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Autore: edoardo811    16/08/2021    6 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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Nuove e vecchie conoscenze

 

 

Naito deviò la katana che mirava al suo volto e rispose con un colpo della sua. Vi fu un rumore disgustoso, seguito da un grido di dolore. Il mortale stramazzò ai suoi piedi, con uno squarcio profondo sul volto, il sangue che colava dalla carne viva. 

L’ultimo uomo rimasto in quel tempio gettò a terra le armi e si inginocchiò. Sollevò le mani, gli occhi rigati di lacrime. «T-Ti prego, abbi pietà di me!»

Il rumore dei passi di Naito si alternò con quei gemiti spaventati e con il crepitio delle fiamme che stavano avvolgendo ogni cosa. Si fermò di fronte a lui e lo scrutò dall’alto, per poi sibilare con quanto veleno avesse in corpo: «Voi avete avuto pietà per mia madre?» 

«I-Io non…»

La frase non trovò conclusione. A seguire un altro rumore bagnato ci fu il tonfo sordo della testa del mortale che rotolava sul pavimento. 

Naito scrutò la decina di uomini che giaceva sul suolo priva di vita, chi mutilato, chi decapitato. Un brivido di piacere gli percorse la spina dorsale. Quello si meritavano, per ciò che gli avevano fatto. Tutti avrebbero pagato per la morte di sua madre.

Il rumore di un lento applauso lo fece voltare verso l’ingresso, dove Hikaru lo stava osservando con un sorriso malizioso. 

«Davvero impressionante, Naito-kun» si complimentò. «Non ti è nemmeno servito il mio aiuto.»

Il ragazzo serrò la mascella. Non si sarebbe mai fatto ingannare da quel sorriso, o da quel volto. Quella donna non gli piaceva per niente e non si sarebbe mai sentito davvero al sicuro in compagnia soltanto di lei. Non aveva importanza quello che dicevano gli altri, per lui le kitsune erano creature subdole ed infime che miravano soltanto al loro tornaconto.

Passò accanto ad Hikaru senza degnarla di uno sguardo, e la sentì ridacchiare divertita. Mentre si allontanavano, alle loro spalle giunse il fragore del tempio che crollava per via dell’incendio, così forte da scuotere la terra. Ne avevano distrutto un altro, ma non dovevano adagiarsi sugli allori. Non si sarebbero fermati finché non avrebbero dato alle fiamme ogni singolo tempio in Giappone, finché ogni simbolo del potere degli dei ed ogni loro seguace non sarebbe stato spazzato via. Infondo, i mortali che gli avevano rovinato la vita, l’avevano fatto perché mossi da un dio. Gli dei erano i veri responsabili di tutto quello che gli era successo. E avrebbero pagato. Così come avrebbero pagato le loro stupide marionette mortali.

Scesero il sentiero della montagna, che si trovava sull’orlo di un altissimo precipizio. Naito arrischiò un’occhiata verso la gola e non riuscì a vederne nemmeno il fondo, a causa della fitta nebbia che saliva da laggiù. Lungo le pareti rocciose, cespugli, edere e fiori crescevano a dismisura alimentati dagli spilli d’acqua che filtravano tra le crepe, tappezzandole con i loro colori variegati.

«Davvero magnifico, vero Naito-kun?» disse Hikaru, anche lei con lo sguardo posato sul panorama. «Sapere che un giorno tutto questo apparterrà solo a noi mi riempie il cuore di gioia.»

«Tu non ce l’hai un cuore.» Naito le lanciò un’occhiata di sdegno. «E smettila di chiamarmi “Naito-kun.”»

«Posso sempre strapparne uno a un mortale e fingere che sia mio» rispose Hikaru con naturalezza, per poi distendere il suo sorrisetto. «Naito-kun.»

Naito si morse la lingua, ma non cedette a quella ovvia provocazione. 

«Faremo meglio a sbrigarci» proseguì la donna, alzando lo sguardo verso il cielo. «Lord Orochi ha detto che questa sera stessa ci saremmo rimessi in marcia.»

Un grugnito sfuggì dalla bocca di Naito, infastidito dal modo in cui Hikaru chiamava sempre Orochi. Si era unita a loro pochi mesi prima, eppure si comportava come se fosse la sua seguace più fedele. E lo stesso facevano i suoi compagni. Ma loro non conoscevano Orochi come lo conosceva Naito. Non c’avevano viaggiato assieme per tutto il Giappone, attraversando monti, laghi, fiumi e valli. Non gli erano rimasti accanto mentre recuperava i suoi ricordi uno alla volta.

