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Autore: MaikoxMilo    29/03/2021    3 recensioni
Vi fu un tempo, anche se privo dello stesso concetto di tempo, in cui, si narra, Cielo e Terra, Mondi e Dimensioni, Caldo e Freddo, Umido e Secco, coesistessero in una sola sostanza che racchiudeva tutto; tutto ciò che avrebbe poi assunto un nome, ma che, allora, nome non possedeva. Non c'era quindi un inizio, né una fine, non esisteva Destino, né legge, tutto era miscelato, un tutt'uno indistinto, estroflesso, inscindibile, nonché eterno. Tale concentrato di materia venne chiamato posteriormente "Principio Primo di Tiamat", prima di scomparire completamente nella Notte dei Tempi, svanendo per milioni e milioni di anni.
Tutti gli universi possiedono quindi un'origine comune? Che ne fu di quell'epoca, CHI ordinò il Creato, dandogli una forma propria, dividendo le dimensioni, espandendole all'infinito di propria mano? Chi ebbe la forza per farlo? Perché lo fece, imprimendo così la propria imperitura effige?!
Marduk, Sommo dio Marduk, fosti tu a volerlo, stracciando il gigantesco corpo della dea Madre Tiamat, scindendo così, per la prima volta, il Cielo dalla Terra; gli Universi dalla Matrice?!
Storia ambientata tra i capitoli 10 e 12 della Melodia della Neve, di cui è quindi indispensabile la lettura insieme alle fanfiction precedenti.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Cygnus Hyoga, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Capitolo 2: Inseguirsi senza, talvolta, potersi ritrovare

 

 

1 novembre 2011, mattina

 

 

L’infrangersi delle onde al di fuori delle sue palpebre era come una dolce litania che confortava i suoi pensieri, rassomigliante, per certi versi, alle carezze che gli regalava sua madre. Al suo tocco lontano che lo incoraggiava, sempre e comunque, al suo sorriso dolce che non aveva mai dimenticato, anche se andava affievolendosi.

Non voleva dimenticarla. Per nessuna ragione al mondo. Ma gli anni trascorrevano spietati, -ne erano trascorsi quasi 10 dall’incidente!- il tempo incedeva lento e ineluttabile, malgrado la sua ferma volontà di trattenerla a sé.

Le iridi un poco annacquate di Hyoga del Cigno, quasi come se ci fossero finite delle gocce di sale dentro, tornarono ad aprirsi, soffermandosi ancora una volta sulla schiuma formata dalle onde che si smarriva sulla battigia, in mezzo a soffici granuli di sabbia dorata.

Era da solo, nessun Cavaliere nei paraggi, complice anche il tempo che verteva sul plumbeo. Vi era solo lui. Lui e la sua immensa tristezza. Lui e il suo non voler farsi vedere da nessuno. Lui e la Spiaggia Segreta, che lo confortava come nessun altro. Sospirò, stringendosi al petto le ginocchia e nascondendoci il volto in mezzo, sforzandosi di concentrarsi solo sui suoni bianchi che rimbalzavano nei dintorni e non sul casino colossale che aveva in testa. Inutilmente, lo sapeva, perché i ricordi e i tristi rimpianti non gli concedevano mai requie, sebbene si dicesse cresciuto.

Nessuno lo era più venuto a cercare dopo Milo, che aveva provato a riportarlo di nuovo a casa -ma quale casa, poi?!- persino a Michela aveva detto che si sarebbe fatto sentire lui, di non cercarlo per alcuni giorni, perché aveva bisogno di stare un po’ da solo con i suoi pensieri, senza nessuno, e la ragazza aveva accettato, sebbene si sentissero comunque al telefono, unico conforto che il Cigno si permetteva ancora di avere per non crollare del tutto, schiacciato da colpe che non avevano redenzione alcuna. Come non aveva alcuna redenzione lui.

Singhiozzò senza lacrime, incassando ancora di più la testa tra le ginocchia, il corpo scosso da fremiti. Di nuovo il suono dell’infrangersi delle onde accarezzò le sue orecchie, cercando di rinfrancarlo, e poi ancora, ancora, e ancora, come una litania, una ninnananna, cantata per lui, che si sentiva così dannatamente solo e che, in fondo, meritava di sentirsi tale.

Solo. Sgualcito. Privo di radici. Le aveva mai avute, queste cosiddette radici?! Hyoga un tempo lontano aveva creduto di sì, con sua madre, prima dell’incidente navale, prima di appurare che suo padre era un vecchio bavoso di merda che aveva dato alla luce più di cento figli per… il biondo scrollò la testa, ricacciando indietro il disgusto, l’amarezza, il senso di soffocamento nel rammentare che la metà di quei geni era ancora dentro di lui, nonostante il sangue versato.

Senza radici. Per averne di simili era meglio essere un uccello che volava libero nell’aere, un cigno, che ogni anno compiva non sapeva bene quanti chilometri di viaggio alla ricerca di un posto chiamato casa dove fare un nido. Quel nido, quella casa era la Siberia, la sua…

Wow, Maestro, ma è freddissima!”

Sussultò. La voce infantile di Isaac l’aveva raggiunto, si raddrizzò un poco, gli occhi catturati dal moto ondoso, ma lo sguardo, quello, scorgeva altro, un qualcosa che si era appena materializzato davanti a lui, ma che non poteva più toccare, perché lui stesso aveva distrutto per sempre, inseguendo un’utopia.

La Siberia, le ali dei cigni, il permafrost, le onde del mare che là avevano un suono diverso. Erano queste le sue radici, solo che non se ne era mai reso conto pienamente, prima di perderle per sempre…

 

Isaac si divertiva un mondo a far scricchiolare il ghiaccio, che si rompeva davvero per poco, sotto di sé. Bastava esercitare una piccola pressione e… puff, si incrinava fino a spezzarsi, facendolo ridere da matti. Il permafrost in estate non faceva poi così paura, neanche a loro, giovani apprendisti di un Cavaliere d’Oro altrettanto giovane ma già incommensurabile.

Era giugno 2003 e il piccolo non era più solo, perché quell’inverno si era unito a loro un altro bambino, dei capelli biondi come il grano, anche se Isaac non lo aveva mai visto dal vero questo grano, forse meglio dire quindi del colore dei raggi solari. Trasmetteva infatti lo stesso calore. Sorrise nel pensarci.

Saltellava da una parte all’altra, spassandosela un mondo ad assistere alle diverse spaccature del ghiaccio. Per quanto si sforzasse a compiere gli stessi movimenti, pigiando con la stessa intensità, quello si rompeva in mille e più modi diversi. Era magico. Come il Maestro Camus.

In uno degli ultimi balzi, si era frantumato in tanti piccoli pezzettini, neanche il tempo di assistere a quell’operato, che Isaac si era ritrovato con gli scarponi in ammollo e il bordo dei pantaloni bagnato. Ne derivò un brivido gelido.

Wow, Maestro, ma è freddissima!” aveva esclamato, totalmente meravigliato.

Bravo, Isaac, la tua opera di distruzione è arrivata al confine tra i ghiacci perenni e il mare...”

Mare?!” chiesero all’unisono sia Isaac che Hyoga, guardandosi tra loro per poi osservare il maestro.

Sì, il mar Glaciale Artico. In questo periodo dell’anno il ghiaccio si scioglie piuttosto velocemente, rivelando così, in alcuni punti, la distesa marina. E’ una panacea per gli orsi polari che, provati dal lungo letargo, possono così tornare a cacciare, mettendo da parte riserve di grasso per l’inverno.”

Oh...” riuscì solo a dire Isaac, guardandosi gli stivali zuppi e alzando una gamba per poi uscire dall’acqua, come se avesse calpestato qualcosa di sacro.

Hyoga invece, ancorato sulle spalle del maestro, si aggrappò ancora di più a lui, tirando su con il naso e osservando con mistica riverenza e paura l’immensa distesa non più bianca ma blu. Quasi irriconoscibile. Discostò in fretta lo sguardo, rannicchiandosi ulteriormente lì sopra e chiudendo gli occhi.

Camus raggiunse Isaac con la solita andatura elegante, osservando attentamente i movimenti e le espressioni facciali del giovane allievo, permettendosi quasi di sorridere.

Quindi… non sono io ad essere diventato fortissimo, Maestro, il ghiaccio si romperebbe comunque” commentò lui, corrucciato, gonfiando le gote.

No, soldo di cacio, non penserai davvero che basti un anno di allenamento per arrivare a compiere imprese simili!” sbuffò il mentore, divertito dalla sua ingenuità.

Sì, se siete voi ad insegnare!” esclamò cocciuto il piccolo, guardandolo con trepidante adorazione, affatto convinto sulla questione.

Camus soffocò dentro di sé un mormorio che si sarebbe trasformato in una risata, se non lo avesse tenuto docilmente sotto controllo. Solo il petto gli tremò appena, parafrasi del suo stato. Discostò lo sguardo, puntando verso la distesa marina, sulla linea retta che celava l’orizzonte.

Otterrai quel potere, Isaac, col tempo, ma non devi dimenticarti che non siamo noi ad essere sopra alla natura, ma lei su noi...”

Cosa significa, Maestro?”

Anche una volta che otterrai un potere sovrumano, dovrai imparare a non intaccare l’equilibrio delle singole cose, perché si ripercuoterebbe sul mondo intero. Noi siamo immanenti nella natura, nel Grande Tutto, determinate cose, come uomini, non si possono fare, non importa se Cavalieri o...”

Neanche i Cavalieri lo possono fare?!”

No, l’equilibrio è piuttosto fragile...”

E se lo volessi comunque intaccare per un fine superiore? Per… proteggervi?” chiese a bruciapelo Isaac, gli occhi brillanti, perché sì, per lui, per Camus, sarebbe stato disposto a sfidare qualsiasi legge preesistente.

...Allora dovrai accettarne interamente le conseguenze!”

Mi state dicendo che quindi è possibile, Maestro, un Cavaliere ne avrebbe la forza, ma, se può, non deve usufruirne più del necessario per esercitare la giustizia?”

Qualcosa del genere...”

Perché?”

Camus sorrise leggermente, soffermandosi ancora una volta sul suo visetto da bambino. Isaac era sempre stato precoce e curioso su tutto, anche in quel caso non deludeva. Non l’avrebbe deluso mai.

Si racconta che anche il più piccolo battito d’ali di una farfalla possa provocare un uragano dall’altra parte del mondo...”

Isaac lo fissò sbalordito, non capendo minimamente il reale significato di quell’affermazione, ma presagendone l’immensa portata.

Non capisco, Maestro...” sbuffò di nuovo, innervosito da non riuscire ad acciuffare quel discorso che Camus gli aveva appena fatto. Voleva dimostrarsi degno di quella serietà, ma non ci riusciva e ciò lo metteva a disagio, facendolo arrabbiare.

Capirai, ne sono sicuro! Per il momento, cerca di non distruggere tutto il ghiaccio che trovi sulla tua strada, ci potrebbero essere delle tane di foche, le loro case, non è bello rovinargliele!”

Suppongo di sì, Maestro...” ridacchiò il piccolo, prestando più attenzione a dove andava.

A me il mare… non piace!” si lamentò Hyoga, nascondendosi ancora di più tra le spalle del maestro, tanto da spingere sia Camus che Isaac ad osservarlo.

Il bambino biondo aveva ancora il nasino rosso per la brutta polmonite da cui era guarito completamente da poco, gli occhi lucidi e un po’ di tosse che si ostinava a non passare.

E perché mai? E’ così immenso, grande, forte, fiero… - saltò su Isaac, che invece lo amava follemente, sebbene non lo avesse mai visto prima di recarsi in Siberia, perché con i suoi aveva sempre vissuto in un paesino ben all’interno della Finlandia, che adorava, ma che non era così solenne come la distesa marina - Guardando verso il suo confine, là, su quella riga che si perde, viene da desiderare di partire all’avventura e scoprire tante cose nuove, terre lontane, meraviglie infinite e a stento immaginabili… LO ADORO!”

Isaac era entusiasta, come sempre, lui no. Sbuffò, attaccandosi ancora di più alla maglietta di Camus.

Tu vai, io rimango qui, sulla terra ferma!”

Ad Isaac non piacque quella risposta, rigonfiò le gote.

Fifone! Hai paura dei pirati?”

NO! E’ che non mi interessa, tutto qui!”

FIFONE! Hai paura che la balena ti mangi! Grrrr!” lo prese ancora in giro Isaac, imitando le fauci di un qualche animale.

Il biondo si sdegnò ulteriormente, non voleva passare per il pavido della coppia, gonfiò a sua volta il petto.

Non è vero! Non è che perché non ho i tuoi interessi, ho paura, semplicemente non voglio andare per mare, perché il mare… coff! Coff!” si bloccò, trafitto da vari colpi di tosse, che lo salvarono da rivelare ad Isaac il suo segreto. Chiuse gli occhi dolorante.

