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Autore: Mary P_Stark    31/07/2021    1 recensioni
Il piccolo paese di Nederland, Colorado, viene stravolto dalla notizia di un rapimento incomprensibile ed Emily Poitier, fotografa e scrittrice presso una piccola casa editrice della zona, è suo malgrado costretta a rivivere ciò che, vent'anni addietro, accadde a lei.
Sarà grazie all'aiuto dei suoi amici e di Anthony, sua vecchia fiamma, se riuscirà a non impazzire a causa dei ricordi, aiutando così a scoprire chi si cela dietro al rapimento e a recuperare, una volta per tutte, la serenità tanto cercata.
Genere: Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5.
 


Gennaio 1970 – Nederland

 
Gettando una maglia nella sacca che avrebbe portato con sé a Fort Carson, dove sarebbe poi stato smistato in una delle tante compagnie dirette in Vietnam, William guardò di straforo il padre e sibilò: “Finalmente ti liberi di me. Spero sarai soddisfatto.”

“Pensi davvero che mi faccia piacere sapere mio figlio in quell’inferno di palme e vietcong?” replicò Darren Consworth, stringendo la mano sul pomolo del bastone su cui reggeva il suo peso.

La ferita che aveva riportato durante una brutta battuta di caccia – finita male non solo per lui, ma anche per un altro paio di suoi amici – gli pesava particolarmente, in giornate come quelle.

Nederland sembrava scomparire tra alte coltri spumose e gelide e i suoi acciacchi, spesso dimenticati, tornavano a infiacchirlo, facendolo sentire molto più vecchio dei suoi trentanove anni.

La giornata, di per sé plumbea e triste, sembrava però rispecchiare il suo animo uggioso e tormentato. Non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che stava mandando il suo unico figlio in guerra.

Sprezzante, William non sembrò accorgersi del dolore del padre e, con un gesto secco, si infilò un pacchetto di sigarette nella tasca posteriore dei pantaloni. Sorridendo quindi con fare sardonico, chiosò: “Non aspettavi altro che di darmi una lezione, e il caro Zio Sam ti ha dato una mano, no? Non sei contento che non spetti a te farmi passare la voglia di fare quel che voglio?”

“Non devi vederla così” sospirò Darren, avanzando di un passo all’interno della stanza del figlio.

Accigliandosi subito dopo, l’uomo percepì l’inconfondibile e dolciastro odore della marijuana e, per quanto gli spiacesse ammetterlo, per un attimo diede ragione alle parole profferte dal figlio. Sperava davvero che quell’esperienza estrema lo rimettesse sulla retta via, ma era terrorizzato dal fatto che potesse accadere l’esatto contrario.

I ragazzi che tornavano da quell’angolo sperduto del mondo sembravano dei fantasmi, degli autentici ruderi umani, e lui non voleva che questo accadesse anche a Will.

Lasciarlo però alle sue discutibili compagnie e all’abuso di alcool e droghe, non era un’ipotesi attuabile. Finora, nessuno in paese aveva scoperto cosa, in realtà, William andasse a fare a Denver nei week-end, ma non era del tutto certo che avrebbero potuto coprirlo per sempre.

Il suo vecchio amico Gareth Simpson gli era stato di grande aiuto, in questo, avendo più volte fatto chiudere un occhio agli agenti di polizia di Denver, quando William si era cacciato nei guai. Avere dei parenti stretti all’interno del Distretto di Polizia più grande della capitale aveva giovato, e Gareth si era sempre detto disponibile a mettere una parola buona per Will.

Che lo facesse per sincera amicizia, o per farsi perdonare ciò che era successo a Julie anni addietro, Darren non aveva mai voluto saperlo, né mai aveva chiesto all’amico di scuola spiegazioni in merito.

Il solo ricordo di come aveva trovato la sua Julie, una tarda notte di quasi vent’anni addietro, di ritorno dalla festa per i diciotto anni di Gareth Simpson, lo faceva ancora rabbrividire.

Stringendo la mano sul pomolo del bastone, Darren rammentò perfettamente la sensazione di umidore dell’abito di Julie, macchiato in più punti di sangue raggrumato e denso, e che lui aveva sfiorato con dita tremanti.

Quelle stesse dita avevano toccato il volto tumefatto di lei, le sue lacrime copiose e, il più delicatamente possibile, l’avevano aiutata a salire in auto per accompagnarla in ospedale.

