confronti per attenuare un dolore che altrimenti l’avrebbe divorata in breve tempo. L’aveva respinto lucidamente e più volte, impugnando con fierezza tutti i motivi dietro la sua rabbia, solo per poi cercarlo quando si sentiva troppo debole per andare avanti.
“In alcuni momenti sembra che tu non riesca nemmeno a guardarmi in faccia… In altri momenti invece sembra che tu non voglia altro che me.”
Eppure mentre usava Harry per lenire le proprie ferite e queste iniziavano a guarire sotto il suo tocco, la sua mente ed il suo cuore avevano iniziato a riemergere dalla foschia e dai sentimenti ciechi. Emma aveva iniziato a capire che se aveva avuto bisogno di lui anche nel momento in cui più l’aveva disprezzato, era perché nessun’altro avrebbe potuto sortire l’effetto desiderato: e non era un bisogno impersonale, ma ben preciso. Aveva iniziato a capire che la solitudine che l’aveva terrorizzata non era una solitudine egoista. Emma non avrebbe voluto qualcuno con lei nel momento più spaventoso della sua vita: aveva avuto Pete, e non le era bastato. Aveva avuto tutta la sua famiglia, la sua amata e devota famiglia: non le era bastata.
Emma avrebbe voluto solo Harry, l’uomo che amava con tutta se stessa e nonostante tutto.
«Harry…» Emma sospirò il suo nome, improvvisamente incapace di articolare tutti i suoi pensieri ad alta voce. Decise di impegnarsi a farlo, però: glielo doveva. In onore di quella sincerità e trasparenza che erano riusciti a raggiungere così faticosamente, glielo doveva. «Tu e Miles non siete nemmeno lontanamente paragonabili. Spero che tu questo lo sappia.»
Qualcosa nello sguardo di Harry si indurì momentaneamente. «Tempo fa avresti detto la stessa cosa di lui» le ricordò.
«Sì, forse l’avrei fatto» confermò lei, accarezzandogli la mascella con la punta delle dita, forse cercando di farla rilassare. «Ingenuamente l’avrei fatto.»
Harry sembrò infastidito da quella verità, ma non si allontanò.
«Ma non pensi che le cose siano cambiate?» Gli domandò.
«Sì, sono cambiate, Emma. Ed è proprio questo che-» Harry si interruppe respirando profondamente. Aspettò qualche istante prima di riprendere, come per riordinare le idee, anche se Emma notò nel suo tono di voce lo sforzo di essere sincero ed allo stesso tempo il timore di esserlo. «Siamo arrivati a questo punto perché ci siamo feriti a vicenda. Io ti ho ferito. Ti ho deluso così tanto proprio perché le cose sono cambiate, proprio perché io e Miles non siamo lontanamente paragonabili: ma mi chiedo se sia ancora così e se tu sia rimasta qui solo perché può aiutarti. Mi chiedo se il modo in cui ogni tanto mi guardi… Mi fa avere paura di perderti, Emma.»
“In alcuni momenti sembra che tu non riesca nemmeno a guardarmi in faccia.”
«Di quale Emma ti fidi di più?» Chiese lei, cercando di rassicurarlo. «Di quella che non riesce a guardarti perché è spaventata e ferita? O di quella di poco fa, che non vede altro che te?»
“In altri momenti invece sembra che tu non voglia altro che me.”
«Non si tratta di fiducia» le rispose.
Emma sbuffò piano. Non sapeva come esprimere una rassicurazione che non era pienamente in grado di rivolgere nemmeno a se stessa. «Harry, io voglio provare ad aggiustare le cose» riprovò, con più decisione. «Non so quanto sarà difficile o quanto ci vorrà. Sicuramente ci saranno altre volte in cui starti vicino mi farà male…» Harry distolse lo sguardo, irrequieto di fronte a quella prospettiva. Lei cercò di trattenerlo con una mano tra i suoi capelli. «Probabilmente ci saranno volte in cui anche tu vorrai urlarmi contro» aggiunse. «Ma voglio provarci» gli ripeté. «E non perché da sola è più difficile. Voglio provarci perché lo sarebbe senza di te». Fece una pausa, analizzò il respiro di Harry e le sue labbra increspate, nervose. «È una differenza quasi invisibile, ma fondamentale.»
Harry rilassò appena le spalle, la sua corazza scalfita da quelle parole, eppure non sembrava ancora convinto. Sembrava ostinarsi a ripercorrere nella mente ogni volta in cui Emma l’aveva respinto in preda al rancore e confrontarla con ciò che lei gli stava dicendo, alla ricerca di discrepanze in grado di farlo vacillare.
Emma lo osservò per qualche istante, strinse i suoi capelli tra le dita. «Se davvero non mi credi, se hai così paura che io resti per i motivi sbagliati… Dammene di giusti, Harry.»
Harry spostò lo sguardo sulla sua bocca, ma non disse niente. Il suo silenzio le stava opprimendo il petto, facendo oscillare pericolosamente le briciole di determinazione che aveva impilato per guardare oltre il suo muro difensivo.
«Io sono spaventata quanto te, ma sono disposta a provarci» insistette Emma. «Non possiamo farlo insieme?»
A quelle parole Harry riportò gli occhi nei suoi, la studiò. «Solo se lo vuoi» rispose lentamente, stringendo la presa sul suo fianco. «Solo se lo vuoi davvero, Emma.»
La sua voce roca si era avviluppata in una minaccia.
«Credi che te lo chiederei, altrimenti?» Ribatté, percependo la frustrazione crescere ed implodere. Gli si avvicinò fino a toccargli le labbra: lui le respirò contro, le sfiorò la bocca incapace di resistere, ma non la baciò. «Se io non ti amassi…» Si fermò, abbassò le palpebre per scoraggiare lacrime invadenti, risvegliate dal sentimento che aveva appena confessato e ricordato anche a se stessa. «Se io non ti amassi così tanto, credi che te lo chiederei?»
Emma non riusciva a concepire come potesse esistere un amore tanto profondo da risultare nella più devastante arrendevolezza e contemporaneamente nella più intoccabile determinazione. Non riusciva a capacitarsi di come potesse esistere un amore in grado di rendere tollerabili ferite altrimenti imperdonabili, in grado di compensarle e di promettere loro una cura altrimenti irraggiungibile. Un amore così viscerale da essere lo stendardo della speranza. Persino della fede.
A quel punto Harry la baciò.
«Voglio che te lo ricordi» sussurrò sulle sue labbra umide, accarezzandole il corpo, avanzando un pretesa incontestabile. «La prossima volta che non riuscirai a guardarmi-»
Emma gli morse un labbro, gli prese il viso tra le mani e cercò i suoi occhi. «Ti sto guardando, Harry» gli assicurò.
Lui la ignorò, testardo, come consapevole della pena che lo attendeva, pronto a scontarla e convinto di meritarla. «Voglio che ti ricordi di quanto mi ami» riprese, con meno presunzione di quanta ne avrebbe usata in altre circostanze.
Lei si chiese come avrebbe potuto mai dimenticarsene. Era l’unica cosa che non aveva mai messo in dubbio, il centro della sua esistenza. Il punto saldo al quale si era sempre aggrappata anche mentre tutto intorno a sé sembrava sbiadire e confondersi.
«Ed io mi sforzerò ogni giorno di ricordarti quanto…» Harry lasciò in sospeso la frase, lasciandosi scappare un respiro sofferto che si infranse nell’ennesimo bacio.
«…Quanto io amo te.»