Il mare per lui era un nemico, null’altro, gli aveva portato via la sua mama, che lui sarebbe andato a salvare e a riprendere togliendola dalle grinfie di quella distesa scura che sembrava tanto affascinante ma che in verità era subdola e cattiva. Un tempo aveva amato il mare, lo ricordava bene, e guardava sempre con ammirazione il suo confine, cullato dalla voce di sua madre che gli assicurava che oltre c’era suo padre, che li aspettava.

Ma era tutta una menzogna, avevano naufragato e sua madre si era inabissata, lambita dalle braccia fredde del marino, o di chissà cos’altro. Lo odiava con tutto sé stesso per ciò che gli aveva ingiustamente strappato troppo presto, rabbrividì.

Hyoga...”

Fu la voce di Camus a raggiungerlo dove si era rifugiato, mentre si sentì prendere gentilmente da sotto le ascelle e posare per terra. Hyoga si ritrovò ad arrossire, non trovando più il coraggio di guardare quello profondo e limpido del maestro. Ingoiò a vuoto, teso. Camus sapeva tutta la faccenda, ciò lo metteva in soggezione. Si aspettava un rimprovero, o qualcosa di simile. Attese.

Ma Camus, dopo una lunga pausa silenziosa, non smettendo di sorreggerlo, perché era troppo debole per stare in piedi da solo, gli posò una mano sulla testa, soffermandosi lì, gesto che lo stupì non poco.

Ora chiudi gli occhi…anche tu, Isaac!”

Il bambino biondo non se lo fece ripetere più volte, sebbene non capisse il motivo di una tale richiesta, ma Camus era con lui, avvertiva il calore del suo corpo, il leggero abbraccio con cui lo cingeva era riconoscibilissimo, perché era il suo, delicato e forte allo stesso tempo.

Si concentrò. Non vedeva più nulla dietro le sue palpebre, si chiese il motivo di quella strana richiesta.

Non devi vedere ma sentire… cosa riesci a percepire?”

Hyoga era corrucciato. Cosa doveva percepire? Niente! Il freddo pungente o… ma qualcosa arrivò alle sue orecchie, qualcosa di soave. Tentò di affinare l’udito, mettendosi d’impegno.

Io non sento nulla, maestro!” si lasciò sfuggire Isaac, sbuffando come una locomotiva.

E’ perché la tua lingua è troppo lunga, a scapito di altro di ben più importante!”

Ma Maestro!!!”

Concentrati di più!”

Un rimprovero. Che disonore. Isaac si incaponì quindi non poco per arrivare a percepire qualcosa, ma niente, niente e ancora niente. Avrebbe disonorato il maestro così, e non poteva permetterselo.

I-io sento un...”

Cosa, Hyoga?”

Non so descriverlo, Maestro Camus...”

Tu provaci...”

Hyoga ingoio a vuoto, affinando ulteriormente la percezione. Era un suono strano, dolce e privo di inquietudini. Sembrava quasi lo potesse accarezzare, confortandolo più del proprio lettone caldo e sicuro durante una notte in cui la tormenta di neve fuori ululava al buio.

Maestro, perché Hyoga lo sente ed io invece...” si lagnò Isaac, non accettando quell’apparente sconfitta.

Ssssssssh, Isaac!”

E’ come… come acqua sul ghiaccio che...” ritornò la voce del piccolo Hyoga, che si sforzava di farsi spiegare.

Vai avanti, sei sulla strada giusta!”

Erano… erano onde, si ritrovò a pensare il piccolo. Lentamente accarezzavano la banchisa, dando quasi l’impressione che dondolasse. Erano suoni tracciabili, quasi visibili con gli occhi della mente; di breve, ma cadenzato, ritmo, come una musica che lentamente si assemblava da sola. Era… sembrava sotto di loro, era percettibile dai piedi, come se per davvero l’acqua accarezzasse il ghiaccio, infondendo energia. Sembrava non avere nulla di cattivo in sé, ma aveva paura di essere tratto in inganno, ancora una volta, perché era consapevole di quanto potesse essere spietato.

E’ corretto, Hyoga! - gli lesse nella mente il maestro - Non vi è nulla di completamente cattivo, in questo mondo, né di completamente buono”

E allora come possiamo noi capire ciò che è giusto o ciò che è sbagliato?”

La differenza la fai tu, la fanno le tue percezioni, ciò che è scibile e assimilabile dalla tua esperienza e ciò che è inconoscibile, e che, di riflesso, fa paura...”

S-sono quindi le mie esperienze ad aver decretato che il mare sia… cattivo?” chiese titubante Hyoga, riaprendo gli occhioni azzurri.

Lo sono sì, ma non significa che sia giusto...”

Ma il mare ha catturato...” si fermò mordendosi il labbro, non voleva riesumare quell’argomento.

Dimmi… ti è sembrato malvagio il mare, oggi, quando sei riuscito a spingerti ad udire le onde che, lentamente, ma con costanza, accarezzano il ghiaccio su cui poggiano i nostri piedi?”

No, mi sono sentito cullato e… rassicurato, ma...”

Ma non fai che pensare a quello che il mare ti ha preso, vero?”

Sì...”

Il mondo, così come lo vedi, è frutto della tua mente. Si può dire quindi che l’oggettivo non esista, ciò che percepiamo è frutto del vaglio della nostra testa, ne deriva quindi una visione distorta, non assimilabile a quella di nessun altro, nonché… unica!”

Hyoga osservava ammirato Camus, ancora al suo fianco, gli occhi chiusi quasi come se stesse dialogando anche con il mare sotto di loro che, per la prima volta agli occhi del piccolo, dopo l’incidente, non pareva poi così spietato, ma quasi… un conoscente. Si soffermò a fissare il profilo allungato del mentore, chiedendosi tacitamente se lui era arrivato a non provare più paura. Lo ammirò una volta in più.

Hyoga… - gli occhi di Camus si riaprirono nell’avvertire il suo sguardo su di lui. Emanavano un lucore quasi invincibile, a tratti divino, che abbagliava – Quando non saprai dove andare e ti sentirai sperso, rintraccia le onde del mare, inspirane l’odore marino, senza più questo filtro di paura che provi adesso. Ti farà sentire meglio e ritroverai la via!”

Ma io…”

Promettimi che, almeno, ci proverai!”

Hyoga si sentì pervadere da qualcosa di arcano, mai sperimentato prima, che gli gonfiò i polmoni ancora un poco affaticati: l’orgoglio di non deluderlo.

C-ci proverò!” annuì, gli occhi gremiti di una ancora un poco fievole lumella destinata un giorno a diventare abbagliante.

Camus annuì a sua volta, prima di rialzarsi in piedi e prenderlo per mano.

Maestro, quindi voi non avete paura di nulla perché conoscete tutto?” chiese ingenuamente Isaac, sbalordito da quei racconti e, ancora di più, dal modo in cui venivano raccontati.

Conoscere tutto è impossibile, Isaac...”

E allora come fa a non spaventarvi niente?”

Oh, ci sono molte cose che mi spaventano, invece...”

Impossibile!” furono entrambi gli allievi a commentare, scambiandosi un nuovo sguardo d’intesa.

Siamo una zattera in mezzo ad un perenne mare in tempesta, sballottati qua e là in un universo ormai senza padrone. E’ questo il destino dell’umanità, il senso dell’assurdo della vita medesima, ma qualcuno deve riuscire a fare la differenza – cominciò a spiegare, guardando nuovamente verso l’orizzonte lontano, lo sguardo perso, come se vedesse qualcosa ancora precluso ai due pargoli – Ogni goccia d’acqua, ogni cristallo di ghiaccio, ogni granello di una pietra, persino ogni bagliore minerale di una montagna ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Qualcuno, che deve saper leggere i venti, il moto delle maree, il volo degli uccelli per manovrare la bagnarola in cui ci siamo ritrovati, ci deve essere, malgrado la paura. Sapete, alla fine si ritrova sempre il proprio fardello...” riprese poco dopo, serio in volto.

E quel qualcuno sono i Cavalieri di Atena, vero, Maestro?” chiese lesto Isaac, desideroso di riacquistare punti di vantaggio su Hyoga, che riusciva ad udire cose che a lui erano ancora precluse.

Conoscere per combattere la paura, per affrontare la tempesta, non per fuggirvi…

Si ritrovò a pensare Hyoga, pensieroso, come colpito da una fulminazione, guardandosi la manina di destra.

Maestro…?”

Isaac gli strinse il polso nel tentativo di ridestarlo, perché Camus sembrava totalmente altrove in quel momento e al piccolo non piaceva che i discorsi rimanessero in sospeso.

Effettivamente Camus non rispose mai a quella domanda, che si perse nel vuoto, tra il vento, la banchisa e le onde del Mar Glaciale Artico.

 

“A chi vi riferivate, Maestro? Non era un Cavaliere di Atena, vero?” si domandò Hyoga, la mano destra davanti a lui, più grande di allora, ma ancora incapace di sorreggere gli altri.

Aveva più importanza, poi, chiederselo? Ora che tutto era stato spazzato via. Tutto. Da lui. Dalle sue scelte.

Sì, aveva avuto delle radici, il solo rammentarlo lo faceva soffrire, come davvero un albero divelto.

Aveva disintegrato ogni cosa, la sua famiglia, la sua felicità… le aveva spazzate via, quel giorno in cui si era reputato sufficientemente forte per raggiungere sua madre, quel giorno che il mare non gli aveva fatto più paura, e che anzi era da considerarsi un amico con cui perdersi nell’oblio dei sensi.

Aveva fatto finire ogni cosa, ne era rimasta solo la cenere, il non perdono di Camus, il farlo assurgere al ruolo di Cavaliere di Atena, ad ogni costo, come una condanna, non certo più per orgoglio.

Hyoga non avrebbe mai voluto che le cose potessero finire così, dai suoi piani doveva semplicemente diventare parte di quell’immenso mare, come sua madre, una piccola particella del tutto, nient’altro. Ma Isaac lo aveva salvato, si era gettato in acqua per lui, incurante dei rischi, sacrificando la sua stessa vita, concedendogli di prolungare un’esistenza maledetta che lo opprimeva.

Non c’era stato nient’altro dopo la sua decisione. Solo un immenso, ulteriore, peso, solo il sentirsi obbligato a continuare a vivere anche per lui, in suo onore, e diventare il Cavaliere che Isaac avrebbe voluto essere.

Non c’era stato altro. Solo freddo, solitudine e disperazione.

Solo… lo sguardo impassibile di Camus, che celava tutto l’odio di quel mondo, il disgusto, il tacito non voler più avere nulla a che fare con lui, soffocato però dai doveri che il suo essere maestro gli imponeva, perché un Cavaliere del Cigno doveva nascere da quelle lande ghiacciate. Doveva. Ne andava del suo onore, era una sua responsabilità.

Il calore era stato quindi spazzato via, lui lo aveva voluto, era stata una sua nefasta scelta. Per dovere avrebbe continuato a vivere. Non c’erano alternative.

 

Non ti perdonerò mai, Hyoga, MAI! Hai distrutto tutto, TUTTO! Perché lo hai fatto, perché?! Perché proprio tu, perché ho permesso proprio a te di arrivare così al mio cuore, ormai sguarnito, infliggendogli un colpo mortale?! Non ci saremmo dovuti mai incontrare, tu mi hai distrutto, Hyoga, hai disintegrato ogni cosa che avevamo costruito. Io…

 

“… mi odiate, lo so, lo so fin troppo bene, Mae-stro… - gracchiò a fatica Hyoga, mentre alcune lacrime sgorgavano prive di controllo dal suoi occhi – E non riesco più nemmeno a percepire il mare, come mi avete insegnato. Non riesco più…” soffocò un singhiozzo, quasi mordendosi la lingua.

Camus lo odiava, con tutto sé stesso. Lo aveva ben visto quando Nero Priest lo teneva soggiogato, li aveva ben visti quei suoi occhi, nitidi davanti a lui, che avevano avuto il coraggio di esprimere ciò che per anni si era costretto a seppellire dentro di sé. Non c’era possibilità di equivoco. Le parole erano state lanciate, non sarebbero più tornate indietro. Mai più.

“Maledizione! - imprecò tra i singhiozzi, del tutto vano trattenerli, colpendo con un pugno la sabbia sottostante – Perché quindi non mi avete lasciato morire, perché mi avete salvato dall’ipotermia, invece di vedermi agonizzare senza cure?! Mi avete guarito… se non lo aveste fatto sarei morto anche io, ma mia avete salvato. Possibile che il vostro senso del dovere fosse così alto?! Possibile?! Dovevo morire, Maestro Camus… invece avete completato il mio addestramento e, durante la Battaglia delle 12 Case, avete dato la vita per me, per farmi attingere allo Zero Assoluto… NON HA ASSOLUTAMENTE UN SENSO!”

Si rese conto appena di sentirsi ancora arrabbiato, oltre che schiacciato dai sensi di colpa. Quasi urlava, eppure cercava al contempo di trattenersi, mordendosi il labbro e facendosi male. Il petto gli doleva, il respiro era mozzo, la penuria di ossigeno non lo faceva ragionare bene. Avvertiva solo un grande vuoto.

