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Autore: Ser Balzo    20/04/2021    1 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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23.

Silhouettes




 
Then that light hits your eye
I know, I swear we’ll find somewhere
The streets are paved with gold

Bullets fly, split the sky
But that’s alright, sometimes sunlight
Comes streaming through the holes

– Coldplay, U.F.O.

 



Qualche metro dopo aver superato i cancelli della villa, il motore del veicolo leggero da trasporto prese a singhiozzare e si spense.
«Mi dispiace, Generale» disse il maggiore Ibsen, girandosi sul sedile del passeggero per rivolgergli una smorfia di pigre scuse. «È finita la benzina. Mi sa che le toccherà proseguire a piedi.»
Il generale di brigata Elenius Lorn rispose con un secco cenno del capo. Lanciò una breve occhiata al suo aiutante di campo, il tenente Jensen, seduto accanto a lui, aprì la portiera corazzata del veicolo e scese.
Era una splendida mattina di ferro. Se non fosse stato per la cortina di case e persone in polvere che aleggiava sopra la città, avrebbe potuto essere una grande giornata di sole, una di quelle in cui in cui il generale era solito passeggiare con i suoi figli lungo il Limen. Mentre marciava verso la villa, Lorn si chiese se Maia e Virgil stessero bene. Il bunker era uno di quelli della prima ribellione, solido e testato dalla prova dei fatti. Aveva fatto tutto il possibile perché fossero indirizzati lì; ora, non gli restava che sperare.
Non c’erano sacchi di sabbia né nidi di mitragliatrici di fronte all’ingresso della villa; le due Guardie Presidenziali di sentinella si misero sull’attenti con una certa svogliatezza. Sembrava quasi che non fosse la loro città, quella che stava bruciando appena fuori dai cancelli. La mascella del generale si irrigidì. Senza degnarli di uno sguardo, procedette dritto ed entrò nella villa.
Il grande ingresso era vuoto. La pietra nera della scalinata di rappresentanza, un tempo così lucida da far quasi male agli occhi, era disseminata di oggetti: casse aperte, carrelli rovesciati, bottiglie rotte, un quadro fatto a pezzi, la cornice dorata spaccata e la tela squarciata in tre lunghi tagli; sul corrimano d’argento, attorcigliata e bruciacchiata, c’era una tenda scarlatta.
Il generale distolse lo sguardo da quello spettacolo desolante e marciò deciso verso l’unica persona nel salone, un giovane impiegato dello staff del Presidente seduto dietro a una scrivania vicino alla porta di un ascensore. Aveva la giacca nera sbottonata e la cravatta rossa allentata. Quando il generale gli si piantò davanti, sollevò due spenti occhi acquosi. Con tutta probabilità, era ubriaco.
«Generale di brigata Lorn. Sono stato convocato dal Presidente.»
L’impiegato sbatté le palpebre. «Nome?» biascicò con la bocca impastata.
Il generale soffocò l’istinto di colpirlo. «Elenius Lorn. Sono qui per vedere il Presidente.»
L’uomo chiuse gli occhi, e per un momento parve sul punto di addomentarsi; poi si riscosse con un piccolo fremito e gli indicò la porta dell’ascensore. «Piano… meno quattro» gli disse, passandogli una tessera di metallo con mano incerta. «Sì, meno quattro. Lui no» aggiunse, quando vide che il tenente si stava muovendo per accompagnare il proprio superiore.
Il generale ordinò con un breve sguardo al tenente di obbedire, poi entrò nell’ascensore, infilò la tessera nella fessura sotto la pulsantiera e premette il tasto corrispondente al quarto livello sotterraneo. Non avvertì alcun rumore, solo l’inerzia muoversi attraverso il suo corpo; in meno di dieci secondi le porte si riaprirono di nuovo, mostrandogli un corridoio grigio illuminato dalla piatta luce di lampade al neon.
Come quattro piani più sopra, c’era un tavolo vicino all’ascensore: al posto di un addetto del presidente, seduto dietro di esso c’era un ufficiale della Guardia Presidenziale.
«Documenti» recitò l’uomo con voce stanca.
Il generale sbottonò il taschino destro della divisa e gli passò la sua tessera identificativa. L’ufficiale la passò su un lettore ottico, lesse qualcosa sul monitor appoggiato al tavolo e gliela restituì. «Terza porta a destra» gli disse. «La sua arma, prego.»
Il generale estrasse la pistola dalla fondina al fianco. Avrebbe potuto dire che era scarica – perché lo era, da più di tre giorni ormai – ma non avrebbe fatto molta differenza. Un po’ come quasi tutto quello che stava accadendo in quelle ore. Ovviamente, non disse neanche questo.
Dietro la terza porta a destra c’erano sei gradini e una piccola stanza. L’aria era ammorbata dall’odore di tabacco bruciato. Intorno a un traballante tavolino di plastica, tre uomini e una donna erano intenti a giocare a carte. La donna gettò la sua mano sul tavolo con un gesto irritato e fece un lungo tiro dalla sigaretta che teneva tra indice e medio. «Lenio!» strillò quando si accorse del generale. «Che ci fai qui?»
Lui scese i gradini. «Rodia» le disse, salutandola con un cenno del capo. «Sono stato convocato dal Presidente.»
La donna si alzò in maniera scomposta, facendo traballare il tavolino. «Nientemeno!» biascicò, muovendosi a passi incerti. Aveva la divisa sbottonata, i capelli corvini sconvolti e lo sguardo che galleggiava in un mare di beata incoscienza. «E a cosa devi questo… fantastico onore?»
Il generale Lorn conosceva il colonnello Rodia Godwyn da quasi vent’anni ormai. Non sapeva tutto di lei, ma era certo che detestasse l’alcool e chiunque ci fosse affezionato. E ora era lì, davanti a lui, completamente ubriaca.
«Credo che il Presidente voglia farmi fucilare» disse.
La donna lo guardò con aria ebete, si voltò verso i suoi compari, riportò gli occhi su di lui e scoppiò a ridere.
E il generale Lorn comprese che la Federazione di Panem aveva ormai perso la guerra.



«La guerra?» disse il Nero. «Persa da tempo, ormai. Ma è l’ultima cosa che ci interessa, adesso.»
Avevano attraversato il posto di blocco, lasciandosi alle spalle lo spiazzo ingombro di cadaveri. I soldati che l’avevano presidiato fino al giorno prima, proteggendo quel varco a costo di sparare ad alzo zero su una folla di civili inermi, erano spariti. Sangue e fatica per nulla, pensò Clove. Il motto della nostra amata nazione.
«E così il bovaro ti ha messo al tappeto» ghignò il Bianco. «Chi l’avrebbe mai detto.»
«È più pericoloso di quanto sembri» rispose Clove. «Ha ucciso Artemisia.»
«Ma non te» disse Callissa, una sfumatura circospetta nella voce.
Clove girò la testa verso di lei. «Credo che tu stia insinuando qualcosa.»
«Nessuno insinua niente» ribatté secco il Nero.
«Calli è sempilicemente curiosa» aggiunse il Bianco. «È una domanda legittima. Perché lo zotico ti ha lasciato in vita?»
«Perché è un povero stupido» disse Clove. «Ha voluto fare l’eroe e mostrarmi pietà. Pessima mossa.»
Mentre il bianco sogghignava e borbottava qualcosa riguardo agli sprovveduti, Clove si chiese perché non avesse detto loro la verità. Non c’era alcun motivo logico dietro alle sue bugie: Dan aveva lasciato il corpo di Cato intatto, quindi non aveva alcuna possibilità di accedere alla struttura segreta sotto la piazza. Forse Katniss Everdeen avrebbe fermato in tempo la cellula nascosta nel Distretto Tredici, ma il resto del piano sarebbe andato avanti. Un nuovo esercito sarebbe sorto tra le macerie di Capitol City, spazzando via chiunque avrebbe trovato sul proprio cammino. E a quel punto, forse, il Tredici si sarebbe deciso ad atomizzare la capitale.
E allora, perché?
«Al riparo» disse il Nero. «Ostili in arrivo.»
Si nascosero dietro quello che restava di un muro. Più avanti, a una ventina di metri di distanza, c’era un incrocio. Nel centro si apriva una voragine di forma rettangolare, una trappola del Presidente scattata e ormai inutilizzabile. O almeno così credeva Clove, prima di veder comparire un cavallo nero.
Era una bestia magnifica, alta, possente e dal manto lucido. Sulla groppa, adagiato su una sella di cuoio rifinito, c’era un giovane uomo. Indossava un’elegante uniforme dello stesso nero profondo del manto del suo animale, con i bottoni e i ricami d’argento; la fila di alamari sul petto scintillava lugubre come la cassa toracica di uno spettro. Appesa al fianco aveva una sciabola molto simile a quella di Dan; sul volto, una maschera a foggia di teschio gli copriva gli occhi e il naso.
Il giovane uomo fermò il cavallo e gli fece compiere una giravolta con un guizzo esperto del polso. Lo seguiva una dozzina di altri cavalieri, le divise nere e argento come la sua. I primi due del gruppo si portavano dietro, legati a una catena, un ragazzo e una ragazza.
«Allora» trillò il giovane uomo, «chi ha voglia di morire per primo?»
«Allan!» singhiozzò la ragazza. «Ti prego…»
Lui sospirò. «Priscilla…»
«…ti prego, ti scongiuro, non stavamo – non stavamo scappando…»
«…Priscilla, Priscilla…»
«…ti prego, Allan, ti prego – ti conosco da quando avevi otto—»
«…Priscilla!» Lo strillo di rabbiosa follia del giovane uomo rimbalzò tra le macerie. La ragazza sobbalzò e si azzittì. «Priscilla» continuò lui, l’aria paziente del vecchio amico. «So bene da quanto ci conosciamo. E so altrettanto bene che per me ci sei sempre stata. Voglio solo ricambiarti il favore. Voglio essere sicuro che i traditori non ti prenderanno mai.» Poggiò le mani sul pomo della sella e si piegò in avanti, verso di lei. «Tutto questo… lo faccio per te
«Stronzo fanatico pezzo di merda!» ruggì il ragazzo, lanciandosi contro di lui. Il cavaliere che lo teneva per la catena lo tirò indietro, facendolo cadere a terra. Un coro di risate cattive si alzò dalla combriccola vestita di nero.
«Per te invece non faccio un bel niente» disse il giovane uomo, sdegnato. «Se sei qui è solo per grazia della nostra amica disgraziatamente in comune. Va bene, basta» aggiunse, con un gesto nervoso della mano. «Non perdiamoci in chiacchiere. Chi va per primo?»
La ragazza raddrizzò la schiena e lo guardò negli occhi. Sul viso sporco di cenere e lacrime, brillava ora uno sguardo fiero e deciso. «Ci vediamo lì sotto, Allan.»
Il giovane uomo scoppiò in una risata stridente. «Ora ti riconosco, Priscilla! La stirpe dei Carradan brilla in te.» Con un gesto lezioso della mano, le indicò la voragine che si apriva davanti a loro. «Dopo di voi, mia cara.»
Lei non distolse lo sguardo. «Puoi giurarci.» Spostò gli occhi davanti a sé, fece una decina di passi in avanti e si fermò davanti al bordo della voragine. Lì sotto, tra le ombre, qualcosa si mosse, pregustando il sapore della carne.
Nascosta dietro un brandello di muro, Clove la vide impallidire, alzare lo sguardo e guardare dritta verso di lei. Il suo cuore perse un battito.
Poi lo sparo, e l’orbita sinistra della ragazza scomparve in una nebbia rossastra.
Mentre il suo cadavere precipitava nel baratro, un coro di voci insoddisfatte si alzò dai cavalieri. «Che cazzo, Allan» disse qualcuno. «Così non vale.»
«Lo so, lo so» disse lui, rinfoderando una pistola decorata dalla canna lunga. «Ma stava per scappare. Ho voluto concederle il privilegio di morire con l’onore intatto. Un favore per una vecchia amica. E poi, era anche tra le migliori tre del nostro anno.»
Un borbottio comprensivo accolse queste parole. «Però uffa» disse sempre la stessa voce.
«Tranquillo, Petrus» disse il giovane uomo, comprensivo. «Con questo andrà tutto come deve.»
Il ragazzo, ripresosi dallo shock di vedere la sua compagna morire, provò di nuovo a lanciarsi contro il giovane uomo. Strillò, scalciò e si agitò per tutto il tempo, costringendo il cavaliere che lo teneva a chiedere aiuto a un altro compare: insieme, i due lo atterrarono, lo presero per le gambe e sotto le ascelle e lo portarono sul bordo. Sul fondo, il rumore di vesti stracciate e carne lacerata arrivava come un lontano eco.
«E uno!» esclamarono i due, cominciando a far dondolare il ragazzo. «E due… e tre!»
Un ultimo, disperato ruggito riempì l’incrocio. Il ragazzo precipitò giù, mentre i due sollevavano le destre per darsi un cinque; prima che le mani potessero scontrarsi, però, il cavalleggero a destra cadde a terra e scivolò verso la voragine, artigliando l’asfalto con le mani. Il suo compare provò ad afferrarlo, invano: la catena del ragazzo, attorcigliataglisi alla caviglia, non gli lasciò alcuno scampo. Il suo grido di terrore risuonò per cinque lunghi secondi, poi si spense con un tonfo lontano.
Tra i cavalieri scese il silenzio.
Il capobanda guardò la voragine per qualche momento, come incantato; poi si girò verso i suoi, estrasse la sciabola e la puntò verso il cielo. «Ave Artorius, benedetto da Madre Guerra!»
L’incrocio si riempì del sibilo d’acciaio di una dozzina di spade sguainate. «Ave!»
Con un tocco degli stivali, il giovane uomo mise in moto il cavallo. «Avanti, fratelli e sorelle!» esclamò mentre passava davanti ai suoi. «Verso la rovina… e la fine del mondo!»
«Urrà!» ripeterono loro, gioiosi; e con il proprio degno capo in testa – e il compare del povero Artorius che si affannava a rimontare in sella in fondo – , ripresero la via, gli zoccoli dei cavalli che graffiavano l’asfalto e l’acciaio dei finimenti e dei foderi che tintinnava.
«Ok» disse il Bianco, quando fu certo che i cavalieri se ne fossero andati. «Che cazzo ho appena visto?»
«Non ne ho idea» rispose il Nero.
Nella testa di Clove lampeggiò un ricordo.
Se becchiamo una pattuglia dei nostri ci fucilano. Sempre se non incrociamo quei cazzo di invasati degli—
«Universitari» disse.
I tre IEROS si girarono a guardarla.
«Era una squadra di Universitari.»



La vide scivolare giù da un mucchio di detriti, sbucciandosi le ginocchia, graffiandosi la faccia  e storcendosi la caviglia. Quando la tirarono su aveva la bocca impastata di sangue. Il nastro che le legava i capelli castani era di raso azzurro, come il suo vestito o le camicie di coloro che l’avevano raccolta da terra. Il fratello lo trovarono quasi subito; si era sporto dal suo nascondiglio più del dovuto. Lei doveva avere intorno agli undici anni, lui non più di otto. Le camicie azzurre li misero uno affianco all’altro, spazzolandogli con le mani i vestiti, e li squadrarono per qualche momento, assorti.
«Direi che è il caso che li impicchiamo» disse uno di loro.
Gli altri annuirono, concordi.
«Ma dove?» chiese il membro più anziano della squadra, una distinta signora di una sessantina d’anni, guardandosi intorno. «È importante che sia un luogo fresco e asciutto, o mi andranno a male in men che non si dica. E ben illuminato, così che risaltino come si deve.»
«Io direi un lampione» disse un uomo dalla fitta barba nera. «Un classico.»
«Caro, perdonami ma mi sembra un po’ banale» squittì una donna sulla quarantina con un caschetto viola acceso.  «Sul braccio proteso della statua in Piazza della Giustizia: ecco la location definitiva.»
Erano talmente impegnati a discutere che si accorsero di lui solo quando fu a un paio di metri da loro. L’uomo con la barba fu l’unico a sollevare il fucile: la sciabola gli aprì la gola con un sussurro, strappandogli un gorgheggio strozzato. Gli altri fuggirono, travolgendo la distinta signora e lasciandola a terra, dolorante.
«Ti prego» piagnucolò, vedendolo avvicinarsi con la lama lorda di sangue. «Stavamo giocando… stavamo solo giocando.»
«Lo so» disse Dan. «Anche io.»
L’acciaio trapassò il cuore della donna. Lei morì senza un sospiro.
Dal taschino della sua camicia sbucava un fazzoletto di seta con una fantasia di occhi di pavone. Dan lo prese e lo usò per pulire la lama della sciabola.
«L’hai uccisa?» disse il bambino.
Dan abbassò lo sguardo sulla donna con aria distratta, come se non si ricordasse cosa le aveva fatto. «Sì.»
«Bene.»
Gli occhi di Dan si inchiodarono su di lui con tale impeto che il bambino sussultò. Era ancora in piedi accanto alla sorella, rigido come una bestiola che cerchi di rendersi invisibile. D’istinto, lei si spostò per coprirlo. «Non voleva» disse, come se suo fratello avesse appena pronunciato un’offesa irripetibile. Si lasciò scappare un singulto, deglutì e serrò le labbra tremanti, mentre una lacrima le rigava la gota tonda. «Per favore, non ci uccidere.»
Dan si accorse che aveva l’incisivo sinistro scheggiato. E fu quel dettaglio quasi innocuo, così facile da perdere in quell’uragano di sangue e violenza e corpi massacrati, che lo colpì più di qualunque altra cosa.
Fece un passo verso di loro. I due fratelli indietreggiarono d’istinto, gli occhi puntati sulla sciabola; lui si fermò, si inginocchiò e posò la spada a terra. «Come vi chiamate?»
I due fratelli si scambiarono un rapido sguardo.
«Virgil» disse il bambino.
«Maia» disse la ragazzina.
«Virgil, Maia…» Dan portò la destra al cuore. «Io sono Dan. Non avete alcun dovere di credermi, e non vi biasimerei se non lo faceste… ma vi prometto che non vi farò alcun male. Né oggi, né mai.» Fissò prima l’uno, poi l’altra. «D’accordo?»
I due esitarono per un momento, poi annuirono con cenni rapidi e nervosi.
Dan chiuse gli occhi, fece un piccolo sospirò e raccolse la sciabola. «State nascosti per un altro paio di giorni» gli disse. «Ormai è quasi finita.» Si alzò, diede loro le spalle e fece scivolare la lama nel fodero.
«Signor Dan?»
Maia gli si era avvicinata, portandosi per mano il fratellino.
«Sì?»
«Posso chiederle dove sta andando?»
La domanda era stata formulata in un tono così da gentildonna che a Dan venne quasi da ridere. «A Piazza dei Martiri» rispose.
Gli occhi di lei si accesero. «Noi abitiamo lì vicino.» Gettò una rapida occhiata a suo fratello. «Abbiamo perso la mamma quando tutti hanno cominciato a correre, e stiamo tornando a casa per vedere se per caso lei o papà sono lì. Magari potremmo fare la strada insieme.» Lo sguardo si fece timoroso. «Se non le è di troppo disturbo.»
Per un momento, Dan fu sul punto di dirle che andare a cercare i suoi genitori non aveva alcun senso, visto che entro poco sarebbero finiti cancellati dall’arsenale del Tredici tutti quanti. Ma lei potrebbe dirmi la stessa cosa, quindi chi sono io per giudicare? «Nessun disturbo» rispose. «Quando siete pronti possiamo andare.»



