Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Luschek    13/03/2021    4 recensioni
Tratto dal testo:
«Dov’è Bertolt?»
Nessuno risponde. Pieck aumenta l'intensità della presa e volge l’attenzione su Zeke, che butta la cicca per fumare una terza sigaretta. I due si guardano tra loro, però non si azzardano a sostenere lo sguardo di Reiner. Non ha bisogno che l’uomo pronunci le fatidiche parole, affinché capisca.
Quel silenzio tagliente gli fa sembrare tutto così chiaro, è il tassello mancante del puzzle che fino a poco prima era incompleto: Bertolt non è al suo fianco perché è morto.
{Hanahaki!AU | Pairing: ReiBert, PokkoPikku | Avvertimenti: Spoiler!}
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Berthold Huber, Porco Galliard, Reiner Braun, Zeke Jaeger
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2 

 

Vedere, Toccare, Gustare il Fallimento 

 


Colt osserva di stucco la pioggia di petali che gli si para dinanzi. Falco agita le manine paffute, mimando la scena vista durante il pomeriggio, e ogni dettaglio aggiunto dal fratello non fa altro che ingarbugliare la matassa dei suoi pensieri.  

Cosa significa che il signor Braun ha sputato una manciata di petali – la stessa che adesso è stata cosparsa sulle sue scarpe? 

Quando è tornato alla stele dei caduti – su cui sono incisi tutti i nomi di chi è morto per la gloria di Marley –, la prima cosa che ha notato, da bravo fratello maggiore qual è, sono stati i pugni serrati del più piccolo. Non si sarebbe mai aspettato, tuttavia, che essi contenessero brandelli di calendule. Peggio ancora: si rifiutava di credere dove se le fosse procurate l’altro. 

«Falco» lo richiama e per l’ennesima volta quell’assurdo racconto, «smettila di dire bugie.» 

Il bimbo s’imbroncia e incrocia le braccia al petto, dopo che viene rimproverato. 

«Ti giuro che è la verità, Colt! Reiner ha vomitato questi fiori!» grida Falco e Colt si pente della propria incredulità.  

È la prima volta che lo vede ribattere con così tanto furore. Di solito, anche se è dalla parte della ragione ma viene contrariato, Falco si ammutolisce e lascia perdere la discussione. Oggi, però, è diverso. Insiste sulla veridicità delle proprie parole e Colt, forse, comprende che molto in fondo sa benissimo che il fratellino stia affermando la verità, ma è troppo spaventato per metabolizzare l’irrazionalità di quella storia. 

«Innanzitutto...» balbetta, «stai parlando di un valoroso Guerriero di Marley, quindi non rivolgerti a lui in questi termini. Devi mostrargli rispetto, quindi chiamalo signor Braun. Intesi» 

Rimproverarlo sembra la via migliore per impedirsi di vacillare.  

«In secondo luogo, anche se fosse come dici tu, che senso avrebbe... mangiare dei fiori? E sputarli? Non pensi che sia una sciocchezza, Falco? E poi... non mi sembra affatto il posto per fare discussioni così insensate.» 

Colt lancia una lunga occhiata alle lapidi da cui sono circondati, cosicché Falco intuisca a cosa si riferisca. Il piccolo non pare curarsene, infatti ritorna ad agitare il pugnetto chiuso e i petali rimasti vengono trasportati via dal vento.  

«Perché non mi credi? Ti ho mai detto bugie prima di adesso?» sbotta il bambino e Colt non sa più come reagire, oltre a percepire una fitta al cuore, quando all’altro trema il labbro dal nervosismo.  

Falco ha ragione, non gli ha mai mentito, eppure la sua mente razionale si rifiuta di metabolizzare un’informazione del genere. Si pinza la narice del naso con indice e pollice, sconsolato.  

«Io vorrei crederti, Falco, ma…»  

«Oh, guarda chi c’è.» 

La frase viene pronunciata da una voce femminile, che sopraggiunge inaspettata alle sue spalle e lo fa sobbalzare. Gli è ignoto a chi appartenga, finché ad essa non si aggiunge una voce maschile. 

«Oggi c’è una riunione al cimitero? È davvero inquietante, ragazzi.» 

Trasalisce quando si rende conto che siano Porco e Pieck. Si volta piano, per accertarsi che siano davvero loro, e lancia un’occhiata intimidatoria a Falco, per intimarlo di tacere. Quest’ultimo coglie l’ammonimento, tuttavia nel suo sguardo c’è un luccichio che a Colt non piace affatto. Deve impedirgli di dire qualcosa, oppure potrebbero finire in grossissimi guai. Colt non può permettersi che ciò accada, poiché  

«Che cosa fate qui, voi due? Siete senza i vostri genitori?»  

Porco si avvicina al bambino per scompigliargli i capelli, ma in cambio riceve un pigolio di protesta. Il ragazzo ridacchia, divertito da quel versetto, e continua imperterrito, finché l'acconciatura di Falco non assume la forma di un nido di gabbiani.  

«Sì. Siamo qui da soli» risponde Colt e, nel proprio intimo, prega che la conversazione finisca lì.  

La ragazza annuisce piano, poi con nonchalance domanda ai due: 

«Capisco… non vi tratterremo a lungo. Volevo solo chiedervi un’informazione, per caso… Avete visto Reiner in giro?»  

Quella domanda è la scintilla che accende la miccia. Colt sbarra gli occhi e sente un tremito scuotergli le spalle, conscio di cosa provocherà quella domanda, ma è troppo lento e, prima che possa fare qualcosa, il danno è già fatto. 

«Sì!» esclama il bambino, che punta l’indice verso il tappeto aranciato che tutti quanti hanno calpestato.  

«L’ho visto! L’ho visto io! Era sulla tomba del signor Hoover e sputava questi fiori!» 

Vorrebbe fuggire via a causa dell’imbarazzo, ma non può, perché gli occhi di Porco e Pieck lo inchiodano sul posto. Il primo ha un sopracciglio sollevato, mentre la seconda inclina il capo di lato, come se volesse scrutare quella situazione da un’altra prospettiva. È lo stigma della famiglia Grice: ritrovarsi coinvolti nel pericolo più di quanto si pensi.  