“Davvero non lo sai, giovane cigno? Davvero non ti spieghi come mai il tuo maestro ti abbia salvato più volte la vita?”

Hyoga sussultò, scattando in piedi nell’avvertire una voce cordiale giungere alle sue orecchie, apparentemente sconosciuta. Stava forse impazzendo?! Non c’era nessuno nei dintorni, come era finito a udire anche voci inesistenti?!

“Lui ti ama, Hyoga… è solo che non lo riesce ad esprimere. Di certo, per un periodo della sua vita, è arrivato ad odiarti, suo malgrado, senza volerlo, del resto, la sua intensità delle emozioni è immensa, a stento controllabile. Può essere una montagna eterna di ghiaccio, infrangibile, compatto, solido… ma il ghiaccio è pur sempre formato da piccolissimi cristalli di neve che si disfano se stretti un po’ troppo forti nel palmo di una mano...”

“Chi… chi sei?”

“Una parte di Camus… che si è smarrita, ma, proprio per questo, so per certo quello che ti ho detto – lo raggiunse ancora la voce soave – Hyoga, giovane e fiero erede di Aquarius, sforzati di ricordare...”

“R-ricordami?” ripeté Hyoga, continuando a guardarsi confusamente intorno.

“I piccoli gesti che ti regalava, il prendersi cura di te, quando avevi la febbre alta, il pregare che tu potessi sopravvivere, il sperare. Ti vuole bene, Hyoga, anche se non riesce ad esprimerlo, ma credimi… credimi, ti prego!”

Il ragazzo si sforzava di ricordare, ma non ci riusciva, gli venne da piangere più forte.

“Non rammento… niente… di ciò che mi dici, non...”

“Come supponevo, siete troppo simili, non riuscite a toccarvi...”

“Ma tu chi sei?! Perché sento la tua emanazione, mi sembra quasi di conoscerti, eppure...”

“Ripercorri il cammino insieme a me...”

Il cammino?! Ma se non riusciva neanche…

“Ahi!”

Hyoga saltò quasi sul posto per la sorpresa di essersi sentito beccare la caviglia. Abbassò lo sguardo, ritrovandosi davanti un prodigio, un qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Fremette, del tutto incredulo, nell’ammirare un cigno bianco splendente che, con gesto gentile ma deciso, gli tirava il bordo dei pantaloni.

“Chi… sei?”

La voce gli usciva a fatica, mentre le narici si inebriavano di un profumo frizzante che gli faceva provare un’immensa nostalgia. Era la prima volta che lo percepiva così distintamente eppure... gli era famigliare!

“Un frammento dell’anima di Camus...”

“Un…?! - Hyoga sospirò, massaggiandosi la testa, e chiudendo gli occhi, scrollando il capo, rassegnato – Ora parlo pure con i cigni e i cigni mi dicono di essere il maestro, sto uscendo di testa...”

“Perdona se discorro con te in questa tenuta. Non dovrei intervenire, ma… sotto questa forma, anche se non convenzionalmente, qualcosa posso provare a fare. Per te. Per voi!”

Hyoga udiva appena le parole del candido cigno, di un bianco puro, avvolto da una nebbiolina gelida, che circondava la creatura dandogli connotatati mistici. Era meraviglioso, ma non poteva che trattarsi di un miraggio, di un segno di uno squilibrio mentale o di qualcos’altro.

Per qualche ragione inspiegabile, però, gli rispose comunque.

“Non c’è nulla da fare, tra me e il maestro, non...”

“Non c’è nulla da fare se rimarrete fermi nelle vostre posizioni, è vero, ma il vento sta cambiando, lo odi?”

“I-io non...”

“Devi ricordare, ragazzo… solo questo!”

“Che cosa?”

“Il giorno in cui perdesti Isaac...”

“Non c’è un istante della mia vita che non me lo rammenti, ho gli incubi, su quello! Non ho bisogno di te per farlo riaffiorare nella mia mente. L’odio del maestro, il suo curarmi a forza, per dovere, per… - si trattenne, rendendosi conto che si stava arrabbiando – Dovevo… essere… io… a morire...”

“Non è così! In fondo al tuo cuore sai che ti ama, quel giorno non smarriste solo Isaac, otteneste anche qualcos’altro...”

“Che cosa?”

“Il calore di un conforto… la compenetrazione esatta di due anime che fino ad allora non si erano mai capite, sebbene fossero così simili”

Hyoga guardò il cigno con pietoso scetticismo. Ormai ne era sicuro: stava diventando pazzo per congetturare, tramite la sua mente, simili immagini dell’uccello che rappresentava la sua costellazione e che davanti a lui si perdeva in pensieri filosofeggianti per provare a farlo sentire meglio.

Inaspettatamente udì il suono di una risata cristallina -i cigni ridevano?!- che lo fece sussultare. L’animale continuava a guardarlo con gli occhi scuri, divertendosi a strusciare il becco sui suoi pantaloni, sbattendo ogni tanto le ali.

“Non sei pazzo, su questo puoi esserne certo, sono io ad averti raggiunto, non è la tua mente ad avermi generato”

“La questione non cambia, non capisco quello che dici, non mi ci ritrovo. Quel giorno il legame tra me e il Maestro Camus si spezzò irrimediabilmente per sempre, non abbiamo più costruito niente da allora, terra bruciata, terra...”

“Guarda dentro al tuo cuore, giovane erede di Aquarius, senza più paura alcuna, lì si celano le risposte che cerchi”

“Ma io...”

“Hai paura, lo so, tutti gli esseri viventi ce l’hanno, ma non è forse dovere di un Cavaliere conoscerla per poi combatterla? Per affrontarla, smettendo così di sfuggirle?”

Erano le parole che aveva lasciato intendere Camus quel giorno che aveva portato lui e Isaac ad ammirare il Mar Glaciale Artico che si scioglieva. Ingoiò a vuoto, chiudendo gli occhi e chiedendosi se davvero quella creatura magica fosse un frammento dell’anima, del cuore, del suo maestro…

“Lasciati trasportare dall’onda, io ti guiderò!”

Anche quella una frase famigliare, che Camus pronunciava spesso. Il suo cuore perse un battito, poi un altro ancora. Doveva rivivere i momenti posteriori alla perdita di Isaac, anche se faceva male, dannatamente male. Tuttavia, malgrado lo sforzo, non riaffiorava niente nel buio che lo aveva avvolto, del resto in quel frangente era stato piuttosto male, era davvero difficile cavare qualcosa in quegli istanti terribili in cui aveva avuto tanto, tanto, freddo, e la vita scivolava via, senza avere la forza per opporvisi. Non riusciva ad acciuffare quei momenti, era tutto vacuo e confuso, come le nebbie del delirio che lo avevano avvolto. Come riportarlo quindi in superficie?

“Scu-scusami, io non riesco a...”

Per un instante sentì nuovamente il peso del fallimento addosso… aver attinto all’Ottavo Senso, sconfiggendo Hades insieme agli altri Cavalieri di Bronzo, per poi non riuscire a fare nemmeno una cosa semplice come riportare alla luce un qualcosa che lui stesso aveva vissuto, anche se in bilico tra la vita e la morte. Il Maestro Camus ce l’avrebbe fatta, invece. Il Maestro Camus…

Pa-pà… aiu-to, ho tanto… freddo!”

Sussultò sconvolto nell’udire la sua stessa voce. Ma le sue labbra erano chiuse, le sfiorò appena con la punta delle dita, mentre un leggero calore gli riempiva il petto. Il calore…

Lentamente le forme attorno a lui presero consistenza, rivelando la sua figura emaciata e affannata stesa sul letto, avvolta da pesanti coperte che tuttavia non lo riscaldavano. Sgranò gli occhi, quasi paralizzato. Arguì che stava morendo, c’era vicinissimo e…

“P-per Atena, i-io sto...”

P-papà, d-dove sei?! N-non ti sento… p-più!”

E’ qui, Hyoga, resisti, non mollare! Tuo padre è qui, forza!”

Sobbalzò nel sentire quella voce che non identificò subito e che soprattutto non rammentava in quel frangente, mentre i contorni della camera, rischiarata da una luce soffusa, si facevano sempre più nitidi. Riconobbe infine la figura di colui che, chinato al suo capezzale, cercava di prodigarsi per farlo stare meglio, ma i suoi occhi erano tutti per Camus, in piedi appoggiato alla parete, lo sguardo spento e consumato rivolto al letto, quasi uno spettatore esterno. Lontano, così lontano da lui, dal toccarlo, come se il solo provare ad avvicinarsi gli facesse quasi ribrezzo.

“Mae-stro...” balbettò lo Hyoga del presente, fremendo, non riuscendo a spiccicare più alcuna parola.

Pa-pà… papà, t-ti prego, perdona-mi!” lo invocava intanto l’altro sé stesso, sempre più debole.

Cosa devo fare? - languì infine Camus, in tono strascicato, non accennando comunque alcun movimento nella loro direzione - Cosa devo fare… Elisey?”

Il grande e coraggioso Hyoga, il Cavaliere che era diventato a scapito di immani sofferenze, guardò la figura del vecchio Sciamano fulminare con gli occhi Camus, rimproverandolo tacitamente per la poca reattività che mostrava in quel momento. Poi lo vide chinarsi nuovamente sul sé stesso della visione, recitare alcune formule magiche, che si impressero sulla sua fronte, accarezzandogli poi i ciuffi biondi e sistemandogli successivamente il capo per permettergli di respirare meglio, visto che faceva così tanta fatica a racimolare ossigeno.

L’ipotermia gliela abbiamo già trattata, non possiamo fare altro...”

Secco. Lapidale. Come sempre. Anche se in viso aveva un’espressione triste, rammaricata. Camus si ritrovò a sussultare bruscamente, il cuore -sempre che ce l’avesse ancora avuto il cuore, perché se lo sentiva frantumato!- smise per un solo istante di battere.

Ma i-il ragazzo sta comunque...”

Lo so... – sospirò Elisey, recitando nuovamente quelle formule che vennero impresse sulla sua fronte, svanendo però subito dopo – Sta morendo, perché la sua anima non intende farcela”

Che… cosa… significa?”

La domanda di Camus uscì dalla sua bocca quasi come un latrato. Si ritrovò suo malgrado a tremare, fragile come non mai. Smarrito. A stento si reggeva alla parete, le gambe non lo sorreggevano che appena.

Elisey si raddrizzò, posando la sua mano sopra la fronte del giovane Hyoga, che ansimava con patimento, quasi del tutto abbandonato. Camus lo percepì; percepì che stesse scivolando via, per questo tentò di raggiungerlo a voce, pur mantenendo le distanze.

Sono qui con te, Hyo-ga… andrà tutto bene, starai presto meglio in qualche modo!” provò a rassicurarlo, prendendo varie boccate d’aria per tentare di dare fermezza al suo tono.

Detesto dovertelo ripetere, ma, ancora una volta, dipende da te, Camus...”

Che cosa posso…? D-dicesti poco fa che l’ipotermia...” non riusciva a parlare, stava sempre peggio nell’assistere al suo Hyoga che sprofondava via da lui, perdendosi.

So bene cosa ho detto, è infatti altro ciò che dovresti fare...”

E s-sarebbe?”

Perdonarlo...”

Camus tacque, facendosi livido, gli occhi si fecero nuovamente severi e intransigenti, spazzando via la tristezza. Perdonarlo… dopo che gli aveva appena strappato Isaac e così il cuore?! Perdonarlo…

N-non… p-posso!”

E allora morirà!”

N-no! Non voglio che...”

Perché non vuoi? Sei talmente arrabbiato con lui, per averti strappato Isaac, per averti distrutto il nido che difficoltosamente ti eri...”

Lo sono, sì… eccome se lo sono! Con lui… e con me stesso!”

Il corpo di Hyoga, sussultò, prima di iniziare a vibrare, come scosso dai fremiti. Lo stesso capitò alla versione di Hyoga cresciuta, già Cavaliere, che incassò la testa tra le spalle.

“E allora perché non mi lasciate morire?”

E allora perché non LO lasci morire?”

Camus stette in silenzio, discostando lo sguardo dolente altrove. Fragile, distrutto… persino davanti ad Elisey, colui a cui non avrebbe mai voluto far vedere la propria debolezza.

E’ questo tuo astio che lo sta uccidendo...”

Co-cosa?” le pupille di Camus traballarono notevolmente. Per l’ennesima volta nell’arco di quella settimana si sentì morire, sebbene si reputasse già morto.

Elisey tornò a concentrasi su Hyoga, il quale appariva sempre più agitato e arrendevole, lo stavano davvero perdendo, si morse il labbro inferiore.

Senso di colpa, fallimento, tristezza, impotenza… avverto tutte queste emozioni dentro di lui, lo stanno schiacciando, rendendogli sempre più difficile la respirazione. Se non lo farai aggrappare a nulla, la sua vita scivolerà via e si spegnerà per sempre...”

Il tono di Elisey era grave, mentre osservata attentamente Camus, che passava da uno stato di disperazione crescente ad uno di rabbia in pochi, brevi, secondi.

