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Autore: EleAB98    20/06/2021    4 recensioni
Malcom Stone è un pretenzioso caporedattore, nonché affascinante quarantenne con una fissa smodata per le belle donne. Ma arriverà il giorno in cui tutto cambierà e l'incallito casanova sarà costretto a fare i conti con i propri demoni interiori, e non solo quelli... Riuscirà mai a guardare oltre l'orizzonte? Ma soprattutto, chi lo aiuterà nell'ardua impresa?
[...]
Gilberto Monti è un giornalista affermato. Oltre a ricoprire una posizione lavorativa più che soddisfacente, ha appena esaudito uno dei suoi più grandi sogni: sposare la donna che più ama. Ma è davvero tutto oro quello che luccica?
[...]
Alex Valenza, un reporter piuttosto famoso, è alle prese con una drammatica scoperta che lo porterà a chiudersi, a poco a poco, in se stesso. A nulla sembra valere il supporto della moglie. Riuscirà a ritrovare la serenità perduta?
*Opera Registrata su Patamù*
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo VIII – Non tutto è come sembra – Parte Seconda

Lunedì


«Non ti azzardare a toccarmi!», sbraitò Megan non appena entrati in camera.

«E tu non ti azzardare a contaminare il mio spirito libero, brutta misandra che non sei altro!»

L'altra rimase a bocca aperta, ma io non ritirai quello che avevo detto. Ero certo che Megan odiasse profondamente il genere maschile e, tutto d'un colpo, quasi pensai che non avesse avuto la benché minima esperienza in campo amoroso. Com'era possibile provare tutta quell'avversione nei confronti di un uomo? Non riuscivo proprio a spiegarmelo. Forse, se fossi stato un altro soggetto, la Rossi si sarebbe comportata diversamente? Chiaramente, non sapevo rispondere nemmeno a questo. Per me, quella donna era davvero un mistero. Anzi, Il Mistero. Quel mistero che, io per primo, avrei voluto scoprire a tutti i costi, dissotterrare da quella spessa coltre di pregiudizi che lei stessa aveva issato contro il sottoscritto. Una parte di me avrebbe voluto abbracciarla forte, sussurrarle che sì, ero un fottuto uomo che metteva la passione al centro di qualsiasi cosa ma che, nonostante tutto, nonostante la facciata da perfetto casanova, non era – e non sarebbe mai stato – un animale assetato di sesso.

Pur essendo senza freni, mi assicuravo sempre che la donna di turno mi desiderasse con tutta se stessa tanto quanto la desideravo io. E mi sottomettevo persino alle loro richieste, pur di accontentare la loro brama di possedere il mio corpo ero disposto a tutto. E, alla fine dei conti, mostravo comunque un certo riguardo nei confronti delle donne. Benché le sfruttassi per mio personale piacere, non avevo mai mancato di rispetto a nessuna di loro. Certo, non ero assolutamente senza peccato, molto spesso assegnavo loro un nome ben diverso dall'originale, ma il più delle volte lo facevo per puro divertimento – tra l'altro, anche le donzelle si dilettavano nel chiamarmi con i più strani appellativi; una di loro mi aveva persino soprannominato "MAlcatraz".

Sì, lo so che non è affatto divertente, mi ero detto spesso, ma d'altronde... chi potrebbe mai dimenticare un simile nomignolo?

Il mio sguardo affilato si scontrò con quello sbigottito della Rossi. Con mia somma sorpresa, non replicò. Avevo forse ragione nell'averla definita una misandra senza speranza?

«D'accordo, Megan. Credo sia meglio chiuderla qui. Io dormirò qui», indicai il lato sinistro del letto a due piazze, «mentre tu te ne starai buona buona dall'altra parte. Non ti torcerò neanche un capello. Sei contenta?»

«Forse dovresti esserlo tu», mi disse lei, senza aggiungere altro. Tutt'a un tratto, si fece pensierosa e io non ebbi neanche il coraggio di chiederle per quale motivo, da un sonoro contrattacco, fosse passata dall'avere una voce quasi stridula. Era forse sul punto di piangere?

