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Autore: edoardo811    12/08/2021    5 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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Il Monte Tate

 

 

Naito affondò i denti nel pesce, vorace, e gli strappò via la testa. Masticò con voga, divorandone gli occhi, il cervello, gli organi, perfino le lische, che si ruppero tra i suoi denti con degli scricchiolii. 

Non avrebbe mai creduto che la sua mandibola potesse essere così forte da rompere le ossa. La mamma gli aveva sempre preparato cibo delizioso, morbido, caldo. Ma da quando aveva conosciuto l’Uomo Pallido non mangiava quasi mai. Era costretto ad accontentarsi di frutta, funghi e ortaggi che trovava in giro, talvolta di pesci o animaletti selvatici, crudi. E la cosa più sorprendente, era che il loro sapore gli piaceva pure. Gli piacevano le lucertole, gli piacevano i roditori, gli piacevano gli uccellini, e gli piaceva sentire i loro ossicini che si rompevano tra i suoi denti. 

Ogni tanto, però, si fermavano come quella sera. Accendevano un fuoco e ci mettevano sopra quello che trovavano. Quella volta, Naito aveva catturato due pesci da un ruscello. Li avevano infilzati con dei ramoscelli e li avevano tenuti sopra il fuoco finché non avevano sentito odore di bruciato, un odore così invitante e delizioso che per poco Naito non aveva avuto la bava alla bocca. 

Divorò quel pesce in pochissimi minuti, inebriato dal suo sapore, dal suo odore, accecato dai crampi della fame. Non appena lo finì, si osservò i palmi ormai vuoti abbattuto, mentre il suo stomaco continuava a contorcersi. Avrebbe dovuto catturarne uno più grosso. 

«Tieni» disse all’improvviso l’Uomo Pallido, porgendogli il suo. Naito lo scrutò sorpreso, mentre lo fissava dall’altra parte del fuoco, gli occhi cremisi che luccicavano tra le fiamme. 

L’odore del pesce arrivò al suo naso, facendogli girare la testa. «Ma… tu non lo mangi?»

L’Uomo Pallido sollevò le spalle. «Se lo mangiassi o meno, non farebbe alcuna differenza. Da quando ho memoria, non esiste cibo in grado di saziarmi, né che abbia sapore. Potrei mangiare cento di questi pesci e non sentirei comunque nulla.»

Timidamente, Naito afferrò il pesce. «Non… non c’è proprio nulla che possa toglierti la fame?»

Quello sogghignò crudele. «Magari la carne dei mocciosi che fanno troppe domande.»

Naito sussultò e si riguardò dal dire altro. Mangiò il secondo pesce in silenzio e sentì finalmente i morsi della fame placarsi. Si domandò come potesse l’Uomo Pallido vivere avendo sempre fame, senza sentire alcun sapore per giunta. Doveva essere davvero dura. 

Spostò lo sguardo su di lui, trovandolo concentrato sul ruscello avvolto dalla notte. Quando non si allenavano o non erano in viaggio, capitava spesso che l’Uomo Pallido si smarrisse in quel modo. Fissava il nulla, come se stesse riflettendo su qualcosa, ma la sua espressione rimaneva sempre vuota, vacua, come se in realtà non ci fosse niente nella sua mente.

Cercava di ricordare. Non ricordava nulla, l’Uomo Pallido, nemmeno il suo nome. Non sapeva chi fosse, non sapeva perché si trovasse lì, non sapeva quale fosse il suo scopo. L’unica cosa che sapeva per certo, era che odiava gli umani. 

Ancora una volta, Naito provò un moto di pena per lui. Non doveva essere bello non sapere chi si era. Certo, lui aveva perso la mamma, però aveva ancora il suo ricordo. Ricordava i suoi sorrisi dolci, le sue carezze, la sua voce gentile che cantava per farlo addormentare. 

Si domandò se anche l’Uomo Pallido avesse avuto da qualche parte qualcuno come la mamma, qualcuno che gli voleva bene, che l’avesse accarezzato e che gli avesse sorriso. Forse era in pensiero per lui. Forse lo stava cercando, ma l’Uomo Pallido non poteva saperlo. O forse anche quella persona era stata uccisa dai mortali. Forse era per questo che lui ricordava di odiarli così tanto. 

«Cos’è quello sguardo, Naito?» gli domandò senza nemmeno voltarsi, facendolo trasalire di nuovo. «Mi stai forse commiserando?»

