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Autore: TheDoctor1002    28/07/2021    2 recensioni
Artemis conosce il mare. Lo ha solcato in lungo e in largo quando era in marina, vi ha disseminato terrore una volta cacciata e ancora oggi, dietro l'ombra del suo capitano, continua a conoscerlo.
Il suo nome è andato perduto molti anni fa: ora è solo la Senza-Faccia. Senza identità e senza peccati, per gli altri pirati è incomprensibile come sia diventata il secondo in comando degli Heart Pirates o cosa la spinga a viaggiare con loro. Solo Law conosce le sue ragioni, lui e quella ciurma che affettuosamente la chiama Mama Rose.
Ma nemmeno la luce del presente più sereno può cancellare le ombre di ciò che è stato.
Il Tempo torna sempre, inesorabile, a presentare il conto.
"Raccoglierete tutto il sangue che avete seminato."
//
Nota: trasponendola avevo dimenticato un capitolo, quindi ho riportato la storia al capitolo 10 per integrarlo. Scusate per il disguido çuç
Genere: Azione, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Corazòn, Donquijote Doflamingo, Eustass Kidd, Nuovo personaggio, Pirati Heart
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 19: Dissonanze 

"Che cazzo è successo qui?!"
Il furioso urlo di Sant'Ana ruppe l'irreale silenzio della stanza, sommersa dal sole di una mattina troppo soleggiata per gli eventi che l'avevano preceduta.
Coprì lo strascichio ritmico e instancabile delle spazzole dalla sala accanto e il mormorio delle cameriere. Artemis le aveva sentite sussurrare che non credevano che ci sarebbe sarebbe stato così tanto sangue.  Una si era lamentata sottovoce quando si era tagliata con un frammento di vetro sul pavimento, mentre altre commentavano che non pensavano che quelle macchie fossero così difficili da lavare via.
Lei l'aveva imparato a proprie spese, quando il chirurgo di casa aveva avuto la fase delle dissezioni.
E quando le aveva ricucito le ferite, o quando lei aveva dovuto fare del suo meglio per ricucirgli le sue, beccandosi anche una pioggia di critiche nel processo.
Le bende sulle sue braccia prudevano sopra i lembi arrossati dei tagli. Si diceva che i medici dovevano aver sbagliato qualcosa, perché quelle di Law non lo facevano mai.
Un'altra esplosione di rabbia di sua madre le solleticò appena le orecchie, ma non avrebbe saputo dire di cosa si trattasse. Non afferrava ciò che stimolava i suoi sensi nel modo più eclatante, i dettagli mangiavano ogni brandello di attenzione riuscisse a mettere insieme.
Un velo di gin bagnava il fondo della bottiglia traslucida. Era tutto quello che era rimasto dalla sera precedente, prima che un'ombra la portasse via con un rapido gesto di mano.
"È così da quando si è svegliata, signora." Mormorò Tamatoa, come se temesse di dire una parola di troppo. "Non ha parlato da quando l'abbiamo rimessa in sesto."
Ana fissò sua figlia con sguardo giudice. Non era stata così poco ricettiva neppure subito dopo l'intervento. Osservava gli occhi piatti di lei muoversi lentamente per la stanza, come se stesse seguendo una farfalla invisibile. Si avvicinò, ora più lentamente, parlando con un tono più pacato ma pronunciando parole altrettanto pesanti.
"Hai idea di quanto sia grave quello che hai fatto, sì?" Sospirò esasperata.
Artemis annuì con lo sguardo perso nel vuoto, continuando a torturarsi le garze sulle braccia.
"E vuoi dirmi perché, prima che cancelli la tua ciurma dall'esistenza?"
La giovane, ancora una volta, non rispose. Si portò solo una mano alla bocca, singhiozzando sommessamente nell'incavo del pollice.
"Non ha saputo, signora?" intervenne ora Tamatoa, in difesa della sua protetta "Trafalgar Law è morto. Ne è venuta a conoscenza ieri sera."
La notizia sconvolse la donna, il cui sguardo si svuotò dell'odio che aveva contenuto per lasciare il posto a un'inaspettata pietà.
Era stata lei stessa ad avanzare minacce simili, ma sapeva che il criterio di Artemis non l'avrebbe mai costretta a metterle in pratica. Dava per scontato che sarebbero state solo parole e che lo spauracchio di vedere i suoi cari in pericolo l'avrebbe tenuta al suo posto per tutto il tempo necessario, come era stato per anni prima di allora.
