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Autore: Marti Lestrange    23/04/2021    0 recensioni
Raccolta più o meno omogenea di racconti che nasce in occasione di una drabble night, e che prosegue in una challenge mensile, entrambe organizzate da Gaia Bessie su rispettivi gruppi Facebook, ma che rimane aperta a nuove aggiunte, nuovi tasselli e nuovi stralci.
T. e J. ne sono i protagonisti, ma nemmeno io che li ho scritti (che li scrivo) li conosco, non fino in fondo — so solo che rimarranno con me ancora per un po’, almeno finché non riuscirò a lasciarli andare. Il titolo è ispirato agli omonimi “Notturni” di Fryderyk Chopin.
[ dal testo: Anche io ricorderò tutto, ricorderò ciò che è accaduto dietro le porte chiuse, in letti sfatti, sotto luci accecanti; ricorderò ciò che è accaduto mentre nessuno guardava, quando mi parlavi sottovoce e arricciavi il naso; ricorderò le tue mani grandi su di me, quando mi chiedevi di tenerti stretto. ]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Dopo alcuni giorni di inattività su questi lidi, ritorno con un prompt all’apparenza devastante, ma che sono riuscita ad “aggirare” in base alle mie esigenze; non è il prompt di oggi, ma quando è uscito, il 19/04, non mi aveva smosso l’ispirazione, che invece è arrivata prima di cena, in un rush creativo improvviso; come ha detto un saggio: “soffrirai, ma poi ne sarai felice” (più o meno suonava così, scusate ma ho una pessima memoria) ☾
 


 

notturni.
parte dodicesima

 

 

GIORNO 19:

Death!Fic

 

 

[T.]

 

«Non ho più voglia di discutere, lo vuoi capire che ti sto dicendo la verità?»

«Neanche io ho più voglia di discutere, Ti, perché non te ne vai a dormire?»

«Non dirmi cosa devo fare, capito?»

«Fai cosa vuoi, allora.»

 

Mi allontano comunque, torvo come una tempesta e ribollente della mia vana comprensione. Mi sono stufato di cercare di farti capire la verità, ché non c’è niente oltre te e fuori di te, di noi, eppure continui ad essere geloso, ingiustamente geloso, di me, dei miei amici, di chiunque mi graviti intorno, e io continuo a rassicurarti su ciò che in realtà non necessita di rassicurazioni — ché non c’è niente oltre te e fuori di te, di noi. Non c’è e non potrà esserci mai.

 

Marcio in camera da letto, dove ho lasciato alcune cose da sistemare nell’armadio, abiti appena lavati e che sei passato a ritirare in lavanderia prima di rientrare a casa. Ci sono anche un paio di tue camicie, ma quelle le lancio nella tua metà del letto, quasi con stizza. Non ho nessuna intenzione di appendertele io. 

 

Mi spoglio velocemente e mi infilo il pigiama — quello di seta grigio, che mi hai regalato tu l’ultimo Natale. È diventato uno dei miei pigiami preferiti, anche se adesso lo guardo e mi fa male, perché mi torna in mente il tuo viso teso mentre lo stavo scartando, e le tue mille, rocambolesche spiegazioni, agitate anche dopo tutti questi anni, come sempre quando mi fai un regalo e temi che non mi piaccia. Ho sempre amato ogni tuo regalo, sciocco, ti direi ora, se solo non fossi arrabbiato con te.

 

Mi metto sotto il piumone e spengo la luce. Alla fine ti ho dato retta e sono andato a dormire e cerco di non pensare alla soddisfazione che starai provando in questo momento. Ma sento la porta d’ingresso sbattere e allora mi alzo di scatto, corro in cucina e non ci sei, in bagno la porta è aperta e la luce è spenta, in salotto non ti trovo, sul terrazzo nemmeno, e allora capisco che sei uscito, sei uscito nella notte, e mi hai lasciato qui. 

 

Esco di nuovo fuori sul terrazzo e mi affaccio. Chissà come penso di riuscire a vederti da quassù, quando le persone là sotto sono solo puntini, ma mi pare di intravederti, indossi la felpa viola che ti sei messo prima di cena e un cappellino nero. E poi riconoscerei il tuo passo anche dalla luna. 