Nelle orecchie di Colt si diffonde una litania che conosce a memoria: è il timbro basso e roco di suo padre, che gli racconta di come lui e il fratello, a causa dello zio scapestrato, siano costretti a diventare carne da macello per il bene della famiglia.  

Adesso percepisce le ginocchia deboli e il cuore in gola, tuttavia si impone di rispondere. Del resto, i due superiori lo stanno ancora fissando in attesa di una risposta. 

«Scusatelo, io non so perché si sia convinto di ciò… è da un quarto d’ora che lo ripete, ma, voglio dire… voi riuscireste a crederci?» farfuglia e ogni parola esce a fatica dalla sua bocca, 

Porco rimane quieto e rivolge solo uno sguardo confuso a Pieck, la quale, cedute le stampelle all’amico, si china all'altezza di Falco. L’espressione di lei è attraversata da un lampo di dolore così palese, che Colt si sporge in avanti per aiutarla. Porco, tuttavia, gli sbarra la strada mettendo un braccio tra lui e la ragazza.  

«Non preoccuparti. Sono solo le ginocchia, ogni tanto mi cigolano» scherza la ragazza, la quale, dopo, si rivolge al bambino.  

«Puoi dirmi cos’hai visto, Falco? Non tralasciare alcun dettaglio, potrebbe essere molto importante.» 

 

Si morde l’intero della guancia, mentre assiste al racconto scrupoloso che Falco fornisce a Pieck. Viene investito anche dal senso di colpa, perché, invece di ascoltarlo con pazienza, come sta facendo la sua superiore, ha subito contraddetto il bambino, senza dargli il beneficio del dubbio. La paura l’ha sopraffatto e lui, come un qualsiasi idiota, ha ceduto senza riflettere. È forse un cattivo fratello maggiore, per questo motivo? 

Pieck ascolta parola dopo parola la narrazione, la quale occupa solo una manciata di minuti. La ragazza non ha battuto ciglio, né ha posto domande che potessero far vacillare la tesi avanzata dal piccolo, come se prendesse per oro colato tutto ciò che le sue orecchie hanno appena registrato. Quando Falco conclude la storia con un sospiro pesante, riceve una carezza da lei come ricompensa.  

«Grazie mille. Adesso ci occuperemo di questa situazione io e Porco. Tu, però, devi farmi una promessa, d’accordo?» 

Il piccolo annuisce convinto e porge il mignolo alla ragazza, che arcua il proprio a mo’ di uncino, per stringere tramite esso quello del bimbo. 

«Giurami che non dirai niente a nessuno di ciò che hai visto. Va bene?» 

«Sì. Te lo giuro, Pie…» Falco si blocca, lancia un’occhiata preoccupata a Colt, come se si fosse ricordato qualcosa e prosegue con: «Signorina Finger.» 

«D’accordo, marmocchi, adesso ci pensiamo noi» annuncia Porco, mentre restituisce le stampelle a Pieck una volta alzatasi. 

Colt riceve una pacca sulla spalla da parte dell’altro ragazzo e, sebbene sia un gesto insignificante, esso è capace di rilassarlo. Nessuno dei due superiori sembra arrabbiato, anzi, gli sembrano comprensivi, eppure non se la sente di tirare un sospiro di sollievo. E se li denunciassero comunque, perché lui e Falco sanno qualcosa di cui non dovrebbero essere a conoscenza? 

«Nel frattempo che siamo qui, avete idea di dove possa essere andato Reiner?» 

Sia Colt che il piccolo negano mediante un cenno del capo. Il ragazzo non l’ha neanche visto il signor Braun, tanto è stato veloce ad entrare ed uscire dal cimitero. 

«Allora, avete bisogno di altro? Volete essere accompagnati a casa?» propone Porco, che si gratta la nuca rasata. Il tono è un po’ aggressivo e le labbra sono piegate verso il basso. Ciò che ha sentito l’ha sicuramente turbato, azzarda Colt. 

«No, signor Galliard, vi abbiamo già disturbato fin troppo. Vi ringrazio molto della cortesia, però.» 

Porco solleva – di nuovo – un sopracciglio, che rivolge a Pieck, la quale, a sua volta, gli lancia uno sguardo misto tra il divertito e il confuso. 

«Colt, Falco, potete rivolgervi a noi con il “tu”.» 

Falco e Colt si scrutano interdetti per qualche secondo, poi, entrambi esclamano un deciso: 

«Non possiamo!» 

Pieck ride dinanzi quell’ostinazione e aggiunge: 

«Fa nulla, continuate così. Ci farete sentire dei veri adulti, in questo modo.»  

Porco e lei si congedano con un cenno della mano, poi si avviano verso l’uscita – la stessa strada che avrebbero dovuto imboccare i due fratelli, prima che quello strambo evento si verificasse. Quando gli altri due si sono allontanati, Falco si mette le mani sui fianchi e osserva Colt con uno sguardo di rimprovero. Sa bene cosa significhi, perciò, prendendo spunto da ciò che ha visto fare a Pieck, si accovaccia all’altezza del fratellino.  

«Scusa per non averti creduto» mormora, «D’ora in poi ti crederò sempre, qualsiasi cosa succederà.» 

Gli scompiglia la zazzera bionda, su cui dopo dà un bacio.  

«Ti voglio tanto bene. Lo sai, vero?»  

Il bambino annuisce ancora e, infine, allarga le braccia per stringerlo e lui ricambia il gesto. È un semplice abbraccio quello che si scambiano, ma basta questo per scaldare il cuore di Colt. Il bene che prova nei confronti del fratello è indescrivibile a parole, tuttavia, spesso e volentieri, tradurlo in pratica è difficilissimo – anche più dell’addestramento a cui è sottoposto, da quando è diventato un cadetto.  

«Ti voglio tanto bene anch’io, Colt» pigola Falco, che struscia la guancia sul petto del fratello maggiore.  

Dopotutto, Colt si convince di non essere un fratello maggiore così pessimo, se è amato a sua volta dall’altro.  

 

«Pensi che sia impazzito?»  

I pozzi neri di Pieck di allargano così tanto, che Porco teme di precipitarvi dentro. Non hanno avuto occasione di discutere riguardo la missione di recupero, però, da quando la ragazza è stata a Paradise, nota che qualcosa è cambiato in lei. Sa pochissimo su cosa sia successo in quei giorni: gli unici dettagli di cui è a conoscenza sono la morte di Bertolt e la sorte toccata ad Annie.  

