CAPITOLO VENTUNO
“La vita non è
aspettare che passi la tempesta,
ma imparare a ballare
sotto la pioggia”.
Mahatma Gandhi.
Ora che il tempo è dilatato, posso avere più cura di me
stesso. Dormo di più e più tranquillamente.
La mia giornata non è più di corsa e i muscoli non mi dolgono
continuamente. Posso anche permettermi di fare ciò che altrimenti avrei fatto
male.
Guardando tra i libri che sto mettendo a posto, incappo in
uno un po’ speciale, di quelli che raccontano una vita passo per passo, e
appunto questo è a colori e racconta l’intera esistenza di un uomo scomparso
solo qualche mese fa, a novembre dello scorso anno. Una figura famosa, un’icona
per il territorio.
Lo sfoglio così tanto per passare il tempo, tanto non ho
molto altro da fare fintanto che piove e fa freddo. Che, tra l’altro, che meteo
bastardo! Si gela in primavera.
Ma, tornando al punto, mi ritrovo annoiato a sfogliare questo
volumetto.
Incappo in quelle foto sorridenti, dapprima di un uomo
giovane, in bianco e nero, poi dell’uomo maturo e distinto, infine del
simpatico vecchietto che è diventato. Ancora una volta mi ritrovo a riflettere
sul significato della morte e su quanto possa essere fastidioso (oppure
importante, chissà) restare impressi in fotografia.
Guardo queste foto e noto che tutte sono accomunate da un
dettaglio; il soggetto fotografato sorride sempre. Sorride da giovane, da
adulto, da vecchio. Un sorriso che non cambia mai nonostante il tempo che
passa, sincero e di quelli che fanno sorridere anche le altre persone, perché
sembrano così schietti e spontanei da restare nel cuore.
Credo che quest’uomo continui a sorridere anche nell’aldilà,
lo spero davvero, sono poche le persone in grado di trasmettere così tanta
serenità anche quando non ci sono più.
Morale della favola? Tanto dobbiamo morire tutti, ma… in
fondo, se resta una nostra foto che esprime serenità e positività, perché
dovrebbe essere un male? Ci sono persone che, anche se non ci sono più, hanno
saputo lasciare dietro di loro una scia di bellezza spirituale che resta
intatta nel corso del tempo.
La bellezza delle persone speciali lascia qualcosa anche
quando esse non sono più corporee, vincendo il tempo.
Adesso ho solo voglia di sorridere perché la vita è breve e
dato che hanno detto che pure alcuni miei coetanei sono morti di recente per
via della pandemia, tanto vale che il tempo che mi resta lo passi sorridendo.
Un attimo di vuoto; un buio spettrale. Ora che sto qui a far
tanta polemica mentale sulla condizione attuale, forse sto trascurando la mia,
di situazione. Non quella di adesso, che per tutti è la medesima, o per lo meno
per le persone corrette che rispecchiano le regole, bensì su quella precedente.
Quel sesso senza futuro fatto con persone già
sentimentalmente occupate, che naturalmente appena potuto sono sparite.
Quel mio amore per G, uomo così diverso e distante da me,
eppure così a posto anche lui a livello sentimentale.
Quel mio stare lontano dal gruppo dei pari, l’emarginazione
che ho sui social e nella vita quotidiana.
Posso dire di aver fatto tante cose in vita mia, ma non certo
troppe sotto al punto di vista sociale.
Insomma, questo silenzio al di là di svariate riflessioni mi
impone anche una stretta analisi di me stesso; che questo sia un reset, un
punto di inizio sano, su cui basare un nuovo futuro migliore.
Già all’inizio di questo mio flusso di pensieri me l’ero
proposto, ma poi ho lasciato troppo spazio a quelle persone che credevo fossero
personaggi rivelazione, quando invece era gente pronta a uscire in fretta dalla
mia vita, così come erano entrate.
Questa volta, questa prova della quarantena si sta mostrando
davvero una vera sfida e credo che potrà fare qualcosa per aiutarmi in modo
concreto in quel percorso di redenzione che auspico da quando sono nato.
Ricordo un mio collega
di tanti anni fa che ripeteva sempre un concetto espresso da un filosofo
antico, che affermava come la cosa migliore fosse in realtà il non essere mai
nato.