 

«Dove credi di andare, eh? Codardo!» Urlo nella notte e lo so che sembro un pazzo, ma non mi importa. Voglio che tutto il mondo mi senta, anche a costo di sgolarmi, voglio che tu mi senta. Ma ovviamente so che è inutile. Il rumore del traffico, seppur ridotto vista l’ora, copre comunque la mia voce, e il mio richiamo si perde nella notte e tra le stelle che faticano ad uscire. 

 

Torno dentro, trovo una tua felpa — un’altra, l’ennesima — appoggiata al divano e la indosso in fretta, afferro sigarette e accendino e torno fuori, a piedi scalzi, e il freddo della notte di aprile è ancora troppo freddo, ma non ci bado. Mi siedo su una delle poltrone all’esterno e mi accendo una sigaretta, le gambe accoccolate al petto e le dita tremanti. Odio quando litighiamo. Mi sento vulnerabile e solo, terribilmente solo, quando discutiamo e quando te ne vai, come ora, e mi lasci qui, insieme solo ai miei fantasmi.

 

Fumo e attendo e non so nemmeno come, ma ad un certo punto la sigaretta finisce, la butto nel posacenere e, dopo aver appoggiato la testa allo schienale della poltrona, chiudo gli occhi e mi addormento, nonostante il freddo e la posizione scomoda, nonostante mi venga difficile addormentarmi senza di te, accanto a me, senza stringerti forte tra le mie braccia. Forse il tuo odore sulla tua felpa è come una ninnananna e allora la mia mente si quieta e si riposa e tutta la tensione esce da me a ondate, e le palpebre si fanno pesanti, finché non comincio a sognare. 

 

Sogno di star camminando, sono in centro, in mezzo ai palazzi, alti, tutti di vetro ma bui, come se le luci siano tutte spente, tutte insieme, e le strade sono deserte, ed è tutto così irreale, ma continuo a camminare, ti sto cercando, e ti vedo, sei davanti a me e cammini anche tu, mi dai la schiena, e a volte mi sembra di stare per raggiungerti, ma quando allungo la mano tu mi sfuggi, penso di aver agguantato il tuo bomber nero e invece no, acchiappo solo aria e vuote speranze, e ti chiamo, chiamo il tuo nome a squarciagola, ma tu non ti volti mai, tu non sembri sentirmi, e la gola mi fa male, brucia e graffia, e l’aria tutt’intorno è satura di fumo e un odore dolciastro che assomiglia allo zucchero bruciato, e gli occhi cominciano a lacrimarmi e non so se sia per via del fumo, o se siano lacrime, so solo che ci fermiamo di fronte al fiume e tu sei di fronte a me, continui a darmi la schiena, ma io non posso raggiungerti, non ancora, è come se i miei piedi siano fissi al terreno, e abbiano messo radici, e quando finalmente ti volti, e mi guardi, vedo che stai piangendo, le lacrime ti solcano il viso e sei bellissimo ma triste, immensamente triste, e allora sono triste anche io, immensamente triste, e cazzo quanto vorrei annullare ogni distanza, afferrarti per le spalle e stringerti, nascondere il viso nell’incavo liscio del tuo collo e respirare il tuo profumo e dirti che mi dispiace, mi dispiace da morire, nonostante io non abbia fatto niente, ma odio litigare con te e farei di tutto, qualsiasi cosa, pur di riaverti, ma mi dici che è troppo tardi, «è troppo tardi, Ti», e in un attimo sei in piedi sulla banchina del fiume, sul muretto di cemento che ne delimita l’argine, e ti volti un’ultima volta, mi sorridi, sempre immensamente triste, e improvvisamente sei caduto, ti sei lasciato andare oltre, giù nel fiume, sei scomparso per sempre, e io finalmente riesco a muovermi, corro fino al bordo, mi affaccio, e non ci sei, non ci sei più, le acque, tumultuose e nere e piene di spettri, ti hanno inghiottito, e io mi lascio cadere a terra, non mi importa di farmi male, mi rannicchio su me stesso, scoppio a piangere, il petto mi fa male, sento il cuore rallentare i battiti e potrei giurare di stare morendo, il gelo mi assale e mi attanaglia le membra e tutto quello che riesco a sentire è solo un grande dolore, un dolore troppo immenso da poter essere quantificato, e tantomeno descritto, come se la forza di un milione di tenaglie mi stesse squarciando il petto. 

