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Autore: Ranessa    31/08/2009    2 recensioni
I babbani hanno uno strano modo di definire Praga, la chiamano città magica, ma per quanto mi sforzi non è magia ciò che percepisco camminando per le strette vie di acciottolato umido, quanto piuttosto un lieve senso di inquietudine. Ci si muove per Praga costantemente all'erta, come se si dovesse incontrare qualcosa di inaspettato dietro ogni angolo. Il Golem, forse.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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[ Capitolo 3° - Malá Strana ]


La neve si è quasi completamente sciolta, lasciando al proprio posto un ruscellare continuo d'acqua e pozzanghere che riflettono scorci di cielo limpido e di città. Attraversiamo per l'ennesima volta il Ponte Carlo, le bancarelle che lo occupano ai lati ormai indelebilmente impresse nella mia mente. E mi sorprendo a pensare che, in fondo, non è poi una brutta sensazione, il sentirsi quasi a casa ogni volta che percorriamo a piedi le strade di questa città, il primo posto in cui abbiamo trascorso un periodo di tempo relativamente lungo dopo Azkaban. Relativamente. Tutto adesso è relativo. Alla prigione, alle mura di pietra e ruggine, alla salsedine, al rumore costante e insopportabile delle onde che si infrangono sull'imponente carcere magico.
«Rabastan?» mi giunge ovattata alle orecchie la voce di mio fratello, tinta da un'unica, lieve sfumatura di preoccupazione. «Tutto bene?»
«Sì, certo. Stavo solo pensando...»
«A cosa?» mi domanda Rodolphus, che ha rallentato il suo passo rapido sino a fermarsi completamente, per potermi osservare meglio.
«Nulla di importante, andiamo».
«Non c'è fretta» replica lui scrollando distrattamente le spalle. «Ha detto che lo avremmo trovato a qualsiasi ora».
Vorrei fargli notare che prima si inizia, prima si finisce, ma probabilmente è restio quanto me a dare il via a questa ultima parte del nostro ingrato compito. Non mi illudo però che la sua esitazione derivi da qualsivoglia genere di scrupolo. Rodolphus, semplicemente, non vuole dover tornare in Inghilterra. Ed io, mio malgrado, la penso esattamente come lui.
Riprende a camminare di fronte a me ad un'andatura molto più lenta, che ci porta presto a confonderci tra i numerosi turisti che come ogni giorno affollano il Ponte. Osserva le merci esposte come se le vedesse per la prima volta, foto, disegni, dipinti di Praga, bracciali, anelli e orecchini artigianali fatti dei materiali più disparati. Poi, d'improvviso, come colto da un'inaspettata epifania, si ferma rapito davanti ad una della bancarelle. Seguendo il suo sguardo, mi ritrovo a contemplare un paio d'orecchini, bellissimo persino ai miei occhi inesperti. Sono tre cerchi concentrici in argento; il più piccolo ospita incastonata una pietra lucida che non so riconoscere, sulla quale, in tonalità di bianco, nero e grigio, si sviluppa un affascinante disegno astratto fatto di linee curve che si intrecciano. È un attimo, e prima ancora che io riesca a dire qualcosa, Rodolphus si è già avvicinato al proprietario della bancarella per chiederne il prezzo.
«Dieci euro».
Rodolphus annuisce, fingendo di comprendere l’importo in moneta non solo babbana, ma persino straniera. Attendo che si volti nella mia direzione, chiedendomi silenziosamente di aiutarlo, ma lui mi stupisce, estraendo dalla tasca una banconota blu.
«Tieni il resto».
«Vuole un pacchetto regalo?» si affretta a domandare l’uomo, fissando lievemente stupito la banconota che ha preso dalle mani di mio fratello.
Immagino che lui stia per esibirsi in uno dei suoi famigerati ghigni prima di rispondere No, grazie, sono per me, ma evidentemente oggi ha intenzione di continuare a sorprendermi.
«No, grazie» replica semplicemente prima di tornare a dirigersi vero Malá Strana, gli orecchini a scomparire in una delle sue tasche.
«Sono per Bellatrix?»
«No».
«Sono per te?»
Rodolphus scoppia in una risata fragorosa che fa voltare qualche testa intorno a noi. Si ferma poi di scatto e si volta verso di me, fronteggiandomi come se stessimo per intraprendere un duello mortale, sfidandomi a parlare ancora. E ancora una volta mi stupisce.
«Sono per Narcissa».

