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Autore: shila    26/03/2021    2 recensioni
Storia già pubblicata ma cancellata per errore!!
Questa mia fanfiction è incentrata su un Boruto e una Sarada già adulti. La trama non seguirà lo sviluppo del manga (poiché è ambientata diversi anni dopo) e i personaggi che vi compariranno potrebbero non presentare la stessa caratterizzazione degli originali.
Si tratta di un esperimento, quindi siate clementi! ^.^
Recensioni, sia positive che negative, sono sempre gradite!
Buona lettura.
Tento così di soffermarmi sul pensiero fastidioso di essere una cazzo di anbu, cercando di ignorare quello ancora più fastidioso che mi spingeva a fissare le labbra di Boruto.
Tutti quegli anni dediti alla disciplina e ancora non era in grado di dominare le sue emozioni. Quel vortice di pensieri, senza volerlo, le attivò lo Sharingan.
- Dovrei esserne intimidito?- s’informa l’oggetto e l’artefice del suo tormento.
- Non so…qualcuno lo è- scuoto il capo e batto due colpetti sulla superficie del tavolo. Adesso basta. - Non sono qui per venire a letto con te-.
Mi sorridi sornione, di nuovo, ruotando il capo in direzione della zona notte: - Peccato, qui c’è un letto-.
- Stronzo- questa volta non posso trattenermi.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
Capitoli:
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3.
 
 
 
 
 
Sarada rimase senza fiato, ancora una volta, quando sentì di nuovo gli occhi pulsare. Era la seconda volta quella mattina. Si portò le mani al viso, la luce che entrava dal solaio come una ferita. Maledizione.
Stava così da una settimana ormai, da quando era tornata dalla sua missione a Suna.
Missione inutile. Aveva faticato a trovare le parole per spiegare ai superiori, a Shikadai per primo, il perché nonostante si fosse avvicinata così tanto all’obiettivo fosse riuscita a non cavarne nulla di buono. Dell’incontro con Boruto non ne aveva fatto parola. Cosa poteva dire loro? Che si era trovata ad un soffio da lui e non aveva fatto assolutamente nulla?
Non aveva neanche tentato di catturarlo, di combattere, di reagire in qualunque modo. Al contrario, se ne era rimasta lì, imbambolata di fronte a lui, a subire il suo interrogatorio. Imbecille, donna imbecille.
Come si sarebbe potuta giustificare con Shikadai? Tempo fa gli aveva giurato cieca fedeltà su tutti i fronti. Come anbu e come amica.
Quella fedeltà includeva anche una certa determinazione nel portare a termine l’obiettivo della sua missione, una determinazione che in quell’incontro di Suna era completamente venuta meno, tanto si era lasciata trasportare dai suoi sentimenti.
La verità era che in quello strano tête-à-tête, si era completamente dimenticata del suo ruolo; per un attimo si era come sentita esonerata dalle sue responsabilità. Era solo una donna che rincontra, dopo anni e anni, il ragazzo di cui è ancora innamorata.
Era stata quindi travolta da una serie di emozioni, per la maggior parte scomode e spiacevoli. La realtà, però, era molto semplice: lo amava ancora, con un’intensità tanto forte e travolgente da renderla incapace di superare i suoi sentimenti quando si trovava insieme a lui. Da pensare ad altro se non a lui.
Questa realtà era semplice, ma pericolosa; era la prova che quando si trattava di Boruto, lei era la persona meno indicata a cui affidare una missione. Questa volta era sola e Boruto non sembrava davvero intenzionato a farle del male, ma cosa sarebbe potuto accadere in un’altra situazione? Se si fosse trovata in pericolo insieme ai suoi amici? O in caso di uno scontro diretto? Sarebbe davvero stata in grado di attaccarlo?
Per tutte queste ragioni aveva faticato, nell’ufficio dell’Hokage, a guardare Shikadai negli occhi e rifilargli una cazzata dietro l’altra. Non avrebbe mai potuto raccontargli come si era in realtà svolto l’incontro, non davanti a Naruto, al vecchio Hatake e agli altri.
Avrebbero capito subito che non si era trattato di un caso isolato dettato dalla sorpresa, ma della sua incapacità nell’affrontare e silenziare i suoi sentimenti quando si trattava di Boruto.
Era diventata brava, con il tempo, nell’inventare storie ed era riuscita ad omettere la parte finale della sua missione, ossia quando Boruto si era introdotto nel suo alloggio.
- Una volta lasciato il locale mi sono diretta al mio alloggio. Il giorno dopo era sparito, non c’era più traccia del suo chakra…da nessuna parte-
Se l’era cavata così, o almeno lo sperava.