Eppure, si ricordò, quella mattina aveva trovato la vivre card sempre al solito posto. Certo, un po' annerita, ma c'era e cozzava violentemente con la realtà davanti a lei.
Ana si allontanò e prese Tamatoa da parte, mentre il viavai delle domestiche continuava rapido e incessante intorno a loro come se non esistessero.
"Com'è successo?" chiese, infondendo nella voce un dispiacere che celasse i suoi dubbi.
"È stato ucciso da Donquixote Doflamingo la scorsa notte. Purtroppo questo è tutto ciò che sappiamo. La signorina cercava qualcosa, immagino una vivre card, ma non l'ha trovata." rispose la dama, parlando lentamente. Ana notò quanto impegno mettesse nello scandire a forza le parole per attribuirgli un senso. Il suo volto era segnato, ma da qualcosa che suonava fuori posto, rispetto alla difficile notte insonne che le era stata descritta.
"Era qui per questo, quella bottiglia di gin?" Chiese con tono vagamente accusatorio.
"L'ha ordinata la signorina ieri sera."
"E i due bicchieri?"
Tamatoa esitò, la risposta bloccata in gola, limitata ad un incerto "Io..."
"Te lo spiego, nel caso tu abbia dimenticato anche questo." l'accusò la donna, con un fare più aspro "Ti ha chiesto di bere con lei, non è così? Ha sfruttato la concitazione del momento ed è riuscita a farti ubriacare al punto che quando ha raggiunto il bagno non ti sei accorta di niente. Scommetto che quando l'hai soccorsa non eri neppure pienamente lucida. Inoltre, dubito tu ti sia vista, ma hai un aspetto indecente."
Come per un riflesso condizionato, Tamatoa passò rapidamente le dita sottili sulle occhiaie scure che le orlavano gli occhi.
"No" mormorò allarmata "No, signora, le assicuro che sto bene, posso fare il mio lavoro come sempre."
"Non sarà necessario" decretò Ana: "Sei sospesa dall'incarico. Mi occuperò personalmente di Artemisa, d'ora in poi."
"Ma il Reverie è alle porte" avanzò la dama, in un tentativo estremo "Avrete molto lavoro da fare, vi assicuro che un evento simile non ricapiterà."
"Certo che non ricapiterà: non ho intenzione di rinnovarti la possibilità di deludermi. Sei congedata: fatti trovare un'altra mansione e sparisci dalla mia vista." 
La grave accusa fece crollare il suolo sotto i piedi di Tamatoa, facendola sentire sola come mai prima, nonostante la sala fosse gremita. Con un incredulo, rassegnato cenno del capo, sussurrò un mesto "Agli ordini." e lasciò la stanza, non prima di lanciare un ultimo sguardo addolorato alla sagoma della sua protetta.

Seduta su un'elegante sedia bianca, Artemis sentiva le dita grassocce di una dama nuova pettinarle i capelli. Le pareva si chiamasse Estelle, o qualcosa di simile.
Qualunque fosse il suo nome, chiacchierava a ruota libera, sezionava ciocche e le intrecciava, mentre lei, come una bambolina,  osservava Ana muoversi per la stanza. Trovava terribile riconoscere in lei tanto di sè stessa. Non doveva neppure sforzarsi a mappare la Reina Blanca sulla sua figura, mentre la donna faceva la spola in un labirinto di sedie identiche alla sua: mentre passava dalla penombra alla luce delle vetrate ariose di una delle tante sale dei ricevimenti, quasi si stupì di non trovare un cuore nero tatuato sulla guancia. Lei stessa ancora lo cercava nel suo riflesso ogni mattino, giorno dopo giorno, in un volto sempre più estraneo.
"Artemisa!" chiamò sua madre, catturando la sua attenzione "Sii buona, dammi un parere: ocra o lilla per gli inserti?" Chiese, sventolando i tovaglioli come in una partita a ruba bandiera.
Come se avesse mai potuto importarle.
Artemis indicò apatica quello giallo con un lieve cenno della testa, giusto per levarsi quella figura carica di attesa da davanti.
Ana parve lievemente contrariata, "Che colore chiassoso" l'aveva sentita borbottare, prima di riprendere la sua animata discussione con l'omino in doppiopetto che le forniva le stoffe colorate.
Un brivido la percorse quando realizzò che forse anche lei, in un mondo normale, avrebbe dovuto compiere quelle scelte.