Mi stai pigliando per il culo, Elisey?! Tutte queste frivolezze… mi stai dicendo che sono loro a ucciderlo?! Non l’ipotermia? Hyoga… sta rimanendo ucciso dalle sue stesse EMOZIONI?!?”

Disgustato da quella fragilità, che era la stessa sua...

Non sei un Evocatore, non mi meraviglia che tu non capisca...”

Camus lo avrebbe mandato al diavolo per quell’affermazione, se non si fosse trovato in una situazione più che disperata. Ingoiò la provocazione, cercando di scacciare le lacrime, la sua più cocente debolezza.

Cosa devo fare, quindi?”

Perdonarlo...”

Qualcosa di più terra terra, Elisey, non mi sembra il momento adatto per parlare dell’Iperuranio!” ironizzò nervosamente, quasi non riconoscendosi.

Non ci siamo capiti, ragazzo, il tuo Hyoga sta morendo, ti sembro in vena di scherzare?!?”

Lo so, maledizione, ti sto chiedendo il modo per salvarlo!” ripeté testardo Camus, tentando disperatamente di mantenere stretto a sé l’autocontrollo che tuttavia gli sfuggiva.

Perdonalo… solo di questo ha bisogno, null’altro!”

Non succederà, è inutile! E’ andato contro i miei insegnamenti, ha segnato il destino di Isaac con la sua decisione, come puoi dirmi di… HYOGA! NO, MALEDIZIONE!!!”

L’allievo si dimenava con sempre maggior foga, preda degli spasmi, delle convulsioni, perché era arrivato al limite, avvertiva tutto quell’odio crescente, la colpa, il dolore, il fallimento… era impossibile resistergli.

Camus era balzato in avanti, approcciandosi al letto nel vedere con terrore l’allievo subire tutto quello. Stava soffrendo terribilmente, teneva strette le coperte sotto di sé, mentre il corpo si muoveva in maniera sempre più incontrollabile, le labbra aperte in un grido che risultava dilaniante anche se muto, perché di forze Hyoga non ne aveva più, ne era quasi prosciugato.

All’odio, alla disperazione e alla rabbia si aggiungeva qualcosa di ben più terribile: l’amore infinito, che sentiva provare per lui, e che rendeva tutto il resto persino più intollerabile. Gli voleva bene… ed era stata quella debolezza, l’essersi permesso di legarsi a loro, che aveva ucciso il suo Isaac e che si stava portando via anche il suo Hyoga… Hyoga, che stava per smarrirsi per sempre.

E’ dunque questa la tua scelta, Camus? Farlo morire… per quello che ha fatto al tuo Isaac?” chiese Elisey, trattenendo il ragazzo a stento sotto di sé. Il battito del suo cuore stava diventando paurosamente irregolare, rischiava di fermarsi, ma non glielo disse. Così privo della volontà di vivere, non sarebbe che durato solo alcuni minuti, prima di accartocciarsi su sé stesso come una foglia riarsa. Morto.

N-no, io non ho mai detto q-questo...”

Sei furioso con lui, Camus, questo, solo questo...”

SONO FURIOSO CON LUI PER FORZA, ELISEY!!! - gli inveì contro, ormai non riconoscendosi più - Ma n-non significa che voglia l-la sua morte…” singhiozzò, dando un pugno contro il muro per la frustrazione.

Sei furioso con lui, ma non vuoi che muoia… non è un controsenso questo?!”

No, non lo è… NON LO E’!!! Non voglio… NON VOGLIO! I-io… - rabboccò aria, sempre più devastato – E’ stata colpa mia, Elisey, i-io ho ucciso Isaac, IO! Non riesco a sopportare la sola idea di perdere anche lui!”

Doveva fare aggrappare l’allievo a qualcosa, altrimenti se ne sarebbe andato per sempre. Il guaio era che nemmeno lui aveva più un sostegno, l’ennesimo gli era stato strappato via con violenza inaudita.

Isaac… mio ometto!

E allora... parlagli, toccalo! Non puoi perdonarlo, non puoi perdonarTI, ma lui ha bisogno di sentire la tua voce, Camus, di percepire il tuo calore! Digli cosa è lui per te, perché non vi siete mai nemmeno sfiorati, né tanto meno capiti, ma siete indispensabili l’uno per l’altro!”

Camus tacque, rimanendo, per un tempo indefinito a fissare il corpo di Hyoga tra le braccia di Elisey, quel suo volto rotto dalla sofferenza, le sue palpebre contratte, la smorfia sulle sue labbra dischiuse, il freddo che lo aveva avvolto, sempre più insostenibile…

La sua mente venne portata lontana per una serie di secondi, a quando, 5 anni prima, lo aveva conosciuto, piccolo e indifeso com’era, impacciato, con il suo corpicino fragile di appena 8 anni. Effettivamente poco dopo, quel bambino biondo dagli occhi azzurri delle sue memorie, si era ammalato di polmonite, trasmettendo a lui l’incubo di perdere un altro allievo come il timido e sfortunato Svetlan, così simile a Hyoga per attitudine.

Ingoiò a vuoto, mentre, alla visione del corpicino scosso dai tremori del piccolo Hyoga di otto anni, si sostituiva la sua versione di tredici, più cresciuta e sviluppata, ma ugualmente… indifesa…

Hyoga...” gli uscì un singulto strozzato nell’approcciarsi finalmente al suo allievo, prendendolo dalle braccia di Elisey per portarselo contro il petto e stringerselo.

Hyoga – ripeté, lo sguardo sempre più annacquato, adagiando il suo volto sulla sua spalla e accarezzandolo per farlo calmare – Perdonami...” gracchiò, chiudendo gli occhi e affondando il viso nei capelli del biondo, che malgrado il colore rassomigliante al grano in estate, non emanavano più calore, così incrostati dal ghiaccio com’erano.

Elisey capì che per far parlare a cuore aperto Camus, e quindi riscuotere Hyoga, doveva rimanere solo nella stanza con l’allievo. Si alzò lentamente in piedi, adducendo come scusa il dover andare a recuperare altre borse dell’acqua calda.

Camus attese che la porta si chiudesse dietro di lui.

Lo sai, Hyoga… - il suo tono era persino più tremante di prima, mentre tentava di dare un freno alle sue lacrime e continuava ad accarezzarlo con premura e dedizione – Quando, pochi mesi dopo il nostro incontro, fuggisti dall'isba perché avevamo litigato, rischiando l'ipotermia, sviluppasti una polmonite potenzialmente fatale. Quella notte ti tenni stretto a me esattamente come sto facendo ora. Sembravi così piccolo e indifeso, avevo paura… avevo paura che non ce la potessi fare, come Svetlan, ma… ma riapristi gli occhi, mentre ti tenevo tra le braccia insieme ad Isaac, mi tirasti un poco i capelli, prima di sorridermi, chiamarmi papà e riaddormentarti su di me...”

“E’ vero, Maestro, lo ricordo anche io e… pensavo di averlo dimenticato, invece l’ho sempre custodito qua dentro” biascicò Hyoga del presente, toccandosi il petto e guardando con dolcezza il suo corpo essere cullato dalle forti braccia di Camus, il quale, senza far trasparire i singhiozzi fuori da sé, lo continuava a tenere contro il suo torace.

Ma tu sei forte, piccolo, ciò che hai dato a me e ad I-Isaac in questi anni, non si può nemmeno spiegare a parole. E’ stato facile volerti bene, anche se non sono mai riuscito a dimostrartelo. Non siamo mai riusciti a capirci completamente, sebbene tu mi sia così simile...”

“Simili… - ripeté Hyoga, corrucciato, sull’orlo delle lacrime, gli occhi a sua volta annebbiati – Siamo così simili, Maestro?”

Moltissimo...”

Hyoga sussultò, era quasi come il Camus della visione, quello che continuava a stringere il suo corpo inanimato troppo vicino all’oblio, avesse risposto alla sua domanda.

Siamo molto simili, Hyoga, quasi mi spaventi, perché rivedo in te la mia stessa fragilità, i miei stessi sbagli che io, in quanto maestro, devo cercare di farti sopperire in ogni maniera, perché ti uccideranno, prima o poi, ed io… io non lo potrei sopportare! - Camus respirava il profumo salmastro dei capelli di Hyoga che sembrava essersi finalmente acquietato – Proprio per questo, perdonami, piccolo, perdonami se, da adesso in poi, dovrò dare ancora più del tutto per tutto per sforzarti a crescere. Mi sei rimasto solo tu, t-tuo fratello è...” si fermò, non riuscendo nemmeno a tollerarne la parola. Singhiozzò.

...E’ morto, l’ho perso, l’ho abbandonato… e la colpa è stata ancora più mia che tua…

Non sono riuscito a salvarlo, mi è… sfuggito… ci ho provato, davvero, con tutto me stesso, ma lui se ne è andato… p-per sempre!”

Hyoga, distogliendo lo sguardo, si sentì nuovamente arrabbiato, malgrado il calore che percepiva in petto. Cominciava a capire il perché di tante cose, cominciava a capire Camus, ma questo, per un ironico scherzo del destino, non lo rasserenava, anzi, lo rendeva solo più cupo e pregno di amarezza.

“Non dovevate comunque scegliere voi la mia strada, la mia… - strinse i pugni con foga, aveva voglia di urlargli contro tutta l’ira che avvertiva, poi di abbracciarlo, di piangere spalla contro spalla, perché Camus si era sovraccaricato troppo, nel darsi la colpa, e quello lo stava distruggendo, ma non faceva che pensare a lui, come nella Battaglia delle 12 Case; e poi ancora… ancora… non lo sapeva, avvertiva fin troppe emozioni dentro di lui, in tumulto – Questo, il volermi farmi crescere, non vi da alcun diritto di tracciare la strada per me, non vi dava neanche alcun diritto di gettare mia madre nel fondo negli abissi! Perché mi avete...”

Ti sentirai tradito, mi odierai… ne sono consapevole! Continueremo a non capirci, ad inseguirci, senza riuscire nemmeno a sfiorarci...”

Hyoga lo fissò incredulo, davanti a lui, la bocca semi-aperta, un fastidioso fischio alle orecchie.

“Smettetela di leggermi nella mente, come fate a percepirmi, anche se siamo su due piani temporali diversi?!? - si ritrovò a sua volta a singhiozzare, frastornato, non capendo più se il maestro rispondesse a lui o parlasse da solo in quella visione ricolma di dolore, nel nido che lui stesso aveva contribuito a strappare – Dunque lo sapevate, sapevate che non vi avrei capito, perché ero troppo infantile per capirvi, che ci saremmo fratturati ulteriormente, ma lo avete fatto comunque! Se non fosse stato per Milo io… vi avrei anche odiato, durante la Battaglia delle Dodici Case, anzi, ti ho odiato, Camus!!! Proprio tu, la mia guida, il mio sostegno, perché hai permesso questo?! Perché hai permesso che ti odiassi… papà?!”

Troppe emozioni, non le riusciva a controllare, lo travolgevano. Tacque, mordendosi il labbro inferiore per non emettere alcun suono, il sibilo nella sua testa era sempre più prorompente.

Tacque anche Camus, che guardava fisso, con occhi spenti, un punto indefinito sulla parete, senza vederlo neppure. L’altro Hyoga, tra le sue braccia sembrava quasi del tutto tranquillo, dormiva, sebbene l’espressione fosse comunque piegata dagli incubi e dalla sofferenza.

Un colpo di vento più forte del normale picchiò contro la finestra, facendo riscuotere Camus, il quale tornò a concentrarsi sull’allievo, le guance rigate dalle lacrime che aveva per troppo tempo trattenuto. Gli accarezzò i capelli biondi con gesto sinuoso, scendendo poi sul suo volto, che gli vezzeggiò con il pollice, appena sotto la palpebra abbassata.

Ho perso… tutto… non perderò anche te, mio amato Hyoga… - farfugliò, posando la fronte contro la sua e strizzando le palpebre come ad impedire al dolore di manifestarsi ulteriormente. Sarebbe rimasto sigillato in quelle quattro mura in eterno, senza trasparire più fuori – Non perderò anche te, p-piccolo, diventerai fortissimo, più di quanto sia io, solo così potrai resistere alle brutture della vita senza esserne travolto… solo così… te lo prometto!”

“Perché non capite che è impossibile?! I-io… io… - Hyoga chiuse, riaprì, e richiuse le palpebre, prostrato – I-io sono esattamente come voi e sono… fiero… di esserlo!”

Finché Camus avesse perdurato a volerlo rendere ciò che non era -e soprattutto ciò che non era neanche lui!- non ci sarebbe stato alcun punto d’incontro, come avrebbe potuto esserci, del resto? Simili fino al punto di non riconoscersi, malgrado l’immenso affetto provato l’uno per l’altro. Suonava davvero come una condanna, una maledizione...

“Maestro… no, anzi, papà… Io ti...”

Ti voglio bene, Hyoga… anche se non te l’ho mai detto!”

Nonostante lo sapesse, gli vennero gli occhi lucidi a quella rivelazione che dolcemente Camus rivelava alla sua controparte troppo debole per poterlo udire. Ai loro stessi del passato.