Odia ancor di più i demoni dell’isola, dopo che acquisisce quella consapevolezza. Se Pieck pare tesa come una corda di violino e se Reiner, invece, sembra evasivo e assente è tutta colpa degli eldiani di Paradise. Ora che vi riflette, anche Zeke è diventato più distante, da quando ha soggiornato sull’isola. Quanto possono essere diabolici, quegli esseri, se lasciano un’impronta tanto profonda sulle persone? 

«Non dirlo neanche per scherzo» replica la ragazza, velocizzando il passo zoppo per superarlo.  

«Allora cosa pensi che abbia? Sempre che tu creda alla storiella del bambino.» 

È poco convinto della veridicità del racconto, anzi: secondo lui buona parte di esso è intrisa di fantasia. Non ha biasimato affatto Colt, quando ha ammesso di non credere al fratello. Chiunque faticherebbe a farlo, difatti è sorpreso che l’amica abbia dato una chance a Falco. Si domanda cosa le passi per la testa, però aspetta che sia lei stessa a rivelargli i suoi pensieri. 

«Non so… Non ho mai visto nulla del genere. Se avesse dato segni evidenti di instabilità mentale, lo avremmo notato, non credi? Tuttavia…»  

«Tuttavia?» la incalza Porco.  

Pieck sembra rimuginarci sopra, come se fosse indecisa se rivelargli o meno i suoi dubbi. In parte si sente offeso dal tentennamento di lei, però decide di non insistere e lasciare che ella segua il proprio istinto.  

«Ricordi la riunione a cui abbiamo presieduto, poco dopo che Reiner è stato dimesso dall’ospedale?»  

Il ragazzo si gratta la basetta sinistra, confuso da quella domanda tanto improvvisa, e tenta di riportare alla mente il momento citato. Ha solo un ricordo vago di quella riunione, ma nessun dettaglio gli fa comprendere che connessione ci sia tra essa e la storia di Falco.  

«Circa. Perché?» le domanda e non può celare una nota di curiosità.  

Pieck svolta l’angolo della strada prima di rispondere, poi si arresta bruscamente quando dinanzi le si para un bivio. Sembra sovrappensiero – più del solito – e ciò lo fa preoccupare. Perché quella storia la tormenta così tanto?  

«Andiamo a casa tua, oppure a casa mia?» chiede la ragazza.  

«A casa mia. È più vicina e tu devi riposare» risponde Porco, dopodiché rimarca in fretta «quindi?»  

Gli viene rivolto un mezzo sorriso dalla ragazza, capace di fargli tremare le gambe, ed è lieto che l’altra sia troppo impegnata a fargli strada da non accorgersene.  

«Dunque… Non so se sia una coincidenza, oppure se i due eventi siano collegati. Quando la riunione è finita, io sono andata in bagno. Quello riservato ai soli eldiani, perché era più vicino rispetto a quello personale dei Guerrieri, e mi facevano male le gambe, ma conosci già questo discorso. Dunque, ho sentito entrare qualcun altro, che ha tossito moltissimo. Sembrava che stesse per rimettere l’anima, poi ha tirato lo sciacquone ed è uscito in fretta e furia, infatti quando sono uscita dal cubicolo ero da sola all’interno del bagno. Tuttavia, ho notato una cosa strana… sul pavimento c’erano dei petali. Lì per lì mi era sembrato strano, però… non mi era passata per la testa un’ipotesi del genere.» 

Quando il racconto finisce, Porco già scorge la porta della propria abitazione e persino sua madre, che sventola la tovaglia da tavola fuori dalla finestra. Non sa come reagire, dopo che Pieck gli fornisce quelle informazioni. Da qualsiasi punto di vista si voglia osservare la situazione, Reiner non stia affatto bene. Non che sia mai stato normale, quell’idiota. Un dubbio, però, emerge dalla mente annebbiata del ragazzo: 

«Ti ricordi se i petali fossero come quelli che Falco ci ha mostrato?»  

La ragazza batte un paio di volte le ciglia, le labbra dischiuse a causa dello stupore, come se quel dettaglio fosse la chiave per risolvere il mistero.  

«No, erano parecchio diversi… Erano petali tozzi e con sfumature violacee. L’esatto opposto di quelli che abbiamo visto stamattina.» 

È l’eco dei passi a riempire il silenzio che cala tra loro. Mentre riflettono, con le sopracciglia corrugate e la bocca serrata, raggiungono casa sua, dove vi è sua madre pronta ad accoglierli sul porticato. La donna rivolge un sorriso enorme ad entrambi e, come fa sempre quando vede il ragazzo in compagnia di altre persone, pronuncia il fatidico invito: 

«Ti andrebbe di entrare, cara?»  

Non sarebbe nemmeno necessario formulare tale invito, perché, dopo tanti anni trascorsi insieme sul fronte, Porco e Pieck condividono persino il piatto in cui mangiano, a momenti. Nonostante ciò, la ragazza – come fa ogni volta che la donna la invita ad entrare – socchiude le palpebre e annuisce.  

«Se non le arreco disturbo, volentieri.» 

«Sai che non disturbi mai» replica la signora e porge il braccio a Pieck, così da sostenerla mentre sale i gradini che conducono alla porta d’ingresso.  

Rimane in silenzio, nel frattempo che osserva le due donne fianco a fianco, e una parte di sé desidera poter vedere quella scena con più frequenza. Non sa dare una spiegazione logica a questa speranza, ma è conscio che, qualsiasi cosa significhi, è sia positivo che negativo.  

«Pokko, tu non entri?» domanda la madre.  

Le guance gli si imporporano il fastidio gli pizzica il petto, quando la madre lo chiama con quel nomignolo. Ormai ha perso il conto delle volte in cui l’ha rimproverata per questo motivo, perciò si trattiene dal farle notare il misfatto. È una causa persa in partenza.  

«Arrivo, ma’» borbotta e segue entrambe le due.  