Naito rimase in silenzio, imbarazzato. L’Uomo Pallido si voltò verso di lui, facendo schioccare la lingua. «Tsk. Stupido moccioso. Faresti meglio ad imparare al più presto una cosa, Naito: io non sono tuo amico. Ti ho tenuto con me solo perché potresti tornarmi utile, ma se dovessi trovarmi in una situazione in cui la tua vita sarebbe in pericolo e salvarti comporterebbe un pericolo anche per me, io ti lascerei morire. E sarà meglio che anche tu faccia lo stesso in caso contrario. Se dovessi scegliere tra salvare me, o te stesso, pensa sempre, sempre, a te stesso. Pensa sempre a quello che conta di più.»

L’Uomo Pallido riportò lo sguardo sul fiume. «Se davvero desideri vendicare tua madre e diventare più forte, dovrai smettere di cedere alle tue emozioni mortali. In uno scontro di cui ne va della tua vita, ti rallenterebbero e basta. Sei un mostro, Naito, come me. Impara a comportarti da tale. Un mostro non ha amici, né famiglia. Un mostro non ha bisogno di nessuno a parte sé stesso.»

Naito assottigliò le labbra e distolse gli occhi da lui. L’Uomo Pallido aveva ragione, loro non erano amici. Era spietato con lui. Lo picchiava, gli faceva patire la fame e gli aveva fatto capire che nel mondo nessuno sarebbe mai stato buono con lui. L’unica che l’aveva fatto era la mamma, e lei era morta.  

Ma a Naito andava bene così. Perché anche lui stava usando l’Uomo Pallido. Era rimasto con lui perché sapeva che con i suoi insegnamenti avrebbe imparato a combattere e a difendersi da solo dai mortali che gli davano la caccia. 

Non lo considerava suo amico, non gli voleva bene, anzi, lo odiava. Se l’Uomo Pallido fosse morto, un giorno, lui ne avrebbe gioito.

E se invece non fosse successo, se l’Uomo Pallido non fosse morto, allora sarebbe stato Naito stesso, usando gli stessi insegnamenti che lui gli aveva impartito, ad ucciderlo.

 

***

 

Naito attraversò le valli del Tateyama, il volto nascosto dal cappuccio e la mano premuta sopra la bisaccia. Il suo occhio scrutò le ampie distese di verde, condite dal bianco delle nevicate e dalle ragnatele di ruscelli.

L’aria fredda del mattino punse la cicatrice sull’occhio. Era in viaggio da diversi giorni ormai, non mancava molto alla sua destinazione. Aveva percorso sentieri di montagna, valli e fiumi, accompagnato dal sole che splendeva, dai giorni di pioggia e dalle nevicate sporadiche. Non era ancora inverno, ma era pur sempre in montagna.

La sera si fermava per riposare le gambe e osservare le stelle, come faceva da quando era bambino. Ogni tanto scivolava in sonni inquieti, ma duravano poco, e finivano tutti allo stesso modo: fiamme altissime che si alzavano, grida strazianti in sottofondo e lui che si svegliava di soprassalto.

Viaggiare non era un problema per lui. Era abituato. Quando aveva conosciuto Orochi, l’aveva portato in ogni angolo del Giappone, visitando templi, monumenti, villaggi.

E uccidendo tutti i mortali sul loro percorso. 

Qualche mese prima, invece, aveva imparato a spostarsi nello Yomi. Essendo demone per metà, quel luogo non poteva ancorarlo come accadeva ai mortali. Sfruttare lo Yomi era stato molto utile per raggiungere l’occidente.

Laggiù, le regole le faceva Izanami, la dea della morte. Dea solo di nome, in realtà era un demone tanto quanto loro e gli altri dei non avevano alcun controllo sul suo regno. Non aveva battuto ciglio quando li aveva visti attraversare casa sua. Anzi, quando aveva scoperto che il piano di Orochi era quello di uccidere gli dei, lei gli aveva chiesto di risparmiare Izanagi, così da poter essere lei stessa a staccargli la testa.

Ma dopo che il piccolo dio greco che tanto avevano cercato di uccidere l’aveva accecato ad un occhio, aveva fatto a pezzi tutti loro, aveva restituito Ama no Murakumo ed era anche riuscito a sfuggire dalle grinfie di Izanami, laggiù aveva iniziato a tirare un’aria piuttosto pesante, per questo motivo Naito aveva preferito girarci alla larga.

