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Autore: shilyss    13/07/2021    4 recensioni
Ecco a voi una raccolta di shot legate alla fanfiction "Tutte le tue bugie." Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, potete leggere i vari capitoli anche considerandoli come testi scollegati rispetto alla storia madre.
Dal capitolo 1: Se Loki fosse stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse visto l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era presentato ammantato di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo aveva chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto non alla mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara constatazione di come Loki, il suo brillante figlio, non fosse poi così acuto come pensava e sembrava.
Dal cap. 4: Solo che Loki era un furfante travestito da principe, un cantastorie come nemmeno nelle piazze più oscure della città se ne trovava uno uguale.
Non tutto è come appare, quando di mezzo c'è il dio dell'inganno in persona.
Capitoli 3-9: Barbare usanze;
Cap. 10 - Forse era scritto nel destino.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La tela degli inganni'
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Forse era scritto nel destino

Via del Campo, c'è una bambina

Con le labbra color rugiada

Gli occhi grigi come la strada

Nascon fiori dove cammina

(Via del Campo, Fabrizio De Andrè)

 

Parte 1

 

Sonje sapeva essere furtiva quasi quanto il suo splendido papà. Certo, non possedeva ancora la cautela e la grazia del genitore, né tanto meno il suo passo felpato, ma quando voleva riusciva già a passare inosservata. Ad aiutarla inconsapevolmente nell’impresa ci pensava Vali, su cui, nelle ultime settimane, si erano concentrate quasi tutte le attenzioni della casa. Era un bimbo adorabile, ma quando stringeva i pugnetti e iniziava a piangere disperato – o, per essere più precisi, a strillare come un’aquila venuta giù da Helheim per fracassarci i timpani, come sibilava Loki tra i denti, la casa tremava. E lei, trotterellando col suo fedele gatto di pezza tra le braccia[1], ne approfittava per riflettere su tutto quello che gli adulti non le dicevano e per scivolare, non vista, lungo i corridoi arredati con gusto dello splendido palazzo circondato dai giardini che Loki aveva scelto per vivere con Sigyn. Sonje avrebbe scoperto solamente da adulta certi dettagli circa il modo in cui i suoi genitori si erano sposati e ci sarebbero voluti ancora molti anni, affinché capisse che alcune scelte architettoniche richieste esplicitamente dal dio dell’inganno avevano il preciso scopo di ricreare il gusto sobrio e barbaro e splendido della magnifica Asgard.

 

Quel pomeriggio, la bambina scelse come meta della sua missione un luogo che generalmente non le era affatto precluso, anzi: era uno dei posti che preferiva di tutto il palazzo, dove si infilava appena poteva, ma che manteneva un suo fascino particolare, perché, pur essendole familiare, era pieno di dettagli e di oggetti che non capiva o, al contrario, che desiderava toccare: la camera da letto dei suoi genitori. C’era quel profumo, innanzi tutto. Quello di sua madre Sigyn, della sua pelle, che proveniva dalle boccette di cristallo ordinate con cura davanti alla allo specchio della toletta. E poi c’erano le coperte morbide, le pellicce candide dal pelo soffice disposte alla fine dell’elegante baldacchino. Sonje avanzò nella stanza calpestando il tappeto intrecciato a mano dagli Elfi chiari con le loro dita pazienti, mostrando a Gatto Tooh, che con i suoi occhi a bottone e il suo sorriso indecifrabile pareva registrare ogni cosa, la bellezza delle tappezzerie scelte da Sigyn, sfiorando con le sue manine di bambina gli intarsi raffinati dei mobili che abbellivano le ampie pareti. C’erano anche gli effetti personali del dio dell’inganno, ovviamente. Non i più pericolosi e gli artefatti magici, ovviamente – quelli l’Ase li teneva sottochiave, nel suo studio privato, ma alcuni mantelli pregiati, le numerose tuniche verdi ricamate con un bordo dorato, le corazze di pelle nera intrecciata, gli stivali di cuoio alto, le bandoliere all’apparenza vuote, ma dove, se avesse frugato, avrebbe senz’altro trovato qualcosa.