La sua mano era bianca, le dita piccole e tonde. Farina, pensò Katniss. Bianco come un sacco di farina. Fino alla fine, il mio ragazzo del pane.
Le sue labbra si contrassero in un piccolo sorriso imbarazzato. Si guardò intorno, le gote cotte dal sole che si coloravano di una sfumatura colore dell’alba, come se temesse che qualcuno nelle vicinanze avesse potuto origliare la sua ridicola battuta. Il tendone era vuoto. Necessario, per un simile paziente.
Gli occhi di Katniss tornarono al dorso della mano di Peeta, stretta tra le sue dita lunghe, rozze e spellate, risalirono lungo il braccio stretto dalle fasce di sicurezza e si fermarono sul volto morbido e regolare. Il tributo maschio dei Settantaquattresimi Hunger Games dormiva, steso dai tranquillanti. Ora che le difese aeree della Capitale erano pressoché inesistenti, era stato un gioco da ragazzi raggiungere il Ministero della Propaganda, dentro il quale era tenuto prigioniero. Nessuno le aveva detto quante persone erano morte per tirarlo fuori da lì, ma lei sapeva che non dovevano essere state poche.
Sollevò la mano sinistra, con l’intenzione di accarezzargli una guancia; ma a metà strada pensò a quanto sarebbe stato un gesto stupido e goffo se fatto da lei, e lasciò che le dita si appoggiassero all’altezza del suo gomito. Volevo salvarti, pensò mentre serrava le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, ma non sono stata in grado neanche di fare quello.
I lembi del tendone si aprirono, lasciando passare una figura tarchiata e claudicante.
«Katniss.»
Lei riaprì gli occhi, emise un lungo ed esile sospiro, si alzò in piedi e si girò verso la voce. «Capo Stratega.»
Plutarch Heavensbee giunse le mani sul ventre e la soppesò con lo sguardo, un sorriso indecifrabile scolpito sul volto. «È buffo: l’ultima persona a chiamarmi così è stata il Presidente Snow in persona. Non sei sorpresa di vedermi.»
Non era una domanda. Plutarch Heavensbee non ne faceva quasi mai. «No» rispose lei.
L’espressione di lui non cambiò di una virgola. «Immagino tu sappia del mandato d’arresto nei tuoi confronti. E che la generale Paylor è stata sul punto di sparare alla squadra venuta per metterlo in atto.»
«Così mi è stato detto.»
Plutarch disgiunse le mani dal ventre e le riunì dietro la schiena. «Tempi straordinari consentono tolleranze straordinarie. Paylor non affronterà la corte marziale e tu sarai libera di muoverti dove vorrai; una volta finita la guerra, però, le cose potrebbero non essere più così.» Emise un piccolo sbuffo divertito. «Ho addirittura sentito che potremmo anche essere tutti morti.»
Gli occhi di Katniss rimasero immobili. Affilati, tesi, ferrei. Come quando fissava una preda subito prima di colpire. «La cosa non mi sorprende.»
Il sorriso sulla bocca di Plutarch si accentuò. «Sei sempre stata la mia concorrente preferita, Katniss. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi hai spedito a fare il bagno dentro quella vasca di pessimo punch.» A passi lenti e ondeggianti, si avvicinò al lettino da campo su cui era steso Peeta. «Il finto arresto di Gale e Johanna è stato un buon piano per farli rientrare nel Tredici senza troppi sospetti, mi complimento con te. Erano quasi riusciti a entrare nel cosiddetto hangar segreto quando li abbiamo presi. Avevano persino formato una notevole squadra di eroi. Immagino che tu ora voglia uccidermi» aggiunse, intercettando lo sguardo di Katniss, «ma non te lo consiglierei. La fine del mondo è di certo prossima… ma dipende tutto da come intendi il concetto.»
Katniss rimase in silenzio per qualche secondo. «E come dovrei intenderlo?»
Plutarch si girò verso di lei, rigido e ondeggiante come un vecchio giocattolo a molla. «Il colonnello Rorke, come me, è stato un allievo brillante e ambizioso; ma, sempre come me, non è mai riuscito a crederci fino in fondo. Lei non ha mai avuto problemi a cogliere la prima parte della similitudine; la seconda, invece, temo che fino all’ultimo sarà incapace di vederla.»
Un lampo di confusa sorpresa brillò negli occhi di Katniss. «Lei chi?»
«È stato un piacere averti visto» rispose lui, accennando un piccolo inchino. «Paylor si prepara ad assaltare il Senato, come immagino tu sappia; tra qualche minuto verrà qui e ti chiederà di portare la bandiera che ha intenzione di issare in cima al palazzo.» Si mise in moto, claudicante e ineffabile come sempre. «Costruzione molto affascinante, il Senato: nonostante non sia altro che un tempio di vuota formalità, al suo interno si possono trovare sorprese inattese. Fossi in te, ci farei un pensierino…»



 Il centro di comando delle Forze Armate della Federazione di Panem era un locale misero e spoglio con un tavolo olografico al centro e chiazze di muffa sugli angoli del soffitto. L’unica sedia della stanza era occupata da un vecchietto ingobbito con la barba sfatta e la cravatta allentata. Quando lo vide, il primo pensiero del generale Lorn fu che doveva essere il padre di un qualche ministro o alto ufficiale, parcheggiato lì grazie a un maneggio della propria progenie; ma nel momento in cui si rese conto che era proprio a lui che il generale Viber, capo di stato maggiore dell’Esercito, stava riferendo gli ultimi aggiornamenti nella difesa della città, capì chi si trovava di fronte e fu sul punto di crollare a terra senza più forze.
«La Terza divisione resiste sul ponte della Vittoria» stava dicendo Viber, «rinforzata da elementi della Settima e della Quinta. Quanto all’Ottava armata ribelle, il suo accerchiamento verso ovest è reso ogni giorno più difficoltoso dall’azione combinata delle misure difensive e degli sforzi eroici della Decima brigata corazzata. Il loro numero non può nulla contro la nostra superiorità morale e tecnologica, signor Presidente. È solo questione di tempo.»
Il Presidente Snow fissava con sguardo vuoto la superficie evanescente della mappa tattica proiettata dal tavolo olografico. Lorn ebbe il terribile dubbio che non avesse ascoltato una parola, finché non vide un angolo della sua bocca sollevarsi appena in una sorta di sorrisetto divertito. «Bene, bene» mormorò. «Attendete ancora ventiquattr’ore, poi ordinate a Braun di iniziare l’attacco sul fianco. Ci vorrà un grande tempismo, ma se agiamo correttamente le due armate ribelli verranno tranciate a metà, sventrate da una falce precisa e affilata.»
Fu solo un momento, ma a Lorn bastò per vedere il panico irrigidire il volto di Viber. «Certamente, signor Presidente» rispose imperturbabile.
Lorn si chiese se fosse il caso di far presente al suo Presidente – nonché suo comandante in capo – che il generale Braun, intrappolato in una sacca con tutta quanta la propria Quarta armata qualche giorno prima dell’inizio dell’assedio, si era arreso ai ribelli senza quasi colpo ferire; che la Terza, la Settima e la Quinta divisione erano soltanto fantasmi su una mappa, visto che ormai ammontavano a meno di cinquecento unità messe tutte insieme; e che della Decima brigata corazzata, i cui gloriosi mezzi avevano finito il carburante il secondo giorno d’assedio, non si avevano più notizie da dodici ore. Guardò Viber, responsabile della difesa della città dopo che il general-ministro Antonius, capo di stato maggiore delle Forze Armate, era stato rimosso permanentemente dal suo incarico una sera a cena, e si rese conto che la sua non era fanatica dissociazione dalla realtà, ma mero istinto di sopravvivenza.
«Signor Presidente.»
Snow alzò gli occhi dal tavolo e gli dedicò una strana occhiata, beffarda e guardinga al tempo stesso. «Chi bussa alla mia porta?» domandò, con un tono melodioso che pareva uscito da un palcoscenico più che dalla stanza di un bunker sotteraneo.
«Generale Lorn, signore. Sesta brigata fanteria.»
«I miei omaggi, generale Lorn. A cosa devo la vostra visita?»
«Alla condanna a morte per diserzione che ho ricevuto questa mattina, signore.»
Snow lo fissò per qualche momento. Il suo sorriso si accentuò. «Molto interessante. Siete…» Un accesso di tosse stroncò le sue parole, costringendolo a coprirsi la bocca con un fazzoletto.
«Mi dispiace, generale» disse il Maresciallo del Cielo Crane, in piedi alla destra del Presidente con la sua sfavillante divisa azzurra, «ma le Direttive Generali non ammettono esenzioni. Chiunque abbandoni o retroceda dalle proprie posizioni senza ordini diretti è considerato un traditore della patria e giustiziato come tale. Il disturbo che si è preso per venire fin qui a implorare pietà non le servirà a evitare la sentenza.»
Essendo l’aviazione della Federazione ormai un ricordo, al Maresciallo Crane era stato regalato, come un giocattolo con cui passare il tempo, il comando della Milizia Volontaria e Patriottica, un coacervo di fanatici e sbandati dalle divise azzurre che terrorizzava i civili, intralciava le operazioni dell’esercito regolare e si scontrava con gli Squadroni Universitari, un’altra banda paramilitare che galoppava per la città dispensando morte e follia a chiunque le capitasse sotto tiro. Nei confronti dell’uomo, Lorn provava un sentimento molto vicino all’odio. «Se il Presidente ritiene che io debba affrontare il plotone d’esecuzione, lo farò» ribatté, glaciale. «Ma non ho mai abbandonato la linea del fronte.»
Crane guardò sdegnato il tavolo olografico. «Stando ai rapporti, la Sesta brigata…»
« La Sesta brigata mantiene la posizione.»
«…ha abbandonato al nemico il settore Rosso-Dodici…»
«Signore, questo non è quello che—»
«…consentendo vigliaccamente alle forze ribelli di—»
«I miei soldati si stanno facendo massacrare per questa città» esclamò Lorn, furibondo, «e non ammetto che un miserabile pagliaccio metta in discussione il loro sacrificio!»
Il silenzio travolse la stanza come una valanga. Pallido di rabbia, Crane fissò Lorn con sguardo omicida. «Generale, lei ha appena—»
«Pontus» lo interruppe Snow sollevando una mano. Crane si azzittì, continuando a incenerire con lo sguardo Lorn. Il Presidente, invece, osservava il generale con occhi freddi e compiaciuti. «Qual è il vostro nome, avete detto?» gli chiese.
«Elenius Lorn, signor Presidente.»
«Elenius» mormorò il Presidente tra sé, come se stesse decidendo se il suono gli andasse a genio o meno. «Sareste potuto scappare o piantarvi una pallottola in testa, Elenius Lorn; ma siete venuto fin qui a sfidarmi per l’onore vostro e dei vostri guerrieri. La dimostrazione di un coraggio che da queste parti sembra latitare.» Spostò lo sguardo verso Viber. «Generale.»
Lui scattò sull’attenti. «Sì, signor Presidente.»
«Il generale Lorn è qui nominato General-ministro della Difesa, Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate e responsabile della difesa della capitale. Ora è il vostro superiore nonché referente. Lo aggiornerete su tutto quello che riguarda i nostri piani e gli obbedirete senza esitare.» Gli occhi freddi e beffardi si spostarono sul Maresciallo Crane. «Questo vale anche per voi, Pontus.»
Lui strabuzzò gli occhi e divenne ancora più pallido, ma riuscì a ricomporsi. «Ai suoi ordini, signor Presidente.»
Lorn cercò di dominare il tremito che gli aggrediva le gambe. Di tutto quello che pensava sarebbe successo una volta presa la strada per la villa del Presidente, diventare il comandante supremo delle forze armate di Panem era oltre l’ultima cosa che si aspettava. Era una vera e propria follia.
Ancora una volta, guardò il generale Viber. L’uomo gli restituì un’occhiata stanca, quasi compassionevole. E in quel momento, Lorn capì che cosa doveva fare.
«Ne sono onorato, signor Presidente» disse. «Panem oggi, Panem domani, Panem per sempre.»



Seduto sull’asfalto a gambe incrociate, il Bianco mescolava la zuppa nella lattina con un cucchiaio d’argento. L’aveva trovato in una credenza semidistrutta in mezzo alla strada, abbandonata lì da qualcuno o lanciata fuori da chissà quale appartamento dall’esplosione di un proiettile d’artiglieria. In ogni caso, a Clove pareva uno spettacolo quasi grottesco.
Il Bianco succhiò la zuppa dal cucchiaio con un rumore sgradevole e lasciò cadere la posata nella lattina, che toccò il fondo con un piccolo tonfo ottuso. «Cato» disse. «Ca-to. Bel nome. Semplice e bisillabo. Come quello di un cane.» Un ghigno beffardo gli si disegnò sulla bocca, per poi sparire come era arrivato. «Eravate amici? Innamorati? Nessuna delle precedenti risposte?»
«Non vedo cosa te ne dovrebbe fregare.»
Lui ridacchiò, mentre riprendeva a mescolare la zuppa. «Niente, in teoria. Ma tu sei una tipa interessante. Morta, risorta, poi morta di nuovo e per finire ritrovata in compagnia di due ragazzoni tanto statuari quanto cadaveri. E poi il bovaro, che prima ammazza Artemisia e poi ti lascia in vita.» Prese un’altra cucchiaiata. «Oh, Artemisia… che stronza insopportabile. A quel ragazzo stringerei la mano. Un po’ mi secca doverlo accoppare.»
Clove avvertì uno strano suono alla base della nuca, come di un martello che sbatta contro una lastra d’acciaio in fondo a un pozzo. «Beh, buona fortuna. Chissà dove sarà, adesso…»
«In procinto di arrivare alla Piazza dei Martiri, suppongo.»
Un blocco di cemento le cadde sulla gola. «Come?»
Il Bianco la fissò a lungo. Sotto l’aria divertita del suo sguardo, Clove vide muoversi qualcosa di molto pericoloso. Il suo istinto la mise in allerta, consigliandole di prepararsi a combattere. «E così il tuo amichetto Cato non ti ha detto niente, eh?»
«Non era mio amico» ringhiò lei. «Ero prigioniera, te l’ho già detto. Lui e Dan volevano fare qualcosa, qualcosa per cui a quanto pare servivano le mie credenziali IEROS. Ero solo un pezzo del loro piano, non si sono certo sprecati a spiegarmelo. E in ogni caso, ormai direi che è bello che fallito.»
Il Bianco ridacchiò di nuovo. «Oh, puoi dirlo forte.» La punta del cucchiaio strisciava sul fondo della lattina con un gemito quasi animalesco. «Quello che sto per dirti è altamente classificato… ma come ti ho detto, tu sei una tipa interessante.» Prese l’ultimo sorso di zuppa, poggiò la lattina a terra, sollevò un ginocchio e ci poggiò sopra l’avambraccio. «Come te, il buon vecchio Cato è stato sottoposto a una prova; una prova che però non era di forza e intelligenza, come nel tuo caso, ma di fedeltà. Gli viene sottoposto il dossier di un piano folle e apocalittico, che prevede la distruzione dell’intera nazione e il trasferimento di pochi eletti in un’isola incontaminata; a questo piano lui dovrà collaborare, facendogliene conoscere per giunta solo la prima parte.»
Clove si impose di mostrarsi guardinga ma incuriosita; sotto la corazza antiproiettile, però, il cuore le batteva all’impazzata.
«Questo piano ovviamente non sarebbe mai stato portato a termine» proseguì il Bianco, «ma se il ragazzo avesse dimostrato di essere disposto a veder bruciare il mondo pur di obbedire al colonnello, sarebbe diventato il suo braccio destro. Altrimenti… beh, diciamo che il caro bovaro non ha idea di quello che lo aspetta, in quella Piazza.»
«Ossia?»
Un’altra risatina. «Non un esercito di supersoldati, questo è sicuro.» Il Bianco lanciò un’occhiata verso la sua destra, osservando il Nero e Callissa che rientravano dal loro giro di perlustrazione, e  si alzò in piedi, spazzolandosi i pantaloni. «Non preoccuparti, Cicero ti spiegherà strada facendo. E in ogni caso, presto lo vedrai. È lì che stiamo andando. Come ti ho detto, sono piuttosto contento che il bovaro abbia cancellato il faccino di Arte da questo mondo; ma per quanto la disprezzi, resta sempre una della squadra. E chi uccide uno dei nostri ha i giorni contati.» Le lanciò una lunga occhiata, fredda e affilata. «Immagino che tu sia d’accordo.»
Clove si alzò in piedi a sua volta. «Certo.» Guardò il Bianco negli occhi. Dopo molto tempo, un ghigno sadico le tornò sulle labbra. «Ho un conto in sospeso con quel pezzente. Se me lo lasciate vivo, mi piacerebbe giocarci un pochino.»