E Naito era sicuro che, proprio per questo, tutti loro fossero invidiosi di lui. Non potevano accettare il fatto che tra tutti quanti fosse proprio un mezzosangue colui di cui Orochi si fidava maggiormente. 

Arrivarono a valle e raggiunsero il palazzo immerso nel bosco che avevano sgomberato giusto un paio di giorni prima da quegli sgradevoli mortali. Un gigantesco edificio con il tetto squadrato e un immenso cortile di fronte.

Una decina di altri individui si trovava lì, in attesa. Mostri. Oni, kappa, una donna con la bocca squartata, una specie di orco tozzo, alcuni umanoidi con le braccia lunghissime, altri con la testa di mollusco. Naito non conosceva i loro nomi, né gli interessava impararli. Quelle erano tutte le altre creature che avevano sentito di Orochi e avevano deciso di unirsi a lui in quella battaglia contro gli dei e i mortali. Erano sparpagliati per il cortile, a vagare come un manipolo di polli senza testa. In mezzo a loro, l’assenza di qualcuno si faceva sentire: quella di Orochi stesso. 

Hikaru marciò verso un tengu seduto su un gradino, intento a sghignazzare in compagnia uno tsuchinoko. Entrambi si stavano versando generose quantità di sakè nello stomaco. 

Un’espressione di puro disgusto marciò sul volto della kitsune, mentre intrecciava le mani dietro la schiena. «Bunzo, Chioiji.»

I due drizzarono lo sguardo. Il tengu fece un sorrisetto idiota e si pettinò le ali attaccate alle tempie, forse cercando di fare buona impressione, o forse perché annebbiato dal liquore. «Oh, Hikaru! Come stai?»

«Dov’è Lord Orochi?» replicò lei, gelida, mentre Naito l’affiancava. «Ci aveva detto di trovarci tutti qui prima di sera.»

«Il padrone? Non saprei…» borbottò il tengu, mentre lanciava un’occhiata carica di sdegno verso Naito, che non si fece troppi scrupoli a ricambiare. 

«È andato via qualche ora fa» si intromise Chioiji, alzando appena il muso dalla sua ciotolina di sakè. «Ci ha ordinato di non seguirlo. Credo stesse cercando di ricordare qualcos’altro.»

Hikaru annuì. «Capisco. Allora lo aspetteremo anche noi.» Scoccò un’occhiata maliziosa a Naito. «Dico bene, Naito-kun?»

Quando pronunciò quel nome, Chioiji sibilò divertito e Bunzo emise una specie di starnazzo singhiozzante, la sua stupida risata. Naito si allontanò da loro prima che cominciassero a tartassarlo. Tra tutti i soldati di Orochi, quei tre erano quelli che lo detestavano di più. E il sentimento era reciproco. 

Hikaru era stata la prima ad unirsi ad Orochi, dopo di lui. Aveva detto di avere un conto in sospeso con Inari, cosa che aveva sorpreso Naito, visto che era la dea delle volpi, nonché uno degli dei più potenti in assoluto, seconda solo ad Amaterasu e pochi altri.

Non era scesa molto nei dettagli, aveva solamente detto che un tempo serviva Inari, e che poi aveva capito che in realtà era soltanto una dea bugiarda come tutti gli altri. Naito non aveva idea di cosa le fosse successo, né aveva mai indagato, Orochi invece era stato felice di accoglierla. Dopotutto, Hikaru era una volpe a nove code, forte come poche creature al mondo, e odiava la dea che un tempo serviva. Per Orochi, tutti quelli che avevano una motivazione personale per distruggere gli dei erano i benvenuti.

E poi erano arrivati Bunzo e Chioiji. Non avevano un motivo davvero valido per odiare gli dei, in compenso erano degli ottimi lecchini. 

Dopo di Naito, quei tre erano i più alti nella gerarchia, per questo motivo non aspettavano altro che l’occasione per poterlo screditare e prendere il suo posto. E forse anche trovare una scusa per farlo bandire dall’esercito, o meglio ancora, ucciderlo. 

“Poveri illusi.”