Soffocai l'istinto di perdermi nei suoi occhi azzurri. Forse l'avevo offesa pesantemente. O magari, era stato qualcos'altro a rabbuiarla. Non appena si avvicinò alla finestra e alzò gli scuri, la semi oscurità che ci attorniava poco prima lasciò il posto a uno scenario mozzafiato. E a quei penetranti zaffiri, cui si nascondeva una freddezza a dir poco agghiacciante. Avevo appena ottenuto la risposta che tanto cercavo. Quella donna non era capace di versare nemmeno una lacrima. E il perché di tanta indifferenza, almeno in apparenza, mi apparve davvero anomalo e, al tempo stesso, triste. Esatto, triste. Dentro di me, sapevo che la Rossi non era un tipo superficiale. L'avevo vista lavorare, avevo visto quanto fosse forte la sua passione. Ed ero più che certo che, malgrado le mie subdole parole, nascondesse un coacervo di sentimenti tutt'altro che negativi.

«Be', perlomeno ci hanno assegnato una bellissima camera... non trovi anche tu?», domandai, cercando di ammortizzare la pesante atmosfera che ci attorniava. Mi guardai intorno, compiaciuto. Le pareti della stanza non erano di un bianco asettico, ma di un bellissimo color crema imbastito da qualche leggero motivo floreale. Sopra la testiera del letto, rigorosamente in stile classico, vi era un quadro raffigurante il Ponte Vecchio, mentre, nella zona sottostante, una distesa d'acqua non troppo limpida rappresentava il fiume Arno. Accanto ai comodini adornati da un vasetto di papaveri, invece, c'erano due piccole cassettiere con annessi asciugamani. In ogni angolo traspariva accoglienza, familiarità.

Rivolsi di nuovo lo sguardo verso la finestra. La cupola del buon vecchio Michelangelo si stagliava, fiera, verso il cielo limpido, assieme a mille altre casupole il cui colore rosso mattone, assieme al verde acqua, spiccava tra gli altri. L'allegro centro cittadino pullulava di persone in bicicletta, in macchina, di turisti e mille altri individui di ogni fattezza – tra l'altro, non mancavano i musicisti di strada.

Sulle prime, quasi non mi accorsi che Megan si era voltata verso di me, rimanendo a bocca aperta.

Abbozzai un sorriso. «L'italiano lo conosco perfettamente, cosa credevi? Che fossi uno sprovveduto che conosce soltanto la sua lingua madre?»

La Rossi sbatté più volte le palpebre. «Chi te l'ha insegnato? Lo parli da Dio», si lasciò sfuggire, senza smettere di guardarmi. Era davvero esterrefatta.

Alzai le spalle. «È una lunga storia», mi limitai a dire, cercando di nascondere quanto provavo. D'improvviso, una strana sensazione aveva preso possesso di me. E io, quella soffocante sensazione, la conoscevo sin troppo bene. «Magari, un bel giorno, se vorrai... te la racconterò.»

Megan annuì leggermente. Sembrava veramente incuriosita. E io ero soltanto un emerito coglione. Sapevo benissimo che non le avrei mai raccontato niente. Non avrei potuto farlo nemmeno volendo.

«Dunque, Malcom... quale sarebbe il prossimo passo da compiere?»

«Dobbiamo recarci a una cena di gala, questa sera. Il nostro bersaglio sarà lì, e noi dovremmo essere pronti a colpire senza dare troppo nell'occhio. Ma converrai con me che gli abiti che indossi non sono assolutamente all'altezza di un evento come questo, per quanto... per quanto ti calzino a pennello», sussurrai, il consueto sorrisetto malizioso increspò le mie labbra.

«Questo è un problema mio, se non ti dispiace», ribatté Megan, a braccia incrociate.

Alzai le mani in segno di resa. «Come non detto. A ogni modo... la stanza è tua. Tu va' pure a farti una doccia, io scendo nella hall. Torno tra una mezz'ora, d'accordo?»

Lei annuì, fingendo di pensarci per mezzo minuto. «D'accordo, si può fare.»

Sospirai. «Okay, allora... buona doccia, cara Megan», esalai, strappandole un sorriso canzonatorio.

I miei pensieri impuri erano già molto chiari ai miei occhi. Ed ero più che sicuro che lo fossero anche ai suoi.