 

A primo impatto, casa sua sembra un negozio di antiquariato. Su ogni mobile, scaffale o mensola, vi sono piazzati piccoli oggetti in ceramica – sciccherie di cui ama prendersi cura sua madre, oppure che ella perde tempo a spolverare, anche se su di essi non vi è nemmeno un acaro di polvere. Porco spera che Liberio non venga mai scossa da un terremoto, altrimenti quelle statuine si tramuterebbero in un tappeto di cocci. Né lui né suo padre sono stati particolarmente contenti del nuovo arredamento, ma la donna ha insistito – “Mi tiene la mente impegnata” ha ripetuto ad entrambi fino allo sfinimento – e persino nelle camere da letto è riuscita a piazzare qualche ninnolo.   

Nessuno dei due uomini ha osato opporsi, poiché sanno che quella mania è scaturita da un preciso evento, che Porco ricorda ogni sacro giorno, quando entra in soggiorno: del resto il quadretto in cui Marcel sorride è piazzato proprio sulla parete di fronte la porta, quindi è impossibile ignorarlo. L’angoscia gli strizza il cuore ad ogni occhiata che gli dà, ma di rimuoverlo non se ne parla: non ha né la forza di farlo, né la pazienza di discutere con sua madre per averne il permesso.  

Appesa la giacca all’appendiabiti, percorre tutto il corridoio, sale la prima rampa di scale e svolta a destra. Quando si affaccia alla soglia del terrazzo, trova Pieck e sua madre sedute attorno un tavolino tondo. Su di esso, Porco intravede un grosso tomo con la costina usurata.  

«Cos’è questo?» chiede, mentre si accomoda accanto alle due donne.  

«Un erbario!» esclama la madre e la ragazza si permette di sfogliarne le pagine ingiallite. Anche se ha il viso lontano dall’oggetto, Porco può odorarne comunque l’olezzo di muffa. 

«Stavo pensando di dedicarmi al giardinaggio. I balconi sono così spogli… e vorrei aggiungere qualcosa per decorarli!»  

«Mi sembra un’ottima idea, mamma.» 

È lieto di vedere un sorriso sul volto della madre, e lo è ancora di più nel sentirla speculare sulle piante e i fiori che vorrebbe curare in futuro. Il monologo della donna procede ininterrotto per alcuni minuti, finché Pieck non volta il libro verso di loro, affinché possano leggerlo: 

«Scusi, signora Galliard…» la anticipa la ragazza, prima di aggiungere: «Erano i petali di questo fiore.» 

Madre e figlio strizzano gli occhi per decifrare i minuscoli caratteri delle pagine. Addirittura, la prima deve inforcare gli occhiali per focalizzare meglio le parole.  

«Anemone. Appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae. La sua principale caratteristica sono i petali frastagliati e gli sgargianti colori delle sue molteplici varietà» legge la signora Galliard.  

«A cosa vi serve un fiore del genere?»  

Pieck e Porco si scrutano, incapaci di formulare una scusa lesta. Passano una manciata di secondi, che a lui paiono un’eternità, ma alla fine è la ragazza che si prende la responsabilità di portare avanti la discussione. 

«Volevamo decidere quali fiori portare alla tomba di Bertolt Hoover, signora Galliard.» 

Sua madre si porta una mano sul petto e annuisce, come se comprendesse il finto cruccio che li scuote. Le ciglia le si riempiono di piccole lacrime, tanto che Porco teme di assistere ad un imminente pianto. Gli si forma un nodo alla gola, quando la vede infragilirsi all’improvviso: è un acquazzone che non è pronto a sopportare. 

«Gli volevate bene, vero? Era un ragazzo d’oro. Ricordo quando veniva a giocare qui a casa, con Reiner, Porco e...» 

Il silenzio inghiotte il nome di Marcel, come se quest’ultimo non fosse mai esistito. Porco non vuole essere rigido, soprattutto nei confronti di sua madre, dato che il loro lutto si può definire fresco, ma s’impone di esortarla con un: 

«E...?» 

Le palpebre di lei sfarfallano frenetiche sulle iridi umide, ma, a denti stretti, dice quella parola che, anni addietro, amava pronunciare alla follia. 

«... e Marcel. Scusate un momento» mormora lei, pinzandosi la radice del naso tra indice e pollice. 

È una donna molto buona, sua madre, e Porco sa che se scoppiasse a piangere, lo farebbe non solo per il figlio insepolto, ma anche per gli altri bambini – così ha definito Bertolt ed Annie, le rare volte in cui ne hanno parlato – che non possono più gioire della luce del sole.  

Non ama esprimere affetto, ma in quelle circostanze abbracciare la mamma gli viene naturale come respirare. Le accarezza i capelli, sotto lo sguardo pentito di Pieck, che cerca di liquidare con un diniego del capo.  

«Scusa, mamma. Vuoi che parliamo d’altro?» propone Porco, quando nota che le lacrime sul volto di della donna si sono arrestate.  

«No, no. Non preoccuparti, piccolo mio. Sto bene.» 

La signora Galliard si asciuga le lacrime con un fazzoletto portole da Pieck, poi sfoggia un sorriso tirato, a cui, tuttavia, i due ragazzi fingono di credere. Non crede sia il momento giusto di insinuarlo, ma Porco è convinto che sua madre simuli una tale risolutezza perché prova vergogna nei confronti della ragazza.  

«Allora… volevate portare un mazzo di anemoni a Bertolt? È un fiore dal significato molto particolare, non so se sia adatto a…»  

«Aspetti…» la interrompe Pieck «cosa intende, quando si riferisce ad un significato particolare?»  

L’interlocutrice sembra rimuginarci su, mentre le pupille lucide scrutano la dettagliata incisione del fiore. 

«L’anemone simboleggia l’abbandono e la malattia. In base al colore, può anche rappresentare l’attesa o la speranza. È un fiore dal significato molto contorto, per questo mi sembra… una scelta azzardata.» 

Dalle sopracciglia corrugate della madre e dal broncio che le storce le labbra, sospetta che ella voglia aggiungere altro. Restano tutti in silenzio, come se quello possa sollecitarla a sputare il rospo, che effettivamente accade dopo qualche minuto di esitazione: 

«Questo mi porta alla mente un aneddoto alquanto… macabro, che ho letto riguardo gli anemoni. Si dice che chiunque sia affetto da Hanahaki, prima o poi, vomiti questi fiori.» 

I suoi neuroni vanno in tilt quando la madre pronuncia quella frase. Ricollega immediatamente il dettaglio della malattia allo strano comportamento di cui Reiner è stato accusato, dopodiché strabuzza gli occhi e si volta verso l’amica, scioccata tanto quanto lui. Possibile che si tratti di Hanahaki, ammesso che esista un male così strambo?  