“Vale anche per me, è proprio per questo che… non posso tornare. Non finché non sarò cresciuto, seguendo però la mia strada, non quella voluta da altri!” disse tra sé e sé, sperando in cuor suo che anche Camus potesse percepire quelle parole sussurrate tra le nebbie del sogno e che profumavano di una nuova determinazione.

Tutto svanì nel breve istante successivo.

Non era più all’isba, non era neanche più sulla spiaggia, ma su un picco ghiacciato, intento a fissare mestamente il sole che si infiammava prima di languire e insanguinare tutto l’ambiente circostante.

“Non sei costretto ad allontanarti per giungere a completa maturazione, per… crescere. Hai già dimostrato di averlo fatto!” gli disse il cigno, nuovamente ai suoi piedi, gli occhi puntati a sua volta verso il tramonto.

“Non posso tornare ancora a casa, anche se lo vorrei tanto, non sono ancora… adeguato!”

“Hai compiuto imprese eroiche, Hyoga, Camus è fiero di te, anche se fatica ad esprimersi”

“L-lo so, ma io...”

Il giovane Cavaliere era dubbioso circa le parole del cigno, non si sentiva giunto a completa maturazione, laddove ciò era stato possibile, era stato solo per merito della sua famiglia, dei suoi affetti, che lo avevano guidato con passione e pazienza infinita, ma la sua strada, quella solo sua, ancora non sapeva dove fosse, né dove si potesse intraprendere. Finché quella gli sarebbe rimasta oscura, finché non avesse contraccambiato il favore, proteggendo le persone amate come loro avevano fatto con lui, non poteva dirsi cresciuto.

“Concepisco i motivi della tua decisione, ma… dovresti comunque parlargli, non trovi?”

Hyoga gli rivolse uno sguardo interrogativo, ancora più perplesso. Era inebriato nel vedere quel tramonto con il cigno, anche se probabilmente doveva trattarsi di un suo trip mentale.

“Ti riferisci al maestro?”

“Camus ha bisogno di te, quanto tu di lui, non dimenticarlo mai...”

“...”

“Me ne dolgo… avrei voluto farvi riavvicinare ma, pare, i tempi non sono ancora maturi, né per lui né per te”

“Perché ti importa così tanto?”

“Perché io sono un frammento della sua anima, no? Lui è il mio futuro, e tu… tu sei il mio testamento spirituale… Hyoga!”

Poche parole, ma che bastarono ad indirizzare il ragazzo su una pista. Ecco chi era realmente il cigno, ma come… come?!

Si volse verso di lui, ma non vi era che rimasta una piuma ai suoi piedi, che raccolse e fissò con sorpresa crescente. I dintorni si imporporavano sempre di più, segno che il sole stava scendendo sotto l’orizzonte.

“Perché… sei venuto a parlare proprio a me?” si chiese, costernato, non ottenendo ovviamente risposta. Chiuse gli occhi annusando la piuma. Profumava di qualcosa di frizzante e fresco, quasi balsamico, era una miscela di odori straordinaria.

“Da quando ho saputo della tue esistenza, dopo la Battaglia delle Dodici Case, ho desiderato conoscerti e incontrarti, ma quando ciò è successo non ci potevamo parlare, perché ne andava della vita di Milo e del Maestro Camus e ora… ora in questo momento difficile mi appari per rinfrancarmi, ma è tardi,sono ormai perduto da un pezzo!” commentò aspramente, le lacrime a fior di palpebre, mentre si lasciava cadere sul suolo freddo.

Non lo raggiunse. Qualcosa di infinitamente caldo lo sollevò invece delicatamente, trattenendolo contro di sé, come nel sogno. Strinse le palpebre che difficoltosamente tentavano di aprirsi.

“Hyoga!”

Il solo suono cristallino proprio della sua voce, lo fece sussultare, dandogli al contempo la spinta necessaria per balzare in piedi e allontanarsi il più in fretta possibile da lui, perché il suo solo tocco lo destabilizzava, ancora di più dopo il ricordo in cui lo aveva accompagnato Dégel. Si ritrovò a zampettare brancolante, le dita che si massaggiavano le tempie, un perenne stato di confusione e debolezza per via di quello che aveva vissuto.

“Maestro Camus...” lo chiamò semplicemente, omettendo altro, lasciando che la domanda trasparisse dal tono interrogativo. Cosa vi ha portato qui?

“I-io...”

Le parole gli morirono in gola persino prima di quanto fosse successo a lui. Di nuovo una situazione di stallo. Di nuovo l’universo da dire senza poterlo fare. Per entrambi. Tacquero.

Hyoga si permise di girare un poco il viso nella sua direzione, giusto per osservarlo con la coda dell’occhio. Camus era ancora inginocchiato a terra, lo sguardo perennemente verso il basso, l’espressione colpevole. Un pugno chiuso sulla coscia, l’altro appoggiato sulla sabbia della spiaggia per sorreggersi.

Non si era mai mosso di lì, in verità, Hyoga del Cigno, era la sua anima ad essere stata portata a zonzo tra i ricordi. E Camus, lì nella Spiaggia Segreta, lo aveva raggiunto e soccorso, probabilmente trovandolo svenuto. Non indossava armatura, come lui, solo i pantaloni, senza scaldamuscoli, e la solita maglietta lilla senza maniche. Non parlava. Non poteva parlare, anche se aveva l’aria di qualcuno che aveva molto da dire.

E perché non lo dite, ordunque, siamo ancora messi così male? Perché non… perché continuano ad inseguirci, Maestro Camus, senza poterci sfiorare, perché non ci riusciamo… papà?

“Non ha importanza perché sono qui, ma...”

Ci fu un’altra pausa, il tempo per permettergli di alzarsi in piedi, lo sguardo sempre altrove. Non riusciva minimamente a guardarlo in faccia, la cosa rafforzò la rabbia di Hyoga, che tentava comunque di controllarsi.

Ma niente, rimarremo comunque qui, nello stesso luogo ma distanti, a stento visibili.

Hyoga sbuffò. Non era così che avrebbe voluto far partire il dialogo tra loro, non era così. Stava andando tutto a rotoli ancora prima di cominciare. Si passò nervosamente le mani tra i capelli. Prese un profondo respiro, con l’intenzione di tentare, un’unica volta, di far partire lui il dialogo, ma Camus lo sorprese.

“...torna, Hyoga!”

Altre due parole striminzite, che però ebbero il potere di fargli perdere uno, due battiti, in modo del tutto simile a come era successo nel sogno all’udire il suo “ti voglio bene”. Si voltò completamente verso di lui, incredulo, costernato, sul punto di crollare.

Era esattamente ciò che desiderava, tornare. Ciò che però non poteva permettersi.

Camus rimaneva sulle sue, continuando a non guardarlo in faccia, i lunghi capelli smossi dal vento che gli accarezzavano il viso pallido e provato da sofferenze inenarrabili per essere solo un giovane uomo ventenne.

Hyoga accennò un passo nella sua direzione. Si fermò. Ne compì un altro. Si rifermò. Sapeva non poteva permetterselo, ma… ma… era tutto così a portata di mano, che…

“...Devi continuare con gli allenamenti”

Altra poche parole, che di nuovo ebbero un effetto esorbitante, opposto però alla frase di prima. Hyoga ridusse gli occhi a due fessure, era nuovamente la rabbia a fare da padrone. Crollò tutto subitaneamente, ancora una volta.

“Non ho MAI smesso di allenarmi, Maestro! Di tutti i difetti che ho… non credo di essere mai stato un nullafacente!”

Le palpebre di Camus ebbero un sussulto nell’avvertire il tono freddo con il quale l’allievo aveva pronunciato quella frase ricolma di rancore, lo percepiva fin troppo bene.

“Non volevo dire che...”

“Anzi, mi alleno meglio da solo, voi avete le altre allieve a cui badare, giusto? Io costituisco una distrazione!”

Camus gli avrebbe voluto rispondere in più di una maniera, dirgli che non era così, che lo voleva perché aveva bisogno di lui, che voleva ricostruire tutto, ma, per l’ennesima, malaugurata, volta, gli venne da portare il discorso altrove.

“Sai, Marta non c’è e...”

“E quindi ci devo essere io?! Ora, oltre ad essere un mero sostituto di Isaac lo devo essere anche di Marta, solo perché assomiglia così tanto al vostro caro, irripetibile...”

“NON E’ COSI’, HYOGA!”

Lo aveva guardato negli occhi, per un breve, quanto fugace, istante, necessario per far fermare il ragazzo da non partire in quarta, ma ormai la situazione era compromessa, irreversibilmente. Si morse le labbra. Era così difficile parlargli...

“Non sei mai stato… il sostituto di nessuno!” aggiunse, sperando si riparare al danno fatto. Tardi.

“Sarebbe andato tutto bene, se la tua esistenza maledetta non si fosse intersecata con la mia… - Hyoga ripeté la frase più dura che gli era stata rivolta sotto l’influenza di Nero Priest – Strano che, nonostante questo, voi vogliate avere a che fare ancora con me, chiedendomi di tornare nel luogo da cui sto scappando...”

Secco. Lapidale. Quasi quanto Elisey. Camus presagì per la prima volta quanto effettivamente Hyoga fosse furioso con lui, non tanto per le parole espresse, e neanche dal tono. Era il suo sguardo privo di compassione a fustigarlo più di ogni altra cosa. Quei due occhi, che erano sempre stati solenni e delicati al tempo stesso, e che ora lo scrutavano come se lo volessero pugnalare più e più volte. Se ne sentì trafitto.

“Hy-Hyoga, io… - non sapeva minimamente cosa dire, il petto gli faceva male. Non voleva perderlo, voleva semplicemente stringerlo a sé, cancellare tutto, ma non poteva. Voleva che percepisse quanto gli volesse bene, quanto fosse un sostegno per lui, ma non ci riusciva, non era minimamente in grado di esprimersi e qualcosa lo bloccava – I-io non… non ero in...”

“Oh, ora mi volete dire che non eravate in voi, Maestro? Mi reputate davvero così ingenuo?! La verità, la sola: eravate fin troppo in voi!”

Gli continuava ad uscire un tono di voce sempre più freddo e implacabile. Era così tremendamente arrabbiato… ai sensi di colpa, sempre presenti, andava sostituendosi un’ira sempre più atroce, un senso di delusione che gli mordeva il cuore. Camus era lì, davanti a lui, fragile come non lo aveva mai visto, disintegrato dagli avvenimenti di quell’anno. Debole. Indifeso. Sguarnito. Esattamente come si era sentito lui in tutti quegli anni. Il saperlo, il vederlo così alla sua mercé, mostrando il fianco, gli dava quasi un senso di ebrezza difficilmente controllabile. Finalmente avrebbe potuto fargli provare sulla sua pelle il suo rammarico, la consistenza delle parole come pietra, che, una volta lanciate, procuravano, sempre, un danno.

“Hai ragione, Hyoga, ero fin troppo in me, ma… ma lasciami spiegare, ti prego...”

“Per quale motivo? - ribatté ancora più freddamente lui – Non sarete mai sincero come in quell’occasione!”

“Perché… sotto la sua influenza, non ti ho detto altre cose che, invece, p-provo...”

“Non ha importanza, Maestro, anche io ero sotto la sua influenza, so bene cosa avete passato, so bene che pensavate ogni singola cosa che avete espresso, proprio per questo ribadisco che va bene così, non dobbiamo parlarne per forza!” gli disse, facendo per allontanarsi, perché il dialogo si stava protraendo troppo a lungo, non lo sopportava più.

Fece per allontanarsi, ma la mano di Camus si mosse per fermarlo. La sentì sulla sua spalla, timido conforto, pallido contatto che Hyoga desiderava con tutto sé stesso, ma che insieme respingeva.

Lo voleva. Ma non poteva. Il solo pensarlo gli bloccò il fiato in gola. Ci fu una breve emanazione cosmica di debole intensità, il suo balzare istintivamente indietro, rifuggendo a quella mano che era tutto per lui. Si allontanò bruscamente, prima di voltarsi nella direzione del mentore e sussultare.

Camus era ginocchioni per terra, il respiro irregolare, mentre con una mano si tastava il torace e con l’altra stringeva con foga la sabbia sotto sé, come a tentare di controllare il dolore che certamente stava portando.

Dal suo cosmo gelido che si spense in quell’esatto momento, Hyoga capì che era stato lui a fargli male. Possibile che…? Si guardò sconvolto le mani tremanti, possibile che fosse talmente arrabbiato con lui da aver perso il controllo su sé stesso? Da… colpire Camus con una emanazione cosmica di scarsa intensità e che però, nelle sue condizioni, gli risultava insostenibile?!

“Maestro! Mi… mi dispiace!”

“N-non ha importanza, Hyoga, v-va tutto bene!”

Camus non si curava di sé stesso, né più di farsi vedere così debilitato, non con il suo pupillo, non dopo quello che aveva attraversato per giungere lì. Si sforzò di rimettersi in piedi, ma le gambe gli tremavano, non riuscendo a sorreggersi, quindi si limitò a guardarlo negli occhi, che erano tristi e malinconici come non mai.