Nato raggiunse un angolo dello spiazzale lontano dal resto dei mostri e sguainò la katana. Rimase per qualche istante ammaliato dall’acciaio rosso rilucente e da quell’elsa così particolare. Aveva preso possesso di quella spada da un soldato che aveva ucciso qualche mese prima, uno che si era vantato di essere un cacciatore di yōkai. Gli aveva detto che l’elsa era formata dall’occhio che aveva strappato ad un Ushi-Oni1

Una spada davvero stupefacente. Per questo motivo, dopo aver ucciso a mani nude quel mortale, Naito aveva deciso di tenersela come trofeo. 

La storia dietro la sua wakizashi, invece, era molto più corta, un po’ come la lunghezza della sua lama: l’aveva portata via ad un samurai ubriacone che pensava di essere invincibile. Poco prima di essere ucciso da lui, gli aveva blaterato che solamente i samurai di élite potevano adoperare il daishō2. E per questo motivo, Naito aveva deciso di adottarlo a sua volta, giusto per mostrare a quei pidocchiosi umani che perfino uno “sporco mezzosangue”, come amavano definirlo, poteva essere uno spadaccino di élite. 

Avere due spade di quel tipo era molto utile. Per i combattimenti rapidi, poteva estrarre la wakizashi e finire in fretta, per quelli prolungati invece la katana era ideale. Anche se spesso, più per orgoglio che per altro, decideva di utilizzare la katana anche per scontri brevi, giusto per mostrare la sua superiorità.

Era divertente vedere i sorrisi beffardi degli umani trasformarsi in espressioni terrorizzate quando realizzavano di essere spacciati. Forse Orochi era stato davvero troppo duro con lui, quando era ancora un bambino, ma i suoi violenti allenamenti, nel bene e nel male, avevano dato i loro frutti: ora si sentiva intoccabile.

Cominciò ad affettare l’aria, allenandosi da solo come di consueto, alternando le spade, migliorando la sua postura e il controllo del proprio respiro. Da bambino, sentiva il fiato mancargli dopo soli pochi minuti di allenamento. Ora, poteva andare avanti per ore ed ore senza sentire un briciolo di stanchezza. 

Non si rese nemmeno conto di quanto tempo passò così. Fu solo quando udì un frastuono provenire dagli altri mostri che si rese conto che il sole stava tramontando. Si voltò confuso e notò due figure scendere dalla montagna per avvicinarsi al cortile. La prima era Orochi, che avanzò con un sorriso soddisfatto, il kimono nero aperto che svolazzava dietro di lui. La seconda, invece, sembrava un tengu.

I mostri si avvicinarono a loro, Naito incluso. Udì uno strano verso provenire da Bunzo, un lungo gracido baritonale che pareva a metà tra lo sconvolto e l’indignato. E non appena Naito vide bene il tengu alle spalle di Orochi, capì il motivo di quella reazione. 

Non era un vero tengu. Non sembrava nemmeno un vero mostro, in realtà. Dal suo yukata strappato spuntavano le braccia e le gambe ricoperte di piumaggio rosso e viola, che si concludevano con le mani e i piedi muniti di artigli affilati come lame. Ma le similitudini con i tengu si concludevano lì.

Non aveva le ali sulle tempie. Il viso era umano, la cosa più umana che Naito avesse mai visto in mezzo a tutti quei mostri, perfino più di Hikaru quando era camuffata. La pelle era rosa, le guance erano scavate, il naso era sottile e pronunciato, molto più lungo di uno normale ma non come quello di un tengu, non doveva essere nemmeno un terzo del naso di Bunzo. Una cascata di lunghi capelli lillà cadevano sulle sue spalle, facendo da cornice a due occhi verdi e rilucenti. 

Naito non riuscì a credere ai suoi occhi. Era una mezzosangue. 

«Molto bene. Vedo che siete tutti qui.» Orochi volse un braccio verso di lei. «Date il benvenuto alla nostra nuova compagna.» 

La ragazza sembrò irrigidirsi, ma resse lo sguardo di tutti quei mostri che la osservavano con disgusto. Bunzo in particolare non sembrava per niente felice della sua presenza. 

«Coraggio, presentati» la invitò Orochi. Tra tutti, sembrava l’unico a non essere turbato da lei. 

Quella fece un passo avanti, affondando gli artigli nella sabbia. Naito notò due kama3 appesi alla sua cintura, più il fodero di un tantō. I suoi occhi erano duri, la sua espressione seria. Malgrado si trovasse in una zona a lei ostile, rimase comunque composta, dimostrando una fermezza di spirito che lo stupì. 