«Cos’è l’Hanahaki, signora Galliard? Potrebbe parlarcene, per favore?» mormora Pieck.  

«Be’,» comincia la donna, «non so se esista davvero, ma si dice che sia una malattia che colpisce gli innamorati. O meglio, colpisce coloro il cui amore non è ricambiato, oppure le coppie che sono state divise dalla morte.» 

La signora Galliard si arresta un momento, si prende il mento tra indice e pollice e dopo aggiunge: 

«L’Hanahaki comporta una morte lenta e dolorosa. Si dice che all’interno dei polmoni crescano i semi dei fiori, finché le radici non… li perforano. Provoca problemi all’apparato respiratorio e, quando la malattia peggiora, nausea frequente. Sull’erbario è stata utilizzata un’espressione parecchio calzante, esso diceva che fosse come se… ti crescesse un giardino dentro il petto.» 

La schiena di Porco trema a causa dei brividi. Non è tanto il racconto a procurarglieli, perché sua madre ha risparmiato loro i dettagli più macabri, piuttosto è la consapevolezza di quanto stia succedendo a lasciarlo basito. Reiner sta morendo d’amore.  

Quanto gli suona strano tale pensiero?  

«È terribile» sentenzia Pieck, con gli occhioni pece spalancati e il volto più pallido del solito. 

«Lo so, cara… Non augurerei nemmeno al mio peggior nemico una morte del genere…» 

E lui la augurerebbe una morte del genere, Reiner? Percepisce i palmi delle mani sudati e un nodo all’altezza dello stomaco, ma non comprende perché sia agitato a tal punto. Forse teme che questo Hanahaki sia contagioso e che possa colpirlo?  

Le iridi nocciola si voltano automaticamente verso la ragazza. Ecco cosa teme: di ammalarsi come Reiner, a causa di un amore che non può essere corrisposto.  

«Vado in cucina» annuncia, prima di dileguarsi oltre le tende di cotone.  

Senza voltarsi, percepisce il clangore delle stampelle di Pieck e ciò lo solleva, poiché significa che lo sta seguendo. Nonostante ciò, si dirige imperterrito verso la cucina dove, una volta giunto, si fionda sulla bottiglia d'acqua posta sul tavolo. Il paradosso è che, più ingolla quel liquido fresco, più sente la gola inaridirsi.  

Pieck non fa troppe cerimonie e si siede sulla prima sedia disponibile con un tonfo secco. Le ginocchia di lei hanno piccoli spasmi, segno che non riuscirà a camminare e dovrà accompagnarla a casa.  

«Cosa ti è successo?» ansima, «Tua madre si è preoccupata.» 

«Nulla,» mente Porco «sono solo… perplesso.» 

L’altra lo fissa a lungo, come se avesse scovato la sua bugia, ma poco dopo mormora: 

«Anch’io lo sono. Se questo fosse vero, significa che Reiner… sta morendo. E prima del previsto, perché...»  

La vede mordersi il labbro inferiore, impensierita. C’è qualcosa di anomalo nelle sue parole, una sfumatura di dolore che non sa come catalogare. Porco posa la bottiglia vuota nel lavandino, poi le si avvicina e le lascia una carezza tra i capelli.  

«Cosa stai insinuando?»  

«Presumibilmente, se ciò che ha raccontato Falco fosse vero e se questa malattia esistesse davvero, allora lui sta così, perché Bertolt…»  

«Non ti azzardare!» sbotta, interrompendola, «Non azzardarti a dire che sia colpa tua. Anche se tutta questa assurda situazione fosse vera, tu cosa avresti potuto fare quella volta? Tentare di salvare Bertolt da quei demoni? Se ci avessi provato, sai cosa avresti ottenuto? Solo altri morti.» 

Pieck lo osserva esterrefatta, come se l’avesse appena insultata. Gli dispiace di averla ferita, perché conosce bene i discorsi che pullulano riguardo il Gigante Cargo – Porco ha perso il conto di quante volte abbiano detto alla ragazza di aver ereditato il Titano più inutile –, però non può fare a meno di guardare in faccia la realtà: neanche se lei avesse posseduto il Gigante Martello, avrebbe potuto fare la differenza.  

«Se davvero Reiner ha contratto questa… cosa, perché amava Bertolt, o qualsiasi cosa ci fosse tra loro, tu non devi sentirti responsabile. Non ce l’hanno fatta Zeke, Reiner, Annie e Bertolt, pur possedendo i Giganti più for... più versatili. Questo significa che qualsiasi cosa ci sia aldilà del mare, è più temibile di quanto si possa immaginare. E tu dovresti saperlo meglio di me, dato che li hai incontrati faccia a faccia, quei mostri.» 

L’amica non sembra ancora convinta di ciò che Porco dice, ma annuisce. Pare affranta, con le ciocche scure e arruffate che le ricoprono il volto, e lo sguardo di lei è vuoto – perché, senza che glielo dica, sa che è ritornata con la mente a quella dannata battaglia. È mosso da puro istinto, dunque, quando la avvolge in un abbraccio, all’interno del quale Pieck sparisce.  

Qualsiasi cosa accadrà, lui sarà sempre al fianco di lei per proteggerla. Non la lascerà sola, né passerà giorno in cui si preoccuperà o prenderà cura di lei, se lo promette. Glielo promette. Spera che a causa dell’abbraccio stretto, l’altra non percepisca i battiti celeri del suo cuore, eppure non riesce a sciogliere l’abbraccio per riguardarsi – ed evitare, così, che il suo segreto trapeli. 

«Pokko,» lo chiama con voce salda, «grazie.» 

 

«Reiner! Reiner! Facciamo una passeggiata? Ti prego! Ti prego!»  

Vederla saltellare in cerchio e sentirla gridare gli procura una fastidiosa emicrania, però non può fare a meno di essere contento di avere Gabi intorno. Quell’allegria genuina allontana via i suoi cattivi pensieri, oltre che la perenne sensazione di nausea, quindi è grato che quello scricciolo sia tanto rumoroso.  

Reiner si accovaccia all’altezza di lei e sorride, evento più unico che raro dacché è ritornato.  

