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Autore: Shadow writer    25/03/2021    3 recensioni
Nate è un ventiquattrenne disilluso e pessimista. Ha un lavoro che odia, vive in una città che non sente sua ed è rimasto intrappolato in un passato che non riesce ad accettare.
Per aiutare un amico, partecipa a una corsa automobilistica, ma questo lo porterà a invischiarsi in qualcosa di più grande di lui.
"«Si dice che tu ti stia facendo un nome in città» commentò Alison, appoggiandosi al bancone di fronte a lui.
Il ragazzo alzò gli occhi dalla bistecca e incrociò quelli civettuoli di lei.
«È stata la mia prima e ultima gara» ribadì, «l'ho già detto a Richie.»
Lei fece schioccare la lingua contro il palato in segno di disappunto.
«Mi hanno riferito che ci sai fare con le auto.»
Nate rise e si sporse verso la ragazza.
«Me la cavo bene con molte cose, Alison» quando pronunciò il suo nome, le appoggiò le dita sotto il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, «ma ciò non significa che io sia interessato a tutte queste.»"
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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L’avvocato

 

A svegliarlo qualche ora più tardi fu la suoneria del cellulare. Si trattava di Richie.

«Ho parlato con un avvocato, che ha accettato di incontrarci. Per ora è fuori città, ma ci ha detto di passare dal suo studio e lasciare tutte le informazioni. Vestiti bene».

Quando l’uomo riattaccò, Nate era ancora steso sul letto con Mila che gli dormiva accoccolata al fianco.

Si alzò stiracchiandosi e si diresse verso la doccia.

«“Vestiti bene”» ripeté tra sé mentre apriva l’armadio e scrutava la pila di T-shirt e felpe. Gli venne in mente che da qualche parte aveva una camicia che gli avevano dato quando aveva lavorato nel catering per qualche weekend. Riuscì a trovarla nascosta nell’angolo più buio del mobile e decise di indossarla insieme ai jeans meno logori che aveva. Quando si guardò allo specchio pensò che almeno avrebbe avuto tempo di comprare un completo decente per il processo.

Scese in strada e dopo poco venne raggiunto dalla grossa auto scura di Richie. Si infilò al posto del passeggero e commentò ironicamente: «Sicuro che non vuoi che guidi io?»

L’uomo sbuffò una risata trattenuta. Nate notò che anche l’altro si era messo in tiro, con quella camicia nera, coperta da una giacca elegante dello stesso colore e abbinata ai pantaloni. Indossava persino un cappello per coprire il suo cranio tatuato.

«Come hai trovato l’avvocato?» gli chiese, per cercare di fare conversazione e stemperare il nervosismo che lo stava pungolando.

«È un tizio giovane, nuovo in città, quindi non conosce il mio nome abbastanza bene da sapere di cosa mi occupo». I suoi occhi ebbero uno scintillio malizioso. «E l’ho convinto dicendo che sei un povero ragazzo vittima di una società ingiusta».

Nate alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, e Richie rise. «Che c’è? Mi hanno detto che è uno sensibile alle ingiustizie».

Lo studio si trovava in un edificio alto ed imponente del centro città. Lasciarono l’auto nel parcheggio sotterraneo e salirono fino al quinto piano. Quando le porte dell’ascensore si aprirono, si trovarono in un ambiente luminoso, dominato da colori chiari e tenui. Abbondante luce naturale si riversava dalla vetrata che occupava una parete intera.

Si avvicinarono al banco della segretaria, che subito li condusse in un ufficio poco distante.

«L’avvocato Carter si scusa ancora di non poter essere con voi oggi, ma è sicuro di avervi lasciato nelle capaci mani della sua assistente» disse loro e si congedò con un sorriso gentile.

L’assistente si trovava già nella stanza e pareva non averli sentiti entrare, perché dava loro la schiena ed era piegata in avanti per frugare tra alcuni faldoni.

Dall’ingresso della stanza, i due uomini riuscivano a vederne i capelli corti e scuri, che scivolando in avanti lasciavano scoperto il collo sottile.

Nate si avvicinò alla finestra e lanciò un’occhiata alla strada sottostante. Avrebbe preferito essere quell’uomo vestito da hot dog sul ciglio del marciapiede piuttosto che trovarsi lì in quel momento.