Shikadai non aveva battuto ciglio, si era limitato a fissarla da dietro il muro di scartoffie impilate perfettamente sulla sua scrivania. Faldoni e fogli a formare colonne ordinate.
Ogni foglio perfettamente sovrapposto al precedente, come al successivo. Così ordinato, da far venire l’orticaria.
Naruto non lo era stato mai. Il suo ufficio le era sempre sembrata un’enorme polveriera in attesa di esplode. Fogli ovunque, la sua segretaria sempre in cerca di qualche cartella mancante all’appello. A volte sua madre stessa correva in soccorso del vecchio amico, la immaginava spesso piegata su quella scrivania a compilare fogli. Tempo sprecato fuori casa, tempo ritagliato faticosamente tra un intervento e l’altro all’ospedale.
Tanto loro si sarebbero viste la sera, la cena preparata da Sarada già fredda.
Si era spesso chiesta il perché sua madre fosse stata tanto determinata ad averla, se poi sembrava cercare ogni scusa possibile per abbandonarla in qualche angolo come un calzino sporco.
Dentro di sé sentiva di conoscere la verità, tuttavia preferiva non pensarci. Dentro di sé sapeva che la madre aveva fatto di tutto per rimanere incinta non per desiderio materno, quanto per il desiderio più grande di intrappolare suo padre. Come se un uomo del genere si potesse incatenare a sé con un marmocchio piagnucoloso.
E infatti presto le sue aspettative si erano infrante. A nulla era servito seguirlo nei suoi spostamenti, incinta. A nulla era servito partorire sua figlia in un covo abbandonato, al freddo e con il solo aiuto di Karin.
Cazzo lei era Sakura Haruno! Insieme a Naruto e a Sasuke aveva salvato il villaggio, il mondo! Avrebbe dovuto partorire nell’ospedale che dirigeva, in una stanza bianca, sterile. Sterili dottoresse avrebbero poi afferrato quel corpicino esterno e strappato via dal suo corpo.
Poi una volta che tutto fosse andato secondo i piani, sarebbe stata lei, Sakura, lavata e profumata nel suo vestito bianco di madre, a mostrare a Sasuke il frutto delle sue sofferenze, del suo sacrificio, ma anche del loro amore. Che grande eroina.
Forse, nella testa di sua madre, lui non avrebbe potuto far altro che accettare con commozione il suo dono, il frutto del di lei sacrificio. Avrebbe preso Sarada in braccio, attento a posizionarsela nel modo giusto fra le braccia, e avrebbe stretto a sé, con tenerezza, quel fragile corpicino profumato.
Quel pezzo di carne, venuto al mondo nel dolore e nel sangue, che racchiudeva una parte di lui.
Invece nulla era andato secondo i suoi piani; al contrario, si era ritrovata a partorire in quel covo lercio, le gambe spalancate nel freddo del sottosuolo, le mani di Karin lorde di sangue che scivolando cercavano qualcosa, dentro di lei. In quel frugare aveva poi trovato quello che cercava, una testa minuscola.
Afferrata la bambina, era stata Karin a strappare quel piccolo essere via dal suo corpo; in testa si vedeva già una fitta peluria ebano, striata del suo sangue. Il viso congestionato.
Sua madre, le aveva raccontato Karin, se ne era stata immobile, come se fatta di gesso, gli occhi socchiusi e il volto rovesciato nell’affanno.
Era stata Karin a farla piangere, era stata sempre lei a prendersi cura della bimba nei suoi primi giorni, finché Sakura non si fu rimessa in forze.
Suo padre non c’era, partito per chissà dove. Solo un mese dopo, tornato finalmente, puntò i suoi occhi scuri sulla figlia, ma come al suo solito, non disse una parola al riguardo, nemmeno alla moglie.
Sarada credeva di sapere cosa avesse dovuto pensare in quel momento: era fatta, alla fine quella donna era riuscito a legarlo a lei tramite quell’esile corpicino di carne. Sua figlia.
Successivamente si era impegnato con tutto sé stesso nel tentativo di dimostrare a quella donna petulante il contrario; anche con una mocciosa al seguito non l’avrebbe incatenato, non avrebbe minacciato la sua libertà. Era semplicemente sparito, da un giorno all’altro.
Il tempo di riportare Sakura e la bambina a Konoha, per affidarle alla tutela dell’amico Hokage, e tanti saluti.
Tuttavia, non poteva negare che qualcosa di buono le fosse venuto da sua madre: grazie agli occhiali, progettati da Karin, che sua madre le aveva imposto fin da piccola, non aveva mai avuto grossi problemi con i suoi occhi. Quegli occhiali che lei aveva sempre percepito come una gabbia di plastica fin dall’infanzia, le avevano in definitiva potenziato gli occhi più di qualsiasi altra tecnica medica. Ciò le aveva permesso, verso i quindici anni, di sviluppare uno Sharingan Ipnotico talmente forte da non avere bisogno di un trapianto ottico. I suoi muscoli oculari non erano deboli come quelli degli altri Uchiha.