Dan si impose di non guardare verso l’alto, lì dove, centinaia di metri sopra le loro teste, la metà superiore di un grattacielo era crollata verso l’altra parte della strada, incastrandosi dentro un palazzo e formando una specie di mastodontico arco di cemento, vetro e travi d’acciaio che minacciava di crollare sulla strada da un momento all’alto. Aveva la certezza che, se avesse alzato gli occhi per vedere il troncone fissarlo attraverso lo sguardo vuoto e famelico delle sue centinaia di finestre, sarebbe caduto a terra schiantato dall’orrore.
«Signor Dan» gli disse Maia. «Se vuole mettermi giù e riposarsi, non ha che da dirlo.»
«Magari tra un po’.»
Siccome si erano resi conto che la storta che Maia aveva preso alla caviglia le impediva di camminare, Dan se l’era presa sulle spalle come fosse uno zainetto. Se non fosse stato per i colpetti delle sue scarpe sulle gambe e per le indicazioni che gli dava ad ogni svolta, si sarebbe quasi dimenticato di lei e di Virgil che trottava loro dietro, stringendo tra le piccole braccia il fucile che Dan aveva preso all’uomo con la barba. A un certo punto, quando si erano infilati in un vicolo stretto e umido, lui non aveva potuto fare a meno di chiedersi se quei due per caso non lo stessero conducendo in una qualche trappola; poi però erano sbucati all’aperto, e un senso di stupore e vertigine aveva cancellato qualunque altra emozione.
Virgil l’aveva guardato aggrottando le sopracciglia. «Che c’è» gli aveva detto, «non hai mai visto il Decumano?»
Era l’arteria principale di Capitol City, gli aveva spiegato Maia. Attraversava la città da ovest a est, divisa in due carreggiate talmente ampie che solo una di esse sarebbe bastata per ospitare tutto il quartiere in cui lui era nato e cresciuto. E nonostante questo, il grattacielo era riuscito ad attraversarla per appoggiarsi agli edifici dall’altro lato. In quella città, anche le strade e i palazzi sapevano di follia.
La luce del sole era pallida e malata, ma quando la sentì di nuovo sul viso Dan la accolse come fosse un mezzogiorno d’estate. Si allontanò dal grattacielo di un altro centinaio di metri, poi si sentì abbastanza sicuro da far scendere Maia. Si sedettero a lato della carreggiata, su dei pilastri scheggiati di marmo caduti a terra disposti in quello che sembrava quasi un cerchio. Virgil infilò il calcio del fucile tra le gambe incrociate, tenendo la canna appoggiata alla spalla come una piccola vedetta.
«Spero non ti pesi troppo» disse Dan.
Lui scosse la testa, deciso.
«Signor Dan» disse Maia.
Lui sospirò. «Maia, non c’è bisogno che mi chiami ogni volta signor Dan
Lei spalancò gli occhi, scandalizzata. «Ma lei è un adulto
Dan emise uno sbuffo che poteva essere l’eco di una risata. «Se lo dici tu. Dimmi, comunque.»
Lei si schiarì la voce, accavallò le gambe e posò le mani sul ginocchio. «Signor Dan, spero che la domanda non le risulti inopportuna, ma… lei è un ribelle, vero?»
Del tutto a tradimento, nella mente di Dan lampeggiarono un elmetto e dei capelli biondi. Lui prese quelle immagini e le nascose dietro una porta. Ormai gli riusciva davvero bene. «Se intendi dell’esercito dei Distretti in rivolta sì, sono uno di loro.»
Lei annuì con un sobrio cenno del capo, come se lo stesse sottoponendo a un colloquio di lavoro. «E come mai sta andando a Piazza dei Martiri? Se posso chiederlo, ovviamente.»
«Certo» rispose Dan. «È una missione personale.»
«Oh.»
Lui aprì la bocca, la richiuse, esitò. «Sto andando a trovare mia sorella.»
«Tua sorella abita vicino a noi?» chiese Virgil, stupito. «Magari la conosciamo.»
Dan scosse la testa, l’ombra di un sorriso amaro sul volto. «No, non credo.»
«Come si chiama?» chiese Maia.
Lo sguardo di Dan si fece lontano. «Rose.»
«È un nome bellissimo» disse Virgil.
«Lo penso anche io» aggiunse Maia.
Una brezza di vento portò a Dan un sentore di polvere, foglie secche e sapone per il bucato. Udì un lontano cigolio, come di un vecchio segnavento arruginito. E poi, un suono inconfondibile.
Zoccoli di cavalli.
«Nascondetevi. Adesso.»
Maia e Virgil ubbidirono di corsa. I tre si accucciarono dietro il frammento di pilastro più grande, nascosti alla carreggiata e alla strada che vi si immetteva più avanti sulla destra. Da lì, il rumore di zoccoli si faceva sempre più forte. Un coro di voci rauche e violente si accese a cantare una fosca canzone.

We’re damned after all!
Through fortune and flame we fall!
And if you can stay then I’ll show you the way
To return from the ashes you call

Uno squadrone di cavalieri vestiti di nero sbucò dalla strada e si immise nell’enorme carreggiata del Decumano. Il cavaliere in testa virò verso sinistra, seguito dal resto della colonna. Entro breve li avrebbero avuti a pochi metri.
«Virgil, il fucile» sussurrò Dan.
Il bambino glielo passò con mani tremanti. L’arma che aveva preso all’uomo con la barba era una doppietta da caccia, con il calcio levigato in legno di noce e delle incisioni a forma di foglie sulla canna, vicino alla culatta. Sembrava ben tenuta. Forse non mi scoppierà in faccia se proverò a usarla, pensò. Ma preferirei di gran lunga non doverlo scoprire.
I ferri di cavallo strusciavano sull’asfalto come un esercito di artigli d’acciaio. La colonna continuava a cantare.
«Se succede qualcosa» bisbiglò Dan ai due fratelli, «voi correte verso i palazzi. Io li distrarrò il più possibile.»
«Se devo essere sincera, signor Dan» pigolò Maia, «spero proprio che questo qualcosa non accada.»
Lo squadrone non doveva contare più di una sessantina di cavalieri; eppure sembrò dilatarsi fino a contenerne un migliaio. Il rumore degli zoccoli e il tintinnio dei foderi d’acciaio era ormai talmente radicato nella mente di Dan che si chiese se gli sarebbe mai uscito dalla testa.

We all carry on
When our brothers in arms are gone
So raise your glass high
For tomorrow we die
And return from the ashes you call!

Un coro di risate e ululati folli accolse la fine di quelle parole. Come un’armata di spettri, la colonna passò oltre, superò il grattacielo in rovina e si allontanò verso ovest, dissolvendosi nella caligine.
«Signor Dan» sussurrò Maia, come i cavalieri fossero ancora lì. «Sono ribelli anche loro?»
«Non lo so» rispose lui, «e non ho alcuna intenzione di scoprirlo.» Scrutò il punto dove i cavalieri erano scomparsi, poi si alzò in piedi. «Togliamoci da qui» disse. Passò il fucile a Virgil, si caricò di nuovo Maia sulle spalle e si rituffò tra le vie della città, lasciandosi alle spalle il titanico Decumano e le sue grottesche apparizioni.



Le voci arrivavano rotte, frammentate, quasi sempre incoerenti; ma non c’era alcun dubbio sul loro significato.
«Caporale – …an, Due Due Cinque Se… temo non ci sia nessuno di più alto in gra—»
«I ribelli sono dappertutto ad Ovest di Via– …non potremo tenere il settore per più di un’ora. Ripeto—»
«Ci hanno tagliato fuori, ci hanno tagliato fuori!»
«Due Uno, Due Uno, levati da lì, maledizione—»
«Respinti tre attacchi nel corso del pomeriggio, ci prepariamo a sostenere il quarto – …remo il possibile.»
«Dove andate, figli di puttana! Panem per sempre, Panem per se—»
«Richiedo sbarramento di artiglieria sulla nostra posizione. Ci restano una dozzina di caricatori, più un pa– …portateli giù con noi.»  
«…ripeto, nessun segno di Sierra Otto… dove cazzo sono i carri? Dove cazzo sono i—»
«Oh no, no no no…»
«Ci avete ficcato in una trappola mortale, pezzi di merda! Il mio plotone sta diventano verni—»
«Mi senti, Presidente? Se c’è un inferno… ti aspettiamo tutti lì sotto!»
Lorn si tolse le cuffie e le posò sulla console dell’operatore radio. Gli diede una leggera pacca sulla spalla, poi con passi pesanti tornò al tavolo olografico della sala tattica, più lungo e stretto di quello tondo della sala comando davanti al quale sedeva il Presidente.
Viber fece un lungo tiro dalla sigaretta, buttò fuori il fumo con una sorta di sospiro e spostò gli occhi stanchi su di lui. «Quanto, ancora?»
Lorn abbassò lo sguardo sul tavolo. «Sei ore, non di più.»
Viber si gettò nei polmoni altro fumo. La cenere della sigaretta cadde sul tavolo, facendo sfarfallare l’angolo di un quadrante vicino alla riva nord del fiume. «Per quel che vale, General-ministro» disse con un piccolo sorriso triste, «mi dispiace. Ha fatto quello che ha potuto.»
Lorn si appoggiò al tavolo con i pugni, sospirò e gli riestituì un’occhiata di esausto cameratismo. «Per quel che vale, generale, anche lei.»
Lui si lasciò cadere su una sedia vicino al tavolo e tirò fuori una fiaschetta argentata dalla tasca dell’uniforme.
«Dico sul serio» continuò Lorn. «Annullare l’ordine del Presidente di radunare i civili davanti alla villa... Nessuno l’avrebbe fatto. Con una folla così grande qui davanti… sarebbe stata una carneficina.»
Per tutta risposta, Viber sollevò la fiaschetta verso la stanza occupata dal Presidente, qualche decina di metri più avanti nel corridoio. «Panem per sempre, vecchio bastardo» fu il suo brindisi. Ingollò un paio di sorsi, poi tese la fiaschetta verso Lorn, che rifiutò con un cortese cenno del capo. «Come preferisce, General-ministro. In ogni caso, non esageri con i complimenti. Il Presidente scivola ogni giorno di più nella demenza: potreste dirgli in faccia di andarsene a cagare e il minuto dopo se lo sarebbe già scordato. Ho perso il conto delle volte che ha minacciato di fucilarmi… in ogni caso, ho continuato a obbedirgli. Il piano dello scudo umano di teneri innocenti è l’unica cosa che gli ho fatto saltare tra le mani. Ma è solo perché so che di mezzo c’era quello stronzo di Rorke… e quel mostro di Gaul.»
Lorn sentì un’innaturale corrente fredda attraversargli la nuca. «Il ministro Gaul?» mormorò, quasi avesse timore a pronunciare il nome a voce più alta.
«In persona» sputò Viber. «Volumnia la Sempiterna, miserabile carcassa di sadismo inestinguibile e gas putrefatti. Se questa città affoga nel sangue e le strane sono piene di psicopatici lo dobbiamo soltanto a lei. È sempre stata lei, l’unico punto fermo di questa nazione malata. Noi, i ribelli, il Presidente, la Ghiandaia… tutte ombre, miseri spettri che abbandoneranno ben presto questa terra. Ma lei… il suo spirito continuerà a vivere, come un demone immortale.» Ripose la fiaschetta nella tasca e chiuse con cura il bottone dorato. «Sei ore, ha detto.»
Lorn annuì.
«E poi?»
La domanda lo lasciò interdetto. Non ci aveva pensato. Non veramente. Cercò di trovare qualcosa da dire, ma Viber lo interruppe.
«Io penso che la farò finita. In un certo senso, è un sollievo. Devo solo capire se sia meglio in bocca o sulla tempia. Ho sentito pareri discordanti, in proposito.»
Ancora una volta, Lorn fu sollevato dal difficile compito di replicare a quelle parole. Dal corridoio venne un certo trambusto, un pasticcio di stivali e voci contrastanti.
I due generali si allontanarono dal tavolo e aprirono la porta della stanza. Il corridoio era invaso dalle giubbe nere della Guardia Presidenziale.
«Che succede?» chiese Lorn.
«Dobbiamo prelevare il Presidente» disse un giovane sottufficiale.
Lorn e Viber si scambiarono un’occhiata. «Prelevare per portarlo... dove?» chiese quest’ultimo.
«Mi dispiace, signore, non mi è consentito rivelarlo.»
«Figliolo» disse Lorn. «Sono il Capo di Stato delle Forze Armate. Se il Presidente va da qualche parte, io devo saperlo.»
«Mi dispiace, signore, ma—»
«Levati dai piedi» sbottò Viber. Fece per muoversi, ma il sottufficiale lo fermò con una mano, mentre l’altra correva alla fondina. Dove, in aperta violazione alle regole del bunker, c’era una pistola.
«Stia fermo, signore.»
«Altrimenti mi spari, piccolo bastardo?» replicò Viber, un ghigno gelido e beffardo dipinto sul volto. «Non sarebbe male, mi risparmieresti una pallottola.»
Lorn gli mise una mano sulla spalla. «Cassian» gli mormorò con voce ferma, prima di tornare con lo sguardo sul sottufficiale. «Vorrei parlare con un suo superiore» gli disse. «Non serve che—»
«Lorn? Anche tu qui?»
Un ufficiale della Guardia con le mostrine da capitano si era avvicinato ai tre. Lorn lo squadrò per qualche momento, poi riconobbe il volto di Belisarius Ervine, suo vecchio compagno di Università e figlio del ministro del Lavoro. «Ervine» gli disse, salutandolo con un cenno del capo. «Che sta succedendo?»
«Niente di preoccupante» ripose lui. «Trasferiamo il Presidente in un luogo sicuro.»
Viber si guardò intorno con aria sarcastica. «Più sicuro di questo?»
«La villa è un obbiettivo sensibile» replicò il capitano. «I ribelli potrebbero colpirla con missili anti-bunker. Il Presidente verrà trasferito in un luogo sicuro.»
«Il Presidente non accetterà mai» disse Viber. «Vuole morire qui, l’ha detto più volte. Sta aspettando che lei arrivi.»
Lorn si girò verso di lui, inquieto. «Lei chi?»
Viber parve trattenersi dallo scoppiare a ridere. «Non è ovvio? Katniss Everdeen. La Ragazza di Fuoco. Quel vecchio rincoglionito pensa che sia la Vendetta personificata venuta a trascinarlo nell’oltretomba. È convinto di essere in un qualche tipo di spettacolo teatrale… anche se, tocca dirlo, come attore non è il massimo. Ogni tanto sbaglia le battute e la chiama con un nome diverso.»
Di fronte a quelle parole di aperto vilipendio del Presidente, il sottufficiale spalancò gli occhi esterrefatto; ma prima che potesse dire qualcosa, la porta in fondo al corridoio si aprì, lasciando passare un picchetto di Guardie alte e dalla faccia di marmo, in mezzo al quale, curvo e con un fazzoletto premuto sulla bocca, si trascinava il capo della nazione in persona.
«Sì, forse avrebbe voluto morire qui» disse il capitano. «Ma anche il Presidente ha qualcuno a cui rispondere.» Si toccò la visiera del berretto. «Signori, devo andare. Lorn, è stato un piacere. Ci rivedremo dall’altra parte, qualunque essa sia.»
Lorn mormorò un vago saluto in risposta, gli occhi fissi sul presidente e il nugolo di Guardie Presidenziali che lo scortava. In mezzo a quelle divise nere, i capelli bianchi e candidi come il nome della sua famiglia spiccavano così tanto da essere quasi abbaglianti. Quando passò accanto a loro, si tolse il fazzoletto di bocca. Lorn pensò che fosse per salutare se non lui, almeno il generale Viber; ma il Presidente non sembrava neanche averli visti. Le sue labbra si muovevano.
Canticchiava una canzone.