Non avrebbe mai voluto il bianco accecante di quella stanza per il suo Law. Avrebbe optato per il nero, magari arricchito da quei dettagli ocra che sua madre riteneva tanto pacchiani, ma che a lui piacevano al punto da renderli il suo marchio.
O forse no, non avrebbe saputo dirlo: allestire un funerale non era mai stato nei suoi piani, non aveva avuto il tempo di pensare anche a quello. Anzi, il pensiero le era balenato in mente tante, tantissime volte, facendola stare talmente male da far temere al resto della ciurma che ci fosse qualche strana malattia a bordo.
Ed era sempre Law a farla stare meglio, solo lui. Non che dicesse nulla che già non sapesse, ma la sua sola esistenza le ricordava che se qualcuno avesse mai dovuto dirgli addio, lei non sarebbe stata tra quelli. Si sarebbe giocata il tutto per tutto per proteggerlo, l'aveva giurato.
Invece la sua vivre card era bruciata fino a sparire, fino a che nemmeno la cenere era rimasta e lei non aveva fatto altro che ascoltarlo cadere e cercare dall'altro capo del loro filo rosso una voce che non c'era.
Invece lei era lì, con una cretina che le tirava i capelli e la incalzava a sorridere, con sua madre che la pregava di mangiare qualcosa, di bere, di reagire, di dare un segno di vita che fosse uno.
Quando Ana e l'omino passarono a discutere i posti, la dama aveva terminato la sua intricata acconciatura ed era passata al trucco. Attraverso le setole dei pennelli e gli scovolini ricurvi, la giovane seguiva distrattamente la spinosa questione.
Roswald e Selena non si soffrivano, Caterina voleva stare solo vicina a Dorian e altre cento inutili pare della stessa risma.
Ana distribuiva i cartellini sul tavolo rotondo e li ridisponeva mille volte, sparendo e ricomparendo da dietro il ridicolo vaso di fiori blu al centro.
"Caspita, signorina, quanto vi lacrimano gli occhi" si lamentò la dama, tamponandole per l'ennesima volta la rima inferiore "non saranno mica le ortensie, vero? Sarà pieno di ortensie, non immaginate quante ortensie ci saranno, Sant'Ana ha insistito tanto perché ci fossero le ortensie! Giusto, signora?"
La fine della domanda fu ingoiata dal rumore sordo del tavolinetto dei trucchi e dal tintinnio delle confezioni al suolo. Le terre e gli ombretti si frantumarono in un tappeto di pigmenti rosati.
Ana si voltò di scatto verso la fonte del tonfo: Estelle si era allontanata per lo spavento, il viso rubicondo nascosto dietro le mani. Artemis, invece, era china sulla sua sedia come se avesse ricevuto un pugnale in petto. Le lacrime trasferivano il trucco sui suoi zigomi e lo appiccicavano alle dita. Non alzò la testa finché non fu sua madre a sollevargliela, con il tocco più dolce di cui fosse capace. Un tentativo migliorabile, vero, ma Artemis riconobbe lo sforzo.
"Pensavo che partecipare al Reverie ti avrebbe resa felice." commentò con delusione, accucciata davanti a sua figlia.
"I morti sono morti, Artemisa. Sai anche tu cosa significa. Il suo tempo era già stato scritto, non avresti potuto fare niente per salvarlo. Ricordi il figlio di Roger? Gli umani non possono niente dinanzi alla Fine, nemmeno con il nostro aiuto. Possiamo solo fare del nostro meglio perché al tempo accada il male minore."
"Avrei dovuto capirlo" pensava "Avrei dovuto vederlo. Non l'avrei mai fatto partire, se avessi saputo. É stata tutta colpa di quei doppifondi, di quelle quinte allestite per farmi compiere salti disperati e previsioni euristiche, solo per farmi arrivare qui. É stata tutta colpa tua, tua e di nessun altro."
"Se ci fossi stata tu, sarebbe comunque morto in qualche altro modo. Un'infezione..."
"Sa curarle tutte"
"...un guasto al sottomarino..."
"Lo tengo sotto una manutenzione maniacale"
"...una ciurma nemica."
"Li avremmo sconfitti, li avremmo sconfitti tutti."