Di questo non poteva non esserle grata. Grazie a lei era sfuggita alla maledizione di sangue degli Uchiha, e i suoi occhi così dannatamente rossi costituivano una minaccia solo per i suoi nemici. O per lei.
Ma le continuavano a pulsare, dannazione. Da una settimana a quella parte non le lasciavano un momento di riposo.
Dannata Suna. Dannata missione.
Si alzò da quel letto sfatto per la prima volta da giorni, se si esclude le volte che vi si era allontanata per l’espletamento delle necessità fisiologiche.
Il campanello suonava, e non per la prima volta, ma come sempre più spesso accadeva lo ignorò.
Si mise la prima cosa a portata di mano e si diresse in cucina. Dov’era finito il caffè? Eccolo.
Da qualche parte della casa le giunse l’eco di un miagolio, e dopo pochi secondi percepii la calda testa tonda di Tora strusciarsi contro la sua caviglia. Piccolo tigrotto.
- Buongiono anche a te. Hai fame?-
Comunque, per un attimo, per una sola frazione di secondo, aveva colto una strana luce negli occhi di Shikadai, come se avesse capito o almeno sospettato che in quella dannata Suna fosse successo di più di ciò che aveva raccontato loro. O se l’aspettasse.
Per un attimo aveva temuto di scorgere un bagliore di comprensione negli occhi del vecchio amico.
Si chiese ancora una volta se fosse così, e sperò nel profondo del proprio cuore che, se veramente così fosse, l’amicizia che li legava potesse sopportare anche il peso di quella piccola omissione.
Così se ne stava da una settimana reclusa nel suo monolocale, cercando in tutti i modi di non incrociare nessuno. Non voleva vedere nessuno.
Si rifiutava persino di rispondere al citofono che suonava ad ogni ora del giorno. Sicuramente era Chocho la fonte di quel suono fastidioso; ormai evitava anche lei.
Che donna molesta! Faceva di tutto per ignorare i suoi segnali; voleva essere lasciata in pace, era così difficile capirlo?
Per fortuna il giorno prima si era buttata addosso il primo cappotto che aveva trovato e, in condizioni non molto decorose al dire il vero, si era trascinata fino alla bottega alla fine dell’isolato, quella aperta anche di notte, ed aveva fatto rifornimento di cibo quanto bastava per i prossimi tre giorni. Beata provvidenza, non doveva neanche correre il rischio di mettere la testa fuori da quel buco e farsi vedere in giro in quello stato.
Pessimo stato, lo sapeva. Nel profondo però voleva proprio questo, voleva distruggere i propri sensi e sprofondare dentro di sé, in un mondo ovattato senza suoni e pensieri. Almeno per i prossimi due giorni ancora.
Non era la prima volta che si concedeva quel dolce oblio, che si prendeva una pausa da sé stessa. Succedeva periodicamente, ossia nei ritagli di tempo che si incanalavano fra una missione e l’altra. Negli spazi bianchi della sua vita.
Per uno strano tempismo, mentre la sua mente era impegnata in una serie di pensieri poco edificanti sulla sua amica, ancora il citofono riprese a suonare. Per l’ennesima volta lo ignorò, anzi si piegò con tutta calma verso la madia posizionata di fianco al frigo, e dopo avervi frugato dentro ne estrasse con cautela una bottiglia di rum. Mai come in quel periodo sentiva il bisogno di riposarsi nel caldo torpore che solo l’alcol le poteva offrire.
Intanto Tora si era dileguato chissà dove.
Era una sorta di alcolizzata occasionale; beveva solo nei ritagli di tempo della sua vita, in quei momenti dolorosi in cui le veniva meno il coraggio. Quegli attimi di vita che non aveva la forza di fronteggiare da sobria, ma che solo il lieve stordimento donatole dall’alcol le rendeva meno amari. Tuttavia non beveva mai in missione, al contrario, quando si trattava della sua vita da ninja era una macchina perfetta.
Svitò il tappo della bottiglia, versandone un po’ del contenuto nel bicchiere e ne tracannò un gran sorso, animandosi un poco quando sentì quel liquido ambrato riscaldarle la gola.
Cominciava già a sentirsi meglio, più distaccata dalla realtà. Quello era il giorno giusto per ubriacarsi. Continuò a ingollare sorsi anche quando sentì armeggiare con la serratura della porta principale, la serratura scattare e la voluminosa capigliatura di Chocho, fresca di cotonatura, fare capolino dalla porta, seguita dal resto della figura dell’amica.