«Questa ce l’ha l’età per lavorare?» domandò Richie e rise della sua stessa battuta.

L’assistente era piccola e sottile e nonostante la giacca e i pantaloni eleganti, sembrava poco più che un’adolescente.

Sentendo la sua voce, la ragazza si raddrizzò di scatto e, da dietro le lenti degli occhiali, lanciò un’occhiata a Richie, fissandolo intensamente.

«Lei deve essere il signor Bryant» disse stringendo le labbra.

Nate distolse gli occhi dalla strada e si voltò verso gli altri due.

Quando i suoi occhi ebbero messo a fuoco la ragazza, si sentì mozzare il fiato. Fu come se improvvisamente qualcuno avesse risucchiato l’aria della stanza, come se qualcuno gli avesse tirato un pugno nello stomaco, come se due mani premessero intorno al suo collo.

Boccheggiò, paralizzato, e si appoggiò alla soglia della finestra per non finire a terra. Si sentiva infuocato e allo stesso tempo gelido come marmo.

Anche il volto della ragazza era improvvisamente impallidito e la sua espressione si era fatta turbata.

«Allora, cominciamo o no? Non ho tutto il giorno» protestò Richie e l’assistente fu costretta a distogliere lo sguardo da Nate.

Si spinse gli occhiali sul naso e sistemò una ciocca di capelli dietro alle orecchie, poi si schiarì la voce: «Sì, certo, avete portato tutti i documenti necessari?»

Sbuffando, Richie le tese la cartella che aveva portato sottobraccio fino a quel momento.

La ragazza estrasse i fogli dalla cartella e li guardò a uno a uno. 

Nate la fissava come in trance, fino a che lei li restituì a Richie. 

«Manca l’assicurazione dell’auto» comunicò tossicchiando e sistemò nuovamente gli occhiali.

«Non credevo fosse necessaria.»

«Lei sapeva che era necessaria» lo corresse l’assistente, «Sono certa che il mio collega l’avesse avvertita.»

In quel momento squillò il telefono sulla scrivania.

«Scusatemi» disse e sollevò la cornetta. Dopo aver ascoltato, la ripose e ripeté: «Scusatemi» per poi uscire dalla stanza.

Richie sbuffò rumorosamente. «Chi diavolo si crede di essere? Scommetti che è la figlia del grande capo?»

Nate prese un lungo respiro e si staccò dal davanzale. Si guardò attorno, con il fiato corto.

Sentiva il cuore martellargli nel petto e le tempie pulsare. Vedeva Richie muovere la bocca, ma tutti ciò che sentiva era il sangue che rombava nelle vene.

L’assistente rientrò, comunicò gli ultimi dati a Richie e fissò loro un appuntamento con il suo superiore. 

Prima che uscissero dalla porta, la ragazza bloccò Nate.

«Possiamo parlare?»

Lui si bloccò sulla porta. Fece cenno a Richie di uscire e si voltò verso di lei.

«Come stai?» gli domandò avvicinandosi.

Da quella distanza si vedevano le sue iridi blu scuro dietro alle lenti degli occhiali.

«Bene» rispose lui deglutendo. 

La ragazza aggrottò la fronte, ma non ebbe tempo di aggiungere altro, perché lui si lanciò nel corridoio a passo rapido.

Quasi corse sul marmo liscio, fino a che raggiunse la porta del bagno.

Si aggrappò al lavandino e fissò il proprio riflesso nello specchio. Vedeva le proprie pupille ballare e si sentiva come se sarebbe potuto svenire da un momento all’altro.

Si sciacquò il volto e rimase a fissarsi ancora per un istante. Poi si accostò alla porta e controllò che il corridoio fosse libero.

Prese un respiro profondo e lasciò gli uffici.

 

 

Quando rincasò, Jay stava cucinando e Mike dormiva sul divano.

Nate sbatté la porta e si chiuse in camera sua.

Non era vero. Era stato un sogno. La sua mente cercava di trovare spiegazioni verosimili per quello che era avvenuto, spiegazioni che non implicassero lei

Era stata un’allucinazione. No, c’era Richie con lui.

Era solo una persona molto simile a lei. No, che diamine, non avrebbe mai confuso i suoi occhi blu.

