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Autore: Letsforgethim    27/05/2021    0 recensioni
Gli antichi greci credevano che originariamente gli esseri umani avessero quattro braccia, quattro gambe e una testa con due volti.
Gli dei, temendo che il loro senso di felicità e completezza placasse il bisogno di adorarli, li divisero in due, condannandoli a vagare infelici sulla terra, per sempre in cerca dell'altra metà dell'anima.
Forse è per questo che Harry, incontrando per la prima volta gli occhi di Brittany, ha la netta sensazione di conoscerla già.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2.

 




 

Brittany abitava nel Chiswick, un elegante quartiere in un’ansa del Tamigi, nella zona sudoccidentale di Londra.

Era un quartiere tranquillo, quasi interamente residenziale, non fosse stato per i negozi e i caffè indipendenti, pub, banchetti di frutta, verdura e fiori, presenti più numerosi lungo la via centrale e nei dintorni.

Un’inaspettata quiete la accolse quando sfilò le chiavi dalla serratura ed entrò in casa, una quiete che le fece aggrottare le sopracciglia, perplessa, per niente abituata ad un silenzio del genere tra quelle mura che contenevano, ininterrottamente, chiacchiere, litigi, musica – messa a volume talmente alto che se i loro vicini non fossero stati quella coppia di santi dei Laurence adesso avrebbero a carico chissà quante denunce per disturbo della quiete –, risate, rumori di stoviglie sbattute qua e là, l’aspirapolvere passato quotidianamente e puntualmente alle nove di mattina.

Persino di notte non c’era pace, tra William, il suo fratellino minore, che scoppiava a piangere all’improvviso spaventato da qualche incubo, suo padre che tornava tardi per via dei turni di lavoro e apriva e chiudeva il garage per parcheggiare la macchina e, per quanto cercasse di fare piano, il rumore metallico della serranda si sentiva comunque forte e chiaro, Simon che ritornava ubriaco marcio da qualche festa o da un’uscita con gli amici e ad ogni passo che compiva, ad ogni azione che svolgeva, anche la più semplice come quella di accendere la luce, riusciva a creare un trambusto tale da svegliare anche chi dormiva nel più profondo dei sonni.

Senza contare lo scompiglio che si veniva a creare in giardino durante le riunioni di famiglia o le grigliate la domenica o quando il fratello invitava quella banda di scapestrati dei suoi amici a casa.

I suoi genitori quella mattina erano entrambi al lavoro, William all’asilo, ma Simon e Amelia, sua sorella, dovevano essere a casa, lui aveva finito con le lezioni e si stava preparando ad affrontare la sessione di esami che lo aspettava a breve, così come Amelia aveva finito il trimestre del terzo anno di liceo ed era in vacanza già da qualche giorno, perciò non capiva dove potessero essere, ormai era troppo tardi perché fossero ancora a letto, aveva immaginato di trovarli con la musica al volume al massimo o impegnati in una delle loro liti di routine – avevano caratteri affini ed essendo due testardi, uno più dell’altro, ognuno rivendicava la ragione e nessuno ammetteva mai di essere nel torto –, che fossero in giardino era fuori discussione dato che faceva troppo freddo per starsene seduti all’aperto.

Lasciò cadere le chiavi nel piccolo vassoio in argento posto sopra al mobiletto nell’entrata, si sfilò le scarpe e appese sciarpa e giubbotto nell’armadio dell’anticamera.

«Ehi?» provò a chiamare, senza ottenere indietro alcuna risposta. «C’è nessuno?» ritentò, a voce più alta.

Si spostò verso il salotto ed eccolo lì il motivo per cui nessuno si era preoccupato di risponderle: Amelia era seduta a gambe incrociate sul divano, la testa china sullo schermo del cellulare e gli auricolari infilati nelle orecchie con il volume talmente alto che persino lei, da quella distanza, riusciva a sentire cosa stesse ascoltando.