"Non darti colpe che non hai." Concluse infine la donna "Pensa a cosa puoi fare della vita che ti resta, trovati uno scopo. Pensa al Reverie: avevi insistito tanto per prendervi parte. Ora, da brava, sopporta questa prova. Poi ti lascerò in pace fino alla riunione dei Draghi Celesti. Va bene?"
Artemis annuì con rassegnazione, mentre Estelle correva a prendere il necessario per lavare via il vecchio trucco e applicargliene uno nuovo di zecca.

Quando Mugiwara aveva urlato "Rotta per Zou!", trascinando in quel coro quel che era rimasto della sua ciurma, Law sentì il suo cuore malconcio strapparsi in due: se da un lato non vedeva l'ora di riunirsi ai suoi compagni, temeva il momento in cui gli avrebbero chiesto perché era da solo.
L'ope ope cuciva incessantemente, generava tessuti e cartilagini, rinsaldava nervi e lo faceva tornare a percepire ogni sensazione: il freddo dell'aria viziata dell'infermeria, il caldo del sangue nelle sue vene, il pizzicore dei muscoli e della pelle in risposta a tutti quegli stimoli concentrati.
Non che la mente fosse in condizioni tanto migliori.
Oltre a essere fisicamente ed emotivamente esausto, più di quanto non avrebbe voluto ammettere ad alta voce, il giorno dopo gli eventi di Dressrosa, Sengoku era personalmente sbarcato sull'isola.
"In vesti informali", assicurava, prendendo in giro ogni singola persona avesse la più vaga egida dei Marines attaccata addosso.
Per favorire la sua guarigione il più possibile, Law aveva realizzato che il miglior modo di evitare stress indesiderato era escludere dalla sua mente le voci più irrazionali attorno a sé, così da non tartassare le molte parti del suo cervello orientate alla logica. Ma il nome dell'ex Grand'Ammiraglio si intrufolò tra le sue sinapsi con la stessa irruenza di un coltello, quando Mugiwara lo pronunciò.
Ferito, indebolito e senza dire niente a nessuno, il Chirugo aveva scelto di sfidare la sua fortuna e tutti i marines dispiegati sull'isola per incontrarlo. Il suo fantasma l'aveva inseguito per tutto il viaggio della speranza che aveva compiuto da piccolo. Portava sempre grandi litigate, le uniche che Corazòn e Artemis avessero mai avuto, le uniche domande a cui lei non avesse mai voluto rispondere.
Quando lo trovò, l'uomo aveva la sua stessa aria indagatrice e si aggirava tra le macerie e quel che restava dei vicoli come in cerca di qualcosa.
Fu un incontro molto diverso da come se l'era immaginato. Parlarono di Rocinante, del grande atto d'amore che aveva compiuto impegnandosi a curarlo. Cercarono delle ragioni, degli interessi, un tornaconto tra le pieghe del suo voto, ma alla fine entrambi convennero che non fosse il caso di farlo. Lo ricordarono a modo loro, con grande affetto e profondi silenzi.
Sengoku non menzionò il suo incontro con Artemis, anzi, fece bene attenzione a evitare di nominarla: temeva che, sapendo di lei, Law avrebbe potuto intraprendere una missione suicida ed era certo che sua figlia non gliel'avrebbe mai perdonato.
Il Chirurgo, dal canto suo, aveva sentito il nome di lui pronunciato con così tanta rabbia, nel corso degli anni, da dubitare che i due fossero in buoni rapporti. Eppure l'uomo che aveva davanti era molto diverso da come gli scatti d'ira di Mama-Rose l'avevano sempre descritto.
Si era trascinato dietro quella discrepanza per giorni, un glitch a sfondo di tutto il resto.
Lo torturava anche in quel momento, mentre si ricontrollava e lasciava che Tony Tony Chopper facesse lo stesso, per assicurarsi che non ci fosse bisogno del suo aiuto.
"La guarigione procede perfettamente!" concluse la renna, facendogli scivolare sul palmo un medicinale distillato in una sfera traslucida "Ti ringrazio per l'aiuto che mi hai dato con il resto della ciurma: l'Ope Ope é un potere davvero straordinario. Mi sarebbe di grande aiuto, avere delle competenze come le tue su cui contare."
Law rispose con un sincero ma stringato "Non c'è di che", poi si avviò verso la stanza che gli era stata assegnata nella Going Luffy-senpai di Bartolomeo. Lungo il tragitto, prese a immaginare le domande che avrebbe ricevuto quando gli Heart si sarebbero riuniti. La quantità di esse che avevano per risposta "Non lo so" lo privava di un coraggio di cui non pensava di avere bisogno.