«Solo se prometti di non fare i capricci quando dobbiamo tornare.» 

Colpita e affondata: le iridi nocciola di Gabi sembrano enormi come due meteore, quando questa sbarra gli occhi.  

«Io non faccio mai capricci! Sono una brava bambina!» esclama piccata e i pugnetti chiusi vengono agitati in aria per farsi valere. Quanto fervore può contenere quel corpicino? 

L'espressione imbronciata di lei gli strappa una lieve risata – appena percettibile, ma pur sempre una risata – e sul volto della bimba si apre un sorriso radioso come il sole.  

«Hai riso» afferma lei, poi allunga le braccia verso il cugino.  

«Ho riso? Davvero?»  

Si finge incredulo, però neanche a lui è sfuggito quel particolare. Gli è ignaro di come Gabi riesca ad influenzare il suo umore. Ogni gesto di lei può rendere la sua stupenda o terribile. Forse questo accade perché non è avvezzo ai bambini – lei e Falco sono i primi con cui è mai entrato in contatto, se ricorda bene – e non sa quanto potere questi possano esercitare sugli adulti – sia in negativo che in positivo.  

La prende in braccio, come richiesto dalle manine che fameliche fendono l’aria, e le schiocca un bacio rumoroso sulla guancia, che strappa una risata alla bambina.  

«Mi fai il solletico, Rei!»  

«Soffri il solletico? Interessante.» 

Una pioggia di baci investe le guance di Gabi e lei ride, ride tantissimo, fino a diventare rossa come un peperone, e scalcia come una matta, per tentare di liberarsi. Le sue grida felici attirano addirittura la madre, che, appena li sente, appare sulla soglia della cucina.  

«Vi state divertendo?» domanda la donna, mentre ondeggia davanti ai due il cappottino verde di Gabi, «ho sentito che volete uscire fuori.» 

«Sì! Molto!» urla Gabi e porge un braccio alla madre, cosicché la aiuti ad indossare il soprabito.  

«Sì, Gabi voleva fare una passeggiata. Possiamo, zia?»  

«Certo,» mormora la donna, mentre infila l’indumento alla bambina, «basta che torniate prima del tramonto.» 

«D'accordo.» 

Gabi trilla allegra un verso di vittoria, poi circonda il collo di Reiner con un braccio e sventola la manina verso la madre, la quale ricambia con il medesimo gesto.  

«Andiamo, Rei! Ciao mamma! Ciao!» 

Sta per oltrepassare l’uscio, quando la madre di Gabi esclama: 

«Aspetta, Gabi!»  

Reiner la vede avvicinarsi al cassetto di un mobile e rovistarvi dentro con frenesia. Dopo che ne ha estratto una fascia gialla, si avvicina loro. 

«Hai dimenticato questa» borbotta alla piccola, nel frattempo che la costringe ad indossare la benda gialla che riporta la stella degli Eldiani.  

Prova una mistura di rabbia e tristezza, quando assiste a quella scena: la piccola non può essere libera da quella stigma neanche durante una semplice passeggiata. Ci sono tanti dettagli che accrescono il suo risentimento, come gli occhi colmi di paura della zia, quando è accorsa da loro con la fascia in mano, o l’attenzione con cui si è assicurata che l’indumento fosse ben ancorato al braccio di Gabi.  

Risalutano di nuovo la donna e questa volta il ragazzo si affretta a scendere le scale per lasciarsi alle spalle altri intoppi. Inoltre, dato che la cugina non accenna a scendere, Reiner sospetta che la sua sarà una lunga e pesante camminata, tuttavia non si sente infastidito da quel vizio. Ho passato di peggio, pensa mentre esce di casa.  

A Liberio il silenzio regna sovrano, ma quello che oggi si propaga tra le strade, gli ricorda il familiare mutismo che affligge il cimitero. Sebbene il sole risplenda e che, dopo appena cinque minuti di passeggiata, le guance della piccola si tingono di rosso, non vi è nessuno lungo le vie del ghetto.  

È un evento così raro, quanto ambiguo, che Reiner percepisce il cuore sospeso – come quando, dopo una battaglia, si voltava indietro e scrutava la scia di distruzione che si era lasciato alle spalle, ma non sapeva se provare soddisfazione o meno.  

«Reiner.» 

«Sì, Gabi?»  

La bimba si accoccola al suo petto e preme parte del viso contro di esso.  

«Perché sei sempre triste?»  

Si arresta di colpo, come se la domanda fosse stata una freccia e l’avesse inchiodato sulle basole della strada. Scosta appena Gabi e inclina il collo di lato, affinché possa vederla meglio.  

«Io non sono sempre triste» ribatte, anche se è una menzogna palese.  

«Bugiardo» lo riprende la piccola, indispettita, «anche quando ridi, hai gli occhi tristi.» 

È colpito da quest’affermazione, nonostante sia la pura verità. Credeva di essere parecchio bravo a fingere – addirittura da ingannare sé stesso, ma forse in quello era abile un altro lui. Se persino Gabi si è accorta del suo malessere, Reiner non osa immaginare cosa pensino gli adulti, in particolar modo sua madre. Deglutisce al solo pensiero di confrontarsi con lei su determinati argomenti. 

«È per colpa dei demoni dell’isola... Se sei così? Zia Karina e mamma pensano di sì. Ti hanno fatto tanto male?» 

Reiner riprende a camminare con meno lena, mentre sospira. Parlare di Eren, Connie, Jean, Sasha, Mikasa, Armin e Christa in quei termini lo tormenta. Non li ha mai considerati demoni, nonostante abbia sempre saputo la verità, a differenza loro – anzi li ha persino definiti e creduti dei cari compagni, al pari di Bertolt ed Annie. Strizza le palpebre, mentre ripensa agli ultimi due: un velo di lacrime gli pizzica gli occhi, tuttavia non una di esse sfugge al suo controllo. È un Guerriero, quindi è obbligato a trattenersi.  

Dato che non riceve risposta, Gabi sembra recepire il messaggio taciuto e cambia discussione: 

«Dove stiamo andando, Rei?» 

«In un posto speciale.» 