I suoi genitori lo avevano scongiurato di lasciarla perdere, di far sì che risolvesse da sola ciò che le era accaduto, ma lui si era rifiutato. Aveva amato Julie fin da quando aveva compiuto tredici anni e, per nulla al mondo, quel sentimento avrebbe mai potuto cambiare.

L’aveva sposata il giorno dopo il suo diciottesimo compleanno, incurante della lieve curva dell’abito di lei all’altezza del ventre, incurante delle occhiate curiose e feroci dei pochi presenti.

Ergendosi a corazza difensiva, aveva protetto la sua Julie dallo stigma sociale – che aveva frainteso tutto, addebitando colpe solo a lei – e, con la forza della persuasione e della cocciutaggine che lo contraddistingueva, aveva fatto accettare la cosa anche ai genitori.

La verità era stata messa sotto silenzio dal padre di Gareth, l’allora sceriffo di Nederland e, da quel giorno, il nome di Paco Ramirez – cugino materno di Gareth – non era più stato neppure sussurrato.

Il bambino nato otto mesi dopo il loro matrimonio era stato tacciato di essere stato concepito al di fuori dei sacri vincoli cristiani ma mai nessuno, in tutta Nederland così come in nessun altro luogo, aveva mai conosciuto la verità.

William era stato cresciuto con il nome di Darren a fargli da scudo e, quando il clamore per quel matrimonio riparatore aveva cessato di essere sulla bocca di tutti, nessuno aveva più avuto nulla da dire.

Come il vento, anche le parole non restavano mai ancorate a un solo luogo, e quelle che avevano chiacchierato su di loro erano svanite col passare delle stagioni.

Darren, semplicemente, aveva preso William tra le braccia e, dichiarandolo suo, lo aveva amato al primo sguardo. Aveva amato fin dall’inizio quel figlio che non aveva una sola goccia del suo sangue, per un semplice – ma importantissimo – motivo.

Quel pargolo era cresciuto sotto il cuore della sua Julie, protetto da quella donna bellissima e coraggiosa che lui aveva amato fin dall’inizio e, per quel motivo, se n’era sempre preso cura.

Quello stesso figlio però, in quel momento, lo stava guardando con odio cieco, convinto che quell’arruolamento forzato fosse il castigo per tanti anni di vita dissoluta e fuori dalle regole.

Forse, se avesse saputo la verità, se avesse saputo con quanta dedizione lui lo avesse condotto nel mondo dandogli il suo nome e la sua protezione, si sarebbe ricreduto.

O forse, lo avrebbe odiato ancora di più.
 
***

Michael Meyerson si accodò alla breve compagnia di giovani di Nederland pronta per partire per Fort Carson, la certezza nei propri mezzi stretta tra le mani e solo un accenno di paura a irrigidire i tratti del suo viso.

I genitori non si erano dilungati molto con i saluti, ligi alla regola non scritta – almeno nella loro famiglia – che le lacrime servivano solo per i funerali e i battesimi.

Mike li aveva salutati con un abbraccio e con la promessa di scrivere loro ogni qualvolta gli sarebbe risultato possibile dopodiché, con la sua sacca sulla spalla, era uscito di casa per scendere in piazza.

Lì, aveva intravisto il pullman pronto per portarli a sud di Colorado Springs e, da lì, fino al luogo in cui avrebbero ricevuto un primo addestramento e, infine, il ricollocamento finale in una qualche parte sperduta del Vietnam.

Michael era non soltanto orgoglioso di servire il proprio Paese ma anche di rendere fiero suo padre che, vent’anni prima, aveva egregiamente servito sotto il comando del Generale McArthur durante la guerra di Corea.

Pilota dell’aviazione, aveva portato a termine con successo numerose battaglie e, solo a stento, era riuscito a salvare se stesso e altri quattro aerei prima di ripiegare verso una delle loro portaerei.

Trasportato d’urgenza nel più vicino ospedale dell’ONU, suo padre Raymond aveva subito l’asportazione di due dita della mano destra – distrutte da un colpo di artiglieria che aveva frantumato parte della carlinga dell’aereo – ed era stato congedato con onore.

Mickael sperava soltanto di poter tenere alto il buon nome della famiglia… e di non lasciarci la pelle, se fosse stato possibile.

Dopo aver sistemato la propria sacca nello scomparto del bus dedicato ai bagagli, Mike salì con due rapidi passi sulle scalette del mezzo prima di avviarsi verso il fondo, dove Cooper Whindam stava già sistemandosi.