 

Il dio dell’inganno e la principessa sua moglie erano al piano inferiore, nel salone che usavano per ricevere gli ospiti. Sapevano Sonje in compagnia della bambinaia ed erano impegnati a ricevere certi ambasciatori elfici venuti a vedere il figlio maschio di Loki Odinson. Un frugoletto piangente che sembrava assomigliare ora alla madre ora al padre, col merito manifesto di aver tolto un po’ del fascinoso contegno all’ingannatore. Le notti in bianco avevano reso sia lui che Sigyn più stanchi e scarmigliati del solito, anche perché la coppia non si era ancora decisa ad affidare Vali a una balia. E mentre rispondevano alle cortesi domande degli illustri ed eleganti ospiti, non potevano sospettare che la loro adorabile e pestifera primogenita fosse intenta a sfoggiare, del tutto inconsapevolmente, l’indole piratesca degli Æsir. C’era qualcosa di più attraente delle giubbe di suo padre, nella camera da letto dei suoi genitori. I cofanetti in cui Sigyn teneva i propri gioielli. Qualche volta Sonje aveva avuto modo di sbirciare al loro interno. Quando la sua bella mamma dai capelli d’oro doveva prepararsi per andare a qualche festa o per accogliere il suo papà che tornava da qualche avventura, si sedeva di fronte allo specchio della toletta e si provava a una a una le sue gioie splendenti, molte delle quali le erano state regalate da Loki in persona. Sonje adorava osservarla mentre si vestiva e ingioiellava: desiderava essere già grande per potersi abbellire con gli stessi monili, con gli abiti dalle stoffe soffici e preziose. Qualche volta, ridendo, Sigyn, che era ancora poco più di una ragazzina, le infilava qualche collana delicata o le spolverava un po’ di cipria sul naso, ma le aveva vietato severamente di aprire i cofanetti da sola o di frugare. Ma in quel momento Sigyn non c’era e Sonje si ritrovò a ringraziare quel piccolo diversivo che era Vali, perché le avrebbe permesso di aprire i portagioie indisturbata.

 

Non sapeva ancora se il fratellino le piacesse o meno. Da quando era nato l’avevano riempita di regali, coccole e attenzioni, ma Vali piangeva troppo e troppo spesso e la sua dolce mamma era sempre stanca. Si chiedeva come avesse fatto a uscire dalla sua pancia rotonda e che intendesse lo zio Thor, quando diceva che il suo papà aveva l’aria stravolta. Fece spallucce e si avvolse nella vestaglia di finissima seta di Sigyn. Poi posò il suo fedele alleato di pezza con gli occhi fatti a bottone sulla toletta e aprì il cofanetto più grande e lontano, rivelando le meraviglie dell’oreficeria che Sigyn vi custodiva dentro. Per prima tirò fuori una splendida collana di perle impreziosita con opali e smeraldi; poi fu il turno di un diadema tempestato di diamanti e zaffiri blu, bianchi e gialli. Infine esaminò i bracciali in cui si alternavano ametiste, smeraldi e diamanti scintillanti e degli anelli le cui fogge ricordavano spesso gli intrecci dei rami carichi di fiori e di frutti. Sigyn era una donna minuta e sottile, non particolarmente alta. I preziosi che preferiva indossare erano piccoli capolavori d’oreficeria, leggeri ed eleganti. E Loki, che, come tutti gli Æsir, adorava le gemme e aveva un gusto spiccato per i gioielli, provava una profonda soddisfazione nel regalarle le pietre più pure e belle e nel farle dono di preziosi che commissionava e disegnava lui stesso, quando non li forgiava di persona[2]. Sonje s’infilò tre collane una sull’altra e storse la bocca in una smorfia pericolosamente somigliante a quella del genitore, quando si rese conto che gli anelli stupendi di Sigyn erano ancora troppo grandi per essere indossati. Però quella cascata di oro, perle e gemme luccicanti che faceva risaltare i suoi riccioli neri la riempì di orgoglio. Desiderosa di trovare altre meraviglie da indossare tirò fuori spille, orecchini, diademi e decine di altri monili, ignara del caos che stava gettando nel cofanetto. Dopo che l’ebbe completamente svuotato, si dedicò con perizia a uno più piccolo, di semplice legno intarsiato, dove Sigyn teneva i gioielli che indossava abitualmente. Era quasi vuoto e Sonje s’imbronciò, ma poi la sua attenzione fu catturata da un piccolo cassettino in fondo allo scrigno. Lo aprì e inarcò un sopracciglio, imitando, di nuovo, l’affascinante dio dell’inganno. C’era una penna per scrivere, dentro. Nient’altro. La prese in mano, soppesandola. Era bella. Diversa da tutto il resto – strana – decise, aggrottando le sopracciglia. La piuma era nera, abbellita con delle pietre scure alla base. Come se non bastasse, c’erano delle rune incise sopra. Si trovava di fronte a un oggetto fatto a mano dai giganti di ghiaccio, con una sua ricca storia, ma non lo sapeva né era in grado di riconoscerla. L’intrinseca diversità di quell’oggetto era l’unica cosa che risultasse chiara ai suoi occhi di bambina. Se fosse stata più grande, avrebbe ravvisato che in quella penna preziosa e un po’ pesante dal deciso gusto barbaro non sembrava una cosa scelta da sua madre, ma mentre era ancora intenta a valutarla, la voce di Sigyn la riportò alla realtà.