In realtà il ragazzo non sa dove stia andando: sono i suoi piedi a condurlo, mentre ripercorrono passi che ha già compiuto anni addietro. Per raggiungere il suo posto speciale, Reiner si inoltra tra le viuzze strette e articolate che si diramano in tutto il distretto. La memoria di tanto in tanto lo inganna, poiché è la prima volta che, dopo parecchio tempo, prova a visitare il luogo che ha in mente e, senza volerlo, ripercorre più volte le stesse strade – o, addirittura, sbucano all’interno di vicoli ciechi. Gabi durante tutto il tragitto non fiata, anzi, ad un certo punto drizza la schiena e scruta con gli occhi vispi ogni mattonella, gatto randagio o insegna in cui incappano, affascinata dal paesaggio circostante.  

«Quanto ci vuole, Rei? Mi sto annoiando.» 

«Non molto.» 

«Ma tu dici sempre così, anche quando non è vero!» esclama lei.  

«Mi stai dando del bugiardo? È la verità… questa volta.» 

A causa di questa risposta, si becca un pugnetto sulla spalla, che percepisce a malapena: Reiner ricambia, però, con un lieve pizzico su una guancia paffuta di lei. Allora la bambina le gonfia entrambe e riduce gli occhi a due fessure, poi, pensando di fargli dispetto, inarca così tanto la schiena, che ora vede a testa in giù la strada che stanno percorrendo. Ridacchia, divertita da quel nuovo punto di vista, e lascia che la testa ciondoli.  

«Ti andrà tutto il sangue al cervello» ironizza Reiner e Gabi fa una pernacchia, dinanzi la scarsa serietà del rimprovero.  

Continuano in questa stramba posizione, con Gabi ancorata al collo e ai fianchi di lui come una scimmietta, e Reiner che la regge dai fianchi, per evitare che cada.  

Quando finalmente raggiungono il luogo, una manciata di minuti dopo, fa scendere la bimba dalle sue braccia e le stringe la mano. Ci sono alcuni particolari della stradina che stanno imboccando, di cui non aveva alcun ricordo: le ampie ragnatele di edera, che si estendono su ambo i muri della viuzza, e cespugli di rose incolte che rendono tortuoso il percorso.  

«Vuoi salire sulle mie spalle, Gabi?» le propone. 

«No!»  

Reiner resta immobile, mentre la osserva sollevare quanto più possibile le gambe per superare i grovigli delle radici. Con quel cappotto imbottito e rattoppato, la scena è ancora più ilare di quanto non sia già, quindi gli è inevitabile lasciarsi sfuggire una risata.  

«Vedi che ti sento!» sbraita Gabi, mentre continua imperterrita.  

Il ragazzo scuote il capo, divertito, dopodiché la raggiunge e la solleva da sotto le ascelle, come se fosse leggera quanto una bambola: è così che si addentrano nel fitto della boscaglia.  

È davanti ad un monumento, il cui marmo bianco ormai è distrutto e opaco a causa dell’usura del tempo, che si arresta. È in quel punto che piazza Gabi, adesso libera di camminare sulle proprie gambe. Quest’ultima allunga le braccia verso il cielo e produce un sonoro “AH!”, quando ha di nuovo il terreno sotto le scarpe.  

«Cos’è questo, Reiner?» domanda Gabi, mentre indica l’enorme vasca davanti cui si trovano.  

Quello non risponde immediatamente. Si prende un paio di minuti per rimuginare da quanto tempo quel piccolo quadrato di terra – l’unico presente in tutto il ghetto – sia rimasto incolto. Le mura che circondano il giardino gli paiono più alte di quanto ricordasse, ma questo non impedisce né alla luce né alla pioggia di penetrare all’interno di quel pezzo di verde – la vegetazione che sembra voler fuggire via da essa e invadere l’intera Liberio, ne è una conferma.  

«È una fontana. Una volta c’era l’acqua» sussurra, sovrappensiero «venivo qui a giocare con i miei amici, quando ero più piccolo.» 

«Ohh. Capisco. Anche se c’era tutta quest'erbaccia?» chiede Gabi, poi zampetta verso il bordo della fontana per sedervisi.  

«Era più curato, prima. C’erano anche due panchine, ma credo se le siano portate via» spiega Reiner, che indica tramite un cenno del capo due zone chiare, dove il cemento si può ancora intravedere. Non è stato recente il furto, pensa.  

La cugina annuisce, poi si osserva intorno e fa dondolare i piedi, che non toccano terra.  

«Perché mi hai portato qui?»  

Prima di rispondere, Reiner le si siede accanto. È una bella domanda, quella che Gabi gli ha posto. Perché l’ha condotta proprio lì?  

Potrebbe dirle che lo ha fatto per mostrarle un luogo nuovo, oppure per renderla partecipe di una parte della sua infanzia. Il reale motivo, però, che l’ha spinto a compiere tale scelta è ben più egoistico: è perché in quel luogo ha un’infinità di ricordi che ritraggono lui e Bertolt.  

Ovunque si volti, la sagoma longilinea dell’amato si trova lì: mentre lo aiuta a rialzarsi, mentre calciano un pallone di stoffa logoro, mentre lo difende da Porco, o, ancora, mentre fa squadra con Marcel per tirarlo su di morale.  

Persino la fragranza dolciastra emanata dalle rose, gli ricorda il profumo del compagno: se chiude gli occhi, Reiner può percepirne persino il calore sulla pelle, ma sa che è solo un’illusione creata dal suo cervello. Infatti, quando risolleva le palpebre, la realtà lo nausea al punto tale da percepire un conato di vomito premergli sul fondo della gola – forse, se si distrae e non rimugina su chi ha perso, il fastidioso retrogusto amaro se ne andrà via.  

«Reiner, tutto bene? Hai di nuovo quell’espressione sulla faccia...» 

Il gelo gli penetra nelle ossa e inarca le sopracciglia, sorpreso. Si era distratto talmente tanto da essersi dimenticato di Gabi al proprio fianco. Quanto spesso gli capita di estraniarsi a tal punto dalla realtà? Deglutisce e si morde l’interno della guancia, nervoso. Non vuole davvero sapere la risposta. 

«Sto bene, non preoccuparti» mente ancora, ancora e ancora

«Comunque sia, ti ho portato qui perché volevo vedere quanto fosse cambiato questo posto. È completamente diverso, ora.» 

«Oh. Ti mancava venirci, Rei?» 

«In un certo senso... sì. Mi ricorda una persona.» 