«Il mio nome è Hachidori» si presentò. Nonostante il tono severo, la sua voce era soave, molto diversa da quella graffiante dei tengu. «E anch’io voglio distruggere gli dei.»

 

***

 

Naito camminò con passo incerto, facendo vagare lo sguardo su quel luogo in cui era nato, in cui era cresciuto, cercando qualcosa, qualsiasi cosa che fosse rimasta intatta, qualcosa che potesse indicargli che forse non tutto era andato perduto.

Non trovò nulla.

Raggiunse il centro dello spiazzale e si trovò al cospetto di quella casa che quando era bambino aveva sempre immaginato enorme e che invece, adesso, pareva poco più che una catapecchia qualsiasi. Dove un tempo sua madre stendeva i panni, ora non c’era più niente. La finestra da cui lui osservava le stelle era sparita. Gli alberi che circondavano la casa erano tutti morti. Era tutto svanito.

Affondò gli stivali nella terra arida, quella stessa terra su cui quegli uomini avevano trascinato sua madre urlante per ucciderla a sangue freddo di fronte ai suoi occhi terrorizzati.

Cadde in ginocchio senza nemmeno rendersene conto, mentre i ricordi di quel giorno terribile si facevano largo nella sua mente.

Era ancora un bambino e stava guardando le stelle. Aveva visto alcune luci arancioni farsi largo tra gli alberi attorno alla casa ed era andato ad avvisare sua madre. Lei, spaventata, gli aveva ordinato di nascondersi. Qualcuno aveva sfondato la porta ed era entrato in casa proprio mentre lui stava finendo di bloccare la botola della soffitta. Aveva sentito sua madre gridare disperata e si era sporto di nascosto dalla finestra, accorgendosi di quel gruppo di persone che la stava trascinando in mezzo allo spiazzale. Tra di loro era spiccato un uomo alto con capelli e barba rossi, che aveva iniziato a gridarle qualcosa, qualcosa che lui non era riuscito a capire.

Lei provava a liberarsi, a dimenarsi, ma gli uomini erano tanti, erano armati, e la stavano tenendo ferma. Poi, era arrivato quel grido, quel grido straziante, proveniente da quella voce rotta e disperata che da quel giorno non aveva più smesso di tormentarlo.

«SCAPPA NAOSUKE!»

Gli aveva scosso le ossa. E poi l’uomo con i capelli rossi l’aveva colpita di nuovo.

Sua madre aveva smesso di gridare e aveva smesso di dimenarsi all’improvviso. Era caduta a terra, con la veste sporca di rosso, e non si era più alzata.

Non appena aveva visto la scena, Naito aveva trattenuto a stento un grido. All’inizio aveva creduto che fosse solamente inciampata, o svenuta. Poi, però, si era reso conto che quel rosso era sangue. Gli occhi gli si erano riempiti di lacrime ed era rimasto paralizzato, finché non aveva iniziato a sentire odore di bruciato, un calore intenso provenire dal pavimento e anche alcune nuvolette di fumo nero che filtravano attraverso le assi di legno. Si era accorto del cielo striato di arancione. E poi, l’uomo con i capelli rossi aveva sollevato lo sguardo proprio verso quella finestra, mostrando un ghigno crudele. Un sentimento di paura che mai aveva provato prima di allora lo aveva scosso dalla testa i piedi. Era indietreggiato ed era caduto a terra, ma era sicuro che l’avesse visto. L’uomo sapeva che lui era lì. Quel pensiero l’aveva fatto riscuotere.

Era sceso dalla soffitta, trovando casa sua completamente avvolta dalle fiamme. Aveva gridato terrorizzato, ma era riuscito ad uscire dal retro, un attimo prima che il soffitto gli crollasse addosso. Si era voltato, osservando casa sua, il luogo dov’era cresciuto, dove sua madre lo aveva accudito, lo aveva protetto e lo aveva amato, bruciare di fronte ai suoi occhi. Le fiamme si erano attaccate poi al prato e agli alberi vicini, iniziando a consumare ogni cosa.

Aveva sentito gli schiamazzi di quegli uomini, delle grida, e aveva visto alcune ombre che facevano il giro della casa, muovendosi verso di lui. A quel punto, con le guance rigate dalle lacrime e un terribile dolore al petto, aveva cominciato a correre nel bosco, mentre di fronte ai suoi occhi la scena di sua madre che veniva uccisa in quella maniera selvaggia continuava a ripetersi senza dargli un attimo di pace.