“Sonje! Che cosa stai facendo?!” Sobbalzando, la bimba fece cadere a terra la penna.

 

 

“La conservi ancora.” Non era una domanda, ma una constatazione. Sigyn sollevò le ciglia scure sul riflesso dello specchio, da dove l’immagine di Loki Odinson sfoggiava un sorriso tronfio. Era ancora vestito di tutto punto dopo aver fatto finta di sgridare la loro primogenita e trovato un modo efficace per far addormentare Vali.

Sigyn inarcò la schiena coperta appena da una vestaglia di seta leggera. La ricca chioma dorata era a malapena fermata da un nastro di raso chiaro e tra le dita teneva le perle che Sonje aveva indossato e intrecciato tra loro. Ma ciò a cui si riferiva il dio dell’inganno non erano i gioielli di squisita fattura o le gemme non ancora incastonate che splendevano davanti a lei, no. Era la penna finemente intarsiata dalla lunga piuma nera.

“Scrive molto bene.”

“Credo sia la stessa scusa di allora.” Prima che lei potesse rispondere, si avvicinò alle sue spalle e si sporse appena. Due grosse gemme color dell’acqua sfioravano dei quarzi violacei, creando un contrasto interessante. Nel caos, a volte, era possibile rintracciare disegni perfetti, trovare la bellezza. “Disegnerò qualcosa per queste pietre,” aggiunse, soffiandole sul collo esposto e reattivo, come se l’argomento appena evocato potesse svanire, essere riposto nel cofanetto dove Sigyn l’aveva nascosto con cura. La principessa Vanir annuì. Loki investiva in gioielli, oro e terre per accrescere il proprio potere: per disporre di qualcosa da rivendere all’occorrenza, per creare proprietà terriere allodiali. Molto prima di sposarla – al tempo in cui seguiva suo nonno Njord con quella medesima penna scura tra le dita per appuntarsi le disposizioni del vecchio sovrano e non dimenticare nulla, possedeva già mezza Vanheim per averla acquistata dai membri della vecchia nobiltà caduti in disgrazia, dai mercanti poco accorti, da chiunque non riuscisse a resistere al fascino delle sue trattative. Sonje e Vali, nonostante la giovanissima età, possedevano già molte di quelle terre e forzieri zeppi d’oro. I piani del dio dell’inganno variavano di minuto in minuto, ma certe mosse prevedevano una pianificazione lunga e oculatissima.

“Dormono tutti e due,” le sibilò all’orecchio, facendo scorrere le dita sulla seta che le copriva le spalle. La vestaglia scivolò rivelando la pelle nuda e Sigyn fremette – fremeva sempre, quando Loki le si avvicinava, fin da allora. Solo, non lo voleva ammettere.