“Torna… Hyoga! V-vorrei… se solo mi potessi concedere una... una sola possibilità ancora, vorrei… vorrei ricominciare tutto… - si sforzò di dirgli, in tono tremante – Non voglio… non voglio perderti, mi… mi man-chi… tanto… mi manchi tu in quanto tale, non come sostituto di qualcuno, non come sostituto di Isaac, né come sostituto di Marta. Mi manca… il mio preziosissimo allievo, il bambino biondo dagli occhi azzurri e profondi, che ho fatto crescere io...”

Il tono gli usciva a fatica, mentre il corpo sussultava, portando Hyoga, impietrito a poca distanza da lui, quasi a piangere. Quasi, perché non poteva più concederselo, non davanti al maestro, dopo tutti i suoi sforzi di renderlo forte e intraprendente, senza farsi più scalfire dalle lacrime. Non poteva piangere.

Lo guardò partecipe, un nodo stretto in gola nell’incrociare i suoi occhi blu un poco lucidi. Così gremiti, ma così distanti… strinse i pugni, affogando un singhiozzo.

La verità era che avrebbe voluto precipitarsi tra le sue braccia, ma se lo impediva. Avrebbe dovuto crescere, prima di tornare. Una volta di più. Una volta ancora.

“Non… posso!”

La voce gli uscì a sua volta a fatica, opprimente nel petto, più ancora che a palesarsi esternamente. Le iridi di Camus ebbero un sussulto ben nitido di dispiacere, prima di distogliersi dalla sua figura e stagliarsi verso il mare, senza guardarlo veramente. Era rimasto ferito dalla sua risposta, non aveva incassato bene il colpo, anche se cercava di non darlo a vedere.

“Per-Perché?” chiese in un sussurro, un fremito gli solcò il corpo, prima di materializzarsi in una ulteriore stretta sulla sabbia.

Camus aveva sempre di meno di Aquarius e sempre più di sé stesso, per non dire di Dègel direttamente, questo Hyoga lo capiva sin troppo bene. Le esperienze vissute, il viaggio nel passato, la sofferenza, il ricongiungersi alla sorella smarrita, lo avevano reso nuovo, diverso, più consapevole della sua fragilità, che aveva provato a celare fino a quel momento e che, proprio in quel momento, sgorgava di fuori, come fonte naturale.

Hyoga sapeva altresì bene che non avrebbe più avuto una seconda occasione di ricongiungersi a lui. Non avrebbe avuto una seconda possibilità. Per quanto Camus avesse messo a tacere l’orgoglio, portandolo a fargli quella richiesta, una volta rifiutato non sarebbe più tornato sui suoi passi. Avrebbe accettato la sua decisione a costo di soffrire tantissimo.

Sembrava davvero così indifeso su quella spiaggia, con gli occhi lucidi, lo sguardo altrove e dolente. Hyoga affogò per la terza volta l’istinto di correre ad abbracciarlo, di tornare a casa, di riacciuffare quel calore che gli era sfuggito dalla morte di Isaac. Resistette disperatamente, imponendosi di non farlo. Ancora una volta, la più dolorosa.

“Perché non mi reputo all’altezza di tornare da voi...”

Del resto… i pulli, i ragazzi quando diventavano adulti… arrivava il tempo di spiccare il volo e lasciare la sicurezza del nido. Quel tempo era arrivato anche per Hyoga.

“No, n-non è così, t-tu sei… il mio successore, sei ben più degno di quel che… - si bloccò Camus, sforzandosi di alzarsi in piedi. Una volta ultimato il processo, tornò a guardarlo negli occhi – V-vieni almeno a prendere un tè caldo, un...”

“No, Maestro… - di nuovo rifiutò, anche se stava diventando sempre più difficile farlo – Temo che, se solo venissi, non me ne vorrei più andare...” ammise, indietreggiando ulteriormente, sebbene il cuore gli dicesse il contrario.

“Michela ha bisogno di te, io… ho bisogno di te, Hyoga!” si lasciò sfuggire, non sapendo però se insistere ulteriormente o lasciar perdere. Anche il suo cuore gli sussurrava di intestardirsi, ma stava risultando patetico. Se lo avesse fermato prima che uscisse dall’undicesima casa, se avesse detto qualcosa in quel frangente, se avesse impedito a Nero Priest di cavargli fuori ciò che per anni aveva difficoltosamente taciuto per non pesare ulteriormente sul di lui, se… se…

… Forse Hyoga sarebbe rimasto al suo fianco nel tempio che gli spettava? Sarebbe rimasto con lui, a ricostruire il nido che era stato strappato ad entrambi?

“Ci sarò quando ne avrete bisogno, ma per il momento è meglio che le nostre strade si dividano qua!”

“Hyoga...”

“Ho bisogno di stare solo, Maestro, perdonatemi...”

Camus sospirò, stringendo il pugno. Gli faceva male il petto, ma non avrebbe più insistito, non con lui. Aveva scelto.

Era cresciuto il suo Hyoga, solo che l’unico a non rendersene conto era proprio lui, la ragione per cui il ragazzo non voleva tornare, e quella voragine incolmabile, quella, che c’era tra loro, faceva dannatamente male, da togliere il fiato.

Rabboccò aria una terza volta, il corpo gli tremava, non per la stanchezza, non per l’impulso cosmico di Hyoga, ma per il malessere di avercelo lì e non poterlo più toccare. Le parole scagliate come pietre non potevano più tornare indietro… quel tempo era perduto, ciò valeva per i ricordi, per le persone, per tutto.

Camus ebbe un ultimo sussulto nel realizzare di aver perso il suo Hyoga per sempre.

“Quella Casa… - si sentì di aggiungere fievolmente, raschiandosi la gola – E’ mia quanto tua. Tu hai indossato Aquarius perché ne eri degno, non dimenticarlo mai, Hyoga e se… se volessi cambiare idea, io…”

...Ti aspetterò!

Era davvero troppo per il ragazzo. Andando contro sé stesso, imponendosi di non cedere, serrò forzatamente le palpebre, prima di girare i tacchi e correre via, lontano da quegli occhi blu che lo guardavano tristemente e da quelle braccia che lo avevano sorretto fino a quel momento con dedizione e perseveranza, rifiutando di lasciarlo andare via, mantenendolo in vita e forzandolo a crescere, nella maniera di Camus.

Ecco, il punto era solo questo.

Nella maniera di Camus andava bene fino ad anni prima, era giunto il tempo di maturare a modo suo, di Hyoga del Cigno e di nessun altro, solo così, forse, sarebbe poi potuto tornare, un giorno.

Forse…

Lo strappo, mentre correva via, come aveva immaginato, fu tremendo. Corse, corse, irrefrenabile, senza una meta precisa. Non sarebbe più tornato indietro sui suoi passi. Aveva scelto.

Si sentiva sciocco, tremendamente infantile. Camus aveva sublimato il suo orgoglio per recarsi da lui, nella pallida speranza di riaverlo con sé, e lui andava via, come quel pavido bambino biondo delle sue memorie che non riusciva neanche a guardare il mare con gli stessi occhi di sempre. Non era cambiato nulla in lui, non riusciva a perdonarselo, non riusciva a reputarsi degno dell’immenso amore che il maestro provava per lui, né di Michela, a cui si era legato sentimentalmente, né di nessuna delle altre allieve. Altre… altre avrebbero preso il suo posto, Camus se ne sarebbe fatto una ragione.

Arrestò il suo moto solo quando ebbe la certezza di essersi sufficientemente allontanato. Rimase ritto in piedi, il petto affannoso, quasi annaspando. Si rese infine conto di aver trattenuto il fiato fino a quel momento. Sentì il bisogno di gettarsi a terra, rannicchiarsi su sé stesso e piangere, come aveva già fatto molte volte in Siberia, vicino alla sua Mama, che riposava diversi metri sott’acqua; come aveva già fatto in terra di Grecia dopo la Battaglia delle Dodici Case, vicino alla tomba del suo maestro, che aveva giaciuto diversi metri sottoterra, rimpiangendo tutti i suoi crimini e maledicendo la sua infausta nascita. Tuttavia non lo fece, non più, quel tempo doveva forzatamente finire, una volta per tutte. Gli angoli degli occhi gli bruciarono intensamente, si trattenne ancora una volta, strofinandosi via il fastidioso liquido prima che potesse cadere.

In quell’esatto momento una brezza leggera, appena frizzante, gli scompigliò affettuosamente i capelli, portandolo ad alzare lo sguardo verso la direzione del vento. Lo vide. E lo riconobbe. I suoi ciuffi di capelli, della vaga forma di un cespuglietto, ondeggiavano appena come fili d’erba tremolanti, i suoi occhi un poco malinconici fissavano con interesse qualcosa di bianco che era tenuto in mano.

Hyoga si stropicciò ancora una volta le palpebre, quando le riaprì, il ragazzo davanti a lui, seduto pensieroso su una roccia, era ancora lì, ma quella sorta di trasmigrazione che gli era parsa immediata era infine cessata, ridandogli le conformazioni originarie.

Il giovane Cigno stette in attesa per qualche secondo, in disparte, prima di farsi coraggio e avvicinarsi a lui. Lo aveva riconosciuto, più ancora aveva riconosciuto la sua espressione smarrita, di chi non sapesse cosa fare né dove andare. La stessa sua. Identica.

Fu forse proprio questo che spinse Hyoga, in genere restio a stipulare nuove conoscenze, ad avvicinarsi così a lui con passo leggero ma deciso e sguardo determinato.

“Ciao! - tentò come primo approccio – Tu sei Stefano, giusto, l’amico di Marta?”

Non ottenne risposta verbale, solo un leggero cenno della testa e il suo sguardo, che si impresse su di lui. Condividevano lo stesso colore degli occhi, ma quello di lui forse era persino più chiaro e aveva una luce totalmente differente, arcana e potente al tempo stesso, ma anche… delicata. Sembrava che il suo arrivo lo mettesse sul chi vive, Hyoga non se ne meravigliò, del resto il trattamento che gli aveva riservato il Santuario non era stato dei migliori, e il tutto senza neanche troppe spiegazioni.

“Tranquillo, non ti farò del male, passavo di qui e ti ho visto qui da solo, con quell’espressione martoriata in volto. Per un secondo mi sei parso un’altra persona, sai?” si grattò la testa nell’esprimersi, riscoprendosi loquace. Che la vicinanza di Michela lo avesse aiutato fino a tal punto? Sorrise nel pensare alla ragazza.

Stefano continuava a non dire niente, rimaneva chiuso in sé stesso, la piuma di cigno -Hyoga la vide con distinzione, era la stessa sua!- continuamente rigirata fra le mani ancora tremolanti in seguito all’ispezione di Saga, così gli aveva detto Francesca. Sospirò tetro, constatando che i modi del Grande Tempio lasciavano comunque sempre a desiderare, che ci fosse l’usurpatore Saga o qualcun altro.

Lentamente, con attenzione, prese posto a poca distanza da lui, continuando ad osservarlo. Sembrava davvero smarrito, forse persino più di lui. In fondo, Hyoga si era costretto alla solitudine, per punirsi, si era costretto ad allontanarsi da Camus, da Milo, dalla sua famiglia, dalle ragazze, da tutti… Stefano invece si era trovato isolato in un mondo che lui non aveva chiesto e che non conosceva, senza più un solo ricordo dei due anni precedenti, senza la sua amica Marta, che riusciva a regalare calore a chiunque, non solo al maestro. Ne ebbe compassione: qualcuno che stava peggio di lui c’era; qualcuno che… forse… avrebbe perfino potuto aiutare!

“Sei intervenuto nella Battaglia della Valbrevenna, vero? Il tuo potere è lo stesso di Camus e Marta… in che rapporti sei con loro? ” chiese ad un tratto Stefano con un filo di voce, perché non ne disponeva di altro, questo Hyoga lo capiva bene. Sembrava ancora convalescente, che si fosse allontanato per ricercare un po’ di quiete?

“Marta è una mia cara amica, C-Camus… non ha importanza!”

“Sei suo allievo?” chiese ancora il ragazzo, curioso.

Hyoga arrossì scrollando la testa come a dire che non aveva voglia di trattare di quell’argomento. Stefano parve capire.

“Scusami, tutti noi abbiamo ricordi che preferiremmo dimenticare, o riscrivere!”

Già, riscrivere, aveva usato la parola giusta, ma il Cigno non poteva. Ciò che aveva perpetrato non sarebbe stato cancellato mai. MAI! Quella era la sua sentenza lapidale, che avrebbe portato come peso fino al giorno della sua morte.

“Non sono qui per me, ma per te, sembri davvero distrutto e… abbandonato… è così che ti senti, vero?”

“...”

Ancora una volta Stefano non rispose verbalmente ma annuì con la testa tornando a maneggiare quella piuma che emanava un profumo insolito, selvaggio. Di… casa!