Che stupida a darle una copia delle chiavi.
Come spesso accadeva, fu Chocho a prendere per prima la parola: - Ci diamo all’alcol di prima mattina? Devi essere proprio di brutto umore per cominciare così presto.-
- Che ore sono?- le domandò Sarada. Da qualunque luogo giunse la sua voce, quella che emise fu un’articolazione piuttosto roca, a tratti impastata. Tipica di chi ha trascorso ore senza fiatare.
- Troppo presto per bere…anche per te.- le rispose Chocho.
La mora le rispose con un’alzata di spalle. Presto? Era un concetto relativo per lei; in fondo non erano giorni, o forse mesi, che viveva secondo una sua personale concezione del tempo? Un tempo puntiforme, in cui le parole chiave che le permettevano di orientarsi erano tutte del tipo: “missione”, “obiettivo”, “alcol”, “sonno”. Deprimente.
- Hai lasciato il caffè sul fuoco, sta uscendo tutto…-
- Cazzo!- Si lanciò immediatamente verso il fornello, spegnendo il gas. Dietro di sé percepiva Chocho riempire il suo bicchiere di rum, e bere a sua volta. Voltò appena il viso, tanto quanto bastava a guardarla.
La ragazza, a differenza di lei, aveva un ottimo aspetto. I capelli sicuramente freschi di parrucchiere. Tutta la sua figura esprimeva il vigore e la salute tipiche di una donna nel fiore degli anni; dai capelli serici, passando per il volto rotondo ma delicato, fino alla figura florida e armoniosa. Tutto in lei era sintomo di equilibrio e salute.
Sarada pensò ai propri di capelli; sicuramente andavano lavati. Si guardò le mani che erano ancora ferme sull’interruttore del gas, mani bianche e sottili, ne vedeva il reticolo azzurrognolo delle vene. Mani di una morta, se non fosse per il tremore che le agitava.
- E’ forte questa roba.-
Sobbalzò leggermente e puntò lo sguardo sull’altra donna, che ora se ne stava appoggiata con il sedere sul tavolo, in una posa rilassata, mentre continuava a sorseggiare dal bicchiere. Il suo bicchiere. Gli occhi dal taglio obliquo, felino, assottigliati la scrutavano.
Ora più che mai, si sentiva giudicata da quegli occhi.
- Non era troppo presto per bere?- Sarada non poté evitare di calcare di risentimento le sue parole. Non le piaceva essere giudicata o controllata, e non lo riteneva corretto nemmeno se a farlo era la sua “migliore” amica.
Nessuno sapeva l’inferno che le devastava la mente in quei giorni vuoti, in cui nulla le sembrava particolarmente sensato nella sua vita.
- Dal momento che hai aperto le danze, non resta che adeguarmi. Come pensi di procedere poi? Te ne starai tutto il giorno rintanata in questo buco ad ubriacarti fino a stordirti?- con un ultimo sorso finale vuotò il bicchiere, abbandonandolo, con un po’ troppa veemenza, di fianco a lei, sul tavolo. – Non è neanche di buona qualità…mi aspettavo di meglio da te.-
- Che cosa ti serve? Non mi sembra di averti invitata ad entrare.-
- Se vogliamo essere precise, non hai nemmeno risposto al citofono.- le rispose Chocho; un sopracciglio alzato, la squadrava dalla testa ai piedi come valutando qualcosa - ripetutamente, per giorni.-
- Allora, se fossi stata una donna intelligente, avresti capito che voglio stare sola ed avresti evitato di suonare ripetutamente.-
- E’ così che ripaghi il mio sincero affetto per te? Sono preoccupata. Non mi piace saperti rintanata qui da sola, soprattutto conoscendo il modo con cui passi il tuo tempo.- questa volta fece cenno, con la testa, alla bottiglia semivuota sul tavolo. - Allora? Com’è andata a Suna?-
- Lo sai com’è andata a Suna, scommetto che Shikadai ti ha spifferato tutto già diversi giorni fa.- rispose la mora, versandosi una tazza di caffè.
- Certo che l’ha fatto signorina! Ma io intendevo: cos’è successo realmente a Suna?- la incalzò Chocho, sollevando gli occhi al cielo. – Shikadai mi ha raccontato che non è successo nulla di che…ti sei limitata a spiarlo finché non si è dileguato. Veramente è successo solo questo?-
- L’ho visto.- le confidò Sarada, all’improvviso.
- So che l’hai visto, ma io…- ma Sarada fu veloce e l’interruppe prima che l’amica potesse terminare la frase: - Intendo che l’ho visto da una vicinanza molto ristretta.-
-Quanto ristretta?- mentre Chocho diceva ciò, forse inconsapevolmente, non poté impedirsi di sporsi verso l’amica.