Socchiuse gli occhi, mentre le labbra ironiche del dio dell’inganno le sfioravano la pelle sensibile e reattiva del collo e le mani scendevano lungo la camicia da notte di seta, accarezzando i seni rotondi, ghermendoli e sfiorandone le punte reattive sotto la stoffa. La voleva. Sigyn strinse le gambe, sciogliendosi a quel tocco, volgendosi verso di lui per sfiorargli la bocca con un bacio leggero e insolente, carico di promesse come lo sguardo velato di desiderio che gli lanciò – era impaziente come lui. E avevano poco tempo a disposizione, come nei primi tempi della loro burrascosa relazione, quando si davano appuntamenti segreti e litigavano in pubblico per non essere scoperti. La penna dalla lunga piuma nera c’era già, allora – c’era da molto prima, da quando, per lei, Loki era solo un fremito basso e indefinito, che nascondeva accuratamente, senza nemmeno rendersene conto, sotto uno strato di fredda indifferenza. Ma poi quell’involucro si era crepato – il dio dell’inganno girò la sedia della toletta per averla davanti a sé e s’inginocchiò sul morbido tappeto tessuto a mano dagli Elfi, scostandole le ginocchia già frementi, affondando la testa tra le sue gambe, sorprendendola con le sue carezze sfacciate e improvvise, a cui era impossibile resistere. Non attesero di raggiungere il grande letto, ma consumarono l’amore lì, ai piedi della toletta, con la furia e l’urgenza degli amanti, soffocando i sospiri che avrebbero potuto tradirli – come allora.

Dopo, raggiunto il baldacchino, l’Ase ne approfittò per far scorrere la morbida piuma nera sulle curve sinuose di Sigyn, accarezzandola dalla base del collo al seno, scendendo fino ai fianchi rotondi e alle gambe scoperte e strappandole un ansito divertito.

“Smetti di usare la mia penna. Me l’hai regalata.”

“No, tu l’hai sottratta con l’inganno e io te l’ho ceduta in uno slancio di generosità,” puntualizzò lui. “Non ricordi?”

 

 

Era una ragazzina sgraziata, allora. Insicura, impacciata, preoccupata del poco seno stretto dal corsetto, dei capelli folti e crespi, degli abiti inadatti che Freya si ostinava a farle indossare per farla sembrare ancora una bambina quando lei già si sentiva una ragazza. Non era vero e, col senno di poi, Sigyn sapeva che la sua scaltra zia aveva tentato di proteggerla dalle rigide regole di Vanheim il più a lungo possibile – le donne della sua terra non erano libere come quelle di Asgard.

Loki aveva chiesto asilo a Njord offrendo in cambio i suoi servigi e infilandosi nel letto di Freya già da alcuni anni ed era in guerra con Odino e Thor: avrebbe trionfato, costringendoli a patteggiare e a firmare un trattato di pace in cui si sarebbe manifestata la prima avvisaglia della malattia degenerativa che avrebbe condotto Padre Tutto alla morte[3]. L’ingannatore lavorava con un’energia e una determinazione ammirevoli, contentandosi solamente di trascorrere qualche sera in totale solitudine, con un calice di buon vino e un bagno caldo e rigeneratore. Sembrava che ogni cosa dovesse passare o riguardasse lui, che sommava incarichi su incarichi. Attirava su di sé l’invidia e l’odio della vecchia aristocrazia sclerotizzata, delle famiglie nobili più giovani e scalpitanti, ma finché otteneva dei risultati nessuno poteva lamentarsi di lui presso il re dei Vanir. E, chi lo faceva, temeva le sue vendette spietate e repentine.

Sigyn sentiva continuamente storie e racconti terribili su quel giovane uomo dal sorriso indecifrabile che spesso incrociava in biblioteca. Quand’era più piccola, Loki l’aveva deliberatamente spaventata più di una volta, mutando aspetto all’improvviso per il solo gusto di leggere il terrore nei suoi occhi[4], ma per il resto non la riteneva interessante e, apparentemente, si accorgeva a stento di lei. Non era del tutto vero, di questo Sigyn avrebbe avuto contezza solo una manciata di anni dopo. In quanto nipote del re dei Vanir era un membro della famiglia importante da tenere d’occhio con discrezione, esattamente come tutti gli altri.