Raggiunto l’amico, batté pugno contro pugno con lui, si lasciò cadere sul vicino posto libero dopodiché, lanciata un’occhiata agli altri ragazzi presenti – saliti a Estes Park – dichiarò: “Vuoi scommettere su quanti di noi torneranno a casa, Coop?”

“Tu e le tue scommesse, Mike!” sghignazzò Cooper, lanciando distrattamente uno sguardo fuori dal finestrino prima di aprirsi in un sorriso.

Michael si allungò a sua volta verso il finestrino per capire il perché di quella reazione e, nel vedere Gilda Mattei con i suoi castani capelli scossi dal vento inclemente di quella mattina, ghignò e disse: “Beh, tu devi tornare per forza.”

Detto ciò, salutò Gilda mandandole un bacio, cui lei replicò con una gran risata prima di allontanarsi non appena il bus iniziò la sua marcia.

Nel rimettersi seduto, Michael aggiunse più seriamente: “Ti sei dichiarato a Gilda?”

Cooper assentì e, nel mostrargli una piccola fotografia – che teneva gelosamente nel portafogli – mormorò: “Le ho detto che ci sposeremo non appena tornerò dal fronte e lei mi ha risposto che, anche se tornassi a pezzi, mi vorrebbe lo stesso. Alla peggio, ha detto che penserà lei a ricucirmi con un punto a giorno.”

Mike scoppiò in un’allegra risata, a cui si unì dopo un attimo anche Cooper.

“Si troverà un uomo non appena avremo girato l’angolo, non ti credere” intervenne non richiesto William Consworth, lasciandosi cadere su un sedile dinanzi a loro e azzittendo, in un colpo solo, le loro risate. “Come puoi pretendere che una ragazza italiana possa pensare di aspettarti? Hanno il sangue più caldo delle altre, non lo sai?”

Mike gli diede uno spintone contro la spalla, borbottando: “Non fare lo stronzo, Will. Non sono cose carine da dire.”

“Oh, come mi dispiace, Michael! Credi dovrei sciacquarmi la bocca con il sapone?” ironizzò a quel punto Will, frizzandolo con uno sguardo che non aveva nulla di amichevole. “E’ così che fa tuo padre, con te, quando alzi troppo la cresta? O dici sempre ‘sissignore’ come un bravo soldatino?”

Coop diede un colpetto spalla contro spalla all’amico perché non rispondesse a una simile provocazione e, nel rimettere a posto fotografia e portafogli, si limitò a dire: “Pensala come vuoi, Will. Non mi interessa.”

“Figurati se Cooper Whindam risponde a un qualsiasi tipo di provocazione. Ormai, dovresti chiamarti San Coop. Mai pensato di diventare prete? O ci hai già dato dentro con Gilda, e non puoi più farlo?”

L’attimo seguente, William scoppiò in un’arida risata di scherno, si levò in piedi e si allontanò da loro, trovandosi un posto libero qualche fila più avanti.

Non vide perciò mai lo sguardo omicida che Cooper gli lanciò, né la mano di Mike artigliata sulla spalla dell’amico, pronta a placcarlo nel remoto caso in cui lui avesse voluto prenderlo a pugni.

La calma olimpica di Cooper, però, tornò ben presto a impadronirsi di lui e, con uno sbuffo, si lasciò andare contro lo schienale del sedile dopodiché, coprendosi il viso con un berretto, mugugnò: “Svegliami quando arriviamo.”

“Okay” assentì Michael, dandogli un’ultima pacca sulla spalla prima di tornare a scrutare il profilo secco di William.

Non aveva mai capito perché William fosse così diverso dai genitori, che erano tra le coppie più rispettate e altolocate di tutta Nederland.

Will era sempre stato un attaccabrighe, un fannullone e un perdigiorno, perciò si stupiva non poco che lo sceriffo Simpson non lo avesse mai beccato a fumarsi una canna, o qualcosa di peggio.

O era molto furbo, o qualcuno lo aveva coperto fino a quel momento. Forse, lo stesso sceriffo.

Era di dominio pubblico che Gareth Simpson e Darren Consworth fossero amici di vecchia data, e Mike non avrebbe trovato strano che, in nome della stagionata amicizia, Gareth avesse chiesto al padre di chiudere un occhio.

“Ormai dovrebbe andare in pensione, se chiude gli occhi su gentaglia simile” borbottò tra sé Mike, lasciando che lo sguardo vagasse sul paesaggio circostante e che, almeno per diversi mesi, non avrebbe più rivisto.
 
***

Fort Carson brulicava di giovani di ogni genere, richiamati dalla leva obbligatoria per prendere parte alla guerra in Vietnam.

