Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: edoardo811    07/07/2021    4 recensioni
Questa è una raccolta di drabble, oneshot, missing moments e capitoli extra della mia storia, La Spada del Paradiso.
Esploreremo le menti di più personaggi, scopriremo segreti sulla vita al Campo Mezzosangue e soprattutto scopriremo come se la cavano i nostri eroi dopo gli avvenimenti de "La Spada del Paradiso."
Vi consiglio dunque di leggere quella storia per comprendere questa raccolta e soprattutto per evitarvi spoiler nel caso decidiate di farlo in futuro. Potete trovarla nella mia pagina autore.
Spero che la raccolta vi piaccia, buona lettura!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nota: Io lo sapevo che sarebbe successo. Questa raccolta ormai si sta trasformando in una mini storia, con i capitoli collegati tra loro. Chiedo venia davvero, anche se non credo sia un vero problema in fin dei conti. Comunque sia, questo capitolo si svolge dopo il finale della storia, un paio di giorni dopo lo scorso capitolo della raccolta, in realtà. Edward ha raccontato tutto del sogno su Amaterasu e ormai tutti nel campo sanno che lui è l'Araldo e che ha di nuovo la spada. Buona lettura!

p.s. Ho diviso questo capitolo in 2 perché stava diventando troppo lungo. Eh, sapete com'è, il lupo perde il pelo ma non il vizio. 



 EDWARD 

4

Parti in movimento (pt1)



Edward non era mai stato al Bunker Nove. L'aveva sentito nominare diverse volte dagli altri semidei, ma non l’aveva mai visto di persona. Aveva creduto che fosse, beh, un bunker, magari con un “9” scritto sopra la porta, o cose del genere.

Si era sbagliato completamente. 

Il Bunker Nove era un magazzino gigantesco, da far sembrare tutte le capanne del campo degli sgabuzzini. Quando ci mise piede dentro per la prima volta, rimase sbalordito da quello che vide.

C’erano gigantesche placche di armatura appese al soffitto con dei ganci, scomparti pieni zeppi di armi, mensole straripanti di attrezzi ed una miriade di altri oggetti non identificabili, fatti da circuiti, cavi strappati e bulloni, a perdita d’occhio. 

Quel posto era davvero immenso, si dispiacque di non esserci mai passato prima. Chissà quanta roba potevano trovarci, appartenente a guerre ed eroi di altri tempi. 

Proseguì verso la sola persona che trovò al suo interno, che non sembrò accorgersi di lui finché non fu abbastanza vicino. Kevin smise di tirare martellate sopra una lastra di bronzo celeste e drizzò lo sguardo verso di lui, togliendosi le cuffie dalle orecchie. Malgrado la distanza, Edward poteva comunque sentire la musica rock-alternativa sparata a tutto volume. 

«Che ci fai qui?» domandò senza troppi giri di parole, con tono parecchio infastidito. 

Edward gli mostrò i moncherini di Veloce come il Vento – che per fortuna Thomas aveva conservato nello zainetto – e gli chiese se poteva ripararglielo. 

Kevin tirò su con il naso. «Non faccio riparazioni nel bunker. Devi portarlo alla Capanna Nove, i miei fratelli se ne occuperanno nella fucina.»

«Sono già stato da loro, e mi hanno detto di venire qui.»

«MA… che cosa?!» 

Il figlio di Apollo sollevò le spalle. «Mi hanno detto che c’è un tempo di attesa di una settimana per riparare il mio arco, e che se volevo accelerare le cose dovevo portarlo direttamente da te.»

Kevin sospirò, afferrandosi la radice del naso senza curarsi di avere le mani inzaccherate di fuliggine. Gesticolò verso un tavolino da lavoro. «Lascialo lì sopra e torna tra un’ora.»

«Ehm… ok.»

«Vuoi che te lo ripristini o vuoi qualche modifica?» domandò ancora Kevin, adesso con una pittura di guerra sopra il naso, inarcando un sopracciglio. 

«In… in che senso?»