- Molto più ristretta di quella che ci separa ora.- le confidò Sarada alzando le sopracciglia come per ammiccare, e non poté impedirsi di arrossire, ricordando quanto vicino le si fosse avvicinato l’uomo ad un certo punto del loro colloquio.
- Oh!- si lasciò sfuggire dalle labbra la riccia.
- Già…oh!- le fece il verso Sarada, continuando a sorseggiare il suo caffè. -Ci ho anche parlato.-
- Bene…questo Shikadai non me l’ha detto.-
- Perché non lo sa. Non gliel’ho detto.- ammise Sarada, non senza provare vergogna.
- Sarada!-
- Lo so, lo so!- si affrettò a precisare la mora, tentando di arginare il fiume di rimproveri che immaginava stesse per straripare dalle labbra dell’amica. - Comunque non ci siamo detti nulla di interessante ai fini della missione.-
- E credi di cavartela così?- l’ha inchiodò Chocho con sguardo duro.
- Immagino di sì…o no?- provò a buttarla lì Sarada.
- Non scherzare! Cazzo, ora mi racconti tutto!- quasi l’assalì l’amica, gli occhi spalancati. – Sono anni che non speri altro che ritrovartelo davanti! Anni passati a struggerti nelle tue pene d’amore…ad alcolizzarti!-
- Scusa?- Sarada alzò le sopracciglia, risentita.
- Beh non è proprio normale bere rum alle dieci del mattino.- le fece presente Chocho, incrociando le braccia sul petto florido.
- Ma se hai bevuto anche tu!- obiettò Sarada.
- Perché, mia cara, io sono una vera amica! La più fidata sulla piazza-
- Che stronza!-
Nelle due ore a seguire, Sarada dovette lanciarsi in un accurato racconto dell’incontro con Boruto, a cui seguì un’altrettanta accurata analisi da parte di Chocho, che con la sua tipica capacità di ricamare sul niente, si diede al suo sport preferito: trovare significati nascosti (quasi sempre di tipo amoroso) nei dettagli insignificanti. In fondo se l’aveva seguita voleva pur dire qualcosa, magari anche lui bruciava di passione per lei.
Per Sarada la realtà era molto più semplice, anche se ben poco edificante: il biondo si era accorto che lo pedinava da giorni e voleva intimidirla affinché la piantasse.
Boruto non l’aveva attaccata fisicamente soltanto in virtù di quel piccolo residuo dell’amicizia che una volta li legava, e che forse lui non aveva del tutto dimenticato. Nel suo caso, invece era rimasta troppo instupidita dall’evento in sé per poter pensare a qualcosa di concreto.
L’unica cosa di cui era certa, dopo giorni passati a rivivere nella sua mente quell’incontro ed a mettere sul “lettino” i suoi sentimenti, era che l’amava ancora. Anzi, dopo quell’incontro, se possibile l’amava ancora di più.
Dopo anni passati a soffrire le pene dell’inferno cercando di soffocare l’amore per quell’uomo orami lontano, quell’incontro non aveva fatto altro che alimentare le sue emozioni. Ora Boruto per lei non era più soltanto un ricordo, ora era tornato ad essere un uomo reale.
Quell’incontro sembrava come aver dato nuova linfa ai suoi sentimenti, per questo gli occhi avevano ripreso a pulsare e per questo i suoi sogni, sempre più spesso, venivano disturbati dalla proiezione di immagini che lei stessa creava e che non le davano tregua. Anche per questo aveva bisogno dell’alcol.
- Comunque, non credo che Shikadai ti affiderà di nuovo una missione del genere. Non è stupido Sarada…l’ha capito anche lui. Sei una kunoichi eccezionale, cazzo! Delle volte mi sento fortunata a trovarmi nel tuo stesso villaggio e ad essere tua amica…non sarei mai in grado di tenerti testa in battaglia.-
- E allora dov’è il problema?- le domandò Sarada, inspirando a fondo.
- Cara, il problema è che quando si tratta di Boruto ti trasformi in un essere privo di qualsivoglia facoltà di raziocinio. Ed adesso vestiti, usciamo. A forza di startene chiusa qui dentro stai diventando più grigia di queste pareti.- e continuò, prima ancora che la mora potesse obiettare: - Non accetto no, cara. Andiamo! La tua amica Chocho ti porta in cerca di qualche bel fusto.-
 
 
Boruto se ne stava in piedi, di fronte alla vetrata, il candido telo di lino stretto in vita in un nodo saldo.
Se ne stava lì ad osservare come il Vortice si stagliava rigoroso di fronte a lui, lì dal punto più alto del villaggio. Dalla sua abitazione, l’abitazione del Kage.