Nonostante i comunicati stampa dicessero il contrario, e i frequenti discorsi del Presidente promettessero la vittoria degli Stati Uniti in tempi brevi, l’aria che si respirava alla base era di tutt’altro genere.

Michael si sorprese un poco nel vedere i musi lunghi di alcuni ufficiali, così come la tendenza quasi unanime di voler parlare poco – e in maniera secca – di ciò che accadeva oltreoceano.

Trovare notizie fresche ma, soprattutto, esaustive, sembrava impossibile e, dopo quasi un mese di permanenza a Fort Carson per l’addestramento, le cose non sembravano essere cambiate.

Parlandone con Cooper e Spike Collins, un ragazzo di Boulder conosciuto alla base, Mike espresse tutti i suoi dubbi e le sue lagnanze per quel prolungato silenzio.

Allungando a Michael un pezzo di cioccolato, Spike scrollò le spalle e replicò ombroso: “Non dovrei dirlo, perciò vi chiedo il silenzio assoluto, ragazzi…”

Al loro assenso, il giovane proseguì dicendo: “… mia madre lavora come centralinista proprio qui alla base e, durante un colloquio tra il comandante McCallahan e un alto papavero di Washington, non sono passate parole incoraggianti.”

“Ma come…” tentennò Cooper, non sapendo se credergli o meno.

“Una delle linee è rimasta aperta, e le ragazze del centralino hanno sentito tutto. Per evitare guai hanno preferito mantenere segreto il tono della chiamata – e neppure io so di preciso cosa si siano detti – ma mia madre mi ha pregato di fare molta attenzione, perché non è tutto vero quello che ci dicono.”

Michael sbuffò indispettito, gettò con rabbia la cartina del cioccolatino offertogli da Spike e, dopo aver scrutato furioso quell’incolpevole pallina di carta cadere nel cestino, borbottò: “Pensano che mandarci allo sbaraglio, credendo di poter vincere, sia meglio?”

“Non so, Mike, ma io ho promesso di tacere e vi pregherei di fare lo stesso. Mia madre rischierebbe il posto, se qualcuno parlasse” sottolineò cupo Spike.

“Tranquillo, non parleremo di sicuro, ma forse i generali dovrebbero pensare a chi stanno mandando in guerra, visto che lo scenario non è così roseo come ci dipingono i giornali” sbuffò Cooper. “Dopotutto, le manifestazioni di ottobre e novembre scorsi non erano proprio delle panzane dei pacifisti.”

“Foss’anche, siamo qui per dare il nostro meglio…” replicò Mike prima di lanciare un’occhiata disgustata a un angolo della caserma e aggiungere: “… anche se alcuni sembrano averlo dimenticato.”

Spike e Cooper ne seguirono l’occhiata e, nell’individuare le figure di William Consworth e Carter Anderson, sbuffarono con ironico disprezzo.

“Quei due si faranno ammazzare al primo giorno di guerra, se continuano a fumare paglie a quel modo… o schiatteranno prima ancora, se si fanno beccare da Granata White” motteggiò Spike.

Thomas ‘Granata’ White era uno dei loro supervisori, sopravvissuto alla Guerra di Corea nonostante fosse finito in un campo minato coi fiocchi. Dai resoconti che si sentivano su di lui, era stato in grado di oltrepassare quell’autentico inferno di bombe grazie a una maledettissima scimmia.

Quell’utilissimo animale si era fatto strada in mezzo al campo senza far esplodere una sola bomba, per poi scomparire tra le piante della foresta pluviale, lasciando l’allora caporale sano e salvo, e senza neppure un graffio, fuori dal territorio nemico.

Fosse o meno vera, quella storia, l’attuale Tenente Colonnello White ne sapeva una più del diavolo ed era una persona di cui aver paura.

“Saranno affari loro, se finiranno male. Will e Carter sono stati avvertiti più di una volta, e io di certo non perderò il sonno per loro due” sentenziò Cooper, levandosi in piedi per tornare in camerata.

Gli amici lo seguirono senza dire nulla, pensandola esattamente come lui. Non aveva alcun senso perdere tempo per due come loro e, se mai vi fosse stata una giustizia in Cielo, vi avrebbe pensato lei a mettere le cose a posto.

Loro dovevano soltanto pensare a portare a casa la pelle.
 
***

Valle di A. Shau – Marzo 1970


Una stramaledettissima base. Dovevano rimettere in sesto un avamposto al confine con la Cambogia e che, a quanto pareva, era di estremo interesse americano che venisse mantenuta operativa.