Si avvicinò e le posò una mano sulla spalla, facendola sobbalzare dalla sorpresa.

«Cazzo,» imprecò alzando il viso, «mi hai fatto venire un colpo!» E si portò una mano al petto, come a sottolineare la veridicità delle sue parole.

La maggiore sorrise. «Ti chiedo scusa, ma se fossi rimasta ferma a fissarti te ne saresti accorta fra qualche minuto, se andava bene, e ti saresti spaventata comunque. Simon dov’è?»

«Ha detto che usciva a correre. E tu dove sei stata?»

«Sono andata a prendere i regali per papà» rispose facendo dondolare la busta di carta che teneva nell’altra mano.

«Che cosa gli hai preso?»

«Due vinili. Tu gli hai già trovato qualcosa?»

«Già? Sorellina, non manca neanche una settimana al compleanno di papà, io i regali glieli ho presi più di un mese fa ormai, mi sorprendo che tu ti sia ridotta così all’ultimo. Non è da te.»

«Ti prego, non mi dire così che mi sento già abbastanza in colpa. Non sapevo cosa prendergli.»

Amelia si strinse nelle spalle. «Io avevo trovato un’agenda in pelle in libreria, da Foster Books, e poi un profumo che sono sicura gli piacerà da morire perché è dolce, ma non troppo forte.»

«A quanto pare sono l’unica ad essere negata a fare regali», dedusse, facendo ridere la sorella dell’espressione crucciata che aveva assunto il suo volto. «Vado a nasconderli in camera. Mi aiuti a preparare qualcosa per cena, dopo?»

«Non dovremmo pranzare prima?»

«Mandiamo Simon a prenderci qualcosa per pranzo. Prepariamo qualcosa per stasera, che io ho lezione oggi pomeriggio, mamma è al lavoro e poi deve passare a prendere William da scuola, tornerà tardi e così almeno non dovrà pensare a cucinare, anche perché credo che non ne avrà nemmeno la forza.»

«Ma non ci dovrebbe pensare Gwen?»

Gwen era la governante della famiglia Berker da venticinque anni ormai, da quando era nato Simon.

Sua mamma era giovanissima, aveva appena compiuto ventun anni quando era arrivato il primogenito, mentre suo padre ne aveva ventiquattro, ed entrambi frequentavano l’università, lei quella di Lettere e lui quella di Medicina.

Si erano conosciuti alle superiori, all’epoca la migliore amica di Eloise usciva con il fratello maggiore di Daniel da un paio di mesi – qualche anno più tardi erano diventati anche loro moglie e marito – e li aveva combinato un appuntamento.

Era stato un vero e proprio colpo di fulmine, tant’è che non appena Eloise si era diplomata, Daniel le aveva chiesto di andare a convivere, senza indugi.

Lui all’epoca era al terzo anno di università e nel frattempo svolgeva qualche lavoretto part-time che, anche e soprattutto grazie all’aiuto dei suoi genitori, gli aveva dato la possibilità di permettersi l’affitto di un monolocale non molto lontano da dove studiava.

Non era stato semplice, anzi, i primi tempi era stato tutt’altro che semplice: c’erano stati giorni in cui non riuscivano nemmeno a bere un caffè insieme tanto erano sommersi dagli impegni, dalle lezioni e dallo studio, ma niente di tutto questo li aveva fatto rimandare quel sogno che entrambi avevano da sempre coltivato: diventare genitori da giovani.

Prima che nascesse il bambino, Daniel aveva cercato di convincere Eloise a chiamare qualcuno che desse loro una mano, perlomeno durante i primi mesi, lei aveva sempre declinato quell’offerta, “Non voglio che mani sconosciute tocchino le mie cose o il mio bambino”, diceva, almeno fino a quando non era arrivato il piccolo e la quantità di ore dormite a notte si era drasticamente ridotta.