È quello che penso ora,
mentre gli agenti che mi hanno arrestato davanti casa mia mi conducono verso il
commissariato di Columbus, quello che per tanto tempo è stato un po’ come la
mia seconda casa.
Varco quella soglia
ammanettato mentre tutti mi guardano, quei colleghi che solo qualche settimana
fa erano amici miei. Lo sguardo del commissariato intero è posato su di me,
alcuni estraggono i cellulari e li immagino scrivere a chi non è presente quel
che sta succedendo.
Presto il mio volto
diventa rosso fuoco e sudo freddo. Scorgo Ramsey, che mi fissa in lontananza
senza nessun particolare interesse.
Infine, è lo sceriffo
stesso ad attendermi in corridoio, senza concedermi nessuna udienza.
“Le avevo fatto sapere
che non le conveniva tirare troppo le corde, perché hanno l’abitudine di
spezzarsi in fretta, soprattutto in certi ambienti” mi dice soltanto questo,
laconico e serio.
Fa cenno ai due agenti
di portarmi giù, al piano inferiore, il luogo dove avvengono gli interrogatori.
Ma, prima, la parte ancora più umiliante.
Mi sbattono contro un
muro bianco, che fa da sfondo alle foto segnaletiche che stanno per farmi.
Lascio che mi sbattano da una parte e dall’altra, fintanto che non prendo il
coraggio di porre qualche lecita domanda.
“ Mi avete arrestato
senza nemmeno dirmi le accuse”.
“Presto le scoprirà da
sé”.
“Non potete farmi le
fotografie, ufficialmente non sono ancora un detenuto…”.
“Non è un detenuto ma è
un agente che ha violato il regolamento di Stato. Ciò su e per cui ha giurato.
È un’accusa già di per sé abbastanza grave da garantirle fin da subito una
discreta permanenza in carcere” torna a rispondere il poliziotto più giovane,
che non conosco.
Già il fatto che
abbiano messo sulle mie orme due giovani e aiutanti matricole sconosciute
lascia capire quanto i miei superiori desiderassero che restassi isolato, senza
avere possibilità di scambiare una sola parola amica.
Il poliziotto, dopo
essersi sincerato che le foto di fronte e di profilo fossero perfette, finisce
di perquisire la mia uniforme, estraendo il distintivo e tutto ciò che riguarda
il mio servizio nelle forze dell’ordine.
“D’ora in poi lei è un
agente deposto. Vestirà momentaneamente come un qualsiasi altro detenuto, ed
eguale sarà il trattamento riservatole. Al più presto le sarà concessa
l’opportunità di contattare un avvocato, mentre per ora è atteso solo per un
paio di domande di rito” prosegue a spiegarmi, prima di afferrarmi le braccia
dietro la schiena e di spingermi verso le camere insonorizzate dove avvengono
quotidianamente decine e decine di interrogatori.
Mi obbligano in
silenzio a mettermi seduto e mi porgono una bottiglietta e un bicchiere di
plastica.
Mi preparano a parlare.
È come se già sapessero che lo farò.
Non so cosa aspettarmi,
o quanto meno non fin quando Ramsey varca la soglia della camera, chiude la
porta alle sue spalle e viene a sedersi di fronte a me, al di là della
scrivania.
“Allora, Barley?”
“Allora cosa?” mi viene
quasi da ridere in modo isterico. Allora un cazzo.
“Mi avete arrestato
come il peggior criminale degli Stati Uniti. Umiliato con foto segnaletiche e
un cazzo di camice da carcerato. Allora lo chiedo a lei, mi piacerebbe sapere
perché tutto questo è successo”.
Ramsey resta
impassibile.
“Be’, sa… interrompere
un’indagine ufficiale per prendere una parte ben precisa, senza parlarne con i
suoi superiori è reato. Ma lo è ancora di più forzare dall’alto il sistema per
tornare a essere agente speciale, per poi pestare i piedi di molteplici
imprenditori e politici di altri Stati senza avere nemmeno la più pallida idea
di quel che si dice. Tutto questo” e sventola l’indice quasi sotto al mio naso,
“è reato. Punibile per Legge. E adesso sulla sua testa pendono così tante
denunce che questa azione è stata obbligatoria”.