I due ragazzi si guardarono per un istante. «Va bene ho capito, faccio io» concluse il figlio di Efesto, liquidando la faccenda con un altro cenno della mano. «Torna tra un’ora» ripeté, rimettendosi le cuffie e riprendendo a martellare senza nemmeno dargli il tempo di rispondere. 

Incerto, Edward obbedì. Quel tizio era strano.

Così, un’ora dopo, ritornò al bunker. Ad attenderlo, trovò Kevin alle prese con quello che avrebbero potuto definire “Veloce come il Vento sotto steroidi.

Non solo l’aveva riparato, gli aveva dato un volto completamente nuovo. Aveva aggiunto due carrucole su entrambi i lati per caricare le frecce più rapidamente e con più forza, giunture metalliche per poterlo ripiegare quando non gli serviva, una sicura, un puntatore laser e perfino un mirino telescopico. Edward rimase atterrito, non solo da tutte quelle migliorie, ma anche dalla rapidità con cui le aveva aggiunte. 

Quel tizio era strano, ma era sveglio, poteva dargliene atto. 

Quando glielo porse, lo trovò davvero leggero nonostante tutti i componenti extra. Tese la corda senza alcuna difficoltà grazie alle carrucole e testò anche il mirino. Non gli serviva davvero, dopotutto aveva una mira infallibile, ma poteva funzionare molto bene come binocolo, o per i bersagli molto lontani. 

«Vuoi anche qualche decalcomania?» propose Kevin, afferrando un pacchetto di sigarette da un cassetto del tavolino da lavoro. Cominciò a fumarsene una, sotto lo sguardo sbigottito di Edward. «Ti ho aggiustato l’arco, in cambio tu dirai di non aver visto niente, giusto?» gli domandò, buttando fuori una nuvoletta di fumo.

Sembrava un buon compromesso. Edward abbozzò un sorrisetto. «Giusto.»

«Bravo ragazzo. Allora, cosa ci vuoi sopra? Fiamme, teschi, cuoricini, il nome della tua ragazza o che so io?»

L’idea di chiamare l’arco Natalie non lo allettò molto. Dubitava che lei avrebbe apprezzato. «Puoi ripristinare la scritta originale?»

«Scusa amico, ma non conosco il cinese.»

«Giapponese.»

«Vabbé, quella roba lì.»

Edward spalancò gli occhi. «Come scusa?»

Kevin sembrò accorgersi di aver detto qualcosa che non avrebbe dovuto, perché fece svanire l’aria arrogante dal volto. Scostò la sigaretta dalle labbra e si schiarì la voce. «Cioè… sì, insomma, non conosco il giapponese. Non saprei come scrivere la frase originale.»

«Hai carta e penna?»

Il figlio di Efesto estrasse l’occorrente dal marsupio che aveva alla vita e glielo porse. Edward scrisse “Kaze no yō ni hayai” in pittogrammi giapponesi. «Ecco qua.»

Kevin afferrò il foglietto, corrucciando la fronte. «Ehm… ok.»

Mentre carteggiava il legno per cancellare la verniciatura originale, Edward fece vagare lo sguardo lungo il Bunker Nove. «Tutta questa roba sarebbero i progetti di Valdez?» 

«Nah. Ti pare che quelli li lasceremmo così, buttati a casaccio su delle mensole? Ecco.»

Kevin si avvicinò ad una nicchia nella parete, poi tirò fuori uno scatolone muggendo per lo sforzo. Lo sbatté con forza sul ripiano, causando un terrificante rumore di metallo, vetro e chissà che altro che lo fece sobbalzare. 

Sopra, c’era una scritta in pennarello: 

 

Addobbi natalizi 

PROGETTI DI VALDEZ

 

 

«Eccoli qua» annunciò, togliendo il coperchio e mostrandogli quel delirio di roba che si trovava lì dentro. «Tutti in perfetto ordine.»

Edward arrischiò un’occhiata dentro quel coso e constatò che i loro concetti di “perfetto ordine” erano molto diversi. Lui non era certo un ragazzo ordinato, ma Kevin lo avrebbe fatto sembrare uno di quei figli di Atena che davano i numeri se i ciuffi d’erba fuori da casa loro non erano tutti quanti perfettamente simmetrici. Cominciò a capire perché Simon non lo vedesse molto di buon occhio. 