Ed era stato a questo punto che aveva fatto la sua comparsa Gwen, una donnina di quarant’anni, occhi grigi, vispi, un viso delicato contornato da un caschetto di ricci castani, e un sorriso affabile ed onesto che riusciva immediatamente a conquistarti.

Si muoveva con destrezza, silenziosa come se fluttuasse tra le stanze, portando a termine tutti i lavori domestici in un battito di ciglia, si destreggiava tra i fornelli della cucina come se nella sua vita non avesse fatto altro che cucinare e, essendo a sua volta madre di due figli, era bravissima con Simon.

Ma Gwen, sin dal primo giorno, era stata molto di più di una scrupolosa governante, era stata un’amica con cui ridere a fine giornata sorseggiando un bicchiere di vino in cucina – ma sempre sottovoce per non svegliare il piccolo che si era appena addormentato nella stanca accanto –, una spalla su cui piangere quando le cose non sembravano andare per il verso giusto, dispensatrice di consigli come una madre, un angelo custode, come la chiamavano sempre Daniel ed Eloise, scaldandole il cuore perché anche lei ricambiava quell’amore incondizionato che provavano loro nei suoi confronti, e a casa Berker – che questa fosse il mini appartamento dei primissimi anni o la stupenda villa in cui si erano trasferiti successivamente – si sentiva proprio come a casa sua.

Brittany alzò gli occhi al cielo e «Sono letteralmente venticinque anni che Gwen è qua e ancora non hai imparato che il mercoledì è il suo giorno libero?» le chiese a sua volta.

Amelia si strinse ancora una volta nelle spalle, impassibile. «Ah, ecco perché c’è tutto ‘sto casino in giro.»

Brittany scosse la testa, evitando di dirle che se vedeva del casino era abbastanza grande da potersi tirare su le maniche e farlo sparire per non risultare troppo bacchettona e con la paura che facendo arrabbiare la sorella, questa cambiasse idea e la abbandonasse in cucina a sbrigarsela da sola. «Vado a portare questi su in camera prima che arrivi papà e li veda, e poi scendo che vediamo di preparare qualcosa.»

Amelia sbuffò all’idea di dover abbandonare quella posizione così comoda e per fare cosa, per andare a cucinare, una delle cose che più detestava al mondo; si era sentita insolitamente buona nei confronti di Brittany e aveva accettato di darle una mano, ma solo perché le aveva detto che dopo sarebbe dovuta andare a lezione.

Si alzò, a malavoglia, continuando a canticchiare la canzone che non aveva finito di ascoltare.

Arrivò anche Brittany, in quella cucina spaziosa dove era il bianco a dominare: bianco era il pavimento in resina, bianchi erano tutti gli elettrodomestici, bianche erano le credenze, bianco era il colore dell’isola e del tavolo da pranzo posizionato di fronte ad una grande finestra che dava sul giardino e bianco era il colore del marmo che rivestiva tutti i piani di lavoro.

Aprì il frigorifero a due ante e si piegò per scrutarne il contenuto, in cerca di un’idea.

Non era certamente quella che si poteva definire una grande cuoca, cucinare non era proprio nelle sue corde, perciò il suo cervello si era messo in moto per recuperare una qualche ricetta che magari aveva visto eseguire a Gwen, che fosse non troppo complicata e allo stesso tempo buona. 

C’era anche un’altra cosa che le stava ronzando in testa: doveva raccontare a sua sorella quello che era successo neanche due ore prima o era meglio di no?

Non si sarebbe posta nessun tipo di problema se non fosse che Amelia era completamente e follemente innamorata di Harry Styles – ogni centimetro quadrato della parete dietro al suo letto era ricoperto di foto del cantante, in un angolo della sua camera, appoggiati sul cassettone, c’erano tutti i suoi album, sia quelli di quando era nella band sia quelli da solista, lo seguiva su ogni social esistente, non c’era particolare della sua vita di cui non fosse a conoscenza, sapeva a memoria tutte le sue canzoni e tutte le cover che aveva eseguito, naturalmente, e, Brittany ne era quasi certa, aveva guardato tutte le sue interviste, alcune anche più di una volta –, come l’avrebbe presa?