William aveva desiderato mettere mano al suo M16 fin dal primo giorno in cui era sbarcato a Saigon e, con aria stanca ma determinata, aveva visto i primi musi gialli del posto.

Invece no. Avrebbe dovuto fare il manovale, usare badile e piccone per avere ragione di quelle pietre giallastre e rimettere in sesto l’avamposto Ripcord1.

Forse, dopotutto, suo padre gli aveva fatto gettare contro una maledizione, altrimenti non poteva spiegarsi una simile iattura. Invece di dimostrare il proprio valore – e far fuori qualcuno con l’avallo dei grandi capi – avrebbe fatto proprio ciò che aveva sempre evitato fino a quel momento.

Lavorare.

Muovendosi al suono rabbioso dei grugniti del comandante di guarnigione, che urlò loro dove dislocarsi e dove trovare il necessario per lavorare, William si ripromise di fare il meno possibile. Avrebbe trovato sicuramente qualche idiota che avrebbe lavorato per lui.

Nel pensarlo, lanciò un’occhiata sardonica a Cooper e Spike, separati dal loro caro Michael – inviato in gran segreto in Cambogia per delle missioni segrete – e, tra sé, puntò a loro come i suoi prossimi schiavi da far sgobbare al posto suo.

Senza Mike, quei due erano vulnerabili e facilmente manipolabili, perciò si sarebbe fatto beffe degli ordini e avrebbe delegato a loro ogni suo impegno all’interno di quello schifoso campo pieno di polvere.
 
***

Valle di A. Shau – 23 luglio 1970
 
Era stato accontentato. Aveva potuto snudare la sua arma, fare fuoco sui vietcong e dimostrare di non essere il completo fallimento che il padre credeva lui fosse, eppure William non era ancora soddisfatto.

Forse dipendeva dal fatto che, nonostante avesse speso sudore e sangue su quel maledetto crinale, le perdite erano state ingenti, quasi una decina di mezzi erano stati distrutti e, come smacco finale, gli elicotteri avevano dovuto evacuarli.

Avevano perso.

Erano stati sconfitti da un esercito di musi gialli che, contrariamente a loro, conosceva ogni più piccolo anfratto di quei luoghi, ogni più infima tana di serpente in cui nascondersi.

E proprio come serpenti li avevano attaccati ventitré giorni prima, bombardandoli con un fuoco incrociato dai due lati della montagna. Quel susseguirsi incessanti di attacchi aveva falcidiato le scorte e i mezzi del Ripcord, costringendoli all’impensabile. All’inaccettabile.

Avevano dovuto arrendersi perché impossibilitati a sferrare attacchi degni di tale nome e, come codardi, si erano dati alla fuga grazie al fuoco di copertura della contraerea.

Stringendo le mani a pugno sul suo M16 – ancora tiepido per aver sparato fino all’attimo prima di salire su uno degli huey2 giunti per salvarli – William si piegò in avanti per non mostrare agli altri la propria frustrazione.

Non poteva accettare di aver perso contro quegli animali. Eppure, il potente esercito degli Stati Uniti era stato messo in fuga come un branco di conigli, e lui non avrebbe potuto mai ammettere questo con i suoi genitori.

Doveva dimostrare a ogni costo di non essere il perdente che tutti lo ritenevano essere e, una volta ottenuta la gloria, l’avrebbe gettata in faccia al padre e se ne sarebbe andato via di casa.

Lui non era un drogato o un perdigiorno, come più volte si era sentito invece accusare dal padre.

Lui manteneva sempre ogni cosa sotto il proprio controllo, e gli svaghi che si prendeva ogni tanto non erano un suo demerito o una sua debolezza, poiché lui sapeva gestire la cosa. Ogni volta.

Lui non era debole, e lo avrebbe dimostrato.

 
 
 

 
 
1 Ripcord: faccio riferimento alla vera Base di Fuoco di Ripcord, in cui l’esercito americano subì una schiacciante sconfitta da parte dell’esercito vietnamita. Anche le date riportate coincidono con la realtà.
2 Huey: nomignolo utilizzato per il più famoso elicottero utilizzato in Vietnam durante la guerra. Il suo nome tecnico è Bell UH-1 Iroquois.
 
 
N.d.A.: questo flashback, a cui ne seguiranno altri, serve a comprendere ciò che accadrà più avanti, e le conseguenti reazioni di coloro che vengono raccontati in questi capitoli.
  
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