Anche se in realtà Simon non vedeva nessuno di buon occhio. 

Il capocasa di Efesto infilò la mano nello scatolone, cominciando a tirare fuori aggeggi assurdi. Una specie di sfera di bronzo rotta, un tavolino con le gambe mancanti, la gigantesca testa di un drago di metallo e poi una specie di specchio di bronzo celeste, che ad Edward ricordò un po’ quello che aveva visto nel santuario di Amaterasu. 

«Tutta questa roba è rotta» borbottò Kevin, con voce smorta. «Sto cercando di ripararla, ma senza i progetti originali è come brancolare nel buio. Ho chiesto aiuto a mio padre, ma non mi ha risposto. Credo che mi stia mettendo alla prova. Vuole che ci arrivi da solo.»

«Questo… Valdez, che fine ha fatto?» domandò Edward a quel punto. 

Kevin drizzò la testa. Si tolse di nuovo il mozzicone di sigaretta tra i denti e si indicò il volto. «Ho l’aria di uno che lo sa, secondo te?»

Edward si morse un labbro, prima di dirgli che aria secondo lui avesse davvero. Sicuramente, quel muso corrucciato e sporco di fuliggine non dava l'idea di un sapientone. 

«Vuoi sapere come ho fatto a diventare il semidio più anziano del campo? Non facendo domande, ecco come. E anche standomene alla larga dai mostri» concluse Kevin, prima di fare un altro tiro di sigaretta, così lungo da consumarne mezza. 

«Ehi, e questo piccoletto come c’è finito qui?» domandò all’improvviso, illuminandosi. Tirò fuori dallo scatolone un fucile arrugginito della seconda guerra mondiale, con il caricatore rotondo e il manico di legno usurati. «Andato anche questo» commentò, rigirandoselo tra le mani e studiandolo con gli occhi che brillavano. Sogghignò e lo posò sul ripiano da lavoro accanto a Veloce come il Vento. «Non preoccuparti, lo zio Kev ti rimetterà in sesto.»

Edward pensò alla sfida di Cattura la bandiera che si sarebbe tenuta alla fine dell’estate e deglutì. Si augurò che quello psicopatico non intendesse usarlo per quell’occasione. Si riscosse quando lo vide prendere un pennellino tinto di pittura nera. «Forza, dimmi come scrivere bene questa stupida frase e vediamo di finirla.»

«Dì ancora che è stupida e ti faccio ingoiare la scatola di progetti di Valdez» gracchiò Edward affiancandolo.

«Su, su, non essere così scontroso. Qui siamo tra amici.»

Il figlio di Apollo storse le labbra contrariato. Lo aiutò con quell’ultimo particolare, guidandolo nella scrittura dei pittogrammi. Per essere un fabbro fuori di testa, la calligrafia di Kevin era ordinata e pulita.

Infine, Veloce come il Vento 2.0 vide ufficialmente la luce. Edward lo prese con un sorriso soddisfatto, prendendo di nuovo la mira e giocherellando con la corda. Quell’affare avrebbe sparato frecce al quadruplo della velocità, ne era sicuro. 

«A proposito, mi spieghi sta cosa del giapponese?» domandò Kevin, mentre si accendeva un’altra sigaretta. Edward si domandò perché si tenesse alla larga dai mostri se tanto si arrecava da solo lo stesso male che quelli avrebbero potuto fargli. «Come mai sai parlarlo?» proseguì Kevin, buttando fuori un’altra nuvoletta di fumo. 

«È per via di Ama no Murakumo. La spada» chiarì, notando il suo sguardo confuso. «Da quando ce l’ho so parlare perfettamente il giapponese. So leggerlo, scriverlo, capirlo, e so anche riconoscere oggetti di manifattura orientale con un solo sguardo. Armi, vestiti, strumenti, tutto.»

«E la spada ce l’hai sempre dietro?»

«Beh… non so esattamente come funzioni. So solo di poterla fare apparire quando mi serve.»

«Posso vederla?»