Sigyn era mattiniera, soprattutto in estate. Un giorno commise l’imperdonabile errore di scendere in biblioteca in camicia da notte e vestaglia, prima che le sue cameriere personali le avessero acconciato i capelli. L’alba aveva appena tinto di rosa il cielo, la servitù assonnata non aveva ancora iniziato le proprie faccende. Era assolutamente certa che non avrebbe incontrato nessuno. La porta non cigolò quando l’aprì e le sue scarpine di mussola attutirono il rumore dei suoi passi. Gli scaffali colmi di libri le nascosero l’angolo dove erano posizionate le scrivanie finché non si trovò davanti quella meglio disposta, occupata da una pila di libri, scartoffie, pergamene e mappe srotolate bloccate da dei pesanti fermi in ferro.

Loki Odinson alzò gli occhi verdissimi, cerchiati di scuro e arrossati per via del lungo studio, su di lei. In mano stringeva la lunga penna dalla piuma nera. Sul viso affilato e stanco comparve una smorfia di dispetto e un momentaneo stupore. Non l’aveva riconosciuta immediatamente, con quella massa dorata che le ricadeva sulle spalle. Lo aveva interrotto mentre lavorava – e lavorava da tutta la notte, senza dubbio. Sentì il suo sguardo affilato che la scrutava da capo a piedi e poi, a fatica, si distoglieva da lei per tornare sulle righe scritte fittamente.

Aveva trascorso la notte in bianco. Gli impegni della giornata, numerosi e complicati, che dipendevano unicamente da lui, sebbene fosse Njord a sfoggiare la corona e a sedere sul trono, si affastellavano nella sua mente insieme alla presenza fastidiosa di quella ragazzina. Dell’unica erede di Vanheim. Un pensiero maligno gli attraversò la mente svelta, uno che aveva già fatto, ma che ora, vedendola nella luce soffusa dell’alba, si fece concreto. Solo che Njord non gliel’avrebbe mai lasciato fare ed era una bassezza.

“Pensavo non ci fosse nessuno,” boccheggiò lei, a disagio. Poteva intuire quanto fosse tesa, sentire il suo respiro corto. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, cosa avrebbe pensato, supposto, raccontato? Si mosse a disagio sulla sedia, immaginando tutti i risvolti che il suo spirito carico di malizia poteva contemplare e che Sigyn, educata come tutte le Vanir, non avrebbe colto[5].

“Una valutazione errata, principessina. Dove sono le vostre dame, le cameriere?”

“Non lo so, dormono ancora, credo,” rispose Sigyn, cauta. Si mosse verso di lui, in direzione di uno scaffale. Prese un paio di libri, li strinse contro il seno piccolo e morbido. Presto avrebbe avuto dei pretendenti, valutò Loki. Nel giro di un paio d’anni al massimo, quella ragazzina guardinga si sarebbe fidanzata. “Perché vi importa? E perché vi infastidisce che io sia nella mia biblioteca, Lingua d’Argento?” Lo disse fremendo, sputando quell’appellativo come fosse un insulto. Come aveva visto e sentito fare da tutti, i suoi zii compresi.

 

Loki s’inumidì le labbra, posò la penna. Sigyn era pericolosa. Se una cameriera distratta fosse entrata nella biblioteca e li avesse trovati insieme, cosa sarebbe successo? Uno stupido incontro casuale avrebbe potuto trasformarsi in una chiacchiera, in un pettegolezzo difficile da arginare, che avrebbe potuto mettere a repentaglio il lavoro di anni nel momento più delicato di tutti. Quello del trattato con Asgard che ridefiniva accordi commerciali, ristabiliva confini, segnava una nuova epoca. Lo aveva visto accadere altre volte – aveva fatto in modo che alcuni suoi nemici venissero travolti da scandali simili. La voce iniziava con loro due nella biblioteca e, passando di bocca in bocca, certi dettagli innocenti si ingigantivano. Lei in tenuta da notte, all’alba, con lui. A quante inquietanti distorsioni si prestava una scena simile? Come ne avrebbero approfittato i suoi molti nemici?

“Non è adeguato farvi trovare in tale abbigliamento.”