Gabi corruga le sopracciglia e stringe i pugnetti. Si fa pensierosa in volto, sul quale nasce un piccolo broncio, poi si volta verso Reiner e lo fissa dritto nelle pupille. 

«Chi ti ricorda? Per caso... quel tuo amico? Quello che nomini sempre quando dormi?» 

A Reiner non piace quell’insinuazione così precisa. Ha il timore di chiedere spiegazioni e, dall’espressione impaurita che assume Gabi, sospetta che si sia impresso l’espressione di chi è stato colto in flagrante. 

«Scusa, Rei... Zia Karina dice che nomini sempre un tuo amico. Ha un nome complicato e non lo ricordo.» 

«Bertolt» biascica Reiner, nel frattempo che percepisce la nausea crescere, «si chiamava Bertolt.» 

Spera di non aver detto nient’altro, durante il sonno, se sua madre ha ascoltato con minuzia i suoi deliri notturni. Quanto deve aver parlato ad alta voce, poi, se ha richiamato l’attenzione di lei? In parte, si sente violato, come se gli fosse stato negato persino il diritto di parlare a vanvera mentre è preda dei suoi incubi. Teme che il suo segreto adesso sia troppo esposto e per questo si ripromette che, da quel giorno in poi, chiuderà sempre a chiave la porta della propria stanza. Inspessirà lo scudo che lo separa dal resto del mondo. 

«Sì, proprio lui» Gabi fa una piccola pausa, per poi aggiungere: «Mi dispiace che i demoni lo abbiano ucciso.» 

Non sa come replicare a quelle parole. In quale modo potrebbe spiegare a Gabi, che se Bertolt è morto, non è colpa dei demoni – loro cercavano solo di difendersi da un mostro che ha calpestato le loro speranze e i loro cari – ma del maledetto sistema in cui sono nati? Reiner è tentato di abbattere quelle sue false credenze una volta per tutte, tanto che apre bocca e prende fiato, ma le sue convinzioni si sgretolano quando la piccola annuncia: 

«Voglio essere io a mangiarti, Reiner.» 

Il mondo comincia a vorticare – o è solo il suo malessere che aumenta, rendendo indistinguibili le forme e i colori? – e la nausea peggiora, tanto che si ritrova ad inghiottire per mandar via il conato che vuole risalire la faringe.  

«Voglio diventare una cadetta, l’ho già detto a mamma e papà. Così… così potrò ereditare il Corazzato e rendervi tutti felici. Mamma, papà, la zia e soprattutto te! Così quando torneremo a Paradise potrò vendicare te… e il tuo amico. E anche il fratello del signor Galliard o l’altra Guerriera che possedeva il Gigante Femmina!»  

Gabi sorride contenta, entusiasta di quella prospettiva futura. Reiner vorrebbe solo strangolarsi con le proprie mani, piuttosto che ribattere. Ciò che ha detto la bambina, la rende il più grande trionfo di Marley e il suo più grande fallimento. Avrebbe dovuto completare la – maledetta, maledetta, maledetta – missione proprio per evitare ripercussioni del genere. Per impedire che altre persone divenissero parte integrante di quel folle circolo – come Gabi, che crede ciecamente di star compiendo una giusta scelta – e che altre persone muoiano a causa di esso – come Bertolt. 

Percepisce le budella contorcersi, la gola pizzicare, poi Reiner apre la bocca e, invece di un ammonimento, da essa esce fuori una manciata di petali piccoli come coriandoli e rossi come il sangue. Si alza con uno scatto e, nel tentativo di allontanarsi da Gabi, inciampa nei nodi creati dall’edera e stramazza sulle ginocchia. Si ritrova così, piegato in due dalla tosse – per l’ennesima volta – e a sputare quantità incalcolabili di fiori distrutti. Percepisce i polmoni bruciare, così come le ginocchia, mentre il respiro è un lusso che quei maledetti boccioli gli impediscono di avere – Reiner cerca di prendere boccate d’aria, invece si ritrova in apnea più a lungo del previsto e teme che questa volta nemmeno il suo Gigante sarà in grado di salvarlo. Tanto è lo sforzo, che minuscole lacrime premono agli angoli degli occhi. Dura un paio minuti quella sua tortura, finché il volto non si tinge di sfumature violacee e il terreno non si ricopre di una pioggia cremisi. In sottofondo vi è il singhiozzare sostenuto di una bambina. 

Quando lo schifo che aveva dentro è uscito fuori, ansima, tentando di immagazzinare quanta più aria possibile – come se ciò bastasse a non farlo morire, la prossima volta.  

Tutto all’improvviso tace, o quasi: vi è solo un rumore di passi a fendere l’aria. Dopo che Reiner si lascia cadere di schiena sul suolo, la vede. Gabi è accanto a lui, con le labbra serrate e due scie umide che si congiungono sul mento.  

Entrambi hanno le spalle scosse da tremiti, perché nessuno dei due aveva mai visto piovere così tanti petali.  

 

 

 

 

Note dell’Autrice 

Eccoci qui con il secondo capitolo di questa Mini-Long! Non sono pienamente soddisfatta di ciò che ho scritto, ma meglio di niente, spero di fare meglio con il prossimo! Qui ho dato uno sguardo ad un bel po’ di rapporti: quello tra fratelli, tra amici, tra madre e figlio e tra cugini (che un po’ si comportano come fratelli)! Volevo fare un’hanahaki!AU un po’ diversa, che si concentrasse non solo sulla questione clinica, ma anche sui rapporti che circondano il “malato”. Per quanto riguarda Bertolino, sì, la sua assenza/menzione qui è voluta: io voglio raccontarvelo attraverso il POV di Reiner in questa storia, quindi se non ci saranno flashback su di lui è per questo motivo (oltre al fatto che la storia è stata pensata per essere corta, perché tra questi due avrei potuto scrivere da ora fino all’infinito)! In ogni caso, fatemi sapere cosa ne pensate, recensioni e critiche costruttive sono sempre accette! Come al solito, ringrazio chi ha letto fin qui, compresi i lettori silenziosi!  

Qui di seguito vi lascio il significato dei fiori che appaiono nel capitolo, anche se di uno è già stato rivelato.  

Anemone: Abbandono.  

Amaranto Caudato: Disperazione.  

Un caloroso abbraccio, 

Luschek 

   
 
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