Edward sollevò le spalle. Immaginò di poterlo fare come segno di gratitudine per avergli aggiustato l’arco. Alzò una mano e si concentrò, facendo apparire Ama no Murakumo nel suo palmo. La lama bianca e ricurva mandò alcuni soffi d’aria lungo il Bunker Nove, facendo sibilare la punta della sigaretta di Kevin – che tra l’altro era già quasi finita. 

«Fantastico» osservò Kevin, avvicinandosi e guardandola ammirato. Tese una mano. «Posso?»

Il figlio di Apollo lo squadrò perplesso. Nessuno gli aveva mai chiesto di poterla provare prima di quel momento. Non era nemmeno sicuro che si potesse fare. Di solito la spada svaniva ogni volta che la lasciava andare. «Meglio che la tenga io» decise. «Non prenderla sul personale, ma non credo che Amaterasu apprezzerebbe se lasciassi provare la spada agli altri.»

«Voglio solo studiarla» si giustificò Kevin. «Giuro sullo Stige che non farò cazzate.»

Quello sì che era uno strano giuramento. La terra tremolò leggermente, segno che alla dea Stige non importavano le formalità: un giuramento era un giuramento, e quello era stato accettato. Edward sospirò. «Va bene, ma sta attento.»

Incerto, posò la katana sulla mano callosa del fabbro, che la strinse sbalordito. Non appena chiuse le dita attorno al manico, tuttavia, Ama no Murakumo svanì all’istante, ritornando nella mano libera di Edward.  

«Ma… che è successo?» domandò il figlio di Efesto, sorpreso e anche un po’ offeso. 

Edward osservò assorto la katana. «Forse… forse solo il proprietario può tenerla.» 

«Ah, quindi non è tipo il martello di Thor» commentò Kevin, grattandosi il mento. 

«Ehm…» Edward sollevò un sopracciglio. 

«Lascia perdere, è roba vintage. Non capiresti.»

«Okay…»

Kevin cominciò a mettere via gli attrezzi che aveva usato per aggiustare l’arco, sbattendoli in una cassetta con poca delicatezza. Sputò via il secondo mozzicone ormai finito. «Allora, siamo a posto così? Ti levi finalmente di torno?»

«Sì e sì» replicò Edward infastidito. 

«A mai più» lo salutò il figlio di Efesto senza nemmeno guardarlo. 

Edward scosse la testa, poi se ne andò dal Bunker Nove con il suo arco nuovo di zecca, pronto a centrare qualche povero bersaglio indifeso.

 

***

 

Trattenne il respiro e lasciò andare: la freccia centrò in pieno centro il bersaglio, strappandogli un sorriso soddisfatto. 

Edward posò Veloce come il Vento 2.0 sul bancone, asciugandosi la fronte imperlata di sudore. Il sole picchiava su di lui con incredibile insistenza, quasi come se perfino lui lo riconoscesse come il rappresentante di ben due divinità solari, ma non gli dava fastidio, tutt’altro. Lo faceva sentire davvero bene. 

Quel calore lo riportò con la mente a quel sorriso, quella luce, quell'uomo che aveva visto prima di uscire da quel buco infernale conosciuto come Yomi. Quella sensazione di… benessere che lo aveva travolto. 

Quei ricordi, quei pensieri nostalgici di qualcosa che sapeva di non aver mai avuto. Lui ancora bambino, con sua madre e suo padre seduti sullo stesso divano, stretti, in un salotto con il camino che crepitava. La televisione accesa, il profumo di waffles appena fatti, le risa di suo padre e le carezze gentili di sua madre.

Abbassò lo sguardo, pizzicandosi un labbro. Per un istante, aveva pensato a come sarebbe stato avere una vita normale. Niente mostri, niente dei, semidei, niente di niente. 

Una vita normale… chissà cosa si prova.

Si domandò come avrebbe reagito se, un giorno, si fosse svegliato scoprendo che tutto quello in realtà era stato solo un sogno. Sarebbe stato sollevato, o triste al pensiero di non aver mai davvero conosciuto Rosa, Tommy, Natalie, Stephanie e tutti gli altri?

«Edward?»