La Chiesa di San Nicola in Malá Strana[1] è probabilmente la più brutta che io abbia mai visto in vita mia, pur non avendone visitate molte. La sensazione che si ha appena varcata la grande soglia è di entrare in una gigantesca torta, rosa confetto e troppo decorata. L’oro brillante delle innumerevoli statue disseminate in ogni dove colpisce gli occhi quasi con ferocia. Mi guardo intorno incredulo, domandandomi quale mente insana possa aver progettato un’accozzaglia così pacchiana di colori e decorazioni.
«Non lo vedo» dice seccato Rodolphus, totalmente disinteressato ai marmi lucidi e alle colonne imponenti. In effetti, al di là di una manciata di persone intente a pregare, la chiesa è deserta. Mi fermo a metà della navata centrale per osservare questi uomini e donne, impegnati a sussurrare inutili preghiere al loro dio. Inginocchiati, proprio come noi al cospetto dell’Oscuro. È questo che è per noi? Un dio? Forse lo è stato un tempo. Prima di Azkaban, prima della guerra, prima del sangue. Prima. Può continuare ad esserlo anche ora, un dio? Posso davvero credere ancora in Lui?
Uno degli uomini assorti in preghiera solleva lentamente la testa, sino a un attimo prima abbandonata contro le mani giunte. Le sue guance sono rigate di lacrime.
«Vieni».
La mano di Rodolphus si posa con decisione sulla mia spalla e mi distoglie dal filo insensato dei miei pensieri. Si dirige a grandi falcate verso un uomo che ci dà le spalle, impegnato a sistemate alcuni oggetti sull’altare.
«Mi scusi…» Rodolphus attende che l’uomo si volti a guardarlo prima di proseguire, con voce bassa, in un tono delicato, come se avesse il timore di farsi udire da qualcun altro. «Stiamo cercando un uomo, un certo Radek. Sa dirci dove possiamo trovarlo?»
L’uomo inclina lievemente il capo da un lato, probabilmente soppesando le parole di mio fratello.
«Mi dispiace, ma non conosco nessun Radek».
Rodolphus sta già per ringraziarlo ed andarsene quando un pensiero improvviso colpisce la mia mente, inaspettato.
«Rastislav allora? O Radomír?» chiedo, pur dubitando che la mia domanda possa essere di alcun aiuto.
L’uomo si gira allora nella mia direzione sorridendo, un’espressione inspiegabilmente compiaciuta ad aleggiare sul suo volto. Ha tratti molto marcati, grandi mascelle squadrate e capelli cortissimi.
«Rehor» mormora, annuendo quasi sovrappensiero. «Accomodatevi pure, andrò a chiamarlo io per voi», e con un ampio gesto del braccio sinistro ci invita a sederci.
La mano di Rodolphus torna a posarsi sulla mia spalla per spingermi verso una delle innumerevoli file di panche in legno scuro. «Complimenti» sussurra al mio orecchio, in un tono indecifrabile.
«Grazie» rispondo a voce troppo alta, un po’ a mio fratello, un po’ alla schiena dell’uomo che sta già scomparendo dietro a una piccola porta, soffocata da statue di angioletti dorati.
Ci sediamo in una delle prime file, attendendo pazientemente di incontrare il nostro informatore.
Più trascorre il tempo in questa città e più ogni azione che compiamo mi appare assurda, ogni gesto o parola pronunciata surreale. Mi invade lentamente la spiacevole sensazione che le nostre piccole gesta quotidiane non ci stiano affatto conducendo al raggiungimento di alcuno scopo. Non stiamo evolvendo, dopo Azkaban, dopo la guerra, dopo il sangue, stiamo semplicemente tornando al punto di partenza. Non impariamo dai nostri errori, e anche se ce ne rendiamo conto non abbiamo la forza di cambiare.
Regrediamo per inerzia, e la cosa mi spaventa.
«Eccolo».
Rodolphus indica con un cenno del capo una figura ammantata di nero di fronte a noi che si dirige lentamente nella nostra direzione.
Sospiro. Più il tempo trascorre e più sembra non farlo.