Qualche chilometro più a nord della Villa del Presidente, davanti alla copertura di un silos di lancio che si affacciava sul vasto lago in cui andava a morire il fiume Limen, un gruppo di persone dai vestiti eleganti ma sciupati attendeva con sempre più impazienza.
«Ma insomma, quanto ci mettono?» sbottò Galen Kobel, il Ministro degli Armamenti.
Corvus Leviter, il Ministro delle Finanze, gli scoccò un’occhiata gelida. «Stai forse mettendo fretta al presidente, Galen?»
Kobel sbuffò spazientito. «Certo che no. Ma è già la terza volta che rimandiamo—»
«Non temete» lo interruppe il Prefetto Generale Ilio Welliver, sfavillante nella sua uniforme nera da comandante in capo della Guardia Presidenziale. «Ancora poche ore e potrete tornare a trastullarvi con i vostri schiavetti.»
Kobel gli lanciò un’occhiata avvelenata, ma ebbe il buonsenso di non replicare.
«Riuscite a immaginarla?» disse ad un tratto Alea Mattfeld, Ministra dei Distretti, con voce sognante. «Un’isola incontaminata, palazzi bianchi e immortali…»
«…e perché no, magari qualche unicorno» ghignò Leviter, suscitando una risatina querula da parte di Kobel.
Mattfeld li fulminò con lo sguardo. «Voi due avete sempre avuto poca fede nel Progetto Finale. Se non fosse per i vostri miserabili soldi, il—»
«Sta per caso insinuando» la interruppe il Prefetto Welliver, «che si siano comprati il biglietto d’ingresso per Ultima Thule?»
La donna impallidì. «No, io, certo che—»
L’uomo ridacchiò. «Perché in quel caso avrebbe perfettamente ragione.»
Preceduto da un suono d’allarme, la copertura del silos si separò in due ante scorrevoli, che si allontanarono l’una dall’altra lasciando intravedere un profondo pozzo di lancio. Accompagnata da un rombo meccanico, una piattaforma emerse dalle ombre e si fermò con uno sbuffo al livello del terreno. Sopra di essa c’era un hovercraft dalla carlinga di un metallo così lucido e scintillante da sembrare argento vivo. Davanti al velivolo, su una sedia a rotelle elettrica bianca, liscia e stondata, c’era il corpo grasso e deforme di Volumnia Gaul, Ministra della Scienza e dell’Educazione e Direttrice dei Servizi d’Informazione. E dietro di lei, a spingere la carrozzina come un bravo figliolo, il colonnello Rorke.
«Signora» disse il Prefetto Welliver. «La attendevamo con ansia.»
Gaul emise una serie di rapidi ansimi rochi che avrebbero dovuto essere una risata. «Non ne dubito, non ne dubito» disse, con una vocetta acuta che rendeva la sua figura ancora più grottesca. «Il Presidente ha avuto qualche contrattempo, ma sta arrivando. Nel frattempo, voi potete andare. Noi vi raggiungeremo subito dopo.»
La Ministra Mattfeld sgranò gli occhi, sbigottita. «Noi? Per primi? Ma non possiamo, è un onore troppo grande!»
Volumnia Gaul emise di nuovo quell’orrido suono che considerava una risata. «Alea, Alea, mio piccolo coniglietto adorato» cinguettò, «non sarete certo i primi. Sono mesi che avox, funzionari e soldati stanno venendo trasferiti in segreto sull’isola. Vi aspettano lì. Voi ci precederete, così che possiate magnificare la venuta del presidente quand’egli toccherà le sacre sponde di Ultima Thule. Vorresti forse negargli un simile comitato di benvenuto?»
Gli occhi di Mattfeld scintillarono di panico. «No, no, certo che no! Andremo subito.»
Come a sottolineare le sue parole, la rampa d’accesso dell’hovercraft si abbassò.
«Forza, andate» disse Gaul, sollevando tre dita come a impartire loro una benedizione. «E che gli dèi siano con voi.»
«Sempre!» esclamò Alea Mattfeld; e con gli occhi pieni di luminoso ardore, entrò a grandi falcate nell’hovercraft.
Kobel e Leviter non se lo fecero ripetere due volte. Con rapidi cenni di saluto, si accomiatarono da Gaul e Rorke e si affrettarono a salire a bordo. Dietro di loro, a passi lenti, veniva il Prefetto Welliver. «Molto bene, Rorke» disse, fissando il suo sottoposto negli occhi. «La Ministra-direttrice si fida di lei. Non la deluda.»
«Mai» rispose Rorke.
Welliver lo fissò per qualche altro momento, poi abbassò lo sguardo su Gaul. «Volumnia, se vuoi che resti…»
«Non essere sciocco caro» civettò lei, facendo un gesto nervoso e querulo con la mano. «Ci vedremo in men che non si dica.»
Lui parve esitare, poi fece un profondo cenno d’assenso. «Va bene. A dopo allora.»
«A dopo, caro.»
La rampa si chiuse dietro la schiena fasciata di nero del Prefetto Generale. Il fragore dei motori ammorbò l’aria, schiaffeggiando l’erba del prato che sorgeva tutto intorno alla piattaforma. L’hovercraft si sollevò in aria, girò il muso verso il lago e prese quota, diretto verso un altro mondo.
Gaul e Rorke lo videro rimpicciolirsi sempre di più, finché non fu quasi un sassolino sospeso sopra le acque calme del lago.
«Quando vuoi, tesoro» disse lei.
«Agli ordini» fece lui, una sfumatura divertita nella voce. Guardò l’orologio che aveva al polso, osservò la lancetta dei secondi ticchettare lungo il quadrante e premette il piccolo tasto sopra la ghiera di regolazione dell’ora.
Quasi un chilometro più in là, a diverse centinaia di metri d’altezza,l’hovercraft esplose in una palla di fuoco.
Con un sospiro soddisfatto, Volumnia Gaul osservò i frammenti dell’hovercraft e di quel che restava del governo di Panem precipitare nel lago. «Molto bene, mio passerotto» disse, girando la sedia verso Rorke e guardandolo con l’aria di un prigioniero di guerra messo di fronte a un banchetto. «O forse dovrei dire… Prefetto Generale?»
Rorke le prese la mano gonfia e tozza e gliela baciò. «Qualunque nome voi preferiate, mia signora.»
Gaul scoppiò in una risatina gracchiante. «Oh, Aelius… sei sempre stato il più galante.»
«È un dono che riservo solo a chi se lo merita davvero.»
Una scintilla di fosca libidine scintillò nelle iridi verdi della donna. Quando quelli con cui era nata erano ormai da buttare, si era scelta dei nuovi occhi con un altro colore, puntando sullo smeraldo come aveva sempre voluto: ma era un tono così intenso da risultare innaturale. «Andiamo, tesoro» disse, «il treno ci sta aspettando.»
Rorke si avvicinò a una pulsantiera vicino all’ingresso della piattaforma e spinse il comando dell’interfono. «Ci siamo.»
L’allarme disturbò di nuovo la quiete del prato. Con un sibilo degli elevatori idraulici, la piattaforma cominciò la discesa.
«Non è meraviglioso?» trillò Gaul. «Un’isola tutta per noi. Io sarò la dea di un nuovo mondo, e tu il mio fedele sacerdote. Faremo grandi giochi, mille volte più spettacolari degli Hunger Games, e godremo della nostra eternità.»
«Un sogno, mia adorata.»
Gaul emise un piccolo sospiro di gioia. «E il giovane Corio?»
«È qui sotto che aspetta. Ignaro di tutto, come tu hai chiesto.»
La bocca di lei si deformò in un ghigno di sadico compiacimento. «Magnifico. Ora raccontami, Aelius, di come lo ucciderai.»
Sulla lebbra di Rorke affiorò il suo sorriso da squalo. «Ma certo.» Si spostò dietro di lei e le posò le mani sulle spalle, facendole emettere un suono basso e sordo simile a delle fusa. «Quando la piattaforma sarà scesa, lui sarà proprio lì davanti. Voi gli chiederete…»
«…sei pronto a squarciare il Velo?» mugolò Gaul in estasi.
«Nel mentre io gli andrò alle spalle. Solo voi osserverete la reazione del suo volto. Ne godrete quanto ne vorrete. Poi vi basterà un cenno…»
Deliziata, Gaul sollevò di scatto un indice verso l’alto.
«…e io ucciderò la regina.»
Il filo monomolecolare le accarezzò la pappagorgia e si strinse attorno al collo tozzo, affondando nelle carni gonfie e pallide come fossero burro. Per qualche secondo, Volumnia Gaul non si rese neanche conto di quello che stava succedendo; poi le iridi verdi parvero gonfiarsi fino a scoppiare e le dita tozze e deformi si lanciarono verso la gola, nel disperato tentativo di tirare fuori la garrota dal mare di grasso e tessuti deformi nel quale si era inabissata.
Rorke appoggiò il ginocchio allo schienale della sedia e tirò ancora più forte. Gaul emise un lungo, orrendo sibilo, come se dalla sua bocca stesse uscendo un rettile alieno pronto a uccidere chiunque stesse attaccando la sua padrona. Le sue piccole gambe fremettero, le dita scivolarono sul sangue che le inzuppava il collo; poi la donna più potente di Panem si scosse in preda a un ultimo spasmo e giacque immobile, senza vita.
Quando la piattaforma giunse in fondo al silos di lancio, Rorke stava ancora tenendo la garrota stretta al collo di Gaul. I due soldati della Guardia sulla passerella d’uscita fissarono il corpo della donna, ma non dissero nulla.
Con uno sbuffo stanco ma soddisfatto, Rorke mollò la garrota, lasciandola affondata nella trachea di Gaul. «E anche questa è fatta» disse, strofinandosi le mani come per pulirsele. «Procedete» ordinò alle due Guardie.
La coppia di divise nere si affrettò a raggiungere il cadavere di Gaul, ognuno con una tanica di benzina in mano. Svuotarono il contenuto su di lei e le diedero fuoco.
Rorke rimase qualche momento a osservare lo spettacolo, le mani dietro la schiena e gli occhi verdi, così simili e così diversi da quelli della sua mentore, che si specchiavano nelle fiamme. Poi si ricordò che aveva un treno da prendere, ordinò ai due sottoposti di ridurre in polvere qualunque cosa sarebbe rimasta di lei e si avviò a concludere la sua lunga partita.



Erano tutti ammassati lì, all’imboccatura dell’enorme ponte, nascosti nelle trincee strappate al nemico e dentro i crateri lasciati dalle esplosioni. L’artiglieria tuonava alle loro spalle, rovesciando una valanga di fuoco su quanti ancora rimaneva dei difensori capitolini. Tre volte i ribelli si erano lanciati sopra le lunghe campate del ponte della Vittoria, e tre volte erano stati ricacciati indietro dall’Esercito Regolare, sanguinante e ridotto a brandelli ma deciso a vendere cara la pelle. Ora, in silenzio, coperti di polvere e cenere, uomini, donne, ragazze e ragazzi della Quarta divisione Fanteria Volontaria attendevano a dentri stretti il loro appuntamento con il destino.
Il primo che la vide fu un vecchio operaio tessile dell’Otto, accucciato dietro un frigorifero carbonizzato. Dopo qualche attimo di completo stupore, l’uomo si alzò in piedi e levò le tre dita al cielo. Anche se erano imbrattati di fango e terra, aveva gli stessi capelli candidi del Presidente Snow. Odiandosi per questo, Katniss Everdeen distolse lo sguardo per non vomitare.  
Paylor le aveva affidato una scorta di una dozzina dei suoi migliori soldati. Guiderai l’assalto, ma solo per il primo tratto del ponte, le aveva detto. Non preoccuparti, a loro basterà.
Del fragore delle esplosioni non le giungeva che un eco remoto. Strinse le dita fredde e formicolanti sull’asta della bandiera. Quando le avevano mostrato il rettangolo di stoffa verde ricamato, aveva avuto l’impulso di scappare via fino alle foreste ai confini del Dodici. Le avevano spiegato che il disegno l’aveva fatto Peeta in uno dei suoi momenti di lucidità, ma non ci sarebbe stato alcun bisogno di dirlo: l’aveva già visto, ormai più di un anno prima, sul pavimento della sala prove del centro di preparazione ai Giochi. Una bambina che riposa serena, ricoperta di fiori. Il ritratto che il Ragazzo del Pane aveva fatto di Rue.
Si alzarono tutti, uno dopo l’altro. Alcuni si tolsero l’elmetto e se lo portarono al petto, colmi di una reverenza che sconfinava nella devozione. Non fate gli idioti, state al riparo, vi prego, urlava la Ragazza di Fuoco nella sua testa; ma non sarebbe mai riuscito a dirlo ad alta voce. Perché ormai aveva capito che quello che stava accadendo in quel momento, davanti a quell’ultimo ponte tra loro e la fine di tutto, era qualcosa che né lei, né Paylor, Plutarch, Rorke, Coin o Snow avrebbero mai potuto comprendere, né controllare.
Davanti a lei era comparso un giovane uomo in divisa grigio-verde. Le stava dicendo qualcosa.
«…signorina Everdeen?»
Lei emerse dal baccello di cotone nel quale si era rifugiata. «Mi scusi» mormorò.
«Come?» disse lui a voce alta. «Mi dispiace, signorina Everdeen, ma i nostri cannoni fanno un gran baccano quando ci si mettono!»
«Non importa» borbottò di nuovo lei. Un’occhiata burbera del sergente maggiore che comandava la sua scorta, un donnone dai capelli biondi con un naso piccolo e all’insù, la spinse a schiarirsi la voce. «Mi scusi, non ho capito il suo nome.»
«Capitano di corvetta Gareth Tallmadge.»  
Katniss lo guardò stranita. «Corvetta?»
Lui annuì. «È un tipo di nave, signorina Everdeen.»
Lei guardò verso il fiume, confusa. La risata di lui si perse tra il fragore delle esplosioni. «Avevo una nave, ma non è qui» le disse. «In realtà è praticamente distrutta, quindi non so se posso dire di averne una. In ogni caso, mi hanno riassegnato qui. Il Tredici non butta via niente, giusto?»
Katniss annuì, l’ultima frase del capitano annodata attorno alla bocca dello stomaco.
«Mi è stato detto ci farete compagnia per un pezzetto di strada.»
«Esatto… cioè, esatto
Lui le indicò la prima fila di soldati. Nonostante fossero almeno un centinaio, bastavano appena a coprire i novanta metri di larghezza del ponte della Vittoria. «La compagnia del capitano Leggett partirà per prima, poi andremo noi con il resto del battaglione.» Spostò lo sguardo su di lei e le fece un sorriso. «Non si preoccupi, i capitolini tengono il meglio per l’ultimo quarto del ponte.»
Katniss si chiese da quale accidenti di posto il capitano di corvetta Tallmadge trovasse la forza di sorridere in mezzo a tutto quel macello. Forse è impazzito, pensò. A volte mi chiedo se non sia l’unico modo per sopravvivere.
Lui abbassò lo sguardo sull’orologio che aveva al polso. «Un minuto e ci siamo!»
Katniss avvertì il sergente maggiore chinarsi verso il suo orecchio. «Non ti preoccupare» le disse. «Stacci vicino e non succederà niente.»
Quelle parole le fecero balenare in mente l’immagine di Boggs. D’un tratto, si rese conto che non aveva idea del fatto che fosse ancora vivo o meno.
Un po’ come tutti noi.
Il silenzio cadde insieme agli ultimi proiettili di cannone. Una quiete innaturale avvolse il ponte. In silenzio, la compagnia in testa cominciò ad avanzare.
Katniss rimase interdetta da quello che vedeva svolgersi davanti ai suoi occhi: la parola assalto le aveva trasmesso un’immagine un po’ più movimentata e rumorosa di quello che stava accadendo in quel momento. Un miscuglio di sollievo e terrore la afferrò alla gola: nonostante si trovasse più a suo agio con il silenzio e la furtività, una parte di sé avrebbe preferito concludere la faccenda urlando di corsa il più in fretta possibile.
«Il ponte è lungo» le disse il sergente maggiore, come se le avesse letto nel pensiero. «Non ha senso sprecare tutte le energie adesso.»
Una donna con una fascia bianca al braccio segnalò l’avanzata. La seconda compagnia si mosse dietro alla prima.
«Ci siamo» disse Tallmadge. «Prego, signorina Everdeen, dietro di me.»
La superficie del ponte era butterata dai proiettili, chiazzata dal nero delle esplosioni e costellata da carcasse di automobili, di carri armati e dai frammenti delle grandi statue che un tempo ne decoravano i parapetti. Il vento spingeva il fumo del bombardamento verso di loro, rendendo impossibile scorgere cosa ci fosse più avanti di una decina di metri.
«Non preoccupatevi per il silenzio» le disse Tallmadge. «Tra poco ci sarà una bella festa.»
Proseguirono per quelle che parvero delle ore, finché, dal nulla, la compagnia in testa si fermò.
«Ci siamo» disse Tallmadge. «Da qui in poi tocca andare di corsa.» Emise un colpo di tosse. «Non serviranno neanche i fumogeni. Il che mi solleva assai, visto che hanno un odore terri—»
Katniss venne buttata a terra da quello che a lei parve una muraglia di ferro. Qualcuno gridò qualcosa, poi il suo udito venne annichilito da un esplosione. Avvertì la guancia sinistra farsi rovente, mentre il cervello veniva preso a martellate dentro la sua scatola cranica. La muraglia di ferro che l’aveva buttata a terra le impediva di aprire gli occhi. Ebbe il terrore che fosse rimasta intrappolata sotto qualche maceria, e sentì i polmoni collassare in preda al panico. Mosse le gambe: la destra era libera. La piegò per appoggiare lo stivale a terra, poi mise le mani sul peso che la schiacciava e spinse con tutte le sue forze verso l’alto. Sentendo che la muraglia di ferro si stava sbilanciando verso la sua sinistra, assecondò il movimento: ci fu un tonfo come un sacco di pietre che cada a terra, e fu libera.
Si alzò a sedere di scatto, ingoiando aria e cenere a pieni polmoni. Le polveri le irritarono la gola, causandole un accesso di tosse rauca. Si passò il dorso della mano sulle labbra secche, e guardò alla sua sinistra: il sergente maggiore, la muraglia di ferro che si era gettata su di lei facendole scudo con il suo corpo, giaceva a terra, una scheggia di metallo conficcata nella tempia.
Katniss distolse lo sguardo, lottando contro i succhi gastrici che si arrampicavano su per la gola. Alle sue spalle, altre tre esplosioni brillarono tra i volontari ammassati sul ponte.
«Granate!» gridò qualcuno. «Ma non può es—»
Uno scoppio, un altro ancora; poi il silenzio.
Katniss si alzò in piedi, barcollando come un automa difettoso. Ebbe appena il tempo di vedere il capitano Tallmadge con la schiena appoggiata a un blocco scheggiato di marmo e le mani premute sul fianco destro; poi, nella nebbia sporca davanti a lei, qualcuno gridò.
«Panem domani!»
«Panem per sempre!» rispose, rauco e rabbioso, un coro.
«Carica!»
Un urlo di centinaia di voci riempì il ponte. Sbucando dalla cortina di fumo come una legione di spettri, una colonna di giubbe bianche lacere e sporche si gettò correndo a perdifiato contro i ribelli in avanzata. La compagnia di testa, stordita dalle granate e da quel folle rivolgimento degli eventi, riuscì a malapena a sparare qualche colpo; in un attimo, l’ondata di capitolini si schiantò contro di loro.  
Katniss osservava la mischia furibonda davanti a lei come se si stesse svolgendo dietro la parete di vetro di un acquario. Guardava i volti contratti dalla furia e dalla disperazione delle giubbe bianche, i pugnali che affondavano nella carne morbida dei volontari, i calci dei fucili che sollevavano schizzi di sangue nella caligine. Tutto sembrava quasi svolgersi al rallentatore: la lama sottile di una sciabola che sbucava dalla schiena di una volontaria, la vampa di un fucile che cancellava la faccia di un ragazzo, un capitolino lanciato giù da un varco frastagliato del parapetto. Ebbe la netta impressione che, se nessuno fosse venuto a disturbarla, sarebbe potuta rimanere impalata su quel ponte fino alla fine dei tempi. Poi qualcosa la colpì al petto con la forza di una testata e la fece di nuovo piombare a terra.
Battè la nuca sull’asfalto. I denti schioccarono sbattendo tra loro, facendole vibrare le tempie. Abbassò lo sguardo: sulla corazza pettorale, un proiettile deformato dall’impatto giaceva a meno di dieci centimetri dalla sua gola. Fece per rialzarsi, ma le braccia le cedettero e ricadde a terra, avvinta da una stanchezza infinita. Intorno a lei, il fronte dei ribelli cominciava a sfaldarsi, travolto dalla furia spietata dell’assalto capitolino. Non ha importanza, pensò. Verrà qualcuno. Verrà qualcuno.
La mente tornò al Distretto Quattro, a quel momento in cui la sua squadra si era ritrovata decimata e messa all’angolo. Quando aveva creduto che tutto fosse ormai finito, quel sergente dei Volontari si era lanciato nel vuoto, incurante dei proiettili e dell’acciaio che l’attendeva oltre il suo comodo riparo. Succederà di nuovo, si disse. Qualcuno… sì, qualcuno ci salverà.
Ma le urla si facevano più forti, sempre più Volontari si davano alla fuga e nessuno sembrava giungere in loro soccorso. Dove andate, pensò Katniss. Non scappate. Ci salveranno. Dovete solo avere un attimo di pazienza.
Il volto di Boggs si affacciò di nuovo nella sua testa. E poi Haymitch, Peeta, Plutarch, Gale, Johanna, il sergente dei Volontari, il capo della sua scorta, uno dopo l’altro, sempre più vividi, sempre più intensi. Mi hanno sempre protetta, pensò, mentre nel suo petto una morsa terribile si aggiungeva al dolore del proiettile. Per tutto questo tempo, non ho fatto altro che essere salvata.
Si ritrovò in piedi. Le sue dita stringevano qualcosa. Non sapeva se era stata lei ad alzarsi e raccogliere l’asta della bandiera o se qualcuno l’aveva fatto al posto suo, ma non aveva importanza.
Ora sapeva chi li avrebbe salvati.
Mentre correva, il cuore sembrò allargarsi a dismisura, riempiendo ogni poro della sua pelle. La testa era un caleidoscopio ardente di luci, odori, suoni, voci; ma nessuna di quelle sensazioni veniva dal mondo esterno. Passò tra i volontari in rotta come una freccia piccola, secca e scura, la bandiera verde speranza che garriva sopra di lei.
Poi vide le giubbe bianche, le loro facce, le armi sollevate. E in mezzo a quel mare di carne, stoffa e acciaio, il fantasma del ghigno di Snow.
Katniss Everdeen tenne alta la bandiera, ruggì tutto quello che le era rimasto dentro e accolse il fuoco a braccia aperte.