 
Fine.
 


 
Al termine delle precedenti storie, ho sempre salutato i lettori consapevole che avremmo ancora parlato di Emma ed Harry. Al termine di questa, invece, so che si tratta di un addio a questi due tremendi, testardi, antipatici, maledetti, meravigliosi personaggi.
Li lasciamo così, pronti a ricominciare da un punto di rottura piuttosto doloroso: consapevoli di tutti gli errori commessi, ma soprattutto dell'amore che non può esserne vittima.
A questo proposito vorrei specificare una cosa: quando questa storia era ancora una vaga idea, pensavo che avrei descritto anche il ritorno alla normalità di questa coppia. Nella realtà, invece, ho capito che sarebbe stato impossibile, a meno di non creare un'altra long (cosa che sarebbe stata forzata). Le ferite che si sono procurati sono piuttosto importanti e non credo che nello spazio di qualche capitolo avrebbero potuto essere affrontate interamente. Per questo motivo ho preferito descrivere le dinamiche di Harry ed Emma fino al punto in cui entrambi si rendono conto di cosa li ha coinvolti e di cosa sono disposti a fare per rimediare: come emerge (spero) dal testo, il fulcro del processo di guarigione di questi due era evitare orgoglio e dolore e tirar fuori tutto ciò che è stato fatto/detto di sbagliato, in modo da poterci lavorare insieme e non più l'una contro l'altro.
Potrebbe sembrare un finale aperto, ma chi conosce Emma ed Harry sa che in fondo non lo è.
Ancora una volta spero di aver descritto decentemente l'avvicendarsi di tutte le loro sensazioni. Mi preoccupa la complessa sfera emotiva di Emma, ma anche quella di Harry, che posso farvi arrivare solo tramite descrizioni esterne e tramite le interpretazioni di Emma (che spesso non è attendibile: la storia in fondo è raccontata dal suo punto di vista, ma senza che lei sia un narratore onnisciente!). Ho voluto cercare di dipingere come la loro relazione sia fondamentale per entrambi nonostante ciò che è accaduto, ponendo l'accento su come entrambi siano causa di dolore per l'altro, ma anche l'unico conforto disponibile.
È strano pensare a come tutto è iniziato, a come fossero i personaggi in "Little girl" e a come li ritroviamo qui. In un certo senso sono fiera di loro, e spero che anche voi possiate apprezzarli con i loro infiniti difetti. Mi diverte sempre molto leggere commenti di chi si arrabbia con Emma per qualcosa che dice, o con Harry per qualcosa che fa: spesso ci dimentichiamo che nella realtà ognuno di noi commette errori pazzeschi e sbaglia a parlare per orgoglio o paura. Forse nelle storie ci aspettiamo sempre qualcosa di meglio rispetto alla realtà, ma io credo che quelli siano più sogni (detto ciò, io sono la prima a commentare le scelte di questi due idioti, mentre scrivo: vi assicuro che lo spettacolo può essere piuttosto patetico ahahah).

Be', non so bene cos'altro dire, se non GRAZIE. Grazie davvero e semplicemente di tutto: Harry ed Emma sono arrivati fin qui grazie a voi.
 
Io vi saluto con tanto affetto, sperando di risentirci per altre storie.
 
Un abbraccio,
Vero.
 
  
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