Una voce aggraziata lo chiamò timidamente, scoppiando la sua bolla di pensieri. Si voltò, trovandosi di fronte il viso sorridente di Jane, che lo salutò con un rapido cenno della mano. 

«Ehi Jane» la salutò lui, con un sorriso. «Come stai?»

«Bene… grazie. Tu?»

«Non mi lamento.» Edward incrociò le braccia, incrociando il suo sguardo. «Hai bisogno di parlarmi?»

Jane distolse gli occhi dai suoi, sembrando un po’ imbarazzata. «Da cosa l’hai capito?»

«Dal fatto che vi siete scomodate per venire fin qui, vostra maestà.» Edward fece un inchino, portandosi la mano sul petto, beccandosi una spintarella da Jane. 

«Ha-ha-ha» mugugnò lei. «Non sapevo che Apollo fosse anche il dio dei cabarettisti.»

«Ora lo sai.»

La figlia di Afrodite sollevò gli occhi e sembrò rimpiangere l’essere venuta fin lì. Doveva esserle costato un sacco di tempo prezioso per sistemarsi quei capelli sempre perfetti e probabilmente averle anche consumato le suole delle sue bellissime scarpe all’ultimo grido. 

«Volevo solo dirti che… ho parlato con Buck» ammise lei. 

Non appena quell’animale da soma venne nominato, il sorrisetto svanì dal volto di Edward. «Che è successo?»

«Cos’è quel tono preoccupato?» domandò Jane, tornando ad osservarlo con uno strano sorriso. 

Edward sussultò e questa volta fu lui a dover distogliere lo sguardo, mentre si grattava la cicatrice sulla guancia. «Ahm…»

Jane si portò una mano sul fianco, squadrandolo altezzosa. «Com’è gentile, o mia servitù, a preoccuparsi per sua maestà la regina.»

Ora toccò ad Edward alzare gli occhi. Se non altro, sapere che Jane non aveva perso la sua verve gli fece capire che non era successo niente di grave. La sentì ridacchiare e la guardò di nuovo, mentre si lisciava l’abito su cui doveva aver notato qualche imperfezione che non esisteva. «Non è successo niente, comunque, non preoccuparti. Lui mi ha… mi ha chiesto scusa.»

Edward spalancò gli occhi atterrito, temendo di sapere dove la questione sarebbe andata a parare. Aprì la bocca per dire che era una pessima, pessima idea, ma lei lo frenò alzando l’indice di una mano. «Ma l’ho lasciato lo stesso» concluse, per poi lanciargli un’occhiata di sufficienza. «Mi ha messo le mani addosso, Edward, non esiste scusa che tenga. Se non altro, ha capito di aver sbagliato.»

Il figlio di Apollo grugnì, poco convinto. Non credeva proprio che Buck avesse davvero capito qualcosa, ma poco importava. «E lui come l’ha presa?»

Jane si strinse nelle spalle. «Non… non saprei. Spero bene.»

«Spero?»

La ragazza abbassò di nuovo lo sguardo, senza rispondere. Edward si asciugò di nuovo la fronte con un sospiro stanco. Se non altro Jane non era più incastrata con uno psicopatico. Avrebbe fatto meglio a tenerlo d’occhio, comunque. Non glielo disse ad alta voce, ma aveva il timore che Buck potesse fare qualcos’altro di stupido.  

«Hai… hai fatto la cosa giusta, Jane» disse infine, tornando a sorriderle. 

Jane incrociò di nuovo il suo sguardo, ricambiando il sorriso. «Merito tuo.»

«Che intendi dire?» 

«Diciamo che… mi hai aiutata ad aprire gli occhi su un po’ di cose» rispose lei, vaga, per poi tornare a guardarlo di nuovo con quella punta di malizia che l’aveva sempre contraddistinta. «Come vanno le cose tra te e Natalie?»

Edward sussultò, sorpreso dal cambio di argomento. Sentire Jane pronunciare il nome di Nat gli ricordò che lei detestava ancora profondamente la figlia di Afrodite per come si era comportata con la capanna Undici. Se li avesse visti parlare insieme, con tutta probabilità non l'avrebbe affatto presa bene. «Vanno… vanno bene… perché?»