Hyoga decise così di tranciare ogni discorso inerente alla sua persona e di concentrarsi su di lui. Si alzò in piedi, accennò un passo e poi un altro, prima di porgergli la mano. Gli occhi del ragazzo lo fissarono per pochi, intensi, secondi con un misto di stupore e senso di attesa. Le labbra del biondo so stirarono nel più sincero e aperto sorriso che potesse regalare.

“Io sono Hyoga, Cavaliere del Cigno… che ne diresti di sgranchirti un po’ le gambe e di fare due chiacchiere? E’ una giornata stupenda, per essere novembre!”

Per la terza volta non ci fu risposta, solo uno scambio di sguardi, mentre, accettando la mano, le gambe di Stefano fecero forza per farlo alzare, in modo da essere frontale con lui. Non disse niente ma, rinfrancato, distese un poco le labbra, accettando la sua proposta.

 

 

* * *

 

 

16 novembre 2011, tarda mattinata

 

 

Avrebbero dovuto parlare. Da settimane, in verità, ma non c’era mai stata occasione. Prima la punizione di Shion, poi gli allenamenti, l’onnipresente figura di Camus, del ghiacciolo, che c’era sempre per addestrare le due allieve rimaste al Tempio, e poi ancora i doveri da Cavaliere d’Oro, il suo percorso di espiazione…

Insomma, dovevano parlare, e anche di molte cose, ma non c’era mai stata occasione prima di quel giorno. Che nervoso!

Ora finalmente quel tempo pareva essere arrivato, la sera prima Francesca lo aveva raggiunto alla Quarta Casa, gli aveva messo un bigliettino tra le mani ed era corsa su, sorridendole appena. Su quel bigliettino c’era una data, un orario e un posto, che Death Mask stava proprio raggiungendo con ampie falcate. Qualcosa finalmente si era smosso, i chiarimenti sarebbero arrivati, un po’ più difficile il perdono, ma, forse, avrebbe avuto una possibilità. Forse.

Grazie alla velocità luminare ci mise poco a raggiungere Capo Sounion, i resti del tempio di Poseidone, il luogo in cui Saga aveva rinchiuso il fratello gemello Kanon, reo di… beh, un sacco di cose, della morte di buona fetta dei Dorati, del bipolarismo dello stesso Saga, che aveva così ceduto al male e di una marea di altre cose che ora a Death Mask non interessavano minimamente. Erano passate, non sarebbero più tornare, meglio pensare al futuro, alla sua nuova vita, perché la strada per l’espiazione era ancora lunga e tortuosa.

Raggiunse il promontorio e vi trovo già Francesca, seduta su una roccia a contemplare il mare sotto di sé, torturandosi distrattamente una delle sue lunghe ciocche di capelli corvini che le ricadevano lunghi e lisci per tutta la schiena.

Dei, com’era bella! Il Cavaliere di Cancer ci credeva che fosse una divinità, non aveva mai visto cosa mortale così meravigliosa e splendente come lei, abbagliante in tutta la sua fisicità, da capo a piedi. Si scoprì la gola secca, non seppe se per le emozioni profonde che scaturivano in lui al solo vederla, o se per gli argomenti di cui avrebbero dovuto trattare e che non erano propriamente manna dal cielo. Tossicchiò a disagio, attirando così la sua attenzione.

“Oh, ciao! Stavolta sei puntuale!” lo salutò lei, voltandosi deliziosamente verso di lui, sorridendogli con calore.

“Oh, ehm… a volte capita anche a me!” la buttò lì, mantenendo però le distanze. Non sapeva se avvicinarsi oppure no.

“Non mordo mica, sai?” ridacchiò lei, gaudente, indicandogli la roccia vicina.

“N-no, certo, ma…”

“Stefano sta bene?”

“A me, lo chiedi?”

“E’ sotto la custodia del tuo migliore amico e qualcos’altro – ironizzò Francesca, ammiccando con quel suo modo che lo mandava in subbuglio – Per questo chiedo a te!”

“Sì, ehm, non c’è niente di sessuale tra me e Aphrodite, d-dovresti saperlo!”

“Solo perché tu sei etero, Deathy!”

“S-siamo qui per parlare di cose imbarazzanti di altri, oppure…”

“No, certo, siamo qui per... noi!”

Death Mask si ritrovò a tossicchiare ancora una volta, dandosi colpetti al petto. Gli mancava la saliva per iniziare l’argomento. Si avvicinò cautamente a lei, rimanendo però in piedi.

“Comunque lui sta bene, ora gira libero per il Santuario, anche se spesso sta da solo, o al massimo con il biondino, li vedo spesso insieme”

“Con Hyoga?”

“Sì! Dei, si sono trovati quei due, disadattati a confronto, ci credo che vanno d’accordo!”

“Deathy!!!”

“UN po’ è vero! Per Hyoga è normale, essendo stato cresciuto da Camus, per Stefano non saprei, ma almeno si sono ritrovati!”

“Stefano è stato cresciuto solo dal nonno… è un tipo a posto!”

“Mi fa piacere per lui, m-ma di Camus che mi dici, invece? Siamo sicuri che lui… non interverrà?! Non sbucherà da, bo, una roccia, una vecchia colonna per congelarmi seduta stante?!” esclamò, guardandosi nervosamente intorno, come se davvero si aspettasse chissà quale attacco a sorpresa.

“No, scemo, aha! Camus non è al Santuario oggi, per questo ieri sera sono passata da te per darti quel bigliettino”

“Non è al…? E dove sarebbe, quindi?”

“In missione ad Efeso, con Michela, che ha insistito per seguirlo. Pare che siano comparse vibrazioni sinistre nel luogo dove, in antichità, c’era il Tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo, ragion per cui lo hanno mandato a fare un controllo…”

“Ammazza, fino in Turchia?! Che ha in mente Shion ad affidare incarichi così gravosi a lui, nelle condizioni in cui versa? Io davvero non…”

Ma si interruppe notando uno sguardo furbetto della dea, che sembrava saperne lunga e lo fissava con frequente soddisfazione, quasi ridacchiando.

“C-cosa ho detto che non va?”

“Niente, sei solo preoccupato per Camus!” ribatté, quasi ghignando.

“Io non sono preoccupato per quel… - tossicchiò a disagio, ben sapendo di essersi morsicato la coda da solo, o la lingua, in quel caso – E’ che non c’era bisogno di mandarlo là, non con quelle ferite, poteva andarci qualcun altro di noi, a controllare, perché sempre lui, perché ‘sta fissa a spedirlo in giro?!”

“Immagino che il Nobile Shion abbia le sue motivazioni… comunque non ti devi angustiare per lui, Michela lo ha seguito, non è solo e…”

“Io non sono preoccupato, eh!!! - mise lestamente le mani avanti - Anzi, menomale che si è tolto dalle balle almeno per oggi, perché, in tutta onestà, sembra una chioccia con voi, non vi lascia sole un attimo, se uno vuole avere un momento intimo deve pregare un qualche dio induista o di chissà quale altro pantheon, perché lui non si leva dalle scatole. Se non altro, grazie a questa missione, siamo liberi di parlare un po’, v-visto che abbiamo tanto da dirci!” esclamò, quasi tutto di un fiato, andando quasi in escandescenza senza un apparente motivo.

Francesca lo trovò deliziosamente buffo, faceva sempre così quando veniva beccato a preoccuparsi genuinamente agli altri e la sua corazza da duro tutto di un pezzo, da presunto uomo Alfa, che non era affatto, cadeva e si sgretolava in mille frammenti. Era chiaro che fosse sinceramente preoccupato per le condizioni del compagno d’armi, tutti lo erano, perché le condizioni precarie di Camus erano chiare a tutti, anche se nessuno glielo andava a dire per non urtarlo.

Erano tutti così maledettamente orgogliosi i Cavalieri d’Oro, ma Aquarius, per certi versi, superava i limiti, non facendosi minimamente aiutare, malgrado tutto quello che gli era capitato nel XVIII secolo. Testone come pochi, testone come Marta, ecco da chi aveva preso inconsapevolmente la ragazza!

“Per cui… da dove cominciamo?” chiese Francesca ad un certo punto, sentendosi tutta ad un tratto a disagio. Sapeva bene di cosa parlare, ma proprio per quello era così in difficoltà.

Death Mask boccheggiò, improvvisamente afasico, e dire che contava sulla sua parlantina, e invece toccava a lui iniziare. Merda!

“A… a me lo chiedi? Ed io che pensavo che avessi condotto tu il discorso!”

“Io… - boccheggiò anche lei, incerta. Non era facile parlarne, dovendo trattare di argomenti che non aveva mai tirato fuori neppure con le sue care amiche – Ecco, cominciamo da te, dalla tua famiglia di origine, in questo modo mi avvicinerò meglio a te e…”

“Non c’è niente da dire!” buttò fuori aria Death Mask, interrompendola con un pizzico di brutalità. Era chiaro che l’argomento fosse dolente, anzi dolentissimo.

“O-oh… - Francesca sembrava corrucciata – Scusami, non sapevo davvero da dove cominciare...”

Death Mask tentò di darsi una calmata, era un fascio di nervi, non certo il miglior modo per iniziare un dibattito, ancora meno con la sua ragazza. Si grattò la testa, facendo dei respiri profondi.

“Mia madre morì di parto, non ho alcun ricordo, mentre quello stronzo di mio padre mi picchiava. E’ lui che mi ha affibbiato questo soprannome che incute timore. Odiavo mio padre, ma il soprannome me lo sono tenuto, volevo che gli altri avessero paura di me, che tremassero al mio nominativo e al mio cospetto. Volevo che provassero paura, che mi temessero…”

“E’ per colpa sua che… disprezzavi così tanto la vita?”

“La vita per me, prima di morire, non aveva alcun valore, sì, nasciamo per soffrire, non scegliamo noi di nascere in questo mondo crudele, ma siamo costretti a sottostare alla legge del più forte. Non esiste alcuna giustizia, né alcuna equità, il concetto che le si avvicina di più è la morte; ecco, la morte è giusta, colpisce tutti prima o poi, ma il più forte vive di più!” spiegò Death Mask, pratico, sebbene non smaniasse dalla voglia di dare sfoggio del suo vecchio sé stesso. Ma tanto il dado era stato lanciato, non sarebbe cambiato nulla, Camus aveva già cantato sul suo conto, nasconderlo ulteriormente avrebbe allontanato soltanto di più Francesca.

“Quindi ti sei reputato abbastanza forte per decidere delle sorti dei più deboli, ti sei eretto giudice, senza sapere il reale significato della vita stessa…”

Stranamente non c’era tono di accusa nella voce della ragazza, ma il Cavaliere di Cancer ne percepì il peso.

“Mio padre mi picchiava… tornava a casa ubriaco e me le dava di sana pianta, sono cresciuto nella violenza, nella solitudine, avevo solo una balia che tentava di prendersi cura di uno scapestrato come me, ma, un giorno, probabilmente senza neanche rendersene totalmente conto di quanto era fatto, superò il limite e… la uccise; me la uccise davanti agli occhi!”

“Co-cosa?! Tuo padre?!” Francesca era sgomenta a quell’ultima rivelazione, lo guardò senza sapere cosa dire, ma Cancer non fissava lei, stava con gli occhi chiusi, apparentemente imperscrutabile.

“Ed io, quindi, uccisi lui, macchiandomi del primo omicidio, un parricidio, per esattezza, tanto per cominciare in bellezza, tanto per farti capire che razza di feccia fossi già nell’età infantile…”

“Ma… ma la feccia reale è lui! Un padre che picchia il figlio, lo fa crescere nella paura e che arriva ad uccide la balia… E’ UN MOSTRO!”

“Ha importanza che il primo mostro fosse lui? - le fece notare Death Mask, riaprendo gli occhi senza tuttavia riuscire a guardarla – Ho ucciso a 6 anni. Una volta superato quello scalino ero già perso per sempre!”

“Ma… Ma...” Francesca non sapeva realmente cosa dire, la gola improvvisamente secca.

“Da quel momento in poi vagai per Siracusa, la mia città natia, diventai parte di una combriccola di mafiosi che sfruttava i bambini per i loro fini. Trascorsi con loro 5 mesi, prima di essere trovato dal vecchio Shion, che mi portò al Santuario”

“D-Da Shion?”

“Sì, lui si è mosso in prima persona per portarci tutti al Grande Tempio, l’ultimo fu proprio Camus, ma questo lo sai già. Quando arrivai, erano già presenti Aiolos, Aiolia, Saga, Mu, Milo, che era una mezza tacca, essendo il più piccolo fra noi, e, infine Aphrodite e Shura… strinsi un ottimo rapporto con questi ultimi, eravamo più grandi di qualche anno, ci SENTIVAMO più grandi, rispetto ad Aiolia, Mu e Milo, mentre avevamo il massimo rispetto per Aiolos e, soprattutto, Saga, il vero prototipo di forza e magnificenza, l’esempio al quale puntare…”

“Certo… conoscevi il reale colpevole della Notte degli Inganni – qui sì che Death Mask avvertì una punta di biasimo, che lo fece accapponare – Saga era l’incarnazione del tuo ideale di potenza, in effetti sembra forte, ma, se vuoi la mia opinione, è invece un debole, almeno psicologicamente. Hai sbagliato a seguirlo, Deathy, ma, stante il tuo passato, non mi meraviglio della tua scelta!”