«Che cosa facciamo?» le chiese lei, interrompendo i suoi pensieri.

«Zuppa con porri, carote e pollo e broccoli in padella. Tieni, lava i porri e le carote mentre io penso ai broccoli.» 

C’era il pollo rimasto dalla cena del giorno prima, così almeno non sarebbe andato sprecato.

Amelia saltò giù da uno dei sei sgabelli – uno per ciascun membro della famiglia – sistemati attorno all’isola della cucina e prese le verdure che le stava porgendo Brittany.

Tirò fuori una ciotola che poi mise nel lavello, sotto il getto dell’acqua.

«Cosa c’è?» domandò ad un tratto alla sorella, lanciandole un’occhiata: era troppo silenziosa, come immersa in pensieri che chiedevano di essere tirati fuori, trasformati in parole.

«Niente. Perché?» Corrugò la fronte: era davvero così facile leggerle dentro?

«Boh, non parli. E se continui a corrugare la fronte così», le disse puntandole contro una carota, «ti farai venire le rughe prima del tempo.»

Brittany si portò la mano libera in fronte, come ad accertarsi se effettivamente fosse comparsa improvvisamente una ruga, tirandola poi giù di scatto.

«Niente», ripeté, «sono concentrata a pulire bene questi cosi.»

«Non sei brava a mentire. Che c’è, si vede che c’è qualcosa che vuoi dirmi.»  

«E va bene, okay», cedette infine, tanto sarebbe stato difficile continuare a tenerlo ancora soltanto per sé. Anche se l’espressione soltanto per sé non era propriamente corretta visto che non appena era salita sulla metro per tornare a casa aveva mandato un messaggio alle sue migliori amiche per aggiornarle immediatamente su quello che le era successo. Ovviamente. «Ho visto Harry Styles, questa mattina.»

Amelia sbatté le palpebre e poi la guardò qualche istante in silenzio, prima di scoppiare a ridere. «Era questo?» domandò.

Brittany la scrutò, stranita da quella reazione: tutto si aspettava fuorché quella risata. 

«Sì, era questo», rispose. «Cosa c’è di divertente?»

«E dai, Britt, pensi che ti creda? Non ci crederei nemmeno se l’avessi visto con i miei stessi occhi, figurati.»

«Come vuoi» annuì, senza aggiungere altro, e se ne tornò al suo lavoro: che le credesse o no poco le importava, lei il peso se l’era scrollato di dosso.

Amelia continuò a fissarla: sua sorella non aveva fatto il minimo sforzo per cercare di convincerla come solitamente fa invece chi cerca di supportare le proprie bugie, nessun dettaglio aggiunto per attirare la sua curiosità, niente di niente, solo quella frase nuda e semplice, quasi sussurrata, e fu in quel momento che capì; dopotutto, perché mai Brittany se ne sarebbe dovuta uscire fuori con una cosa del genere se non fosse successa realmente?

«Oh. Mio. Dio. Tu non stai scherzando. Oh mio Dio, oh mio Dio, oh mio Dio.»

«Okay, era meglio non dirtelo.»

Ecco, pensò divertita, questa sì che era esattamente la reazione che si aspettava.

«Cosa? No!» quasi urlò lei. Si lavò le mani frettolosamente e altrettanto frettolosamente se le asciugò su uno strofinaccio e poi le si parò davanti, poggiandogliele sulle spalle. «Adesso tu ti siedi e mi racconti tutto, tutto: dov’era, cosa faceva, con chi era. Era con qualcuno? Ti ha vista?»

Non solo, pensò Brittany, ma non era proprio il caso che rivelasse alla sorella tutti i dettagli, se le avesse detto che lui si era avvicinato a lei non era del tutto improbabile che si sentisse male.