«Possiamo aprire gli occhi adesso?» chiese Virgil, il calcio del fucile a tracolla che strusciava per terra e la mano chiusa sulla gonna della sorella.
«Non ancora» rispose Dan. «Non ancora.»
 Le creature erano almeno un centinaio, i soldati una dozzina scarsa. Le bestie mutate, pallide e con sei arti, avevano fatto a pezzi i militari, spargendo i brandelli dei loro corpi per tutta la via; ma nessuna di esse era sopravvissuta allo scontro.
Dan passò a sinistra di quello che rimaneva di un torso: sebbene sbrindellata e zuppa di sangue, in quel poco che rimaneva della divisa si riusciva ancora a distinguere il bianco della stoffa. Poveri bastardi, pensò. Ammazzati da mostri che loro stessi hanno creato.
«Questa puzza è terribile» disse Maia. «Per caso hanno trasformato la strada in una discarica, signor Dan?»
Dan deglutì per spingere giù la nausea. «Più o meno.»
Lei emise un piccolo sbuffo. «Che incivili.»
Dovette procedere molto adagio, per impedire che Virgil andasse a sbattere contro qualcosa o che lui stesso scivolasse sopra l’icore violastro delle bestie o gli intestini dei soldati. Quando giunse al termine della via, si assicurò di aver svoltato l’angolo abbastanza da poter nascondere l’orrendo spettacolo ai due anche se avessero deciso di voltarsi indietro. «Ok» disse. «Ora potete aprire gli occhi.»
«Signor Dan» disse Maia. «Credo che la caviglia ora sia a posto. Se non le spiace, vorrei provare a fare qualche passo.»
«Va bene.» Dan la lasciò scendere, poi indicò con un pollice dietro di sé. «Ma non da quella parte.»
Lei gli scoccò un’occhiata di garbata riprovazione. «Beh, questo mi pare ovvio. Non ho alcuna intenzione di saltellare in mezzo a rifiuti e liquami.»
«Chiedo umilmente venia» rispose lui. Iniziò una scherzosa riverenza, ma si bloccò – come se avesse scoperto se stesso nell’atto di compiere qualcosa di proibito – e tornò ritto con una strana espressione di rimorso e disagio sul volto. Osservò Maia prodursi in una camminata un po’ incerta, compita ma sicuramente funzionale; quando lei si girò verso di lui, annuì con fare di approvazione. «Bene, direi che puoi muoverti da sola. Virgil, ora puoi darmi il fucile.»
«Sarà anche bello» disse lui consegnandogli l’arma, «ma cacchio se è pesante.»
Dan aprì la culatta, controllò che i proiettili fossero a posto e la richiuse con uno scatto. «Un motivo in più per sperare che tu non ne debba mai più tenere in mano uno.»
Proseguirono dritti per un centinaio di metri, poi svoltarono a sinistra, a destra e poi di nuovo a sinistra. «Ci siamo» disse Maia, indicando l’incrocio davanti a loro. «Quella è via delle Figure. Al numero 74 c’è casa nostra.»
Precedettero rasentando gli edifici, lo sguardo che saliva spesso a controllare le finestre vuote. Il rumore dei combattimenti era lontano, verso est, ma in una città assediata, specialmente una come Capitol City, nessun posto poteva dirsi tranquillo. Giunti all’incrocio svoltarono a destra, entrando in un porticato che, con il suo gemello dall’altra parte della strada, correva per tutta la via. La pavimentazione di marmi colorati era disseminata di mobili, vestiti, suppellettili, lampade, anche alcune statue: sembrava che le case avessero vomitato in strana tutto quello che avevano dentro, creando una sorta di mercatino delle pulci silenzioso ed evanescente.
«Dietro di me» mormorò Dan. «E attenti agli angoli.»
Con la schiena curva e a passi felpati, i tre si insinuarono nella matassa spettrale di oggetti.  I rumori della guerra parvero farsi lontani. D’un tratto, Dan udì un fruscio; avvicinatosi a un armadio con il cuore in gola, lo oltrepassò con uno scatto. Con uno strepito e un frullare d’ali, un enorme pappagallo blu abbandonò il portico e sparì su nel cielo.
«Che colpo» mormorò Virgil.
«Meglio un colpo che le camicie azzurre» sentenziò Maia con un filo di voce. «O i cavalieri neri.»
«Sagge parole» disse Dan, abbassando il fucile. «A che punto siamo?» disse, girandosi verso Maia.
Lei si girò e puntò il dito verso l’alto. Sopra le loro teste, alla destra di un portone, due cifre dorate formavano il numero 74.
«Oh.»
Virgil appoggiò il dito su un rettangolino nero sotto il citofono, la cui placca, forse perché di un qualche tipo di materiale prezioso, era stata asportata, lasciando i fili dei contatti scoperti e penzolanti. Qualche secondo di silenzio, poi la serratura del portone scattò.
«Ci siamo» disse Maia. «Per piazza dei Martiri non deve far altro che continuare dritto e girare alla terza a destra. Ora, signor Dan, potrebbe per favore abbassarsi un attimo?»
Sorpreso, lui obbedì. Decisa ma delicata, lei appoggiò una mano sul suo braccio e gli diede un bacio sulla guancia. «Grazie» gli disse. «Ci ha riportato a casa.»
Dan la fissò, incapace di emettere alcun suono che fosse anche solo paragonabile a una parola. Il suo volto fu attraversato da una vasta, rapida e quasi impercettibile ridda di emozioni. Poi, alla fine, chiuse gli occhi e annuì.
«Ciao» fece Virgil, salutandolo con la mano. «È stato fico, girare con te. Ci torni a trovare, dopo che sei passato da tua sorella?»
Dan si alzò in piedi. «Andate» gli disse. «Non uscite prima di un paio di giorni. Non manca molto, ma non è ancora—»
Più che un movimento, fu quasi un’increspatura della realtà. Lo vide quasi per caso, riflesso sulla superficie martoriata del lungo specchio da terra appoggiato sull’anta del portone rimasta chiusa. Prima di pensare a qualunque cosa, Dan si gettò a terra. Tre colpi, e quello che rimaneva dello specchio esplose.
«Andate!»
Ebbe appena il tempo di vedere Maia e Virgil tuffarsi dentro dentro il portone, mentre un altro paio di colpi si infilava nel legno spesso dell’anta. Strisciò verso l’armadio, si alzò nascosto dietro di esso e diede una rapida occhiata oltre lo spigolo. La scia rovente di una pallottola gli accarezzò la guancia. Rimise la testa al riparo, appoggiò la nuca al fianco levigato dell’armadio e armò i due cani del fucile.
Gli era bastata quella frazione di secondo per capire chi gli stesse sparando.
Il Battaglione IEROS era venuto a finire il lavoro.



«Ah, merda» sbottò il Bianco abbassando il fucile d’assalto. «Il bastardo è svelto.»
«Io te l’ho detto» ringhiò Clove. «Ma tu non—»
Due fucilate dall’altra parte della strada constrinsero i due ad abbassare la testa.
«Sta scappando» disse il Nero. Il suo fucile da cecchino si spostò verso sinistra, stabile come se fosse appoggiato a un treppiede. Il caposquadra degli IEROS appoggiò il dito sul grilletto, trattenne il respiro e, dopo qualche secondo, abbassò l’arma. «Troppi ostacoli» disse. «Dobbiamo portarlo all’aperto.»
«Lasciate fare a me» disse Clove. «Ho un piano.»
E senza aspettare risposta, saltò fuori dalla copertura, si lanciò in strada e cominciò a correre.



Scivolò sopra un cassettone, buttò a terra un’attaccapanni e scartò di lato per evitare una catasta di sedie; gli spari erano cessati, ma non aveva intenzione di stare a vedere cosa avessero in mente i compari di Ares e Artemisia. Non appena raggiunse la prima via a destra, ci si buttò dentro con tutto l’impeto dato dall’adrenalina.  
Dopo qualche metro, si rese conto di aver fatto un errore.
Strada sbagliata, gli comunicò la parte logica della sua testa. Dovevi girare a quella dopo.
Frenò di colpo, rischiando di sbilanciarsi in avanti. È tutto a posto, continuò a dirgli la sua mente, nel disperato tentativo di lottare contro la realtà delle cose. Devi solo tornare indietro. Lui, però, non si mosse.
Guardava la via di fronte a sé, e la folla silenziosa che la riempiva.
Erano una vera e propria orda, decine e decine di giovani rigidi e ciondolanti che lo fissavano. Armati di spade, coltelli, asce, lance, giavellotti e archi, indossavano tutti una giubba viola. I loro volti erano grigiastri e tirati, le loro bocche e i loro nasi nascosti da maschere per l’ossigeno. Gli occhi, vuoti, brillavano di un luccichio spettarle. Ed erano tutti fissi su di lui.
Qualcosa di pesante atterrò alle sue spalle. La mente di Dan venne attraversata da una sorta di schiocco, e l’istinto di sopravvivenza tornò ad avere il controllo. Si lanciò verso sinistra, diretto verso un vicolo. Udì un coro di suoni bassi e ringhianti, poi qualcosa gli ferì di striscio la spalla. Sentì il sibilo delle frecce e il tintinnio dell’acciaio che rimbalzava sull’asfalto, poi fu dentro il vicolo. Scartò a destra, salì una rampa e si ritrovò di fronte a un cancelletto chiuso da una catena. Aprì la culatta del fucile, infilò la mano nella tasca della giacca e trovò due cartucce. Alle sue spalle, respiri ringhiosi e passi strascicati. Una freccia gli accarezzò i capelli.
Dan caricò il fucile, lo puntò sul catenaccio e sparò al lucchetto. Udì un verso acuto, si girò e premette il secondo grilletto, polverizzando il petto di una giubba viola armata di tridente e lanciando il suo cadavere contro il resto dell’orda. Spalancato il cancelletto con una spallata, attraversò un piccolo cortile, scavalcò un muretto e atterrò qualche metro più in basso. Guardandosi intorno, localizzò una scaletta che scendeva verso un seminterrato. Fu sul punto di ignorarla, ma all’ultimo si rese conto che la porta d’ingresso era socchiusa. Scattò verso di essa, mentre il cortile sopra di lui si riempiva di ringhi e guaiti. Scese i gradini a due a due, il fodero della sciabola che sbatteva sul muro chiazzato di muffa, aprì la porta se la richiuse alle spalle, rimanendo da solo con i battiti del suo cuore.
Si trovava in uno scantinato, illuminato da un paio di finestre a bocca di lupo sulla parete di fronte a lui. Il locale era ingombro di scaffali di metallo pieni di scatole e faldoni. Un po’ di carte erano per terra, segno che qualcuno aveva sperato che dentro i contenitori ci potesse essere qualcosa di prezioso; ma il resto della stanza era in ordine, come se nessuno fosse mai entrato.
Dan si guardò intorno in cerca di qualcosa con cui bloccare la porta: per un momento considerò l’idea di rovesciarle contro una delle scaffalature, ma dubitava sarebbe riuscito a spostarne una – senza contare il fracasso che avrebbe creato. Appoggiò l’orecchio alla porta: da fuori non sembrava giungere alcun rumore. Contò fino a tre, fece un respiro profondo e si staccò dalla porta.
Nulla.
Avanzò tra gli scaffali, la nuca che gli pizzicava per l’orribile sensazione che fuori da quello scantinato stessero solo aspettando il momento giusto per fare irruzione. In fondo alla stanza, a sinistra, vide un’altra porta. Mentre la raggiungeva, il silenzio divenne quasi un grido. C’era troppo poco rumore, in quel luogo. Qualcosa non andava.
Si fermò davanti alla porta. Le dita strinsero la maniglia. Spinsero in giù.
Un cigolio sommesso, e davanti a lui comparvero delle scale.
Dan guardò ancora verso la direzione da cui era entrato. Niente sembrava muoversi. Si richiuse la porta alle spalle, salì due rampe di scale e trovò due porte. Quella di sinistra era chiusa; l’altra no.
Si ritrovò in un piccolo soggiorno. Un finestrone coperto da tende bianche illuminava un divano nero, un tappeto circolare a strisce concentriche gialle, rosse e bianche, un mobiletto di legno e una televisione. L’aria sembrava sospesa, come se chi abitava quell’appartamento avesse fermato il tempo poco prima di uscire. Dan avvertì un piccolo giramento di testa, come se fosse entrato in un altro mondo.
Fece qualche passo in avanti. Sul tappeto c’era qualcosa.
Un foglio di carta, su cui qualcuno aveva disegnato un sole.
La parete del finestrone esplose, lanciando calcinacci, brandelli di tenda e schegge di vetro addosso a Dan. Lui cadde a terra, mentre qualcosa di enorme piombava nella stanza, facendo tremare il pavimento.
Un passo pesante, poi un altro. Rumori di idraulica, giunti e metallo. Il silenzio. E poi, una voce.
«Una festa a sorpresa… per me? Oh, Dan… non avresti dovuto.»
Il cuore di Dan smise di battere. La mano che gli copriva gli occhi ricadde a terra.
Un esoscheletro di due metri, nero come la notte, troneggiava su di lui. Un drappo viola, a mo’ di grottesca fascia da ufficiale, gli attraversava il petto. Incassato tra le spalle, una sorta di oblò lasciava intravedere un volto circondato da cavi e immerso in un fluido amniotico.
Due labbra livide si piegarono in un sorriso.
«È bello rivederti, fratellone.»