L’unica erede di Vanheim sgranò gli occhi. Non possedeva la malizia di Loki e non aveva pensato a quanto il loro incontro casuale potesse essere fraintendibile. E poi, Sigyn era assolutamente certa di non essere bella.

L’Ase raccolse i suoi appunti in fretta, chiuse con un paio di gesti secchi i volumi ancora aperti, arrotolò le pergamene, pronto ad andarsene. Se la nipotina di Freya non lo capiva da sola, non sarebbe stato lui a spiegarle di dover tenere di più a sé stessa e al proprio ruolo di nipote del re. E poi, non desiderava suggerirle – instillare – nella sua mente, che sapeva già fervida, l’immagine che lui fosse un possibile pretendente. Sarebbe bastata una chiacchiera fatta scioccamente con una dama di compagnia, una parola fuori posto sfuggita con Freya e lui si sarebbe ritrovato con un’accusa per alto tradimento e una scure tra capo e collo. Forse non si accorse di aver lasciato lì la penna che soleva utilizzare per scrivere. Sigyn, però, vedendola abbandonata sul tavolo, la prese e se la rigirò tra le dita, incuriosita, valutandone il peso, sfiorando la morbida piuma scura, osservando da vicino, finalmente, gli intarsi, scoprendone la delicata lavorazione, le pietre incastonate – agata verde, spinello, zaffiri gialli. La penna di un principe dal gusto sofisticato e aristocratico. La penna con cui il consigliere di suo nonno, il terribile mago che aveva gettato nel caos tutti i Nove Regni, utilizzava per scrivere le sue lettere, per correggere le bozze delle leggi che sarebbero state approvate da Vanheim, per tessere intrighi. Doveva essere intrisa di seiðr. Fu colta alla sprovvista da un rumore improvviso: ripensando alle parole del dio dell’inganno, si chiese cosa sarebbe successo se qualcuno, entrando, l’avesse vista in camicia da notte con qualcosa che apparteneva a Loki tra le dita. Così, senza pensare, la nascose nella vestaglia, rapida.

 

L’aveva rubata. A conti i fatti il suo gesto poteva leggersi unicamente così. Loki sarebbe potuto tornare indietro e cercare l’elegante penna e non l’avrebbe trovata più. Una volta tornata in camera, non poté fare altro che sfilarla dalla tasca e chiuderla in un cassetto della sua toletta, come se scottasse. Perché lo aveva fatto? Per paura, per curiosità, per necessità. Non lo sapeva con precisione, ma nei giorni seguenti, mentre era sovrappensiero, le tornò in mente l’immagine di lui seduto alla scrivania, con i capelli tirati all’indietro scarmigliati e gli occhi stanchi, che la metteva a fuoco con malcelata sorpresa. Lo rivedeva mentre tracciava appunti su appunti con mano rapida e sicura, completamente padrone di sé e delle circostanze. Le sue dame di compagnia e le cameriere bisbigliavano tra loro che era bello, suo zio Freyr malediceva il suo nome ogni giorno, ma si infuriava se non riusciva a parlare con lui perché impegnato altrove. E suo nonno, quando discorreva fittamente con lui, aveva dato ordine che non fosse assolutamente disturbato, mai.

Avrebbe dovuto restituirgliela. In fondo, era come se l’avesse presa per sbaglio, per cancellare ogni traccia di un incontro che lui, Loki, aveva giudicato inopportuno. Lo era? Si chiese se e quanto fosse trasparente la camicia da notte che indossava sotto la vestaglia, se lui avesse indovinato le sue forme ancora acerbe. Come la vedeva l’ingannatore, come la percepivano le guardie, i notabili, la servitù? Cos’era, lei? Chi? Domande che si faceva già da diverso tempo, a cui non riusciva a trovare una risposta. Comprese che i suoi gesti non erano più neutrali, ma avevano un peso, una conseguenza. Poteva scegliere chi essere e come farlo – Loki, in lei, aveva scorto, se non la ragazza, la donna che si apprestava a divenire. Soffocò le domande a cui non riusciva a dare una risposta esaustiva nella lettura, nello studio che, da sempre, considerava un rifugio.