Ripensare a quel piccolo dio fece nascere una smorfia infastidita sul suo volto. Quel ragazzo era la persona più ostinata a rimanere in vita che avesse mai conosciuto. Sapeva di non dover esistere, ma aveva lottato con le unghie e con i denti per ricamare il suo posto nel mondo. Ed era proprio per quello che aveva iniziato a rispettarlo, nonostante i loro trascorsi. E in un certo senso, lo invidiava perfino. Perché lui c’era riuscito davvero, aveva trovato una casa e persone che gli volevano bene.

E si era ricongiunto con sua sorella. Al pensiero di lei, Naito sentì un brivido lungo la schiena.

Forse un giorno li avrebbe rivisti. Non lo sapeva. In quel momento, aveva altro da fare.

Sapeva di essere vicino ormai. Ricordava quell’altopiano sul monte Tate. Era passato anche di lì mentre fuggiva dai suoi inseguitori. Quello che non ricordava, invece, erano tutti quei mortali che brancolavano. Se ne andavano in giro sbraitando le loro lingue arcaiche, facendo un trambusto tale da far impallidire uno stormo di tengu. C’era un nome per loro, un nome che lo faceva rabbrividire ogni volta che lo udiva.

Turisti.  

Non avevano alcun rispetto per quei luoghi, per le tradizioni, per coloro che li abitavano. Tutto quello che volevano era inquinare il paese con la loro immonda presenza e scattare “fotografie” con quegli affari di vetro e plastica grossi quanto un pugno che reggevano tra le mani, i cellulari.

Non aveva la più pallida idea di come funzionassero quegli aggeggi. Forse i mortali non erano gli unici a non poter scorgere ciò che le loro menti non potevano comprendere.

Cercò di evitarli il più possibile, passando per sentieri nascosti e meno frequentati. Di tanto in tanto incappava in loro, ma grazie alla Nebbia non sembrarono accorgersi che non era un umano. Anche se non credeva che sarebbero fuggiti se si fossero accorti di chi fosse in realtà. Era sicuro che avrebbero cercato di fotografare anche lui.  

Si rese conto che molti di loro dovevano proprio arrivare dall’America, per via della lingua. Sentirli parlare inglese gli ricordò quando aveva deciso di impararlo, prima di partire con Orochi per l’occidente. Non era stato davvero costretto a farlo, ma era stato bello per una volta dedicarsi a qualcosa che non fosse l’uccidere qualcuno.

Orochi, Hikaru, Bunzo e tutti gli altri, invece, sapevano parlare ogni lingua al mondo, forse perché erano mostri antichissimi, a differenza sua. Non era molto sicuro di come funzionasse il tutto.

Si sedette all’ombra di un albero, mentre il sole mandava i suoi raggi lungo tutta la valle. Doveva essere quasi mezzogiorno. Alcuni kodama fuggirono terrorizzati da lui, ma non se ne curò. Afferrò un kaki dalla bisaccia e cominciò a masticare rumorosamente, mentre sfogliava il Bushido. Aveva letto e memorizzato tutti i valori in quei giorni, ma non era ancora sicuro di sapere cosa il vecchio Musashi intendesse dire, quando gli aveva parlato di percorsi meno tortuosi.

E soprattutto non credeva davvero che quei valori potessero addirsi ad uno come lui. Erano stati scritti da mortali, per mortali. Lui invece era un mezzo demone. Non riusciva ad immaginarsi una situazione in cui “Gentile Cortesia o “Dovere e Lealtà potessero tornargli utili.

Ma se il vecchio Musashi, un samurai con più di quattrocento anni, gli aveva fatto quel dono e dato quel consiglio, significava che davvero ci credeva. Per questo motivo Naito si sarebbe comunque impegnato al meglio delle sue capacità per rispettare quel codice.

Alcuni schiamazzi gli fecero drizzare la testa. Si accorse di un gruppetto di mortali che stava andando verso la riva di un fiume e intuì che il suo piano di trovare un luogo tranquillo fosse naufragato. Facevano un chiasso infernale, specialmente i due mocciosetti che si spintonavano tra loro mentre un uomo e una donna cercavano di calmare gli animi. Assieme a loro, una coppia di anziani stava confabulando su quanto stupendo fosse quel luogo, mentre si asciugavano il sudore dalla fronte.