«Oddio, oddio, oddio. Perché? Non è giusto. Io non l’ho mai incontrato, mai, e tu esci una mattina per caso e boom, te lo ritrovi davanti. Ma come hai fatto?» Era un fiume di parole mentre continuava a girare senza sosta attorno all’isola della cucina.

«Amelia, per favore, perché non ti tranquillizzi e non vieni a sederti qui vicino a me? Mi stai facendo venire il mal di testa.»

«Oh, perdonami se non riesco a stare calma!» Sbottò. «Perdonami se non mi è indifferente come lo è a te. Ma come fai a stare così tranquilla? Hai appena visto Harry Styles e te ne stai lì seduta come se niente fosse.»

«E cosa dovrei fare, invece? E poi hai detto bene, l’ho solo visto, mica mi ha chiesto di sposarlo.»

«Solo visto. Ma lo sai che c’è gente che pagherebbe oro per poterlo vedere anche per un minuto? E ovviamente questa fortuna capita sempre a quelli a cui invece non frega un cazzo. ‘Fanculo! Non è giusto. Ma perché non sono venuta con te?» 

Brittany restò in silenzio; se da un lato la reazione eccessiva della sorella l’aveva divertita, facendole mordere le labbra per non far intravedere il sorriso che stava lottando per spuntare – ci mancava solo che Amelia la vedesse ridere di lei e sarebbero veramente stati guai seri –, dall’altro lato la capiva e quasi si sentiva in colpa per quell’incontro fortuito, nonostante non fosse assolutamente colpa sua, ma appunto quello, un semplice e banale gioco del caso, era stata adolescente anche lei e sapeva bene quanto poteva essere forte quel legame, quell’amore che poteva provare una ragazza per il suo idolo.

Finalmente Amelia parve calmarsi un attimo e si sedette davanti a lei. «Okay, raccontami tutto. Punto uno: dove l’hai visto?»

«Nel negozio di musica.»

E di lì iniziò una raffica di domande a cui Brittany dovette rispondere aggiungendo il maggior numero di particolari possibile – Amelia non si accontentava di risposte secche, no, voleva venire a conoscenza del più minuzioso dei dettagli, come se attraverso il racconto della sorella potesse vivere lei stessa quell’incontro –, omettendo tutta la parte della loro conversazione, limitandosi a dire che Harry era talmente concentrato da non essersi nemmeno accorto della sua entrata.

Non le piaceva mentire, ma quella era una bugia a fin di bene, non c’era bisogno di far star male Amelia per uno sguardo e due frasi buttate lì a caso.

Sicuramente il ragazzo l’aveva scambiata per una persona che conosceva e accorgendosi che non era lei si era comunque fermato a scambiare qualche parola per non risultare strano o scortese, per poi ringraziare dentro di sé chiunque l’avesse chiamato al telefono, salvandolo da quella situazione.

Però, sussurrava una voce nella sua testa, non era sembrato molto contento di quell’interruzione, quasi come se avesse voluto rimanere ancora lì a parlare con lei, ma Brittany accantonò immediatamente quel sussurrio per ribadire fermamente la sua teoria.

E mentre lei era seduta lì su quello sgabello con i gomiti puntati sul piano in marmo dell’isola e gli occhi azzurri, scintillanti di curiosità e insieme di tanta invidia, di Amelia fissi su di sé, in un’altra parte di Londra, non lontano da loro, Harry si richiudeva la porta del suo appartamento dietro le spalle.

«Guarda chi si rivede» lo salutò Gemma quando entrò in cucina, mettendo in pausa la lettura della rivista che stava accompagnando la sua colazione. 

Harry le sorrise; si appoggiò al ripiano della cucina, incrociando le braccia al petto. «Ben svegliata.»

«Mi sono addormentata sul divano, di nuovo.»

«Eh, ho notato.»