«Curiosità» vagheggiò di nuovo lei, per poi sorridergli più sincera. «Volevo solo dirti questo. Ti lascio ai tuoi allenamenti.»

«O-Ok… grazie per avermelo detto.»

Jane scosse la testa, per poi osservarlo di nuovo con uno strano sguardo. «No, Edward. Grazie a te. Ah, e magari passa alla capanna Dieci, quando hai tempo. Dobbiamo proprio rifarti il look. Sei impresentabile.»

Si allontanò salutandolo con un cenno della mano senza dire altro. Edward rimase di sasso, ad osservare i suoi capelli platino mentre ondeggiavano dietro di lei come soffici piume. Quando fu abbastanza lontana, si riprese da quella specie di trance. Gli era successa una cosa simile già quando era andato a trovarla la sera della festa. Doveva essere la sua aura di figlia di Afrodite, lo trasformava in una specie di babbuino non senziente. Poteva ringraziare gli dei che Natalie non avesse assistito a quella scena o lo avrebbe ucciso.

«Davvero non stanno più insieme?»

Edward sobbalzò per la sorpresa. Osservò atterrito la testa di suo fratello che sporgeva dal cubicolo accanto al suo. «Ma da quanto tempo è che origli?!»

«Da quando è arrivata Jane» ammise Jonathan, per poi uscire allo scoperto. Si voltò verso la direzione in cui la figlia di Afrodite era svanita. «Quindi è single adesso?»

«Sì, perché?» domandò Edward, in maniera più automatica che altro. Poteva immaginare in realtà perché Jonathan stesse facendo quella domanda. 

«Pensi che potrei avere una chance con lei?» chiese infatti lui. 

«Ma fai sul serio?» sbottò Edward, con voce molto più infastidita di quanto avrebbe pensato di usare.

L’espressione di Jonathan si fece confusa. «Perché?» 

«Come “perché”? Si è appena lasciata con un idiota! Pensi davvero che voglia subito iniziare un’altra relazione? Ma cosa credi, che sia una bambola? Ha sentimenti anche lei, lo sai?»

Jonathan si ammansì come un bimbo, guardandolo quasi angosciato. «I-Io…»

«Lasciala in pace. Chiaro?» lo frenò Edward, puntandogli contro l’indice e facendolo trasalire. «Ci sono cento miliardi di ragazze nel campo, provaci con qualcun’altra.»

«O-Ok, fratello. Calmati adesso.»

Edward abbassò la mano, con una smorfia irritata. Osservando lo sguardo intimorito di Jonathan, capì di aver esagerato un po’. Ma il modo in cui aveva chiesto se Jane fosse single l’aveva davvero alterato, come se non avesse aspettato altro che la prima occasione per farsi avanti senza nemmeno considerare come lei si sentisse in quel momento.

Gli venne da chiedersi quanti altri ragazzi avessero pensato la stessa cosa, come se Jane fosse un banco di alimentari a cui presentarsi con il numerino. Preferì non pensarci.

Si accorse che Jonathan era ancora lì, ora con la testa bassa e l’espressione mortificata. Edward roteò gli occhi. Erano lontani i tempi in cui era proprio quel biondino lampadato a rimproverarlo. «Ascolta… adesso non è il momento. Dà a Jane un po’ di tempo per superare quello che è successo. Quando starà meglio, che ne so, falle una serenata o cose del genere. Sono sicuro che ne andrà pazza.»

«Davvero?» domandò il fratello, illuminandosi.

«Sì, sì…» mugugnò Edward con disappunto, mentre si voltava. «Ora sparisci, o ti uso come bersaglio.»

Jonathan sussultò e si allontanò di corsa, ben conscio del fatto che Edward avrebbe potuto fargli davvero una cosa del genere.

Il capocasa di Apollo afferrò di nuovo l’arco e sospirò profondamente. Certe volte gli sembrava di avere a che fare con dei bambini.