Dan comprese che il suo corpo si era staccato da terra, ma era come se fosse un fatto vecchio, appartenuto a qualcun altro, due o tre vite prima della sua. Continuava a guardare il volto di Rose, mentre il suo cervello si spegneva, si riavviava e si spegneva di nuovo. Tutta quella strada, tutti quei morti, tutto per tornare a riaverla con sé, anche solo per una volta. E ora lei era lì, sempre più vicina ora che il potente braccio meccanico che l’aveva raccolto lo avvicinava agli occhi di sua sorella.
«Rose» mormorò.
«Dan. Oh, Dan, sono così felice di vederti.»
Il viso di lei sfarfallò e si dissolse in una nube di cristalli iridescenti. Le lacrime glielo nascondevano alla vista, come se non fosse abbastanza meritevole di poterlo guardare. «Rose… io… io…»
«Lo so. Non preoccuparti. Sei stato bravissimo.» Un lamento acuto si accese nella stanza. «Solo un secondo, e sarà tutto finito.»
Il lamento si fece sempre più forte. Dan si rese conto che qualcosa si stava avvicinando al suo orecchio sinistro. Qualunque cosa fosse, non aveva importanza.
Ormai era tempo di andare.
«Ehi, stronza! Quanto tempo, eh?»
Uno sparo, poi un urlo selvaggio che mischiava carne e metallo. Dan sentì il suo corpo galleggiare nel vuoto, poi la sua schiena colpì un piano duro e uniforme e scivolò giù.
Voleva restare lì, dimenticato come uno straccio di atomi e polvere, fino a dissolversi nella propria insignificanza. Il momento supremo, quell’attimo di gloria e destino in cui avrebbe potuto redimersi dai propri peccati e abbandonare l’esistenza libero e sereno, era ormai passato. Era ripiombato lì, nell’ultimo atto di un’amara tragedia, in mezzo alle ombre, ai demoni e all’arte della guerra. Non voleva alzarsi. Non voleva muoversi. Non c’era più niente, ormai, per cui valesse la pena vivere.
Mio caro, vecchio, tonto fratello maggiore… ne sei proprio sicuro?
Ancora una volta, la voce di Rose. Ma questa non era filtrata da cavi e segnali elettronici: risuonava pura e semplice in ogni fibra del suo spirito.
Io ti ho uccisa.
No, Dan. Mi ha uccisa l’idea che le uniche due cose che l’essere umano sia davvero in grado di comprendere siano vendetta e spettacolo. E fino a questo momento, tu non hai fatto altro che darle ragione.
Ma—
Non vendicarmi, Dan. Non è mai servito e non servirà mai a niente. Se proprio devi, cerca giustizia.
…e come?
Per prima cosa, apri gli occhi. Poi, alzati. E infine… combatti.

Fu come essere risucchiato nuovamente dentro i cinque sensi. Il fracasso, il dolore, le ferite: fu sul punto di arrendersi, e scappare nuovamente verso un bozzolo di atarassia. Ma l’eco delle parole di Rose risuonavano ancora in lui: così fece come gli era stato detto, e aprì gli occhi.
Era sul pavimento, addossato al muro. La casa tremava mentre le gambe meccaniche dell’esoscheletro ondeggiavano facendolo girare in tondo, il braccio con la pinza idraulica e quello con la sega circolare che cercavano di afferrare, tagliare e sminuzzare l’esile figura nera abbarbicata alle sue spalle.
«Piccola… cagna… puttana schifosa!» ruggiva Rose dagli altoparlanti, il liquido amniotico che colava giù dal foro di proiettile aperto nel suo oblò. «Ti squarterò viva, ti scioglierò la faccia, ti impalerò lentamente come la stronza lurida troia che sei!»
«Devo dirlo» esclamò Clove, abbassando la testa per evitare la lama ronzante della sega, «questa tua versione mi piace molto di più. È quasi—»
La pinza idraulica riuscì a colpirla alla spalla. Clove perse l’equilibrio, sparò un colpo che si ficcò nel soffitto e cadde a terra. Rotolò sul pavimento e si rialzò in piedi, ma la pinza di Rose fu più veloce e la inchiodò al muro.
«E ora» disse la piccola Martin, la voce sempre più deformata da distorsioni elettroniche, «iniziamo a lavorare su questo bel faccino.»
«Se fossi in te» sputò lei, «io comincerei dalle labbra.»
«Grazie, tesoro.»
«Non c’è di che.»
Dan si alzò in piedi come ubriaco. Vide la sega circolare avvicinarsi al volto di Clove, gli occhi scuri di lei, fissi sul punto in cui dovevano esserci quelli che un tempo appartenevano a sua sorella; la sua espressione fiera, determinata, serena. Era pronta a farsi torturare, seviziare e uccidere da una spietata macchina assassina. Era pronta a morire, così come lo era stato lui.
Credono sempre di essere loro a prendersi il peggio della vita.
L’acciaio della sciabola baluginò nel piccolo soggiorno.
Ma nessuno pensa mai agli Sconfitti Sventurati.
La lama penetrò nel retro dell’esoscheletro con un gemito e uno stridio di lamiere accartocciate. Rose gettò un urlo agghiacciante. Con un ruggito di rabbia e disperazione, Dan appoggiò il palmo della sinistra sul pomo della sciabola e spinse ancora più a fondo. Ci fu uno schiocco, un suono strozzato, e l’urlo di Rose si spense. L’esoscheletro si girò, liberando Clove dalla presa della pinza idraulica, fece un passo verso Dan, incespicò di lato e cadde a terra, sfondando il pavimento e crollando al piano di sotto in una nuvola di polvere, cemento e travi ritorte.
Clove si rialzò, strusciando la schiena sulla parete. Si toccò il costato con una smorfia, poi guardò la voragine che l’esoscheletro aveva aperto nel pavimento. «Più sono grossi e peggio cadono.»
Dan la fissava come se non riuscisse a comprendere la sua esistenza all’interno della trama dell’universo. «Che ci fai qui?»
Lei spostò le iridi castane su di lui. «Non è ovvio? Ti sto dando la caccia.» Si staccò dal muro ed emise uno sbuffo affaticato. «Per dimostrare ai miei cari compagni di squadra che sono ancora una dei loro.»
«Ed è così?»
Lei si strinse nelle spalle. «Mi basta che loro lo pensino. Al massimo qualche giorno, e non saranno altro che un ricordo.»
Lo sguardo di Dan andò al buco nel pavimento, poi si spostò verso la parete distrutta dall’arrivo dell’esoscheletro. In mezzo ai due palazzi di fronte, si riusciva a vedere uno specchio di cielo. «In un certo senso, sono lieto che tu mi abbia impedito di obbedire a Cato» disse. «Anche se gli avessi cavato un occhio, sarei comunque arrivato troppo tardi. Almeno il suo corpo potrà diventare cenere tutto insieme.»
Clove lo scrutò per qualche secondo, le sopracciglia aggrottate. «In che senso?»
Lui si tolse la cintura con il fodero della sciabola e la gettò nella voragine. «Come in che senso» le disse. «L’hai visto l’esercito di giubbe viola giù in strada, suppongo.»
«Certo.» Clove diede delle piccole pacche ai due cinturoni pieni di coltelli da lancio che portava incrociati sul petto. «Uno di loro mi ha anche regalato questi.»
Negli occhi di Dan brillò un lampo di rabbioso sbigottimento; ma non durò che qualche secondo, lasciando di nuovo spazio a una quieta rassegnazione. «È ormai evidente che il Protocollo Protheus è giunto alla fine. Non resta che decidere cosa fare con il tempo che ci rimane.»
Clove rimase in silenzio a fissarlo. Un secondo. Due. Tre. Uno sbuffo dal naso. Poi un altro. E alla fine, come un fiume che rompe gli argini, la sua risata riempì la stanza. Si piegò in avanti per appoggiarsi alle ginocchia, sotto lo sguardo allibito di Dan, scossa da un accesso di ilarità incontenibile. «Oh, Dan» riuscì a dire tra un singhiozzo e l’altro. «Mio povero, rabbioso, oscuro Dan. Non hai saputo la notizia? Il Protocollo Protheus non esiste.»
Lui sbatté le palpebre un paio di volte. «…cosa?»
«Eh già.» Lei sospirò, asciugandosi una lacrima dall’occhio destro. «A quanto pare era soltanto uno specchietto per le allodole, un finto piano per mettere alla prova la lealtà di Cato. E lui, ovviamente, ci è cascato con tutte le scarpe. Stupido, eroico Cato, sempre dalla parte sbagliata al momento sbagliato.»
Dan indicò il cratere nel pavimento. «E questo, allora?»
«Quello?» disse Clove. «Un’ultima modifica fatta da Rorke quando ha scoperto che anche tu eri coinvolto nel fantastico piano segreto per salvare il mondo. In caso Cato o chi per lui fosse giunto nei pressi della piazza con l’intento di sabotare la fantomatica base segreta, tutti i Tributi caduti nelle settantaquattro edizioni dei Giochi – quelli abbastanza integri, almeno – erano pronti a dargli il benvenuto. Lei era il tuo regalo.»
Dan sembrò non averla sentita. Rimase immobile per qualche momento, come se fosse entrato in una sorta di stasi criogenica, poi raggiunse la doppietta da caccia, scivolata vicino alla tv caduta a terra, e la raccolse. «Quindi il mondo non sta per finire?»
«Beh, questo è ancora tutto da vedere» ghignò lei. «Diciamo che le probabilità sono scese di un po’.»
Dan ricaricò il fucile e chiuse la culatta. «I Tributi redivivi» disse. «Quanti sono?»
«Non ne ho idea» rispose Clove. «Probabilmente un migliaio. Perché?»
«Rorke li controlla in qualche modo?»
«Non direi, mi sembrano abbastanza allo stato brado. Anche se, visto il personaggio, sicuramente avrà qualche pulsante segreto che li blocchi o li uccida in caso di emergenza.» Clove esitò un momento, poi gli lanciò un’occhiata sospettosa. «Che cosa vuoi fare?»
«Non è ovvio?» disse lui. «Trovare quel pulsante e premerlo.»
Lei spalancò gli occhi, incredula. «E come?»
«Nella piazza ci sarà qualcosa. Un nodo di controllo, o qualche altra diavoleria—»
«Tu sei fuori di testa.»
Per la prima volta, Clove vide Dan fare un sorriso. «Beh, questo si era capito.» La salutò con un cenno del capo. «Addio. Sono piuttosto sicuro che te la caverai.»
Clove lo guardò dirigersi verso la porta. Le dita sulla maniglia, la tromba delle scale. Un attimo e sarebbe scomparso, portato via come la cenere dalle strade di Capitol City. E lei sarebbe stata libera di scomparire nel mondo, e di trovare, forse, un giorno, la sua strada.
«Dan.»
Lui si girò. Non si aspettava di sentire ancora il suo nome. Non si aspettava di sentirlo pronunciato a quel modo.
«Là fuori c’è un’intera orda di mostri – senza contare i tre IEROS che ti vogliono morto. Non ce la farai mai.»
«Forse» disse lui. «Ma devo provare.»
Lei fece un paio di passi avanti. «Ma perché?»
Lui sollevò le sopracciglia, sorpreso dal trasporto infuso in quell’ultima parola. «E a te che importa?»
Lei si irrigidì, come se fosse stata attraversata da una scossa elettrica. Le sue guance avvamparono, per poi tuffarsi nel ghiaccio. «Niente, infatti» mormorò. «Ci tieni proprio a farti ammazzare. E visto che non ci sei riuscito con tua sorella, tanto vale provarci con i suoi amichetti.»
Lui la scrutò per qualche momento, un’espressione indecifrabile sul volto. «Quella cosa là» disse, «non era mia sorella.» Si guardò le punte delle scarpe, poi rialzò gli occhi. «Durante la mia stupida cavalcata da poveraccio in cerca di redenzione» disse, vedendo la sorpresa accendersi negli occhi di lei nel sentirsi ripetere le proprie parole, «ho lasciato indietro due bambini. Ho detto loro di restare chiusi in casa per un paio di giorni, ma non so nemmeno se siano riusciti a entrarci. Se tornano in strada, i Tributi li uccideranno. Devo impedire che accada.» Vedendo che Clove stava per replicare, fece anche lui due passi in avanti. «Sì, lo so, forse sono già morti, forse i loro genitori sono dei bastardi capitolini che ogni anno si ingozzano sul divano guardando i Giochi, forse—»
«Forse non vale la pena rischiare la vita per la probabilità di una probabilità, magari?» lo interruppe lei. Coprì lo spazio che li separava, il volto che si accendeva di rabbia, e questa volta toccò a lei interromperlo prima che potesse ribattere. «Forse potresti fare di meglio con quello stupido ammasso di carne e ossa che ti ritrovi, invece che lanciarlo in pasto agli animaletti di Rorke per una qualche sorta di ridicola, eroica—»
«Non c’è niente di eroico in tutto questo» ribatté Dan, inamovibile. «È semplicemente la cosa giusta da fare. Per la prima volta dopo anni, posso fare qualcosa che non sia…»
«…incredibilmente stupido?» sbottò Clove, gettando le braccia al cielo per l’esasperazione. «Oh, che peccato, c’eri quasi: ritenta la prossima volta, sarai più fortunato.»
«Senti, non—»
«Non ha alcun senso, nessuno, che tu—»
«Ma in nome di tutta quanta questa stramaledetta guerra» esclamò Dan, «che cos’è che vuoi?»
«Che resti con me, infinita testa di cazzo!»
Lui spalancò gli occhi e vacillò, come se una palla di cannone gli avesse bucato lo stomaco. Aprì e chiuse la bocca, fissando Clove con l’aria più idiota del mondo.
«Maledetto imbecille» disse lei.
Poi lo afferrò per la camicia e lo baciò sulle labbra.
Dan sentì sapore di terra, metallo e pelle screpolata, ma anche qualcosa di più profondo, quasi nascosto. Qualcosa di morbido, fresco, dolce e un po’ aspro, come una pianta di agrumi vista di sfuggita dentro un cortile.  Il fucile cadde a terra con un tonfo, le sue mani si appoggiarono alla schiena di lei. Non sapeva il come, il dove o il perché di quello che stava succedendo, ma non aveva importanza. In quel momento, niente doveva aver senso, niente doveva avere motivo. Il resto del mondo era fuori, da qualche altra parte. Stampato su una parete lontana, come una silhouette.
A separarli fu il suono di una raffica di spari, da qualche parte giù nelle strade.
«Forse sono loro» disse Clove.
«I tre che mi vogliono morto?» replicò Dan, sentendosi stranamente calmo.
Lei annuì, poi guardò fuori dalla parete esplosa. «Immagino di non riuscire a farti cambiare idea.»
Lui esitò. «Temo di no.»
Clove riportò gli occhi su di lui. «Come si chiamano?»
«Chi?»
«I due bambini.»
Lui raccolse il fucile. «Maia e Virgil.»
«È meglio che uno dei due da grande diventi come minimo presidente, o li inchiodo entrambi al soffitto.» Controllò che i cinturoni con i coltelli fossero ben messi e si avviò verso la cucina del piccolo appartamento. «Di qua, c’è una scala antincendio che ci porterà a terra.» Si accorse che Dan era rimasto fermo e si girò. Ancora una volta, lui la guardava stupito. «Beh, che c’è?» gli disse. «Credevi davvero che ti avrei lasciato da solo? Se proprio devi salvare questo schifo di posto, io vengo con te.»