 

È in quel momento che mi sveglio, e tu sei qui, sei qui accanto a me, sulla nostra terrazza, mi scuoti e mi guardi allarmato, e allora mi afferri e mi stringi al tuo petto, e io ti circondo la vita con le braccia, ché non posso — e non voglio — lasciarti andare. 

 

«È stato un incubo, Ti», mi rassicuri carezzandomi il capo, scendendo sulla nuca, all’attaccatura dei capelli, nel punto in cui sai bene quanto mi piaccia essere accarezzato — ovviamente solo da te, sempre solo da te. «È stato solo in incubo, respira, okay?»

 

Affondo il viso nel tuo stomaco e allora mi prendi in braccio e ti siedi al posto mio, e mi tieni stretto sulle tue gambe, mi sdraio sul tuo petto e lì mi rannicchio, stringo forte un lembo della tua felpa senza chiudere gli occhi, ché non voglio scoprire che anche questo è un sogno, e non voglio rischiare di rivedere quell’immagine — di ripensarti su quel margine, prima dell’abisso. 

 

«Dove sei stato?» Ti chiedo.

«Sono sceso, ho fatto un giro di un secondo e poi sono tornato su di corsa. E ti ho trovato qui fuori, mezzo congelato, a rantolare il mio nome… Mi hai fatto morire di paura, pensavo stessi male…»

Scuoto la testa. «Ho fatto un incubo terribile.»

«Me ne vuoi parlare?»

Scuoto di nuovo la testa. «Adesso no. Non ci riesco.»

«Perché mi chiamavi?»

Alzo leggermente la testa e scopro che mi stai guardando, sei ancora vagamente preoccupato, però. «Nell’incubo c’eri anche tu.»

«Okay.»

 

 

Rimaniamo lì per non so quanto, e non sento più freddo, né paura, ora che sei qui con me. 

«Mi dispiace», dico a spezzare il silenzio. 

«È a me che dispiace, Ti. Non avrei dovuto dire ciò che ho detto, e nemmeno insinuare quelle cose… Sono un coglione.»

Allungo una mano ad accarezzarti una guancia. I tuoi occhi scuri brillano nella notte, e qualche stella adesso è uscita a illuminarne la volta. «Ti amo. Più della mia stessa vita. E questa cosa mi dà forza, mi sorregge quando vacillo, mi riscalda quando sento freddo… E farei qualsiasi cosa, veramente, qualsiasi, per proteggerti. Non ti farei mai del male, lo sai, vero?»

Mi prendi la mano, me la baci sul palmo, e poi la stringi nella tua. Le nostre dita si intrecciano. «Lo so. Lo so e a volte faccio cazzate, eppure mi ami lo stesso… Non so come sia possibile, me lo chiedo da otto anni, ma ti giuro che sei la mia vita, Ti. Sei tutto. Non sarei niente, senza di te. Anche se non mi vuoi dire cos’hai sognato… e cosa ci facevo nel tuo incubo…» 

«Forse domani te lo dirò. Con la luce del sole.»

Annuisci e mi sorridi. «Ti porto a letto, fa troppo freddo…» 

 

Mi trasporti fino in camera, seppur con qualche sforzo, e finiamo entrambi sotto il piumone, e ti abbraccio, ti stringo a me, affondo di nuovo il viso nel tuo collo, e lo sfioro con un bacio. Le tue mani sono sulla mia vita, ferme come sempre. 

 

«Non andartene mai più, per favore.»

Annuisci. Mi baci il naso. «Promesso. Ora dormi, ci sono qui io.»

Chiudo gli occhi e sorrido leggermente. Dormo tutta la notte. Senza sogni. Con te.

 


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