 

Il dio dell’inganno non fu l’unico ad accorgersi che Sigyn stava diventando una ragazza: mentre la penna dalla bella piuma nera giaceva nascosta dentro un cassetto, occultata ma non dimenticata, la giovane principessa ottenne il permesso di intrecciare meno fittamente i capelli, di indossare abiti di foggia e colore più adatti alla sua età. Fu in quelle settimane che Freya decise di farla partecipare al suo primo ballo. Non fu un trionfo, nient’affatto: si appartò in un angolo senza sapere cosa fare finché il re suo nonno, indispettito, non ordinò a Loki di farla danzare. Sigyn pensò che fosse una scelta infausta, soprattutto perché a nessuno era sfuggita la mancanza di spontaneità nascosta in quell’invito[6]. Decise di dirgli che aveva raccolto lei la penna e che gliel’avrebbe ridata, ma il ballo fu breve, non colse il momento e cercarlo dopo sarebbe stato strano. Attorno alla sua persona si affastellavano continuamente questuanti in cerca di delucidazioni, risposte, promesse, favori. Di lui non bisognava fidarsi: manipolava, irretiva, confondeva e usava chiunque gli capitava a tiro. Si muoveva con grazia e la sua guida era sicura e decisa – ripensò alle dita agili che impugnavano la penna, che sfioravano la stoffa del suo abito, immaginò la sua calligrafia appuntita e precisa, come il suo ghigno. Le girava la testa.

Quella sera, dopo aver ballato con il dio dell’inganno, Sigyn si sedette di fronte alla toletta e prese, per la prima volta, la bella penna elegante. La usò per rispondere al messaggio di un’amica. L’impugnatura era perfettamente bilanciata, il tratto preciso e fluido. Alla prima occasione, decise, gliel’avrebbe restituita – forse, si convinse, l’aveva presa unicamente perché era bella e temeva che qualcun altro la sottraesse.

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore ♥ ♥!

Avevo detto che avrei ripreso in mano anche i vecchi lavori ed eccomi qui, infatti, con questa storia in 2 capitoli (il secondo è praticamente solo da ultimare e penso che lo metterò a strettissimo giro) con protagonisti Loki e Sigyn nella versione di Tutte le mie bugie, la mia prima long (la trovate a pagina 3 del profilo).

Non è necessario averla letta, ma tenete presente che la Sigyn che vedete per buona parte del racconto è molto giovane, alle prese con i primi turbamenti instillati da un giovane uomo affascinante come Loki, ma anche con quella fragilità propria di chi si trova in quella fase in cui si è adulti per certe cose e per certe cose no. Poi crescerà, perché si andrà a raccordare con quella di Tutte le bugie, ma ‘sto capitolo stava diventando troppo lungo (poi mi dite che non mi regolo).

Rispetto ad altre storie (Accordo, Scintille) tenete presente che il divario d’età è maggiore, sebbene nei limiti della legalità.

 

Ringrazio con tutto il cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: a parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. Per gli aggiornamenti, come dicevo entro la settimana arriverà la conclusione di questa storia e poi Ciò che resta delle tenebre.

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito hanno dei figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi l’ho sostituito con Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita proprio niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso Njord, per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

Comprendetemi per queste precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di tutti i colori.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

Vostra,

Shilyss



[1] Loki e Sigyn nel mito hanno due maschi. Sonje è pertanto una mia invenzione. L’animale di pezza è il “celebre” Gatto di zio Thor, che la bimba contrae in Gatto Tooh.

[2] Loki fabbro, come in “Di fuoco e di desiderio,” una mia vecchia shot <3.

[3] Come nel primo capitolo di questa raccolta.

[4] Scena raccontata nella serie Tutte le tue bugie.

[5] È un mio headcanon che l’educazione e la cultura di Vanheim siano di stampo più oppressivo e conservatore nei confronti delle donne e non solo, rispetto alla più libera Asgard. Sigyn, coerentemente con il mondo in cui vive, è stata educata in un modo più rigido e bacchettone. Questo headcanon lo trovate anche in “Solo un accordo.”

[6] Questa scena è presente nella mia long (che presto riprenderò in mano) Giochi pericolosi.

   
 
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