«Ho continuato a scrivere e correggere e riscrivere fino a tardi, ero sfinita. E poi hai dei divani troppo comodi, Haz, non è colpa mia. E tu dov’eri finito?»

«Sono uscito a fare una passeggiata» rispose, vago, girandosi a guardare fuori dalla finestra.

Da quel punto dell’appartamento si poteva benissimo vedere il porto di St. Katharine, i vecchi velieri ormeggiati, le passerelle, il molo.

Era una bella vista, specialmente durante il tramonto, quando i colori caldi del cielo si riflettevano sull’acqua del fiume e lui prendeva carta e penna e si metteva accanto alla finestra a scrivere.

Gemma continuò ad osservarlo da sopra la tazza bianca di tè che teneva tra le mani, in attesa, perché sapeva che c’era dell’altro.

«Ho incontrato una ragazza» esordì infine lui, dopo un lungo silenzio, tornando a guardarla.

«Ah, è per questo che sei uscito così presto.»

«No. Non l’ho incontrata nel senso di avevamo un appuntamento, l’ho incontrata per puro caso.»

«Ah» ripeté Gemma, laconica.

«È stato strano.»

«Strano, perché?»

Harry si strinse nelle spalle. «Non lo so. È difficile da spiegare senza sembrare folli, ma nel momento in cui l’ho vista, ho sentito di conoscerla.»

«Magari vi siete già incontrati prima e semplicemente non te lo ricordi» provò a suggerirgli.

«No, non l’avrei dimenticato se mai l’avessi vista prima.» Sarebbe forse stato possibile incrociare quegli occhi e poi dimenticarli? O essere degnati di quello splendido sorriso per poi lasciarlo cadere nell’oblio? «Sono sicuro di non averla mai vista prima di oggi, però non riesco lo stesso a togliermi questa strana sensazione di dosso.»

«Le hai chiesto il numero?»

A questo punto Harry, suo malgrado, scoppiò in una risata breve, ma clamorosa. «Non le ho chiesto nemmeno il nome, Gemma, e tu mi parli del numero di telefono.»

Gemma era sinceramente stupita. «Perché non l’hai fatto?»

«Eravamo in un negozio di dischi. Abbiamo parlato per, non so, saranno stati due, tre minuti ad esagerare e poi mi ha chiamato Jeffrey.»

Sua sorella alzò gli occhi al cielo. «Sempre nei momenti più opportuni», ironizzò.

«Non mi chiama mai di mattina, così sono uscito fuori sapendo che era qualcosa di importante. E dopo qualche tempo è uscita anche lei, mi ha salutato ed è andata via.» Harry ripensò alla sorpresa che aveva letto nei suoi occhi scuri nel momento in cui gli aveva posati su di lui, ripensò alla voce che pronunciava il suo nome, ripensò al suo sorriso. «Credi che ci sia qualche possibilità di rivederla?» chiese nonostante già sapesse da sé qual era la risposta. 

«Beh, fratellino, non per demoralizzarti o altro, ma a questo punto c’è da dire che sono più alte le possibilità che un meteorite piombi in questo esatto momento sulla Terra rispetto ad un secondo incontro.»

«Già» dovette concordare Harry, tornando a puntare lo sguardo pensieroso e rabbuiato fuori dalla finestra, era assolutamente improbabile e si maledisse per non esserle corso dietro quando ne aveva avuto l’opportunità.

Un sospiro gli sfuggì dalle labbra.

«Tieni, mangiati una mela per dimenticare il tuo amore perduto.» E nel dire ciò, Gemma gli lanciò il frutto rosso che Harry afferrò al volo, con una mano sola. «Quando parti per il tour?»

«Dopo il dieci.»

«Perché c’è il Betty Trask Award l’otto. Non te ne sei dimenticato, vero?»

«No, no, certo che no. Ci sarò.»

«Sarà meglio.»

 

   
 
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