 

***

 

Stava per andarsene, quando avvertì alcuni movimenti alle sue spalle. Prima che potesse voltarsi, due mani lo circondarono di fronte alla pancia e due labbra si posarono sul suo collo, facendolo rabbrividire. Il viso di Nat apparve nella periferia del suo campo visivo. «Come sta il mio uccisore di dei?» gli domandò, con un sorrisetto, prima di baciarlo sulla guancia. 

Edward fece uno sbuffo appagato, mentre lei scendeva lungo la guancia, lasciandogli una scia di baci delicati, sfiorandolo appena con la bocca. «Non… non ho ucciso nessun dio…» riuscì a borbottare. 

«Sterminatore di morte» suggerì allora lei, facendolo ridacchiare. 

«Sto bene Nat. Tu invece? Come vanno le faccende?»

Quel giorno, era toccato alla Capanna di Ermes svolgere i lavoretti del campo che nessuno voleva mai svolgere. Pulizia delle stalle, del magazzino, raccogliere le fragole e cose del genere. Ogni volta che toccava alla Sette, Edward tentava di sbolognare tutto il lavoro ai fratelli, ma poi arrivava Rosa ad obbligarlo a lavorare come gli altri. 

Concederle il posto di capocasa assieme a lui non era stata una buona idea, col senno di poi.

Era simile a Nat, per certi punti di vista. Entrambe sapevano come farsi rispettare. Da lui soprattutto. 

«Abbiamo finito adesso. Anche se…» fece scivolare la mano sotto la sua maglietta, accarezzandogli l’addome. Trasalì quando sentì il suo tocco gelido nonostante il caldo. «… ho detto agli altri che il magazzino non è ancora pronto. Mi serve almeno… ancora un’oretta, per finire.»

Si piazzò di fronte a lui, facendo quel sorrisetto che già le aveva visto fare quando gli aveva suggerito di sgattaiolare via durante le lezioni. O gli allenamenti. O la cena. O…

«Vieni… ad aiutarmi a pulire il magazzino?» gli domandò, avvicinandosi a lui, scrutandolo con quegli occhi scuri carichi di intensità.

«Molto volentieri» rispose Edward, tirandola a sé, facendo aderire i loro corpi. Sentì il sangue scendergli dal cervello per confluire in tutt’altra parte, mentre lei si avventava sulle sue labbra, famelica. Gli carezzò il palato con la lingua, prima di dargli un morso al labbro inferiore che lo fece sussultare.

«Che cosa stiamo aspettando?» sussurrò al suo orecchio quando finì di assalirlo. Come ogni altra volta, una lunghissima scarica di brividi lo percorse in tutto il corpo. Natalie lo afferrò per la mano e cominciò a trascinarlo via dalla postazione senza nemmeno dargli tempo di rispondere.

«A-Aspetta, ho lasciato il mio arco!»

«Nessuno lo toccherà, non preoccuparti. Ora muoviti.»

«... s-sissignora!»

Natalie sorrise soddisfatta. I due ragazzi svanirono nei meandri del campo.

 

***

 

«Grazie per avermi aiutata» mormorò Natalie, mentre uscivano dal magazzino. 

Edward si passò una mano sopra il segno del morso sul suo collo ancora ben visibile. Si augurò che nessuno facesse troppe domande. «Prego» rispose, incrociando lo sguardo della sua ragazza. «Anche se avrei preferito restare ancora un po’…»

«Anch’io.» Natalie si avvicino di nuovo a lui. Aveva i capelli un po’ scompigliati, i vestiti stropicciati e un sorriso soddisfatto sul volto. «La prossima volta mi inventerò qualcosa di più… duraturo.» 

Il suo sorrisetto da figlia di Ermes cambiò all’improvviso, mentre si osservavano. Si fece più apprensiva e gentile mentre azzerava le distanze tra loro, questa volta non per baciarlo, ma per abbracciarlo. Fu un abbraccio sentito, la stretta era salda, ma il tocco era delicato. Edward lo ricambiò sorpreso, mentre lei appoggiava la guancia sulla sua spalla. 

«Sono felice di averti conosciuto» sussurrò.

Un timido sorriso nacque anche sul volto di Edward. Ricambiò l’abbraccio con forza, avvolgendo quel corpo sottile che adorava con tutto sé stesso. «Anch’io.»