«Benarrivati».
Questa volta l’improvviso ridisegnarsi delle sue cicatrici non mi trae in inganno, e faccio del mio meglio per ricambiare il suo sorriso. Radek prende posto nella fila di fronte alla nostra dandoci le spalle, si fa il segno della croce prima di riprendere a parlare.
«Sono felice che siate venuti».
«Credevi che non l’avremmo fatto?» domanda mio fratello, lievemente irritato dalla sua affermazione.
«L’esperienza mi ha insegnato a non dare mai nulla per scontato, amico mio».
«Ad ogni modo adesso siamo qui» intervengo io in tono conciliante. «Hai le nostre informazioni?»
«Non immaginavo aveste così tanta fretta…»
«Vogliamo soltanto tornare a casa» rispondo, pur sapendo che si tratta di un’ignobile bugia.
Al mio fianco, Rodolphus ride.
«Benissimo allora» prosegue Radek, ignorandolo. Si volta infine verso di noi, osservandoci attentamente uno per uno prima di estrarre qualcosa dalle pieghe della sua veste da alchimista. È una pergamena ingiallita, i bordi consumati dal tempo e dal morso dei topi.
«Il vostro amico…»
«Non è nostro amico».
Rodolphus ha parlato con estrema calma, lo sguardo concentrato sull’accendino d’argento che stringe tra le mani abbandonate in grembo. Non mi ero nemmeno accorto che lo avesse estratto dalla tasca della veste scura.
«L’uomo che chiamate Igor Karkaroff si nasconde a Český Krumlov[2], una città nel Sud del Paese. Lo troverete nella Città Vecchia, seguendo le indicazioni di questa mappa».
Allunga il rotolo di pergamena verso mio fratello, che lo prende senza esitare per poi aprirlo di fronte ai nostri occhi. È vuoto, immacolato, nessun segno a solcarne il tessuto fibroso.
Rodolphus decide di fidarsi e lo fa scomparire all’interno della sua veste senza ulteriori domande.
«Grazie».
Radek annuisce e continua a guardarci, probabilmente in attesa che ce ne andiamo, ma Rodolphus non dà alcun segno di volersi muovere. Ha ricominciato a giocare con l’accendino, percorre la lingua di serpente che gli si attorciglia intorno con il polpastrello dell’indice sinistro.
Io ripenso a come siamo arrivati ad essere seduti qui oggi, nell’immobilità e nel silenzio spettrali di questa chiesa, che tanto contrastano con i suoi colori eccessivamente vivi e brillanti. Ripenso al passato per non dover immaginare il futuro e una domanda, sciocca forse, mi giunge spontanea.
«Perché ci aiutate?»
Radek, o Rehor, o Radomír, distoglie lo sguardo dalle mani di Rodolphus per posarlo sul mio volto teso.
«Come, prego?»
«Perché lo fate?» domando nuovamente, sentendomi più stupido ad ogni nuova parola che lascia le mie labbra. «Cosa ottenete in cambio?»
Il nostro informatore continua a scrutare con attenzione il mio viso come se lo vedesse per la prima volta. Ogni cicatrice più tesa del solito, ogni ustione più in rilievo, in qualche oscuro modo più visibile. Eppure ciò che più mi inquieta è l’assurda consapevolezza, l’assoluta certezza che, se potesse ignorare per un attimo il silenzio della chiesa e le sue altrettanto tacite regole, scoppierebbe in una sonora risata, una lunghissima, infinita risata di scherno e derisione.
Mi domando quale nuova conformazione assumerebbe il suo volto.
«Mi sorprende che tu mi faccia questa domanda».
Mi sposto a disagio sulla panca, cogliendo con la coda dell’occhio lo sguardo felino di Rodolphus che si posa su di me, una vaga espressione di interesse sul suo viso stanco.
«Perché?»
«Per via del Marchio che mi hai mostrato ieri. Tu ti stupisci che io aiuti voi e, di riflesso, l’Oscuro Signore. Ti domandi cosa possa ottenere in cambio. Eppure i miei sforzi per aiutarvi sono stati minimi e nel momento esatto in cui varcherete quella soglia» indica con un cenno del capo l’imponente ingresso della chiesa alle nostre spalle, «la mia vita tornerà ad essere quella di ogni giorno. Ma per voi, che avete deciso di indossare il Marchio Nero sulla vostra stessa carne, è questa la vita di tutti i giorni: dedicare ogni vostra energia, ogni vostro attimo, ogni vostra scintilla di vita a Lui. Non sarebbe più sensato domandarsi perché voi lo fate? Cosa voi ne ottenete?»
Radek, finalmente, tace, il silenzio intorno a noi più assordante di prima.
«Azkaban» giunge però indesiderata la voce di Rodolphus. «Per il momento abbiamo ottenuto solamente Azkaban».
Mio fratello si alza all’improvviso, invitandomi a fare altrettanto strattonandomi frettolosamente per un braccio.
«Grazie per averci aiutati, Radovan. Addio».
L’alchimista ci sorride un’ultima volta.
«So che Rouven ha donato un Golem a ciascuno di voi. Teneteveli stretti. Non si ha mai abbastanza fortuna».
Attraversiamo la navata centrale a grandi falcate. Mi sento un vigliacco per non aver neanche tentato di dare una risposta a Radek, per non averlo nemmeno guardato o salutato.
Fuori piove.