"Ti vedo bene, per essere morto. Stai quasi meglio di Brook." rise Robin, intercettandolo al capo opposto del lungo corridoio. Law sussultò, ma non comprese il senso delle parole della donna.
"Morto?" le fece eco, stranito.
"A un certo punto é girata la notizia che fossi rimasto ucciso" spiegò lei con un lieve sorriso dipinto in faccia, come ogni volta parlasse di fatti tanto macabri "Ovviamente é stata smentita, ma ci hai fatti preoccupare."
"Mi hanno dato per morto?!" ripeté il chirurgo a volume appena più alto, sgranando gli occhi.
"Sì, é quello che ho detto" confermò ancora, osservando incuriosita il comportamento insolito di lui: si voltò brevemente e sfregò con nonchalance il pomello di una porta, mentre l'archeologa dei Mugiwara capiva il motivo di tanta preoccupazione.
"Ferro? Non ti facevo superstizioso."
"É il mio Secondo" soffiò, ricomponendosi "Impazzisce per queste cose e, di riflesso, ha fatto impazzire un po' tutti"
"Ci credo ancora meno."
"Oh, credici." le assicurò "Avresti dovuto vederla quando ha calcolato male le atmosfere e si sono crepati tutti i vetri del Polar Tang: é rimasta due giorni interi chiusa nella mensa per evitare di riflettersi su una superficie rotta."
"Chi l'avrebbe mai detto" sospirò la donna, notando la vaga malinconia sul volto di Law.
"Puoi parlarne, se vuoi." lo invitò, dopo una vaga esitazione "Per Luffy questo non é solo un gioco di potere. Ti rispetta, crede in te, tutti noi lo facciamo. Sono sicura che gli farebbe piacere aiutarti, se gli dicessi come."
Per un attimo, fu tentato di dirglielo. Arrivò perfino a dischiudere le labbra, ad approntare la richiesta per il suo personale miracolo a quello sconclusionato messia.
Poi si ricordò delle parole con cui era sparita.
"Devi lasciarmi andare, fallo per la ciurma." lo aveva implorato con il cuore a pezzi, raccogliendo tutta la forza di volontà di cui poteva disporre. Gli aveva affidato tutto ciò che era rimasto: la ciurma, la loro vendetta, il sogno di Raftel.
Ma non fu solo quello a tornargli in mente: una voce diversa, pregna di scherno, tornò nitida nel suo cervello come un impulso indesiderato.
"Ancora credi alle sue puttanate?" l'aveva preso in giro un Doflamingo in catene, con gli occhiali spaccati e il sorriso dipinto di sangue. Neppure la muraglia di marines approntata per trascinarlo a Impel Down riusciva ad attutire le sue stoccate.
"Quella donna é una fottuta farsa" insisteva, "Le servivi solo per levarmi di mezzo, il tuo grande sogno é un capriccio. Guardati intorno! Ancora non hai capito che ti ha mandato a morire? La Reina é al sicuro, nei bei castelli di Marijoa, e tu sei vivo per miracolo. Ti ha abbandonato, Law. Benvenuto fra noi: sei solo l'ultimo della sua schiera di illusi."
Con quel pensiero, il Chirurgo deglutì la sua preghiera e il castello di dubbi che Dressrosa gli aveva donato. Un'altra croce sulle sue spalle, che pesava anche se alla vita del sopravvissuto credeva di essersi abituato.
"Atteniamoci al piano" concluse, fregiandosi del suo innato stoicismo "Sarà abbastanza, ne sono certo."

"Su, signorina, sorrida un po'" la incalzò ancora Estelle "Sarà la sua prima apparizione ufficiale, non vorrà essere imbronciata!"
Guardando il suo riflesso nello specchio della stanza di sua madre, Artemis si chiese come avessero fatto le dita grassocce della donna alle sue spalle a trasformarla in quel modo. Le sembrava talmente imprecisa, mentre prendeva i cosmetici dai loro piccoli barattoli e glieli spalmava generosamente sul volto.
Dall'incidente di pochi giorni prima, le era sembrata più guardinga del solito. Gli occhi azzurrissimi custodivano un vago timore ogni volta che le si avvicinava e aveva iniziato a fare attenzione a parlare il meno possibile. Gli incitamenti, invece, avevano continuato a piovere dalle rosee labbra a cuoricino di Estelle fin dalle prime fasi di quella complessa mattinata, dal trucco all'elaborata vestizione che gli abiti cerimoniali dei Draghi richiedevano.