 

*



Credo risulti difficile a tutti distogliere la mente da un pensiero fisso. E il mio pensiero fisso, almeno in quel particolare momento della giornata, non era altro che lei. Immaginarla nuda, chiusa in bagno, magari canticchiando una canzone... mi uccise il cuore e accese i miei sensi. Avvampai, quindi scrutai il mio riflesso sullo specchio in legno di quercia, sistemato accanto a un divano non troppo moderno e a una cassapanca con su un abat-jour e un profumo aromatico al limone. Caspita, avevo una faccia da pesce lesso. Cercai di calmarmi, ma non mi riuscì. Guardavo l'orologio a ogni passo che facevo e, del tutto inconsciamente – o quasi –, ripetevo nella mente la sequenza delle varie scenette che la mia mente mi stava prospettando. Fase uno: togliersi il vestito, quindi le mutandine in pizzo. Fase 2: sciogliersi il nodo tra i capelli. Fase tre: entrare nella doccia, bearsi del perenne scrosciare dell'acqua che... Ah, quanto avrei voluto essere quell'acqua! Accarezzarle ogni centimetro di pelle, perdermi nel suo corpo nudo tra i gemiti di lei, i miei profondi sospiri, le mie forti spinte... Dio, quanto la desideravo. Mi passai una mano in fronte. Quella donna era intoccabile, lo avevo promesso a me stesso. Ma come potevo promettermi un qualcosa cui non credevo minimamente?

Ancora una volta, guardai l'orologio. Mezz'ora era appena passata. Come un fulmine, salii le scale e ritornai all'ovile. Bussai piano, un paio di volte. Nessuna risposta. «Megan?», bisbigliai. Estrassi la tessera della stanza 201, quindi entrai quatto quatto, feci quattro passi, e... pregai in sordina di non svenire a quella visione. Cazzo, quanto era bella. Anzi, bellissima. Magnifica. Aveva superato persino i miei sogni. Lo specchio rifletteva quel corpo sinuoso e il profilo del suo seno. Per non parlare del suo fondoschiena da urlo. Megan aveva lasciato la porta semiaperta e io non riuscii assolutamente a distogliere lo sguardo da quello spettacolo cui stavo assistendo... gratuitamente. 

Il sordo rumore di un aggeggio mi riporto alla realtà, così indietreggiai, urtando contro il mobiletto in mogano situato di fianco al letto.

Porca puttana!

«Malcom? Sei già qui?», proruppe quella voce femminile.

A malapena riuscii a blaterare qualcosa. «Ehm... S-sì, sono... sono appena rientrato. Tu hai... hai finito?»

Con uno scatto nervoso, mi allentai la cravatta. Tutt'a un tratto, sentii un calore familiare propagarsi per tutto il corpo. Non avrei mai dimenticato quanto avevo visto, malgrado non avessi visto proprio tutto.

Megan uscì dal bagno, ricoperta dal solo asciugamano. No, il mio cuore non avrebbe retto il colpo. Presi un grande respiro, ma giurai che la mia faccia fosse rossa come un peperone.

«Cosa c'è, t'imbarazza vedermi così?»

Questa volta, fui io a rimanere a bocca aperta. Cosa caspita le era preso? Fino a poche ore prima faceva tutta la sostenuta, fino a qualche giorno prima faceva tutta la pudica, e ora... si mostrava in tutto il suo splendore con indosso quel telo di cotone bianco che le fasciava perfettamente le forme. Aveva forse preso una pozione magica? Non riuscivo proprio a riconoscerla. Quel sorriso, poi... per quale cazzo di motivo mi stava guardando con quel sorriso impertinente? Voleva veramente farmi crepare. Non c'era altra spiegazione.

«Certo che no, è che... insomma, non me l'aspettavo. Puoi capirmi... no?»

L'altra ridacchiò. «Oh, caro Quattrocchi. Siamo amici o no? Non dev'esserci alcun imbarazzo tra di noi!», esclamò, ancheggiando quel poco che bastava a raggiungere lo specchio grande della stanza. E a farmi crepare – lo so, questo l'ho già detto.

«Certo che sì, cara Puffetta», sibilai, a fatica. Il mio cuore batteva all'impazzata. E il mio amichetto che sostava ai piani bassi pulsava sempre di più. Sarei morto di lì a poco, ne ero più che convinto.

«Avanti, adesso tocca a te...» mi disse, con fare suadente.

Quelle parole risuonarono come un mantra nella mia mente... Adesso tocca a te... Dovevo entrare in azione. Dovevo baciarla. Dovevo farla mia. Dovevo...

«Allora, ti muovi o no? La doccia è libera, puoi andare!»