Quel villaggio di case rocciose, ruvide quasi, che si stagliavano in contrasto sulla vegetazione rigogliosa, delle più fulgide tonalità di verde. Quel luogo custodito fra colline fertili e corsi d’acqua rigogliosa. Era quanto di più vivo potesse immaginare. Tuttavia c’era ancora molto da fare, molto da costruire.
Aveva passato le sue intere giornate, da quando lui e Kawaki avevano fatto ritorno da Suna, dividendosi fra i suoi compiti burocratici e il controllo diretto del villaggio.
Lui e Mitsuki avevano trascorso ore e ore, nel pomeriggio, controllando l’andamento dei lavori, dando loro stessi una mano. Immersi nella polvere e nel sudore, sotto il sole caldo, essi stessi avevano lavorato al fianco di quella che era diventata la loro gente. Solo sul tardi, sporchi e stanchi, i muscoli dolenti, si ritiravano.
Era stato via a lungo, in missione segreta prima nella Roccia e poi a Suna. Per il bene del villaggio doveva assolutamente stringere alleanze con i rispettivi Kage, al fine di potenziare le relazioni politiche del villaggio.
Un paese senza alleati era un paese debole.
Finalmente si poteva concedere qualche ora di pausa. Una doccia, del cibo, forse anche qualcos’altro.
Se ne stava così, in piedi di fronte a quello spettacolo: il suo villaggio, la sua vera e unica casa. Percepì un chakra avvicinarsi, sempre più vicino, dietro di sé un rumore di passi. Era Kawaki.
- Ecco il grande Kage! Ehi amico è tutto il giorno che ti cerco!- Il moro lo salutò gioviale, evidentemente di buono umore.
Boruto gli fece un cenno di saluto, squadrandolo. Dalle occhiaie che gli segnavano gli occhi e l’aspetto trasandato, come di uno che si è rivestito di tutta fretta dopo aver passato intere giornate a letto, credette di indovinare l’origine del suo buon umore.
- Ho avuto da fare con Mitsuki. Siamo stati a controllare i lavori.- Borutò si girò, dirigendosi verso l’armadio poco distante, nel mentre allentandosi l’asciugamano stretto in vita. Si spogliò velocemente, dando le spalle all’amico e indossò, con pochi e agili movimenti, un paio di pantaloni comodi.
- Come ogni giorno. A volte vorrei che dimenticassi per qualche ora di essere il capovillaggio. La vita è una e va vissuta.-
- Come fai tu?- borbottò il biondo.
- Già, come faccio io- gli rispose prontamente Kawaki, ignorando volutamente la provocazione.
- Siamo stati via parecchio tempo…dovevo fare il punto della situazione.- sbuffò Boruto.
- E l’hai fatto?-
- Mitsuki si è mostrato all’altezza del compito.- si limitò a rispondere, prima di aggiungere: -Come sempre-.
- Se non fosse uno dei miei migliori amici lo troverei irritante, tanto è perfetto.- aggiunse Kawaki con un sorriso divertito ed insolente.
- Vedo che come al solito ti diverti a sparlare alle mie spalle.-
Kawaki inarcò le sopracciglia, gettando un’occhiata alla porta dietro di lui, dov’era appena apparso Mitsuki.
- Salve, mio grande amico!- lo salutò bonariamente Kawaki, strizzando appena gli occhi in un gesto amichevole che era solito rivolgere loro.
- Idiota.- Gli rispose l’altro, trattenendo appena una risata. – Allora, che si fa stasera?-
- Ma come? Non mi dire che hai intenzione d’unirti a noi? Pensavo passassi le tue serate chino sulla scrivania a studiare non so cosa.-
- Per tua informazione, quello che faccio alla mia scrivania si chiama lavorare. Sai, è quello che fa di norma un consigliere, dovresti provare ogni tanto.- Mitsuki si rivolse al moro con calma studiata, utilizzando un tono conciliante che di solito riservava ai bambini.
- E perché dovrei? Sono o non sono il generale supremo del Vortice? Le mie competenze si esprimono sul campo, non legato ai piedi della scrivania.- gli rispose Kawaki, scimmiottandolo e gonfiando il petto.
- Beh, ultimamente le tue competenze si sono “espresse” soltanto in un certo tipo di campo. Poco fa ho incontrato Maho, era piuttosto scarmigliata.- Boruto esplose in un’improvvisa risata, osservando il volto dell’amico farsi di fuoco per l’imbarazzo.
Come al solito, Mitsuki sapeva andare a segno con poche parole. Diretto ed efficace.