Tuttavia, se non fosse stato per le montagne di correttore che le aveva applicato, Artemis avrebbe distinto chiaramente sul suo volto le rughe intorno alle palpebre e gli antiestetici aloni cinerei al di sotto.
Si sforzò. Sorrise.
Distese le labbra, le guance imporporate di fard si contrassero abbastanza da ingoiare lo sguardo vuoto.
L'illusione durò pochi secondi, ma bastò perché Estelle iniziasse ad applaudire euforica.
"Proprio così, signorina, vedete quanto siete più graziosa? Se vi porrete in questo modo non potranno resistervi, vedrete!"
"Hai ragione, Estelle" convenne Ana, emergendo da dietro un bel paravento in legno scuro, accompagnata da due dame che ancora puntavano spille tra gli strati di tessuto.
Anche lei indossava le vesti d'ordinanza: una sontuosa mantella bianca fluiva in un ricco scollo sul petto e la seguiva con un pesante strascico, lo stesso con cui la stessa Artemis stava lottando. Al di sotto, una casacca viola nascondeva le sue clavicole in un'elegante sovrapposizione.
La donna si avvicinò a sua figlia, facendo emergere la mano affusolata dalle ampie maniche.
"Ma forse queste bende dovremmo toglierle" avanzò, riuscendo a malapena a sfiorare il gancio di ferro sulla nuca della giovane. Artemis si scostò immediatamente, battendo appena le dita sul collo con un'espressione infastidita.
"Se era la cicatrice a preoccuparti, Estelle avrebbe potuto nasconderla." sospirò Ana accarezzandole l'ovale del volto, gli occhi ulteriormente affilati da lunghe ombre di trucco nero "Non importa, non abbiamo tempo di discutere: é ora di andare."
La sua mano si posò aperta sulla spalla di Artemis, guidandola oltre le porte della stanza.
Il corridoio in cui fu catapultata era più luminoso che mai. L'aria essenziale della camera fu rimpiazzata repentinamente dallo sfarzo del palazzo reale.
La luce entrava padrona dagli infissi, le pesanti tende erano state scostate per far sì che il sole di quel primo pomeriggio potesse riflettersi sui preziosi decori oro dei muri intonacati.
Chiunque lavorasse nel perimetro del castello sembrava essersi riversato ai lati del loro percorso. Distanziati e ordinati come tanti soldatini, rivolgevano a lei e a sua madre delle profonde reverenze al loro passaggio.
Artemis, d'altro canto, sembrava non riuscire a perdere le sue vecchie deformazioni. I pensieri più disfattisti e i rimpianti che da giorni si inseguivano tra le sue sinapsi avevano ceduto il posto a una procedura talmente naturale da essere diventata un istinto. Percepiva i pensieri e le intenzioni di chi la circondava, rubandoli al loro linguaggio del corpo.
Contava persone, passi, metri, secondi, le stramaledette ortensie, le vie di fuga e le strade chiuse.
Lasciando le dimore reali per giungere al castello Pangea, la servitù fu rimpiazzata da schiere di Marines, oltre i quali i sovrani di tutti i mari si ammassavano solo per poter dire di aver visto i Draghi Celesti passare.
Distinse le guardie, le divise, ogni minima imperfezione nell'indossarle. Sezionò loro e la loro attrezzatura, il grado, l'età, la corporatura, mettendo un piede dietro l'altro attraverso i giardini e i corridoi, fino a giungere dinanzi alle porte della sala dei ricevimenti che sua madre si era tanto prodigata ad arredare.
L'ultimo soldato ne sorvegliava l'ingresso come il Cerbero e la sua stazza la costrinse ad alzare lo sguardo. Le era bastato l'orlo della camicia fiorita per riconoscerlo. Sebbene ora fosse nascosta da un doppiopetto candido, il taglio della giacca era lo stesso di quella rosso fiamma che indossava a Marineford, sotto il mantello da Ammiraglio.
Rievocando gli stessi momenti, Sakatsuki la scrutò con un astio non ricambiato: l'espressione vuota di Artemis non si era minimamente incrinata durante la sua asettica analisi.