Mi riscossi per l'ennesima volta. Ero rimasto paralizzato. E quella frase suonò come uno schiaffo in pieno volto. Stava parlando della doccia, idiota! scattò la mia coscienza. Già, mi sentivo veramente un idiota. E Megan stava sghignazzando come una pazza.

E io... stavo davvero perdendo la bussola.

 

*

 

Giunta la sera, scortai Megan sottobraccio (stranamente aveva acconsentito appena usciti dalla stanza) e mi ritrovai a sorridere come uno stupido, accanto a lei. Dopo una bella doccia (fredda) rinvigorente, mi ero vestito di tutto punto all'interno del nostro piccolo bagno. Il pregevole abito Dior che indossavo mi fasciava alla perfezione il corpo magro e slanciato, sembravo proprio un damerino. Cosa dire, invece, di Megan? Lei era super bella. Vestito azzurro, lungo, con spacco a cuore. Due tacchi vertiginosi a completare il tutto, assieme a un raffinato collier di perle. L'avrei ammirata per ore. Semplicemente per ore. Non mancando di spogliarla di ogni cosa dopo una contemplazione di tutto rispetto, s'intende.

«Allora? Come ti senti? Sei nervosa?» le chiesi, mentre scendevamo le scale. Megan guardava costantemente il pavimento, che avesse paura di cadere era più che evidente.

«Ti sembro nervosa?»

«Un po' sì, ma se è per questo lo sono anch'io. Comunque, sta' tranquilla. Ci sono qua io. Non ti lascio», le sussurrai. Spalancai gli occhi, sbigottito dalle mie stesse parole. Cosa le avevo appena detto?

Megan mi scrutò, sospettosa. «Ti consiglio di stare attento, oppure...» 

Non terminò la frase.

«Oppure?» la incalzai.

«Oppure saremo in due a fare un capitombolo!»

Scoppiamo in una sonora risata. Una risata di cuore. Di vero cuore.

«Sei... sei davvero bella quando smetti di fare la donna acida. Dovresti sorridere più spesso, sai?»

«Attento a quello che dici, o potrei farti cadere veramente dalle scale!», rispose Megan, fintamente risentita. «A parte gli scherzi... mio padre mi diceva sempre la stessa cosa quando ero bambina, sai?»

Mi fermai di colpo. «Quando eri bambina?»

«Sono stata sempre piuttosto seria, sì.

«Ma dai, veramente? Non l'avrei mai detto!»

Ridemmo ancora.

«La vuoi smettere di prendermi in giro?! E comunque, anche mio padre è venuto a mancare molti anni fa.» Accennò un sorriso triste. «E... risentire questa tua frase me l'ha ricordato.»

«Dio, scusami... non volevo rovinarti la serata», le dissi, contrito.

Megan scosse la testa. «Non me l'hai rovinata, anzi.» Con aria timida, mi strinse la mano. E in quel momento non ci capii più niente. Dietro quella stretta delicata quanto intensa, percepii un qualcosa di veramente sincero; compresi che in lei si celava una dolcezza fuori dal comune. «Le hai appena dato un senso», continuò.

Sorrisi. In quel momento, avrei tanto voluto baciarla. Ma non sarebbe stato giusto, dopo quanto aveva detto. Dovevo comportarmi da gentiluomo e trattenere quell'istinto, malgrado quel contatto avesse accesso il desiderio di stringerla a me. Di consolarla, di dirle che suo padre sarebbe sempre stato accanto a lei. Tenevo moltissimo alla mia famiglia. E sapevo molto bene come ci si potesse sentire quando si perdeva una parte importante del proprio essere. «Anche io ho perduto mio padre, sai?» le dissi, come se questo potesse farla sentire meno sola. «Venticinque anni fa. Non ho mai accettato la sua morte. Non c'è giorno in cui io non lo pensi. Gli volevo un bene dell'anima.»

Megan mi strinse la mano ancora più forte. «Posso immaginarlo.»

Sorrisi di nuovo. «Lo vedi, allora?»

Lei mi rifilò uno sguardo confuso. «Lo vedi... cosa?»

«Che abbiamo qualcosa in comune. Oltre alla bistrattata professione giornalistica, s'intende.»

Megan alzò gli occhi al cielo, quindi sorrise. «Avanti, Quattrocchi, andiamo! O ci lasceranno senza cena!»

Ridacchiai di gusto. Quella donna era davvero piena di sorprese. «Agli ordini, Puffetta! Ma ti avverto... la costata è tutta mia!»

   
 
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