La valigia di Rodolphus è pronta vicino alla porta della nostra piccola camera d’albergo.
Lui mi osserva comodamente sdraiato sul suo letto, la sigaretta accesa in una mano, una bottiglia di whisky incendiario mezza vuota nell’altra.
«Perché non la fai con la magia?»
Il suo sguardo divertito mi segue attentamente mentre cerco di piegare con cura i miei vestiti, ottenendo scarsi risultati.
«Perché ho voglia di farla a mano».
Mi torna in mente il momento in cui la mia bacchetta è caduta ai miei piedi a casa Malfoy, il desiderio improvviso che ho sentito di non toccarla mai più per il resto della vita.
«Quando vuoi partire?» domando distrattamente a Rodolphus.
«Domani mattina. Presto»
«Va bene».
Mio fratello sbuffa l’ennesima nuvoletta di fumo nell’aria stantia dell’ambiente. Chiudo finalmente la valigia e vado a sedermi sul bordo del suo letto sfatto.
«Posso averne una?»
Rodolphus mi osserva vagamente stupito prima di posare la bottiglia di whisky sul comodino, accanto agli orecchini di Narcissa, e recuperare un pacchetto malandato di sigarette babbane dal cassetto.
«Credevo fumassi soltanto le sigarette al mentolo. Quelle da donna».
«Come facevi a saperlo?»
«Che fumi quelle schifezze al mentolo?»
«No, che Radek si chiamava anche Radovan? Come facevi a conoscere un altro dei suoi nomi?»
Rodolphus scrolla le spalle con aria indifferente.
«Ho tirato a indovinare. È il primo nome pseudo ceco che inizi con la erre che mi sia venuto in mente».
Annuisco, sbuffando un piccolo cerchio di fumo grigio nella sua direzione.
«Fottiti» replica Rodolphus, voltandosi sul fianco destro e dandomi la schiena. Intuisco però il sorriso nella sua voce, nel suo tono infantile fintamente offeso.
«Domani a quest’ora sarà tutto finito…»
«Vuoi davvero tornare a casa?» mi chiede, continuando a darmi le spalle.
«No» rispondo sicuro, spegnendo la sigaretta sul ripiano lucido del comodino, come gli ho visto fare infinite volte in queste settimane. Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, ascoltando il rumore della pioggia che batte ancora incessantemente sull’unica finestra della stanza.
«Rodolphus, hai ancora il tuo Golem?»
Mio fratello torna a sdraiarsi sulla schiena. Vedo di nuovo i suoi occhi viola e stanchi, la pelle tirata sugli zigomi e le guance scavate.
Spegne anche lui la sigaretta sul comodino e riprende la bottiglia di whisky, portandola immediatamente alle labbra e finendone il contenuto in un unico sorso.
«L’ho rotto».






[1] Malá Strana
[2] Český Krumlov

   
 
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