Gli aveva chiesto come stava, gli aveva parlato. Era lei. Era davvero lei e Nate l’aveva avuta davanti, non nei suoi sogni, non nelle sue allucinazioni, ma nella realtà.

Sentì qualcosa di morbido toccargli il braccio e si accorse che si trattava di Mila che chiedeva le coccole. Guardò la gatta con un’espressione allucinata, mentre lei socchiudeva gli occhi sornioni.

Le fece qualche carezza e le lasciò un bacio sulla testa, poi uscì dalla stanza ed entrò nella camera di Mike. Sapeva dove teneva la sua erba, perché l’amico non ne aveva mai fatto un mistero, così aprì il cassetto e lo ringraziò mentalmente quando trovò uno spinello già rollato.  

Si rintanò in camera sua, aprì la finestra, e fece uscire Mila dalla porta. Poi tornò alla finestra e si accese lo spinello.

 

Jay lo trovò così, seduto sul davanzale con una gamba a penzoloni e l’altra piegata sulla soglia, lo sguardo assente e un vago sorriso dipinto sulle labbra.

«Cristo Santo» fu la prima cosa che Jay esclamò aprendo la porta. «La tua camera puzza più di Mike di ritorno da un rave».

«Ehi, mi sei mancato» ridacchiò Nate in risposta.

L’altro alzò gli occhi al cielo e gli si avvicinò, aiutandolo in modo non troppo gentile a scendere dalla finestra.

«Forza, andiamo a mangiare».

Nate si lasciò trascinare, come divertito dal fatto che l’amico, più piccolo e sottile di lui, pensasse di poterlo reggere fino alla cucina.

In qualche modo ci riuscì, perché Nate si ritrovò al tavolo con davanti un piatto caldo. Jay insistette perché si mettesse a mangiare.

«Mi piace quando sei così premuroso» gli disse e gli accarezzò la guancia con una mano. Jay la scacciò schifato e si diresse verso il salotto per svegliare Mike.

Nate li sentì confabulare in lontananza, ma non se ne curò e si mise a mangiare il piatto che aveva davanti.

 

Più tardi, quando l’effetto della marijuana stava cominciando a sparire, Jay lo convinse a mettersi a letto e così Nate si ritrovò a farsi rimboccare le coperte dall’amico con Mike che li osservava appoggiato all’armadio, un poco a disagio. 

«Ehi» fece Jay, «sai che se c’è qualche problema con noi puoi parlare».

Nate gli sorrise. «Problema? Perché pensi che ci sia un problema?»

L’altro alzò gli occhi al cielo. «Perché sei fatto, Nate, ecco perché. E stai attraversando un periodo di merda».

«Sto benissimo, ragazzi. Sto benissimo» rispose con un sorriso stampato sul volto.

Jay e Mike si scambiarono uno sguardo d’intesa, ma non fecero commenti. Gli diedero la buona notte e lo lasciarono addormentarsi abbracciato alla sua gatta.

 

 

 

 

Quando Nate si svegliò il mattino successivo, fu assalito da un senso di nausea e vertigine. Si alzò per andare in bagno e si sciacquò il volto con dell’acqua fresca. 

Si guardò nello specchio sopra al lavandino e vide che stava uno schifo. I capelli spettinati, le occhiaie, il volto pallido e gli occhi gonfi.

Si lanciò altra acqua sul volto e decise che non poteva ridursi in quelle condizioni. Tornò in camera e spalancò la finestra, poi tolse le coperte dal letto e ne mise altre pulite. Era da tempo che voleva farlo, ma continuava a rimandare.

Quando Jay lo vide entrare in cucina alla ricerca del disinfettante, gli rivolse uno sguardo più che perplesso.

«Tutto bene?» gli chiese.

«Sì, Jay, non eccitarti troppo se mi pulisco la camera da solo» replicò e tornò da dove era venuto.

Nel primo pomeriggio aveva lucidato ogni angolo della sua camera ed era passato al salotto, quando sentì il campanello suonare. Mike lavorava quel giorno, mentre Jay era uscito da poco a fare la spesa. Nate immaginò che si fosse dimenticato qualcosa e andò ad aprirgli svogliatamente. Quando vide di chi si trattava per poco non gli cadde la mascella.

Lei se ne stava sulla soglia con aria imbarazzata, una borsa scura stretta al petto, come per proteggersi.

 

   
 
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