Osservandoli, una strana sensazione pervase il corpo di Naito. Non era più fastidio, o rabbia. Era qualcosa di molto diverso, ma di altrettanto doloroso.

Quei mortali erano noiosi, rumorosi, irritanti. Ed erano una famiglia.

Naito sentì una fitta di dolore al petto. Rimase immobile, a ammirarli da lontano mentre si mettevano in riva al fiume e uno dei due anziani, l’uomo, si allontanava da loro per scattare una fotografia. La madre invitò i figli a sorridere e loro, dopo un po’ di resistenza, la accontentarono facendo delle smorfie. Malgrado il chiasso che stavano facendo, per lui fu impossibile non notare la serenità nei loro sguardi.

Conosceva quella sensazione. L’aveva provata anche lui, una volta, tanto, tanto tempo prima.

Aveva perso un occhio, un corno si era spezzato, aveva subito lividi e tagli da cui aveva pensato di non guarire più, e nessuno di questi traumi si avvicinava al dolore che sentiva ogni volta che ripensava a sua madre Akane. Poteva ancora vederla nitida di fronte a lui, il caschetto di capelli neri come i suoi, il viso magro e il sorriso gentile. La sua voce dolce, le sue ninnenanne, le sue carezze, i suoi baci.

Erano bei ricordi, quelli. E quanto, quanto gli faceva male pensarci.   

L’immagine di sua madre scomparve, venendo rimpiazzata da una ragazza, la stessa che aveva visto la sera in cui era stato attaccato dal Clan Tsubaki.

Quegli occhi verdi e spenti, tristi, che un tempo aveva visto felici proprio in sua compagnia. Ripensò alle notti di guardia che avevano trascorso insieme, ad osservare la luna. Le loro risate che si smarrivano in luoghi celati, lontani dall’accampamento, da cui non avrebbero mai dovuto farsi sentire. Momenti trascorsi tirando fuori quel lato di loro che non avrebbero mai, mai dovuto tirare fuori. Troppo tardi l’avevano capito. Ormai era tutto finito. Aveva perso anche lei.

Aveva perso Hachidori.

Il fiume esplose all’improvviso, seguito dalle urla dei mortali. Naito trasalì, ritornando con la mente a quel momento. Qualcosa uscì fuori dall’acqua e afferrò uno dei bambini, il maschio, per poi svanire rapido com’era apparso nel fiume. Accadde tutto così in fretta che per un istante nemmeno lui riuscì a comprenderlo.

I mortali rimasero immobili, paralizzati, sconvolti tanto quanto lui. La bambina cominciò a piangere mentre la donna cadde in ginocchio, le mani tra i capelli. Urlò disperata il nome del figlio con tutto il fiato che aveva in corpo.

Non appena udì quel grido lancinante, una scarica di brividi percorse il corpo di Naito. L’aveva già sentito una volta. Non sarebbe rimasto fermo dopo averlo sentito di nuovo. Si mosse in automatico. Lasciò andare il Bushido e si fiondò verso il fiume, passando accanto ai mortali rimasti pietrificati.

Individuò immediatamente un kappa che nuotava sott’acqua a grande velocità, stringendo tra le braccia il bambino che malgrado tutto si stava ancora dimenando.

Sapeva quello che i kappa facevano ai bambini. Il solo pensiero rischiò di fargli rigettare il kaki. Accelerò il passo, correndo a filo con quella bestia e riuscendo a scorgere il suo sorrisetto crudele sotto la cresta dell’acqua. Attese il momento giusto per saltare, ma non appena vide il bambino smettere di dimenarsi, realizzò che non c’era più tempo da perdere.

Saltò in acqua spingendosi con quanta forza aveva nelle gambe. Piombò addosso al kappa, che sembrò accorgersi di lui soltanto quando si ritrovò il suo pugno premuto sopra il brutto muso. Una nuvola di bolle uscì dal suo becco, mentre Naito gli strappava il bambino dalle mani e se lo stringeva al petto.

Ritornò a riva con un salto, seguito da un’altra pioggerella d’acqua. Avvicinò l’orecchio al naso del piccoletto, rendendosi conto che respirava ancora. Un sorriso nacque sul suo volto: aveva trovato un altro piccolo guerriero.

Il fiume esplose di nuovo. Naito si voltò, trovandosi di fronte il kappa con il becco piegato e coperto di sangue marrone. 