L'aura che emanava era un elettrocardiogramma piatto, non troppo diversa da com'era stata nei giorni precedenti. Avrebbe potuto custodire tutto e niente tra le pieghe di quel suo cervello, sarebbe potuta essere vigile o completamente assorta, presente e assente.
"È una morta che cammina", vociava la servitù da giorni, ben attenta a non farsi sentire. 
Ciò di cui il Cane Rosso era certo, tuttavia, era che quella davanti a lui fosse una persona completamente diversa dalla Senza Faccia che aveva intravisto nella Guerra dei Vertici.
"Sant'Ana, Sant'Artemisa" le salutò guardingo, nella voce lo stesso agghiacciante timbro con cui aveva decretato la condanna a morte di Ace "Benvenute al Reverie. Sono arrivati quasi tutti."
Contrariamente a quanto Artemis aveva creduto, Sakatsuki non entrò, né lo fece alcun marine, impegnati com'erano ad attendere gli ultimi ritardatari. La sala che l'aveva accolta, dopotutto, non ospitava estranei ed era sorvegliata dai migliori uomini che il Quartier Generale potesse dispiegare, tra truppe di terra e tiratori.
Sussultò quando la porta si chiuse dietro di sé, sentiva la tensione pesarle sulle vertebre lombari e cervicali, stringendole lo stomaco in una dolorosa torsione.
Era questione di un respiro, uno solo. Il difficile era scegliere quale. Erano tutti così critici e tutti così indifferentemente uguali.
Fu con quella consapevolezza che portò rapidamente indice e pollice alle labbra, estraendo una sottile lamina metallica da sotto la lingua. Si assicurò di stringerla tra due lembi dell'orlo della manica, spezzando il contatto con il suo corpo.
Senza più l'agalmatolite in circolo, il potere del Time Time diede ad Artemis un capogiro, inebriante come il primo sorso di un liquore esotico e allo stesso tempo familiare. 
Ana si accorse subito di cosa stava succedendo.
Provò a fuggire, perlomeno ad allontanarsi, ma qualsiasi salto compiesse terminava tra le stesse quattro mura, sotto gli sguardi attoniti degli affreschi bucolici e degli altri draghi celesti. Riconobbe i contorni di un loop temporale, rise tra sè, si sentì quasi insultata da un trucco tanto banale.
Ma la risata che le riempì la gola fu umida e metallica, più simile a un gorgoglio.
Quando il loop si svolse, l'unica cosa che entrò nel suo campo visivo fu il volto di sua figlia, sformato dallo sforzo e dalla rabbia. Fiotti di sangue arterioso, scuro e denso, inondavano i suoi bei tratti, al di sotto dei quali alla donna parve di riconoscere un sadico ghigno.
Nella gola, sentiva il freddo della piastra di agalmatolite che si era fatta strada fino alla trachea. Con il pollice protetto dalla stoffa della sua veste, Artemis continuava a fare pressione per approfondire il taglio e moltiplicare i danni ad ogni millimetro, mentre l'altra mano tremava, irrigidita sulla metà opposta del collo. Perfino la Senza Faccia era vagamente orgogliosa del suo lavoro: era stata un'incisone netta, precisa, di cui il suo Law sarebbe stato fiero. Dopotutto, aveva tanto insistito perché imparasse qualche rudimento per fargli da assistente.
Ana realizzò di non avere scampo. Sentiva l'ossigeno venirle strappato dai polmoni, il calore corporeo abbandonarla e il Tempo non rispondere ai suoi disperati richiami. In compenso, ubbidiva fedele alla sua assassina, ancorandola per lei alla struttura della realtà come una falena su una teca. Ne corrodeva la fisionomia, divorava muscoli ed epidermide, trasformando la metà sinistra del volto di Artemis in un doloroso mosaico di tessuti bruciati. Nonostante tutto, non mollò la presa sul collo di sua madre finché non fu certa di sentire la vita abbandonarla.
Le ultime parole del Drago si persero in un suono inarticolato e il tempo parve riprendere a scorrere più rapidamente.
Un fiume di suoni concitati la spinsero a svanire istintivamente. Fu un salto nel buio, un atto di fede per la sua guerra sacra. Non si prese nemmeno la soddisfazione di leggere lo sgomento sul viso di Akainu: quando i marines risposero alle urla terrorizzate dei nobili, trovarono solo il cadavere sfregiato di Ana riverso sul marmo, ai piedi delle tovaglie lilla che tanto stonavano con il borgogna del sangue che le impregnava.

   
 
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