Il Cavaliere di Cancer non sapeva cosa dire, impastava quasi con la bocca alla ricerca delle parole perdute. Ci sarebbe arrivato a quel punto, ma al suo ritmo, invece Francesca sembrava voler arrivare subito al dunque, senza esitazione. Si accorse di non essere ancora pronto a trattare di quello, tentò un’ultima, disperata manovra evasiva che gli impedisse di finire a parlare degli anni più bui della sua storia, quelli in cui, sotto ordine di Saga, usurpatore del posto del Gran Sacerdote, aveva compiuto, come sicario, i peggiori crimini in nome di una presunta giustizia che lui chiamava forza. Si ricordò delle parole di Dohko ai Cinque Picchi, quando era andato ad uccidere lui e il suo allievo. Sentì come un pugno nello stomaco.

No, non era pronto. Affatto!

“S-sai, già Shion mi aveva dato una certa nomea, che io all’epoca non capivo...”

“...”

Francesca non diceva niente, fissava un punto a caso, persa in mille congetture, con il duro vessillo del giudizio a pesare su di lui. Da quello, Death Mask lo sapeva, sarebbe dipesa la sua salvezza o la sua condanna in quella nuova vita in cui lui aveva deciso di rimediare ai propri crimini.

“M-mi chiamava Death Mask il manigoldo, diceva che mi si adattasse – era sempre più nervoso, aveva preso a tamburellare i piedi – Io non capivo perché, almeno finché non siete stati nel passato e non mi hai raccontato che la mia precedente vita si chiamasse proprio Manigoldo”

“...”

“I-io non so cosa ci azzecchi con lui, probabilmente niente, ma… ma...”

“Sigh...”

Si immobilizzò, credendo di aver udito un singhiozzo. Scrollò il capo, certo di essersi sbagliato, ma a quello ne seguì un altro, ancora più forte. Affinò lo sguardo, pur mantenendo le distanze, e le vide, sebbene la ragazza fosse ancora girata di spalle. Le solcavano la guancia visibile, senza vergogna, con naturalezza, cosa assolutamente non da lei. Se poteva, non piangeva mai davanti agli altri. Si nascondeva. E allora perché…?

Che fare?! L’istinto era quello di abbracciarla per confortarla, ma aveva paura che si sarebbe ritratta e, un gesto sbagliato, avrebbe precluso tutto. E la sua salvezza passava anche da lei, non voleva perderla, non poteva accettare di perderla. Esitò, a corto di fiato.

“P-perdonami, io...”

Diavolo, non sapeva che cappero dire, perché ora quel pianto, perché…?

“Sciocco! S-sei tu che devi perdonare me!”

“E-eh?!” deglutì a vuoto, mentre gli occhioni di Francesca si manifestavano in tutta la loro limpidezza, arrossati. Alcuni ciuffi neri erano incollati alla guancia a causa del pianto. Ancora ebbe l’istinto di confortarla, di accarezzarle le guance con i pollici.

Francesca esitava, era sul bordo del promontorio, molto vicino alla sporgenza, una mano lungo il fianco e l’altra sopra il petto, che scalpitava, come di qualcosa a stento trattenuto.

“C-cosa vorresti dire? Non hai ragioni per invocare il mio perdono...”

Inaspettatamente un sorriso mesto si manifestò, mentre il sole dietro di lei creava un limpido contrasto tra la sua ombra, che si allungava sul terreno e le zone ancora esposte all’irraggiamento solare.

“Che io… non posso giudicarti in alcun modo, Death Mask!”

“S-sì che devi, fallo… fallo ti prego, vale ciò che ti ho detto al mio Tempio, fallo, Fra, è… è l’unico modo per salvarmi!”

Ma Francesca scrollò il capo, le spalle un poco incurvate sotto il peso di un’apparente colpa che doveva sentire ben tangibile dentro di sé.

“N-non posso, i-io… - prese un profondo respiro, tremò visibilmente – Io ero come te!”

Una doccia fredda nel cuore di agosto. Fu questa la sensazione che provò il Cavaliere nel vedere ammettere una simile cosa. Si accorse di aver aperto la bocca di riflesso, ora stava lì, con un’espressione decisamente poco furba, come ad aspettare il continuo di una storia appassionante.

“Co-come?!”

“Tu eri un sicario… ebbene, lo ero anche io, ma… di mio nonno!”

“D-del sommo Zeus?!?”

Quasi urlò il nome della divinità, tanto da aspettarsi quasi che scendesse dal cielo per essere stato nominato con un tono così alto e poco rispettoso.

“S-sì! Tu di Gemini Saga, i-io di Zeus la Folgore...”

Death Mask si sentì mancare aria, boccheggiò di nuovo, come un pesce palla, sempre più incredulo.

“N-no, non è possibile! - cercava di darsi una spiegazione – Non ti ci vedo ad uccidere così, a sangue freddo, senza una ragione!”

“N-non uccidevo io, infatti, mi limitavo a… torturare. E-ero piuttosto brava!”

“Cre… s-stai scherzando, vero?!”

“Affatto...”

Ecco, per la prima volta in vita sua Death Mask non sapeva proprio come si sentisse. Cos’era quel groviglio di emozioni indefinite, talmente miscelate tra loro da risultare estranee?! Cosa provava in quel momento?! Sollievo? Delusione? Sbigottimento?! Non lo sapeva! Sapeva solo di essere davanti alla persona amata, a colei che pensava luminosa come una stella, ma che, in quel momento, si rivelava tale e quale a lui, della stessa risma,a sua detta. N-no, doveva esserci uno sbaglio, era inconcepibile!

Cosa provava?! Aveva un nome quella sensazione?!

“Pe-perché l-lo… facevi?”

“Solo perché me lo ordinava mio nonno Zeus...”

“N-no! Non può essere, t-tu sei candida e… e diversa, n-non...”

Era sconvolto e neanche poco, si tirò più volte su i ciuffi, allontanandosi di riflesso di un passo.

Davvero, aveva un nome quell’emozione che lo attorniava?! Era nella posizione di giudicare?! No… e allora perché quella scintilla di biasimo?!

“E… e non hai mai avuto ripensamenti?!”

“Fino a Prometeo no… me lo ordinava mio nonno, erano cose ‘di famiglia’, erano giuste, così pensavo...”

“P-Prometeo?! Il tizio che ha fatto scoprire il fuoco agli uomini e che è stato punito per questo?!”

“Già, prima di finire su quel picco roccioso, con l’aquila a mangiargli le budella, è stato torturato… da me!”

Faceva fatica a parlare, era chiaro. Ormai neanche lei sapeva più che fare, se avvicinarsi o scappare. Per fugare ogni dubbio, Death Mask si voltò, dandole le spalle e massaggiandosi le tempie nel tentativo di darsi una spiegazione.

La ragazza, reputando quel gesto come un rifiuto, tentò di ricomporsi e, mantenendo le distanze provò a spiegargli di come le era sopraggiunto il dubbio, mentre torturava Prometeo, di come lo avesse colpito, di come parlava degli umani, esseri che fino a prima lei disprezzava enormemente, essendo, per l’appunto, divinità. E di molte altre cose, le quali però non giungevano più all’orecchio di Death Mask, assolutamente chiuso al proseguo del dialogo. Ne perse il filo conduttore.

L’unica cosa che riusciva a pensare era che l’astro da sempre considerato il più luminoso, almeno da quando l’aveva conosciuta, era invece già stato ampiamente oscurato. Esso non era altri che una stella morta, già esplosa, la luce arrivava ancora, ma era falsa, fallace, già morta. La luce… la sua unica occasione di riscatto. Non poteva crederci!

Provava rabbia, delusione, sgomento, quasi indignazione. No, non era giusto, non era quello l’accordo, non erano quelli i patti!

Finalmente smise di tremare, si raddrizzò, prima di voltarsi nella sua direzione. Francesca era nella stessa posizione, gli occhi ricolmi di lacrime, che lasciava scorrere senza vergogna, lo fissava senza abbassare lo sguardo, in attesa del giudizio. Che cosa buffa, si ritrovò maldestramente a pensare il Cavaliere di Cancer, aspettava lui di essere giudicato e invece la situazione si era ribaltata. Davvero non sarebbe più stato come prima, per entrambi.

Si guardarono a lungo, senza proferire parola. Un momento di raccoglimento ancora, prima di proseguire.

“Quindi… tu...”

Gli era uscito un tono più implacabile del previsto, quasi freddo, per non dire spietato.

“S-sì, io...”

Francesca vibrava con forza, quasi sembrava potesse ribaltarsi da un momento all’altra, si piegò improvvisamente di 45 gradi, Death Mask non realizzò subito. Sbatté un poco le palpebre, confuso. Era tornata dritta per pochi, brevissimi, secondi.

Un secondo… dritta?!

Ebbe appena il tempo di rendersi conto che, in circostanze normali, non era possibile un piegamento simile, che perse l’equilibrio, cadendo a gattoni a terra. Qualcosa si era mosso sotto i suoi piedi, qualcosa gli aveva fatto perdere l’equilibrio, sbilanciandolo; e sbilanciando lei. Ne ebbe la completa certezza solo quando anche le mani toccarono il terreno scosso da un tremore sempre più crescente. U-un terremoto?!

Sgranò gli occhi, osservando con orrore che il terreno si stava crepando, creando delle vere e proprie fenditure sempre più larghe. Presto, il picco sarebbe crollato.

“F-Fra, c-crollerà tutto tra poco, d-dobbiamo...” tentò di avvertire la ragazza, rialzando il capo, prima di perdere un battito davanti ad un simile spettacolo. Qualcosa gelò dentro di lui, tutto si fece quasi ovattato, come se accadesse al rallentatore.

Le fenditure si erano aperte proprio sotto i piedi della ragazza, la quale, privata dell’appoggio, non riuscì a far altro che allungare disperatamente una mano nella sua direzione, senza però poterlo raggiungere.

“D-DEATHY, F-FUGGI VIA DA… AAAAAAAAAHHH!!!”

La vide scomparire nel nulla, l’ultima cosa che riuscì a scorgere fu uno dei suoi lunghi ciuffi inghiottiti dal precipizio.

Il tempo, come prima si era rallentato, improvvisamente riprese a scorrere in un attimo, con il triplo della velocità. Immagini confuse lo bombardarono, mentre la gola si faceva ancora più secca. A tutte le emozioni di prima, di difficile contenimento, se ne sostituì solo una, nera come il catrame, la disperazione, e poi ancora un’altra, più tiepida e delicata: la volontà di salvarla. Il sorriso genuino della ragazza si stampò nella sua mente, scacciando le tenebre, quello, solo quello gli diede la spinta ad agire.

Non voglio perderti, dannazione. Non ti perderò!

Si ritrovò febbrilmente a pensare mentre, incurante del boato della terra, si dava la spinta con le ginocchia, buttandosi a capofitto nel cuore del precipizio, la mano protratta davanti a sé, mentre tutto crollava, e loro, sotto un cielo indifferente, precipitavano nel vuoto nero e blu dell’Egeo che sembrava minaccioso più che mai.

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccoci, dopo una pausa di questa storia di mesi, finalmente al capitolo due, che si riallaccia all’ultimo pubblicato della Melodia della Neve (l’11).

Come potete ben notare, si divide essenzialmente in due parti: il rapporto Camus/Hyoga che, al momento, non trova sbocco se non nell’allontanamento del Cigno, e quello di Death Mask/Francesca, che però viene brutalmente interrotto dal precipitare degli eventi (non solo dal loro precipitare XD)

Da qui, come vi avevo accennato, si diramerà la Battaglia del Santuario che vedrà protagonisti i nostri cari Gold più Francesca, Michela e Hyoga, che avranno qui occasione per essere messe in risalto.

Ora, scrivere delle battaglie non è mai semplice per me, il capitolo dopo è quasi pronto ma per renderlo come vorrei mi occorrerà del tempo. Vi anticipo già che Camus e Michela, da una parte, si alterneranno con la situazione al Santuario, perché l’attacco è su due fronti e, come già appurato da questo capitolo, il Cavaliere dell’Acquario e la sua giovane allieva sono da tutt’altra parte, mentre i Gold dovranno difendere ciò che è a loro caro.

Al solito non ho molto altro da aggiungere questa volta, oltre ai soliti ringraziamenti per chi segue la storia. Io sono molto soddisfatta! ^_^

Ah, sì, ecco, una cosa, nel flashback con i piccoli Hyoga e Isaac, ciò che dice Camus è una frase, ovviamente rimaneggiata e riadattata, del suo omonimo A. Camus ne “il Mito di Sisifo”, libro consigliatissimo, così come ogni opera dell’autore. L’aforisma originale sarebbe questo:

"Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene.

Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile.

Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo.

Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice."

 

Grazie come sempre a tutti e alla prossima! :)

 

  
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