Appoggiarono il mortaio sopra i sacchi di sabbia, il tubo d’acciaio puntato contro la facciata del Senato. Tecnicamente, il tiro diretto non era affatto contemplato negli utilizzi di quel tipo di arma: ma gli uomini e le donne che erano giunti fin lì erano ormai veterani pieni di risorse, abituati a volgere qualunque attrezzo, oggetto o situazione a loro vantaggio.
«Pronti?» chiese Katniss Everdeen.
«Pronti!» esclamarono i tre Volontari attorno al mortaio.
«Fuoco!»
Si udì un suono forte e argentino, come di un martello che colpisca una moneta. Il proiettile uscì con uno sbuffo dalla canna, volò sopra la scalinata annerita dal fumo e dalla cenere ed esplose contro una delle entrate murate dai difensori, spedendo calcinacci e pezzi di mattone a rotolare giù dai gradini. I Volontari attesero con il fiato sospeso; poi, quando il fumo si diradò mostrando la breccia aperta, esplosero in un grido di esultanza.
«Popolo di Panem!» gridò Katniss Everdeen, senza sapere da dove le uscissero quelle parole. «Con me!»
Il grido divenne un boato. Usciti dai ripari e dalle trincee, i ribelli si lanciarono sulla scalinata del Senato. I fucili e le mitragliatrici dei difensori ne abbattevano a decine, ma erano ormai incapaci di contrastare il loro impeto.
Katniss teneva ancora in mano la bandiera: la metà inferiore dell’asta si era spezzata durante il combattimento sul ponte e la stoffa era ormai lacera e piena di fori di proiettile, ma il verde speranza e il volto di Rue continuavano a svettare sopra le teste dei Volontari.
Due vampe si accesero nel buio della breccia. Una Volontaria alla sua sinistra cadde sui gradini, mentre un proiettile le apriva l’ennesimo strappo sulla manica della giacca da caccia. I ribelli risposero al fuoco, inondando di piombo l’interno del Senato.
Una squadra di Volontari si lanciò dentro la breccia, le baionette inastate sui fucili e i volti lividi di ferocia. Ci furono grida, grugniti, spari a bruciapelo, singulti strozzati; quando Katniss entrò nel palazzo, la mischia si era già conclusa.
A eccezione della dozzina di cadaveri dalle divise bianche e nere riverse a terra, la sala nella quale avevano fatto il loro ingresso era vuota, ingombra di una quiete innaturale. Di tutte le cose che si aspettavano i ribelli una volta penetrati nel Senato, il silenzio non era previsto.
«A ventaglio» ordinò un ufficiale del Tredici quasi in un sussurro, come se si sentisse in qualche modo oppresso dal cambio imprevisto di atmosfera. «Avanzate con cautela. Tutto qui dentro può essere una trappola.»
«Ghiandaia» disse un Volontario enorme che imbracciava una mitragliatrice pesante come fosse un fucile giocattolo. «Stai con noi. Ti proteggiamo.»
Katniss annuì, troppo stanca per replicare. Quell’improvviso vuoto d’azione le aveva fatto precipitare l’adrenalina sotto i tacchi, lasciandole solo una sorda pulsazione di inquietudine. Si lasciò circondare da un quadrato di Volontari, e insieme a loro, passo dopo passo, si inoltrò nel cuore del Senato.
Lenti e silenziosi come una processione funebre, i ribelli attraversavano i corridoi di pietra lucida, adornati di bracieri in cui ardevano fiamme inestinguibili, drappi rossi e statue di figure umane in toga dai cipigli implacabili. Se non fosse stato per gli echi degli spari e la continua vibrazione del terreno data dall’artiglieria, nessuno avrebbe potuto dire di essere in un teatro di guerra: sembravano finiti in un altro mondo, una sorta di limbo in cui lo spazio e il tempo avevano altri significati e altre dimensioni.
«Di qua» disse l’ufficiale del Tredici, indicando una scalinata alla loro sinistra. «Secondo le mappe, la Camera è da questa parte.»
«Ehi, Bigsby» bisbigliò una Volontaria a un suo compare mentre salivano i gradini. «Perché stiamo cercando una camera?»
«Che vuoi che ne sappia» ribatté lui.
«Non una camera» si inserì un terzo Volontario. «La camera. È dove si riuniscono i senatori.»
«Ah» disse l’altro. «E una volta riuniti, che cazzo fanno?»
«Lo so io che fanno…» ghignò la Volontaria.
«Che cazzo, Kaffia» sbottò il terzo Volontario. «Devi sempre—»
Spari, grida. In cima alla seconda rampa di scale si apriva un pianerottolo. Dietro una grande porta chiusa, qualcuno stava combattendo.
«Ma che cazzo…?» disse qualcuno.
«Una squadra con me» disse l’ufficiale. «Gli altri stiano pronti.»
Una decina di Volontari raggiunsero il pianerottolo e si disposero in linea di tiro, mitra e fucili puntati contro la porta. Sulle scale, attorniata dalla sua scorta improvvisata, Katniss osservava con il cuore in gola.
Un colpo, poi un altro. La porta vibrava, come se qualcuno stesse cercando di sfondarla. Un grido raccapricciante scese giù per la scala come un torrente di acqua nera e ghiacciata.
«In nome di quel vecchio porco del Presidente» mormorò la Volontaria che il suo compare aveva chiamato Kaffia, «che cazzo succede lì dentro?»
Altri due colpi, poi un terzo; la porta si spalancò. Katniss ebbe giusto il tempo di vedere un drappello di soldati regolari e guardie presidenziali correre verso le scale, fermarsi di colpo fissando attoniti i Volontari e provare ad alzare le mani; ma l’istinto di sopravvivenza della linea di tiro era già scattato. Il fragore della raffica rimbalzò sulle mura immacolate della scalinata: il gruppo di capitolini crollò a terra, falciato da una scarica a bruciapelo.
«Cessate il fuoco!» gridò l’ufficiale. Fissò i cadaveri a terra ed emise un piccolo sospiro. «La prossima volta aspettate il mio ordine.»
«Poveri stronzi» disse un Volontario vicino a Katniss. «Tanto peggio per loro.»
«Tenente?» disse una voce nella squadra di tiro. «Secondo lei… stavano scappando?»
«Non lo so, soldato» rispose lui. «Non—»
«Katniss Everdeen?»
La voce proveniva dal corridoio. Aveva tutte le caratteristiche per essere umana, eppure… c’era qualcosa di impercettibile, come una sorta di rumore bianco di sottofondo, che la rendeva perturbante, quasi aliena.
«Chi parla?» chiese l’ufficiale.
«Desideriamo conferire con Katniss Everdeen.»
«Per quale motivo?»
La voce non rispose.
I Volontari si scambiarono occhiate nervose.
«Come fanno a sapere che è qui?»
«Ma chi è?»
«È una trappola. Il vecchio porco ne sta inventando un’altra delle sue.»
Katniss non avrebbe avuto problemi ad essere d’accordo. Conosceva bene Snow e il suo gusto per l’inganno, la teatralità e la tortura psicologica; ma c’era una parte di lei che sentiva che non era il Presidente a nascondersi dietro quella voce.
Costruzione molto affascinante, il Senato: nonostante non sia altro che un tempio di vuota formalità, al suo interno si possono trovare sorprese inattese. Fossi in te, ci farei un pensierino…
Fece per muoversi verso il pianerottolo. Il Volontario enorme la bloccò.
«Non è sicuro, Ghiandaia.»
Lei alzò gli occhi su di lui. «Non lo è mai stato.»
Lui la fissò per qualche momento, poi si fece di lato. «Ti seguiamo.»
Lei annuì. I Volontari si aprirono per lasciarla passare, pesta, sanguinante e con la bandiera lacera ancora tra le mani. Raggiunse il pianerottolo, si fermò dietro la squadra di tiro e guardò il corridoio. «Sono Katniss Everdeen» disse. «Chi mi cerca?»
«È richiesta la tua presenza nella Camera del Senato» rispose la voce. «Ti è consentita una scorta, ma dovrai entrare da sola.»
«E per quale motivo dovrei accettare?»
«Il Protocollo Protheus è alla sua conclusione. Sei convocata per deciderne l’esito finale.»
Un mormorio di confusione e stupore si propagò tra le fila dei Volontari. Katniss sentì lo sguardo dei soldati su di lei. L’ufficiale la scrutava con aria indecifrabile.
«Va bene» disse. «Verrò.»
Dalle colonne del corridoio, silenziosi come spettri, si materializzarono sei figure in armatura antiproiettile.
 «Da questa parte» disse quella in fondo.
Seguita dalla sua scorta, Katniss si inoltrò nel corridoio. Le figure corazzate la seguirono con lo sguardo, perfettamente immobili. I loro volti erano nascosti da una maschera respiratoria e da ottiche illuminate da un fioco bagliore sulfureo. Lei ebbe il forte, orribile dubbio che non fossero umani.
Il soldato che aveva parlato con lei la condusse giù per una rampa di scale e poi a destra in un altro corridoio. Arrivato di fronte ad una piccola porta sorvegliata da due suoi compari, si fermò. «Prego» disse, indicando la porta. Non appena percepì il movimento dei Volontari che la seguivano, puntò di scatto le ottiche gialle contro di loro. «Come ho detto, da sola.»
Katniss guardò la sua scorta cercando di ostentare una sicurezza che non aveva affatto. «Tranquilli» disse loro. «Vado e torno.»
Poi raggiunse la porta, la aprì e fu dentro.
La Camera del Senato della Federazione di Panem era una sala immensa, bordata di legno scuro, broccato rosso e smalto d’oro. A un centinaio di metri dal suolo svettava una gigantesca cupola di vetro, la cui superficie in gran parte distrutta dai bombardamenti era precipitata sulla schiera di sedili disposti a emiciclo. Di fronte ad essi, dietro un lungo tavolo di marmo nero, erano disposte le poltrone vuote dei ministri della Federazione; alle spalle di queste, su un podio rialzato di un paio di metri, si trovava lo scranno del Presidente.
Sul quale era assiso, inconfondibile nei suoi capelli bianchi, Coriolanus Snow.



Il vicolo era avvolto da un silenzio innaturale. Quando Dan saltò giù dall’ultimo piolo della scala, l’impatto con l’asfalto gli parve risuonare come una cannonata.
«Di là, poi a destra» disse Clove, indicando la fine del vicolo. «La piazza è a quattrocento metri.»
«Come fai a saperlo?»
«Ho fatto i compiti a casa» rispose lei. «E li hanno fatti anche i miei compari, quindi tieni la testa bassa e s—»
Un grido, poi un rumore di vetri rotti. In una cascata di schegge opalescenti, una donna con un lungo vestito giallo si schiantò al suolo. Dal petto le spuntava l’asta leggera di un giavellotto.
Dan sollevò lo sguardo. Dalla finestra del terzo piano del palazzo di fronte a quello da cui erano usciti, due Tributi li guardavano con i loro occhi pallidi.
Uno dei due tese l’arco. Dan sollevò il fucile e gli sparò.
«Via!» gridò Clove.
Corsero verso l’imboccatura del vicolo. Tre tributi comparvero a sbarrare loro la strada. I coltelli da lancio di Clove sibilarono, piantandosi nelle fronti di due di loro; il ginocchio del terzo venne fatto saltare dalla doppietta di Dan.
Usciti sulla strada, i due ebbero giusto il tempo di vedere un enorme cratere pieno di acqua piovana e liquami di fognatura che una bomba aveva aperto in mezzo alla via; si tuffarono dietro una macchina rovesciata, mentre due frecce sibilavano lì dove avrebbero dovuto esserci le loro teste, scattarono dentro il rimorchio di un camion, entrando dai portelloni divelti e uscendo da uno squarcio aperto da un’esplosione, e si lanciarono dentro un negozio, saltando oltre il bancone e usandolo come riparo.
«A che punto siamo?» chiese Dan, ricaricando la doppietta.
«Avremo fatto una ventina di metri, più o meno» rispose Clove.
«Beh» rispose lui, mentre una freccia staccava un pezzo d’intonaco dal muro oltre il bancone, «è un inizio.»
«Forse ora sarebbe il caso di espormi la prossima fase del tuo piano, Dan» disse lei. «Ma ho come l’impressione che tu non ne abbia uno.»
Lui sbuffò con aria di superiorità. «Certo che ce l’ho.»
«Illuminami, allora.»
«Sta’ a vedere.» Dan si levò in piedi di scatto. Dall’altra parte del bancone, un Tributo emise un verso gutturale filtrato dalla maschera respiratoria e sollevò l’ascia; lui alzò la doppietta e gli fece saltare la faccia, poi spostò la canna e spedì il secondo proiettile contro un’arciera sulla soglia del negozio. «Ecco, più o meno così.»
Clove si appoggiò al bancone e si tirò su con un lamento esasperato. «Giusto adesso dovevi diventare cretino.»
I bossoli vuoti della doppietta tintinnarono rimbalzando sul pavimento lurido. «Ti svelerò un segreto» disse lui, rimettendo in posizione la canna della doppietta con uno scatto. «Lo sono sempre stato.» Poi si lanciò fuori da una vetrina in frantumi e riprese a correre.
«Aspetta!» gridò lei, gettandosi all’inseguimento. «Sei troppo—»
Un Tributo dai capelli rossi e corti si tuffò su Dan, gettandolo a terra e facendogli saltare il fucile dalle mani. Clove gli tirò un coltello al polso destro, costringendolo ad aprire la mano armata di spada; Dan la raccolse e gliela infilò nel collo.
«Che cazzo credi di fare?» gridò Clove, tirandolo su in malo modo. «Qui siamo esposti!»
Dan guardò oltre le spalle di lei. «Onestamente, non credo faccia poi molta differenza.»
Si trovavano al limite di un incrocio. La strada che correva verso la piazza, che si trovava alla loro destra, era sgombra; ma tutto il resto, in qualunque direzione guardassero, pullulava di giubbe viola.
Clove estrasse la spada dal collo del Tributo; Dan riprese il fucile. Schiena contro schiena, si prepararono all’ultimo atto.
«Se corriamo forse ce la facciamo» disse Dan.
«Non credo» rispose Clove. «Ma vale la pena tentare.»
Dan prese un respiro profondo. «Al mio tre. Uno… due…»
Clove tese i muscoli, pronta a scattare. Individuò un primo spazio tra un Tributo piccolo con una lancia e un altro esile con due pugnali. Non ce l’avrebbero fatta, questo lo sapeva: le maglie viola del grottesco sciame di Rorke si chiudevano sempre di più. Ma era armata, era pronta e non era sola.
In fondo, ci sono lati peggiori in cui stare.
I Tributi davanti a lei mossero la testa. Per un momento pensò di esserselo immaginato, tanto era stato uno scatto rapido e infinitesimo; ma dopo qualche secondo si rese conto che stavano tutti fissando qualcosa alle sue spalle.
«Clove?» gli disse Dan. «Li vedi anche tu?»
Lei si voltò. Più avanti, ad una cinquantina di metri di distanza, i detriti di un palazzo franato sulla strada avevano creato una collinetta di travi spezzate e cemento triturato. In cima, stagliato contro il grigiore dei palazzi e del cielo, c’era uno squadrone di cavalieri neri.
Lontano come il riflesso del sole su una moneta, lampeggiò l’acciaio di una spada.
«Morte!» gridò una voce stridula ma possente.
«Morte!» risposero tutte le altre.
Un urlo di gloria e pazzia scese giù rotolando dalla china, seguito dalla schiera buia come la notte lanciata a tutta velocità. Qualche cavallo inciampò tra i detriti, spendendo il proprio cavaliere a schiantarsi tra la polvere, ma la maggior parte riuscirono a scendere giù in strada e a lanciarsi contro i Tributi, falciandoli come fossero spighe di grano e affondando le lame ricurve delle loro sciabole nelle loro carni grigie.
Clove osservò attonita una ragazza larga due volte lei in sella a uno stallone gigantesco venirle contro con la forza di un treno impazzito. Un Tributo che ebbe la sfortuna di trovarsi in mezzo alla sua cavalcata venne sbattuto a terra e calpestato dagli enormi zoccoli della bestia; la calotta cranica di un altro roteò in aria, tagliata via dal resto della testa come il tappo di uno champagne. Clove vide gli occhi spalancati della ragazza luccicare dietro la maschera a foggia di teschio; poi gli alamari scintillanti della sua divisa scoppiarono in una nebbia scarlatta, mentre lo sparo del fucile di Dan si perdeva nel caos dello scontro.
«Clove! Andiamo!»
Lei non se lo fece ripetere due volte. Tallonando Dan, si lanciò in una corsa a ostacoli in mezzo a lance, spade, cavalli, muggiti e grida di dolore. Infilò la spada nel petto di un Tributo, lanciò un coltello sul cuore di un cavaliere, afferrò al volo il revolver che aveva lasciato cadere e usò i quattro colpi rimasti nel tamburo per abbattere altrettante giubbe viola. Si girò appena in tempo per vedere Dan sollevare la doppietta per intercettare il fendente di una sciabola: la lama affondò nel metallo e tranciò la canna del fucile con uno schiocco.
«Morituri te salutant!» strillò il tipo, preparando l’affondo.
Il giavellotto lanciato da Clove spaccò la maschera, trapassò il suo zigomo sinistro e lo proiettò via dalla sella.
«Altrettanto» rispose lei.
Dan le lanciò uno sguardo che era di panico e sollievo insieme; poi afferrò le redini del cavallo rimasto senza padrone e con un guizzo rapido delle reni ci montò sopra. «Sali!» le disse, tendendole la mano.
Lei si arrampicò sulla schiena del destriero e si strinse alla sua schiena. «Sai come farlo muovere?»
«Stupido mandriano, ricordi?» le rispose lui. «Tieniti forte!» E con uno schiocco di redini e un colpo di talloni, lanciò il cavallo al galoppo.
L’animale partì con uno scatto talmente rapido che Clove fu quasi sul punto di perdere la presa. Lanciando grida di incoraggiamento, Dan lo spinse nella via verso la piazza, gettando a terra Tributi come fossero spaventapasseri. Un paio frecce passarono dietro di loro mentre si allontanavano dallo scontro. Gli zoccoli del cavallo divoravano l’asfalto, mentre le giubbe viola si facevano sempre più rade. Di fronte a loro, in mezzo al fumo e agli scheletri di palazzi mangiati dalla guerra, comparve un maestoso arco di pietra.
«L’entrata della piazza!» esclamò Clove. «Ci siamo!»
Qualcosa di rovente strisciò sulla sua testa, strappandole un grugnito di dolore. Lanciò un’occhiata alle sue spalle: dietro di loro, due cavalieri si erano lanciati all’inseguimento.
«Quest’affare può andare più svelto?» gridò all’orecchio di Dan.
«Non posso» rispose lui, «a questa velocità basta un sassolino e ci schiantiamo!»
Due pallottole fischiarono alla loro destra. «Se non ci ammazziamo da soli» gridò Clove, «ci penseranno loro!»
Dan spronò ancora di più il cavallo. La povera bestia lanciò un nitrito disperato, ma aumentò la velocità.
Clove si guardò ancora una volta alle spalle. I cavalieri avevano guadagnato terreno. «Ci stanno raggiungendo!»
«Ci siamo quasi!» gridò Dan. «Avanti» aggiunse a voce più bassa, in una disperata preghiera al cavallo. «Avanti, avanti, avanti….»  
Clove si accorse che il suo polpaccio destro sbatteva contro un grappolo di forme stondate. Abbassò lo sguardo e vide una bisaccia sbatacchiare sul quarto posteriore del cavallo. Staccò una mano dal corpo di Dan, si piegò verso la bisaccia e, a fatica, riuscì ad aprirla.
«Che stai facendo?» le gridò Dan, sentendo che non si teneva più del tutto a lui.
Le dita di Clove si chiusero attorno ad un oggetto liscio e ovale.
La bisaccia era piena di granate.
«Dan» gli disse, «ho appena avuto una pessima idea!»
«Cosa?»
Lei pescò due bombe a mano. «Tra poco sentirai qualche botto. Qualunque cosa accada, tieni questa bestia dritta e a tavoletta!»
La risposta di Dan si perse nel fragore del galoppo. Clove strappò con i denti le due spolette ad anello, lasciò che le levette di sicurezza saltassero via, attese quanto più possibile e poi le lanciò dietro di sé.
In quel momento, il cavallò saltò.
Sentendosi cadere all’indietro, Clove afferrò la camicia di Dan. Oltre le zampe posteriori del loro destriero, tese per superare il fossato che si apriva improvviso in mezzo alla strada, vide le due granate cadere in mezzo al fango. Proprio vicino ad un tubo spezzato, vicino al quale l’aria tremolava come se fosse estate.
Non sentì l’esplosione. Avvertì solo il muro ardente che li lanciava in avanti, la criniera del cavallo che si agitava al vento, Dan che sollevava le mani. Poi l’impatto, un lampo nero, una tempesta di martellate, sulle gambe, i gomiti, le tempie, il suo corpo che restava fermo mentre tutto il mondo scorreva sotto di lei; e alla fine non rimase che un fischio acuto e continuo, e un terribile odore di bruciato.
Aprì gli occhi. Era ancora viva.
Per l’ennesima volta in quella giornata, si alzò in piedi con un gemito.