Le accarezzò la schiena e i capelli e la sentì ammorbidirsi. Sprofondò su di lui, sospirando compiaciuta. Rimasero stretti a lungo, in quell’abbraccio molto più dolce del solito, molto diverso dalla bramosità con cui si cercavano, ma altrettanto gradevole. Natalie sapeva farsi rispettare, in diversi contesti, ma sapeva essere altrettanto delicata.

Gli aveva parlato, qualche volta, di come fosse la parte “mortale” della sua vita. Aveva capito molte cose su di lei, per questo motivo sapeva che era sincera con lui. Era davvero grata per la sua presenza. E per lui valeva lo stesso. Grazie a lei aveva trovato il coraggio di aprirsi agli altri. E soprattutto, lei lo faceva sentire valorizzato. Era bello sapere che c’era qualcuno, a parte Rosa ed i suoi amici, che teneva a lui in quel modo. 

Quando era con lei, i suoi dubbi, le sue paure e le sue incertezze svanivano. Sentiva un calore nel petto simile a quello che aveva provato quando aveva visto suo padre nello Yomi. Una sensazione di calma, di tranquillità e sicurezza, che l’avvolgevano come una coperta calda.

Natalie si separò da lui appena, per poterlo osservare di nuovo in volto. Allontanò una mano dai suoi fianchi, per accarezzargli le cicatrici sul viso. «Ti… ti senti meglio, Edward? Pensi ancora a… a quello che ti è successo?»

Edward esitò. Sì, ci pensava ancora. Molto di meno, ma sì. Annuì timidamente, imbarazzato perfino. Ci avevano provato in tutti i modi a convincerlo che andava tutto bene, che si sarebbe ripreso e che non sarebbe sprofondato nello Yomi all’improvviso, anche Chirone l’aveva fatto, ma la verità era che non si sarebbe sentito tranquillo finché Izanami non avesse smesso di balenargli davanti. Erano passati solo un paio di giorni da quando aveva raccontato tutto ai suoi amici, ma sembrava passato molto più tempo.

«Mi dispiace Edward. Posso… fare qualcosa per farti sentire meglio?»

Un altro flebile sorriso nacque sul volto del figlio di Apollo. Posò la mano su quella di Nat, stringendola forte. «L’hai già fatto» sussurrò, cercando le sue labbra. 

Le ghermì immediatamente, carezzandole con la lingua, assaporandole con calma, concentrandosi su ogni sensazione che quel bacio gli provocò, ogni brivido di piacere e ogni respiro di Natalie sul suo viso, mentre quel calore cresceva nel suo petto a dismisura. Quando si separarono, lei lo accarezzò di nuovo. «Sono qui per te, Edward. Lo sarò sempre. Per qualsiasi cosa, cercami.»

«Lo stesso vale per te, Nat. Cercami ogni volta che vuoi.»

I due ragazzi si sorrisero di nuovo. Poi, qualcosa cambiò nell’aria. Edward sbatté le palpebre e anche Nat si fece imbarazzata all’improvviso, un’espressione che raramente faceva. Sembrò volergli dire qualcosa. E anche lui, in realtà, avrebbe voluto dire altro. Nessuno dei due ci riuscì. Rimasero in silenzio ancora per qualche istante, finché Natalie non si schiarì la voce. «Devo… devo andare, adesso. I miei fratelli si staranno chiedendo che fine ho fatto.»

Edward riuscì a sorridere di nuovo. «Credo che alcuni lo sappiano già…»

Una risatina uscì dalla gola di Natalie. «Thomas no di sicuro.»

Anche Edward ridacchiò. In effetti, doveva sbrigarsi anche lui. Aveva una sessione di allenamento con Rosa e rischiava di non arrivare in tempo. «Ci… ci vediamo più tardi, Nat» concluse, dandole un altro rapido bacio. 

«A più tardi» rispose lei, con un ultimo sorriso, prima che si separassero. 

Presero strade diverse ed Edward, mentre si allontanava, continuò a ripensare a quella strana sensazione che sentiva nel petto e a quella frase che stava per uscirgli dalla bocca. 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: edoardo811