«Che stai facendo, schifoso mezzosangue?!» muggì, con la voce ovattata a causa della ferita. «Quella è la mia preda!»

Naito strinse le labbra mentre lo fronteggiava. «E allora perché non vieni a riprendertela?»

Il kappa non se lo fece ripetere. Sfoderò i denti affilati e storti e si fiondò su di lui starnazzando come un animale impazzito. Naito attese finché non fu abbastanza vicino: il kappa agguantò l’aria, ma solo quello trovò, aria.

Grugnì per la sorpresa mentre Naito si scansava, proteggendo il bambino con un braccio e afferrando la wakizashi con la mano libera. Affondò la lama nel petto rimasto scoperto del kappa, che strabuzzò gli occhi per lo stupore.

«La prossima volta che hai fame, mangia un kaki» disse, mentre rigirava la lama nella sua carne.

Un lungo mugugno provenne dal kappa, che gli lanciò uno sguardo vitreo. Naito lo spinse indietro ed estrasse la wakizashi. Il kappa stramazzò a terra e l’acqua gli cadde dalla conca sopra la testa, facendogli emettere un gorgoglio soffocato. Si girò e cominciò a strisciare verso il fiume a fatica. Naito pensò di finirlo, quando alcuni versi affannati alle sue spalle lo fecero voltare.

Si ritrovò la donna di poco prima di fronte a lui, gli occhi spalancati ancora coperti di lacrime. Dietro di lei, l’uomo stava reggendo la figlia in braccio, mentre i due anziani ancora stavano faticando per raggiungerli, rossi in viso. Tutti loro erano sconvolti.

Naito rinfoderò la spada prima che la vedessero e consegnò il bambino alla donna. «È ancora vivo» le disse, in inglese.

Lei se lo strinse al petto e cadde in ginocchio, dove gli bagnò la testa con un pianto agitato. «D-Domo» gli bisbigliò, tra un singulto e l’altro, con un forte accento. «Domo… arigato gozaimasu»

Un sorriso nacque sul volto di Naito. Li aveva sentiti parlare in inglese, ma udire quel ringraziamento in giapponese significò mille volte tanto per lui. Si inginocchiò di fronte a lei, mentre pensava al valore del Bushido che Miyamoto gli aveva insegnato, la Compassione.

“Un samurai coglie ogni possibilità di essere di aiuto ai propri simili.”

Chinò la testa in segno di rispetto, senza dire nulla.

«C-Che cos’era quello, un coccodrillo?!» farfugliò uno dei due anziani, l’uomo, che ancora stava reggendo in mano quel cellulare, ora puntato verso di Naito.

«Harold! Smettila di riprendere e chiama i soccorsi!» protestò l’altra vecchietta.

Il padre del ragazzino posò invece la figlia a terra e si avvicinò a lui. Tirò fuori alcune banconote mortali dalle tasche e gliele porse. «Tenga. So che non è molto, ma…»

«Non mi deve niente» lo fermò Naito, agitando le mani. Si voltò, per lanciare una rapida occhiata dietro le sue spalle. Una scia di sangue marrone conduceva da dove si era trovato il kappa fino al fiume. «State lontani dai fiumi, d’ora in poi. Possono essere pericolosi» concluse, tornando a guardare l’uomo.

Quello lo fissò per alcuni istanti, concentrandosi come se non riuscisse a vederlo bene. Naito cominciò a sentirsi a disagio.

«M-Mister?»

Il ragazzo abbassò la testa e si accorse della bambina che lo guardava dal basso. «G-Grazie per averlo salvato…» gli bisbigliò.

Un altro sorriso apparve sul volto di Naito. Le arruffò i ricciolini senza dire altro e cominciò ad allontanarsi, mentre la madre del ragazzino continuava a piangere e gli altri lo scrutavano atterriti.

«Ha cacciato un coccodrillo con un ombrello…» bisbigliò il vecchio di nome Harold, con quel coso premuto all’orecchio, per poi sussultare. «S-Sì, pronto? Soccorsi! S-o-c-c-o-r-si! S-O-S! Emergency! Cara, tu conosci il giapponese, puoi parlarci tu con questi?»

Naito ritornò all’albero dove aveva lasciato le sue cose. Si asciugò le mani ancora bagnate e prese il Bushido. Quando lo girò, lo trovò aperto sulla la pagina del primo valore, Eroico Coraggio.

“Elevati sopra le masse che hanno paura di agire.”