Katniss rimase in silenzio, in attesa che fosse Snow, come sempre, a fare la prima mossa. La testa del Presidente si era girata verso sinistra, lì dove si trovava la porta secondaria dalla quale lei era entrata; ma a parte questo, non sembrava dare alcun segno di voler iniziare la conversazione. Lei attese qualche altro momento, guardinga e confusa, poi scese i gradini che attraversavano le file di sedili fino a ritrovarsi davanti al tavolo dei ministri. Ora si trovava proprio di fronte a Snow; ma dall’alto del suo scranno, lui continuava a non voler dire una parola.
«È quasi un peccato vederlo ridotto così, non trovi?»
Katniss si girò di scatto, brandendo l’asta rotta della bandiera come una sorta di lancia. Seduto su uno dei sedili in seconda fila, un uomo con la divisa nera da ufficiale della Guardia Presidenziale le rivolse un sorriso gelido.
«Ave, Katniss Everdeen. Forse ti suonerà strano detto da una persona in un simile abito, ma sono molto, molto lieto che tu sia riuscita a venire sin qui, quest’oggi.»
Katniss abbassò l’asta della bandiera. Scrutò l’uomo per qualche secondo, impassibile. «Lei è Rorke» disse alla fine.
Lui assentì con un lento cenno del capo. «Aelius Seianus. Onorato di fare la tua conoscenza.»
«Non posso dire altrettanto, temo.»
Sulla bocca di Rorke brillò un ghigno divertito. «Ah, magnifico. Sapevo che Plutarch non era stupido a puntare su di te. Come sta? È un po’ che non lo sento.»
«Il Protocollo Protheus» ribattè Katniss, gelida. «Mi è stato detto che devo deciderne l’esito.»
Rorke emise un piccolo sbuffo divertito e sollevò la mano, a mo’ di scuse. «Perdonami, hai ragione.» Si alzò in piedi, passandosi le mani sulla giacca della divisa. «Procediamo.» Uscì dalla fila di poltroncine e si avvicinò a Katniss, le mani dietro la schiena. «Dunque, per prima cosa: immagino avrai sentito che il Protocollo Protheus comporta la distruzione della nostra amata nazione così che un manipolo di prescelti possa rifondare la civiltà su basi ben più alte e nobili della precedente.»
«Conoscevo solo la prima parte» rispose lei. «E francamente, è l’unica che mi interessi.»
Lui annuì con un sorrisetto affabile. «Ti stupirà saperlo, ma anche per me è sempre stato così.» Spostò gli occhi sul Presidente Snow, che puntava su di loro uno sguardo vacuo e assente. «Il Protocollo Protheus venne ideato da Volumnia Gaul, una donna tanto geniale quanto psicopatica, come sorta di piano d’emergenza da usare in caso di una seconda ribellione dei Distretti – segno inequivocabile, a suo dire, che la forza morale di Panem era ormai decaduta oltre ogni soglia di possibile recupero. Incaricò me di porlo in atto. Cosa che ho fatto… secondo i miei termini, ovviamente.»
Nella mente di Katniss risuonarono le parole di Plutarch. Il colonnello Rorke, come me, è stato un allievo brillante e ambizioso; ma, sempre come me, non è mai riuscito a crederci fino in fondo. Lei non ha mai avuto problemi a cogliere la prima parte della similitudine; la seconda, invece, temo che fino all’ultimo sarà incapace di vederla. «E i suoi termini sarebbero…?»
«Un accordo con la Presidente Coin» replicò Rorke imperturbabile. «L’indulgenza per tutte le mie… intemperanze di gioventù, in cambio del pezzo più importante della scacchiera.» I suoi occhi verdi indugiarono su di Katniss, e per un momento lei venne trafitta dalla certezza di essere in pericolo di vita; ma poi lo sguardo di Rorke si spostò nuovamente su Snow. «Il Re è morto… viva il Re.»
Katniss cercò di mantenere un’aria impassibile. «E io cosa c’entro, in tutto questo?»
Rorke fece qualche passò avanti e si girò verso di lei. «Io e te siamo entrambi alfieri, Katniss Everdeen. Decisi e inesorabili come torri ma bizzarri ed errabondi come cavalli. Andiamo avanti per la nostra strana, ma mentre tutti procedono dritti, noi andiamo in obliquo. Gli altri ci deridono, credono di sfruttarci; e quando pensano di averci ormai capiti noi sbuchiamo dal nulla… e li mangiamo senza pietà.» La mano destra emerse da dietro la sua schiena e indicò con un gesto il tavolo di pietra nera dei ministri. «Ti offro un’occasione.»
Lei si avvicinò al lungo blocco di marmo. Sul piano freddo e levigato, in mezzo polvere e schegge di vetro, erano posati un arco e una freccia.
«I miei accordi con la Presidente prevedono che le consegni Snow» disse lui. «Ma non è stato mai specificato se vivo o morto.» Fece un paio di passi indietro e si appoggiò ai banchi della prima fila, come se volesse godersi al meglio lo spettacolo. «L’ultima scelta, Katniss Everdeen. È il mio regalo per te.»
Lei rimase di fronte al tavolo, paralizzata. Sollevò lo sguardo su Snow, poi lo riportò sull’arco e la freccia. Li prese, si allontanò di una decina di passi e si girò a fronteggiare il suo più grande nemico. «Se provassi a colpire lei» disse a Rorke, «i suoi soldati nelle gallerie superiori mi ucciderebbero prima che io possa fare solo una mossa, immagino.»
«Oh, sono bravi» rispose lui, affabile, «ma non così tanto. Moriresti, questo sì; ma avresti tutto il tempo di colpirmi.»
Lei non rispose. Portò l’impennaggio della freccia allo zigomo, sollevò l’arco e sparò la freccia fuori dalla cupola. «Mi dispiace» disse a Rorke, «ma da qualche tempo il mio bersaglio preferito è il cielo.»
Lui le sorrise. «Molto bene» disse, staccandosi dal banco su cui si era appoggiato. «Se non c’è altro, direi che possiamo andare. È tempo di concludere questa faccenda che i più chiamano guerra, non trovi?»



La piazza era lunga e grigia, le file di loculi che si alzavano lungo tutto il perimetro come gradinate di un lugubre stadio. Le due figure che avanzavano in mezzo ad essa erano quasi dei puntini, perse nel mare color cemento di quella solenne e ostile magnificenza.
Clove si camminava a fatica, le dita strette sul colletto della camicia di Dan e l’intero corpo che pulsava per la fatica, le ferite e le scottature lasciate dall’esplosione. L’aveva trovato ancora in sella, la gamba destra rotta sotto il peso del cavallo riverso a terra. Nell’atto di liberarlo dal corpo della bestia, gli aveva strappato un grido di dolore; da quel momento, lui riemergeva e sprofondava nell’incoscienza a intervalli  irregolari, trascinato sull’asfalto come un sacco interte di carne e stoffa lurida.
«Rose…» mormorò.
«Tranquillo» le rispose lei a denti stretti, la mascella serrata per lo sforzo. «Ci siamo. Ci siamo quasi.»
Non aveva idea del perché gli stesse dicendo quelle parole. Fin dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su Piazza dei Martiri, aveva capito che non ci sarebbe stata alcuna antenna o nodo di controllo da far saltare in aria. La corsa fatta per arrivare fin lì non aveva avuto alcun senso; eppure, lei continuava ad andare avanti.
Al centro della piazza si ergeva una colonna di marmo alta quasi quaranta metri. Su di essa, ad ogni edizione degli Hunger Games, venivano scolpiti i nomi di chi non era sopravvissuto all’arena. Clove si era sempre chiesta cosa sarebbe successo una volta che non ci fosse stato più spazio su cui scrivere. Non le sarebbe mai potuto passare per la testa che a finire prima sarebbero stati i nomi.
«Ci siamo» continuò a dire a Dan, quasi fosse una preghiera. «Ci siamo, tranquillo, ci siamo…»
Raggiunse la colonna, tirò su Dan, salì i tre gradoni del piedistallo e lo appoggiò alla base squadrata. Il vento accarezzava l’asfalto crepato e divelto della piazza, le tombe dei Tributi spalancate, vuote e buie come le orbite di una distesa di teschi. Il sole era tiepido; in mezzo ai fumi della battaglia, si riusciva quasi a distinguere l’azzurro del cielo.
«Clove?» mormorò Dan.
Lei si inginocchiò al suo fianco. «Sono qui.»
«Ce… ce l’abbiamo fatta?»
Lei deglutì. La sua gola sembrava piena di scheggie di vetro. «Certo» gli disse. «Ce l’hai fatta, Dan. Li hai salvati.»
Lui chiuse gli occhi. Sulle sue labbra aleggiò lo spettro di un sorriso. «Non è vero. Ma grazie… lo stesso…  di averlo detto.»
Lei rimase immobile, come se non avesse idea di cosa fare. Gli prese la sinistra con entrambe le mani, gliela strinse forte e poi si alzò in piedi. «Torno subito» gli disse. «Vado a vedere se sul cavallo è—»
Non ci fu tempo di fare nulla. Un piccolo tonfo liquido, uno schiocco sordo. Dan spalancò gli occhi, la bocca dischiusa in una sorta di compunta sorpresa, mentre il proiettile attraversava il suo petto e si andava a conficcare nel marmo della colonna.
Niente.
La mente di Clove non registrava più nulla. Nè il fragore dello sparo, né il terzetto di figure che si avvicinava a lei, ne’ il sangue caldo di Dan che si allargava a inzuppargli la camicia.
Niente.
«Ottimo lavoro, Clove. Rorke sarà molto felice.»
Niente.
Le parole del Nero le giunsero alle orecchie come un ronzio ovattato. Non aveva senso ascoltarlo. Non aveva senso ascoltare nulla.
«Maledetto, piccolo bastardo» ringhiò il Bianco. Sollevò il fucile e sparò altri due colpi nel petto di Dan. «Per essere un maledetto bovaro, è stata una brutta gatta da pelare.»
Niente.
Clove era lì, ancora una volta in piedi, ancora una volta viva, ad osservare la terra bere avidamente il sangue di qualcuno. E come era già successo, la sua mente la portò lontano.
Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.
Aveva vinto. Ancora una volta, a dispetto di tutto e di tutti. Aveva corso, sempre da sola, sempre per prima. Perché fermarsi voleva dire perdere. Voleva dire un povero illuso la cui innocenza viene ricambiata con un proiettile in testa, un disgraziato figlio della vittoria che per due volte si ribella, e per due volte muore; e uno stupido mandriano che cavalca verso i propri rimorsi, abbattuto come un cane senza essere riuscito a salvare nessuno.
Ora erano cenere, corpi morti, memoria.
Lei, invece, no.
«Clove?»
Il Bianco si era avvicinato. Un’espressione interrogativa aleggiava sul suo volto. «Hai sentito il capo? Dobbiamo muoverci.»
Lei sollevò gli occhi su di lui.
«Clove…?»
Il Bianco aveva sempre avuto quel qualcosa in più, a differenza di combattenti più abili come Ares o Artemisia. Il Bianco era umile. Sapeva quando qualcosa non girava per il verso giusto ed era tempo di lasciare l’orgoglio a terra per darsela a gambe e sopravvivere; e fu proprio quell’istinto che gli gridò di scappare, quando il suo sguardo incrociò quello di Clove.
Si mosse, ma non fu abbastanza veloce. Il coltello da lanciò lo centrò dritto dell’occhio destro.
Per una frazione di secondo, Cicero e Callissa non furono in grado di realizzare quello che era accaduto; solo quando il loro compagno di squadra cadde a terra urlando, lasciando dietro di se’ una scia di sangue e umor vitreo, si permisero il lusso di sollevare le armi.
I pugnali, però, erano già in viaggio.
La lega di acciaio temperato e diamante penetrò nella trachea di Callissa e uscì dalla nuca con un sussurro. La ragazza strabuzzò gli occhi, lasciò cadere l’arco e si portò le mani alla gola.
«C-ch-ch…»
Il Nero era in ginocchio, il piccolo manico del coltello che sbucava dalla fronte. L’unico occhio che gli era rimasto roteava come una giostra fuori controllo, mentre la gola sussultava alla ricerca di un nome ormai quasi impossibile da pronunciare.
Clove non aveva parole per il suo caposquadra. Gli prese la pistola dalla fondina, gliela premette sul petto, lo tenne fermo per il bordo superiore della corazza e tirò il grilletto una, due, tre volte. Poi osservò la vita scorrere via dal suo vecchio caposquadra e lo lasciò cadere a terra.
«…Clove…»
Un rantolo, roco e strozzato, le accarezzò la spalla.
Dan.
Gettò la pistola. In un attimo era accanto a lui. «Dan…»
«Ehi… là..»
Dan era bianco come uno spettro. La camicia era scura e zuppa per il mare di sangue che abbandonava il suo corpo; ma i suoi occhi erano vivi. Si staccarono da lei, a indicare il corpo del Bianco. «Niente… male.»
«Dan…»
«Sì, è il… mio nom…e.» Dan scoprì i denti in un sorriso insanguinato e cercò di ridere, ma riuscì solo a sputare un grumo pastoso di sangue e saliva. «Clove… ce… l’hai fat-ta…»
Clove sentì le sue labbra raggrinzirsi in quello che tentò con tutte le sue forze di far passare per la sua classica smorfia di sfida. «Certo che ce l’ho fatta. Sono la migliore, io.»
Prima che potesse rendersene conto, la mano di Dan si strinse alla sua. Un tocco delicato, gentile, buono. Un gesto che presupponeva una quotidianità e di una tranquillità che un dio beffardo e sanguinario aveva loro negato ancora prima che le loro strade si fossero incrociate.
Fu quel gesto, così semplice, così stupidamente normale, a fare breccia in una fortezza che aveva resistito a qualunque cosa gli si fosse scagliata contro.
Fu quel gesto che le permise finalmente di piangere.
Non se ne rese conto finché non vede una sua lacrima cadere sulla camicia di Dan.
«Oh, que-sta è bel…la» il sorriso di Dan si allargò ancora di più. «Ora che le ho davvero… viste tutte, direi che posso anche… andare.»
«No.» Clove strinse la mano di Dan, come se gli stesse impedendo di scappare via. «Tu non vai da nessuna parte. Non. Ti. Azzardare.» Le lacrime ormai fluivano senza controllo. Una pioggia, pura e salvifica, cadeva sul collo e sul viso di Dan. «Noi… io – ti porto via di qui. Ce ne andremo… ce ne andremo – in un… esisterà un maledetto posto dove – dove vivere in pace…»
«Sì.» Le iridi castane la fissarono, cercando di trasmettere un intero futuro in un unico sguardo. «Ma non per me e per te.»



Il sole era alto nel cielo quando Rorke consegnò il presidente Snow dritto nelle mani di Katniss Everdeen. Rimasto solo in un bunker affollato di cadaveri, il generale Lorn, capo di stato maggiore delle Forze Armate di Panem, aveva appena ordinato a tutte le truppe rimaste a difendere la capitale di abbassare le armi e arrendersi.
Due minuti dopo la fine della guerra, il cuore di Danyl Martin smise di battere.
E Clove seppe di aver vinto i Settantaseiesimi Hunger Games.
















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Madò. Madò.

Se siete arrivati fino qui in fondo: complimenti, davvero. Questo capitolo è un mostro, una bestia enorme con un sacco di roba dentro; ma non potevo spezzarlo in una o più parti. Perché avendo lo stesso titolo di questa fanfy è come se rappresentasse il nucleo, una sorta di miniatura, di questa sballatissima storia; e perché è l'ultima cavalcata dei nostri eroi verso la fine... di tutto? Della guerra, sicuramente: ma la nostra storia ancora non è finita. Restano da chiudere un paio di cose; e poi, verrà il momento dei saluti.

Una parte di me ancora non riesce a credere di essere arrivato fino a questo punto. La scena della piazza, insieme a quella di Dan e Artemisia, era lì nel mio computer che attendeva da almeno quattro anni, più o meno: essere riuscito a pubblicarla, a prescindere dal tutto, è una cosa che devo dire mi soddisfa assai.

La partita per il destino di Panem sembra essere terminata, dunque: ma come Rorke non sa – perché purtroppo per lui non ha letto Asimov – è che nella vita, a differenza degli scacchi, la partita continua anche dopo lo scacco matto...

Ancora una volta, grazie grazie grazie per essere giunti fin qui. Un passo alla volta, trascinandoci dietro poveri disperati con le gambe rotte, siamo quasi arrivati alla fine. Ci siamo, gente. A casa ci accoglieranno da eroi.

Tante care cose, come sempre, e alla prossima!
  
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