- E dai, amico, dammi tregua! Siamo tornati da pochi giorni da quella dannata, infernale Suna! Mi sento ancora quei fastidiosissimi granelli di sabbia addosso! Per non parlare della Roccia…e dire che siamo noi ad avere la nomina di essere gente rozza. Quel posto avrebbe bisogno di una svecchiata.- se ne uscì Kawaki che, come era solito fare, si era appropriato del suo divano. Se ne stava lì a gambe incrociate, un ghigno insolente sulla faccia.
- Dacci un taglio, Kawaki, non si è trattato di certo di un viaggio di piacere. L’importante è che alla fine siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo.- tagliò corto Boruto.
- Sì, lo so. Ci serve l’appoggio della Roccia e della Sabbia per poterci porre in una posizione forte nei confronti degli altri villaggi, in particolare verso la Foglia.- gli rispose, scimmiottando il suo tono autoritario.
All’improvviso una scintilla maliziosa gli illuminò gli occhi e il ragazzo si produsse in un ghigno derisorio, che Boruto conosceva bene. - A proposito di Konoha…non gliel’hai detto?-
- Cosa?- domandò Mitsuki, guardando entrambi i suoi amici con aria perplessa.
Dall’espressione di Mitsuki, Kawaki capì che Boruto non l’aveva ancora messo al corrente della sua parentesi con Sarada; ciò non fece altro che aumentare il suo divertimento nello stuzzicare il biondo.
- No, non lo sa…se ti riferisci a Sarada.- rispose Boruto, alquanto seccato.
La discussione si stava addentrando in un terreno pericoloso; il fatto stesso che non avesse ancora vuotato il sacco con Mitsuki lo metteva in una situazione imbarazzante.
- Cosa non saprei?- ritentò quest’ultimo, ora la sua voce assunse un’intonazione quasi spazientita.
- Dovresti dirglielo, infondo era anche sua amica.- rincarò petulante, Kawaki, con tono compiaciuto.
- A Suna ho visto Sarada.- Boruto fece una piccola pausa e si schiarì la gola, prima di continuare. -E’ stato un incontro breve, non è successo nulla di rilevante.-
Ecco, finalmente gliel’aveva detto.
- Davvero?- quasi inconsapevolmente Mitsuki mosse un passo verso di lui, sporgendosi lievemente nella sua direzione. Brutto segno, voleva dire che era incuriosito.
- L’ha seguita.- si intromise ridacchiando Kawaki. Oh sì, si stava divertendo un mondo! Boruto avrebbe trovato il modo di fargliela pagare. Quanto avrebbe voluto cancellargli quel sorrisetto dalla faccia. Magari a suon di pugni.
- Non l’ho seguita. O almeno l’ho seguita dopo che lei, per giorni, ha fatto lo stesso con me.- si affretto a precisare. Precisazione che, a dire la verità, sembrava più una giustificazione.
Era nervoso e sicuramente Mitsuki l’avrebbe notato. Era sempre così attento ai dettagli.
- Ma se sei stato tu a permetterle di percepire il tuo chakra. Ti sei fatto tracciare apposta.- continuò Kawaki, non notando, o ignorando volutamente, gli sguardi di fuoco che il biondo gli indirizzava. Arrivò anche al punto di intimargli il silenzio con una boccaccia, ma evidentemente Kawaki non colse il gesto, poiché si limitò a fissarlo con un sorriso luminoso in volto.
- Ho fatto solo quello che era necessario, dovevo capire cosa volesse.-
- E ci sei riuscito? Hai capito cosa voleva?- s’intromise Mitsuki.
- Informazioni.- tagliò corto Boruto.
- Che genere di informazioni?- evidentemente Mitsuki voleva tutti i dettagli.
- Forse Konoha ha capito che ci stiamo muovendo e vuole sapere che intenzioni abbiamo. Forse vogliono conoscere l’ubicazione del villaggio.-
- Come ti è sembrata?- Domandò l’amico, gli occhi illuminati da un sentimento caldo. Affetto, forse? Nostalgia?
- Sarada?- Boruto tentò ancora la via della dissimulazione.
- Ovvio.- precisò Mitsuki.
- Cresciuta…trasandata.- il suo tono suonava falso persino a lui, troppo intriso di menzogna.
- Beh, da quello che ho intravisto sembra in forma. Bel culo!- si intromise Kawaki, ridacchiando e muovendo le mani come a mimare due globi sodi.
- Questa la devo proprio raccontare a Maho.- gli intimò Mitsuki.
Il suo sguardo pensieroso era però tutto per Boruto, come se stesse valutando i dati appena acquisiti e le loro implicazioni. Boruto si grattò il petto nudo, si sentiva analizzato. Non gli piaceva quella sensazione di disagio.