Si voltò di nuovo verso quei mortali riuniti attorno al bambino e una sensazione nuova si fece largo dentro di lui: la consapevolezza di aver appena evitato che la vacanza di quella famiglia si trasformasse in una tragedia, che gli infuse una strana sensazione di benessere.

Forse era quello che Miyamoto intendeva dire, quando aveva parlato di percorsi meno tortuosi. Forse non si era riferito solo a percorsi fisici. Naito abbassò lo sguardo sul Bushido e distese il sorriso.

Prese le sue cose e si allontanò.  

 

***

 

Era passato molto tempo dall’ultima volta che era stato lì. Eppure, quando arrivò alla cima di quell’ultimo sentiero, il panorama che trovò stagliato di fronte a lui era proprio come l’ultima volta che l’aveva visto, almeno un decennio prima.

Un villaggio eretto tra le montagne, un angolo di mondo celato in mezzo alle pareti di quella valle dove pochi avevano il privilegio di abitare. Un monte torreggiava in lontananza, dal quale sgorgava una cascata che finiva con lo sfociare in un largo torrente. Scivolava imperterrito lungo la valle, mandando schizzi sulle rive dove erano state costruite case rustiche di mattoni e legno nero. Stradine di ciottoli si diramavano tra di loro, all’ombra degli alberi. Delle edere rigogliose ricoprivano le abitazioni, intervallando con il loro verde il grigio ed il nero.

Ricordava quel villaggio alla perfezione. Quando era bambino lo aveva sempre ammirato da lontano, ammaliato. Aveva sempre emanato un’aura di pace, quiete e armonia, gli era sembrato davvero un paradiso. Sua madre, però, non gli aveva amai permesso di scendere laggiù e lui l’aveva odiata per questo. Soltanto anni dopo, aveva compreso perché li gliel’avesse proibito. E quanto gli era costato comprendere.

Percorse il villaggio saltando sopra i tetti di tegole delle vie meno affollate, per dare meno nell’occhio possibile. Quel posto non era come gli altri in cui era stato; la Nebbia era molto più debole lì. Da quelle parti c’erano templi, santuari, sacerdoti. La gente credeva molto di più, lassù. Se qualcuno l’avesse visto, avrebbe potuto accorgersi che in realtà non era un vero umano.

Per fortuna, gli abitanti del villaggio parevano tutti piuttosto presi con la loro quotidianità. Le donne stendevano i panni, i bambini giocavano, i turisti girovagavano, nessuno fece caso a lui.

Riuscì a oltrepassare le case e infilarsi di nuovo nella vegetazione, percorrendo un sentiero che saliva ancora, arrivando perfino più in alto. Distanziandosi dal villaggio e avvicinandosi di più alla cascata, Naito riuscì a sentirne il fragore lontano, che giunse alle sue orecchie suscitando in lui un effetto quasi calmante.

Un effetto che, lo sapeva, non sarebbe durato ancora molto.

Gli alberi sempreverdi, grossi e alti, cominciarono poco per volta ad essere sostituiti da tronchi grigi e carbonizzati. L’erba verde e rigogliosa cominciò ad ingiallirsi fino a svanire del tutto, rimpiazzata da della terra nera e arida. E man mano che questo cambiamento avveniva, la stretta attorno al suo petto si faceva sempre più forte.

Un gruppo di corvi si alzò in volo gracchiando infastidito quando passò sotto il cadavere dell’albero su cui si erano appollaiati.

Continuò a salire, la mente annebbiata dai ricordi, il cuore che batteva all’impazzata nel petto, il respiro che si faceva pensante. E poi, arrivò in cima.

Ad attenderlo, trovò esattamente quello che credeva di trovare. E la cosa, anziché tranquillizzarlo, lo spaventò ancora di più.

Una casa di due piani, di legno, completamente carbonizzata. Le pareti erano annerite, le finestre rotte, il tetto sfondato. Il giardino dove un tempo crescevano piante e fiori di ogni tipo era una stuoia di terra secca, dove nemmeno le erbacce avrebbero avuto il coraggio di nascere. Poco distante c’erano una rimessa, completamente distrutta, erosa dalle fiamme, e un pozzo sfondato, con le pietre che ne coprivano la bocca.

Quella… era la sua destinazione, la sua meta, la fine del suo viaggio. Era arrivato.

Era arrivato a casa.

   
 
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