“Se sono stato
denunciato non credo di dover andare in carcere subito. Mi serve un avvocato,
poi si andrà in tribunale…”.
Ramsey picchietta le
dita sulla lastra di legno della scrivania.
“Barley, tra noi non
c’è mai stato un buon rapporto, ma l’ho sempre giudicata un agente maturo e con
una testa sulle spalle ben salda, non un ipocrita ragazzino che crede a tutti.
Un vero professionista. Poi, non si accorge nemmeno che tutti i passi falsi che
ha fatto sono stati veicolati da altri. E pretende un avvocato” ride sonoramente,
a questo punto, “lei era già spacciato nel momento in cui ha fatto certe
scelte. Doveva immaginarlo che stava camminando sul filo di un tagliente
rasoio, ma ha scelto di sporgersi pericolosamente da una parte. Ed è caduto. Un
avvocato non la salverà” mi allunga un telefono fisso, di quello a tasti come
una volta, sicuro e dalla rete controllata, “quindi ora chiami e mi lasci
ascoltare ciò che dice, ricordando che ogni parola d’ora in poi le si può
ritorcere contro”.
Tocco la cornetta con
risolutezza, però la sicurezza crolla subito.
Cade il sipario e mi
trovo nudo ad affrontare un inferno imprevisto, che mi ha avvolto con le sue
fiamme in una rapidità disarmante.
In realtà non so chi
chiamare; non conosco avvocati di fiducia, non ne ho mai avuto bisogno. Vorrei
chiamare mia moglie, ma so che non mi risponderà. Nemmeno i miei figli.
Mi passa per la testa
di chiamare quella stronza malefica, ma il suo numero non lo conosco a memoria.
Pensare a lei però risveglia in me l’istinto primordiale di chi non ce la fa
più e si arrende.
“E’ stata lei. Lei a
rovinarmi e a farmi fare tutto questo. Ero costretto”.
Avverto le lacrime che
iniziano a scorrere lungo le mie guance.
“Lei chi?” domanda
Ramsey, con una curiosità finta.
“La Stradford. Mi ha
rovinato. Mi ha sequestrato e costretto a obbedire, ho le prove, a mia
moglie…”. Il mio superiore alza la mano destra.
“Alt, per favore. Sua
moglie ha già affermato che non vuole sapere nulla di questa storia e che non
la supporterà, poiché era cambiato troppo e aveva visto con chiarezza che era
cambiato. Idem la signorina Stradford, che si tira indietro da ogni possibile
accusa ed è già difesa dalla schiera dei più validi avvocati dell’Ohio e niente
e nessuno può scalfirla ora, che è sulla difensiva. Può fornire delle prove
concrete? Altrimenti taccia e chiami un avvocato, senza perdere altro tempo”.
“Certo che le ho”
mugugno, tra i singhiozzi, “mi ha anche costretto a fare sesso con lei…”.
“Abbiamo già visionato
quel video e pare proprio che lei fosse contento e consenziente. Anche la
signorina lo conferma. Anzi, sarebbe stato proprio lei a dare il via alla
faccenda, e vorrebbe denunciarla per molestie e violenza…”.
“No! Non è vero” grido,
interrompendolo.
“Si dia subito una
calmata” sussulta Ramsey, distaccato. “Se ha anche solo uno straccio di prova
tangibile, ora e nell’immediato, la mostri e me ne parli. Altrimenti contatti
l’avvocato, le servirà”.
Resto in silenzio a
piangere, non so più cosa dire. Sono finito, spiaggiato contro un muro più alto
di me.
Ho un crollo nervoso e
non so cosa dire, cosa fare, come tentare di difendermi. La matta mi ha
incastrato nel suo intrigo fatto di bugie, e poiché tutti i nostri incontri e
contatti erano segreti, non ho alcuna minima prova.
“Per… per l’avvocato…”
torno a singhiozzare, “se mi può fornire… un numero d’ufficio… non ne conosco
nessuno…”.
Ramsey sospira, per
nulla colpito dal mio stato pietoso, poi si allunga, digitando un numero nella
tastiera.
“Prego. E faccia
presto” sancisce, mentre il primo squillo già rimbomba nelle mie tempie.