- Che palle Mitsuki! Con te non si può mai scherzare!- Boruto dovette trattenere un ghigno notando il modo in cui Kawaki irrigidì le spalle e allungò il collo, in un gesto nervoso. - Guarda che dico sul serio! Se provi a fiatare te le suono! Quella è pazza, non hai idea di quello che potrebbe farmi!- ci riprovò ancora il moro, con uno sguardo smarrito che Boruto gli aveva visto solo di fronte alla collera di Maho.
- Oh, sì che ne ho idea! Se fossi in te starei in guardia.- replicò con calma Mitsuki, prima di alzare i tacchi e lasciare improvvisamente la stanza dileguandosi.
- Ma dove te ne vai ora? Aspetta! Scherzavo cazzo!- gli urlò contro Kawaki, prima di lasciare anche lui la stanza, alle calcagna dell’amico.
- Che idioti!-
Boruto si lasciò scappare un’imprecazione. Se non altro l’avevano lasciato finalmente in pace.
Forse uscire non era una buona idea, meglio riposare.
Si stava bene la sera, nel Vortice. Il clima, leggermente caldo di giorno, era piacevolmente fresco la notte. Uscì fuori, nella balconata; quell’appartamento era un privilegio, più alto degli altri, permetteva a Boruto di ammirare lo splendore del villaggio, della notte, di ogni cosa.
Un grande open space, l’aveva voluto così, luminoso e con una visuale mozzafiato da cui potesse tenere d’occhio il villaggio.
Il cielo fuori era già così scuro, eppure luminoso. Sentì la pelle d’oca sulle braccia e il petto muscoloso, la brezza gli scompigliava i capelli chiari.
Sedette fuori al buio, immerso nei suoi pensieri. Con la mente ritornò alla calda sera di pochi giorni fa, così diversa da quella.
Di tutti i posti in cui pensava di rivedere Sarada, la parte notturna di Suna era la più improbabile.
Gli scappò un sorriso al pensiero di quanto le dovesse essere pesata quella missione, lei da sempre schiva e silenziosa, costretta per giorni a seguirlo da un locale notturno all’altro. In quel caldo infernale.
Chiuse gli occhi, e riuscì a visualizzarla nella sua mente, a vederla per come gli era apparsa la sera del loro colloquio.
Era trasandata, era vero. L’aveva pensato quando l’aveva vista seduta nell’angolo più buio del locale, incastrata in strati di vestiti fuori luogo in quel posto caldo. Ma era anche alta, non quanto lui comunque, e il fisico era proporzionato, in forma.
Aveva ragione Kawaki, aveva un bel culo.
Il suo volto era sempre bello. Anzi era ancora più bella di come la ricordava; bella in una maniera differente, era una donna fatta ora.
Anche gli occhi, in apparenza neri come l’ebano, erano diversi: il viso, negli anni, si era fatto più affilato, così adesso gli occhi sembravano più grandi. Le ciglia scure e folte.
Lui lo sapeva bene che quegli occhi, in apparenza così neri, in realtà illuminati da una luce più chiara erano di un grigio profondo, misterioso.
Tutto di lei: il volto dai tratti regolari, ma marcati, le sopracciglia folte e nere come i capelli, la bocca sensuale, l’aveva attirato, attratto. Così, nonostante in un primo momento, accortosi di essere seguito, si era ripromesso solo di studiarla, ad un certo punto la tentazione di inseguirla, braccarla, averla più vicina era stata troppo forte.
Si chiese se fosse cambiata anche nel carattere, o se fosse rimasta la ragazza timida e risoluta con cui una volta condivideva gli allenamenti. La ragazza che lo seguiva per le strade di Konoha, che smaniava per ottenere la sua amicizia.
Per un attimo, mentre la osservava in quel locale, aveva quasi perso di vista chi fosse. Per un attimo, aveva nutrito per lei lo stesso interesse di un uomo che nota una bella donna per strada, e quando più tardi, nella sua stanza, le si era avvicinato alle spalle, l’odore dei suoi capelli aveva per un attimo fottuto i suoi sensi.
Se non avesse lasciato quella stanza, se la sarebbe fatta, ne era certo.
Si chiese se nel profondo non fosse questo il vero motivo che l’aveva spinto a farsi dare la caccia prima, e in seguito a inseguirla lui stesso. Era stato quell’interesse improvviso a muoverlo?
Doveva darci un taglio con quella storia, tanto sicuramente l’indomani Mitsuki l’avrebbe assediato con le sue domande. Ora doveva riposare.
Se ne tornò dentro, nella luce di casa sua. Alle sue spalle la notte si stagliava nera, rilassante, cupa.
 
 
Eccomi tornata con un nuovo capitolo! Ho impiegato un po’ di tempo ad aggiornare…ma sono tempi difficili un po’ per tutti.
Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia e vi invito a recensire (anche solo per delle critiche)!
A presto!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                    
 
  
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