Naito affondò le dita nel terreno, stringendo le palpebre con forza. Ancora in quel momento, a distanza di tutti quegli anni, continuava a porsi la stessa domanda. Perché l’avevano fatto? Perché l’avevano uccisa? Sua madre era stata solo una vittima, prima delle pulsioni di demone spietato e fuori controllo, e poi della crudeltà degli uomini e degli dei. Non era stata colpa sua. L’unico errore che aveva commesso, era stato amarlo.

Forse… forse Naito sarebbe dovuto morire davvero, quel giorno. Forse così lei avrebbe avuto salva la vita.

O forse… se lei aveva scelto di lottare così tanto per proteggerlo, se aveva scelto di sacrificare la sua stessa vita per salvarlo… significava che aveva visto qualcosa in lui che nessun’altro prima di allora aveva mai visto.

Non aveva visto un mezzosangue. Non aveva visto un mezzo demone. Non aveva visto un bastardo. Aveva solo visto suo figlio.

Naito strinse i denti. Le spalle gli si alzarono contro il suo volere, per poi abbassarsi di colpo. Alcune lacrime scesero dal suo occhio senza che nemmeno se ne rendesse conto. E non appena lo realizzò, tentò di fermarsi, ma non ci riuscì.

Quel pianto non volle saperne di svanire. Serrò le palpebre e gli scappò un gemito, mentre scavava nella terra con le dita. Gli fecero male i polmoni e la gola. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva pianto. Sapeva solo che non riusciva più a fermarsi. Iniziò piano, con dei lievi sussulti, finché lunghi mugugni gutturali non iniziarono ad uscirgli dalla gola, mischiandosi con la devastazione e la malinconia di quel luogo morto che un tempo aveva chiamato casa.

La sua paura più grande era sempre stata quella: cadere in preda alle emozioni in quel modo, alla vista della sua vecchia casa, e al ricordo di Akane che moriva soltanto per proteggerlo.

«Che scena patetica» disse una voce tonante all’improvviso. 

Naito trasalì e si voltò di scatto, la vista ancora appannata dalle lacrime, e si accorse che qualcuno era apparso dietro di lui, alla cima del sentiero. Non appena lo vide bene, spalancò l’occhio.

Era un oni, con la pelle di un colore rosso denso. I capelli neri e sporchi gli arrivavano all’altezza del collo, mentre due lunghe corna gialle spuntavano dalla fronte. Una collana di perle color bronzo era adagiata sui suoi pettorali nudi e larghi. Sogghignò, i canini inferiori che spuntavano fuori dalla mascella pronunciata, rivolti verso l’alto come un secondo paio di corna. «E tu saresti il braccio destro di Orochi? Lì in terra a piangere come un neonato? Deve trattarsi di un malinteso.»

«Chi sei tu?» domandò Naito, mentre si rimetteva in piedi e avvicinava la mano al fodero della wakizashi. 

Un suono gutturale provenne dall’oni, mentre il suo petto si gonfiava e si sgonfiava a intermittenza. Le catene che aveva legate attorno ai polsi tintinnarono quando sollevò un lungo kanabō4 di ferro. Se lo appoggiò alla spalla, non curandosi degli aghi affilatissimi della mazza che toccavano la pelle nuda. «Ma come, Naosuke, Orochi non ti ha mai parlato di me? Eppure mi conosceva bene. Dopotutto… è grazie a me se sei vivo.»

Un lungo brivido percorse la schiena di Naito. Rimase paralizzato, mentre l’oni lo scrutava dall’alto con i suoi occhi gialli e luminosi.

«Non te lo chiederò un’altra volta» sibilò Naito, sguainando la spada corta. La sua voce si indurì. «Chi sei?!»

«Lo sai chi sono, Naosuke.»

Naito strinse la presa della wakizashi fino a farsi male alla mano. «No invece. Non lo so.» Scattò verso di lui all’improvviso, il dolore, la tristezza e l’angoscia provati nel vedere casa sua svaniti come vapore. «E non mi interessa!»

Si ritrovò faccia a faccia con lui. Sferzò l’aria con la wakizashi, desideroso di cancellare quell’odioso sorriso dal suo volto, ma venne intercettato dal kanabō. Cercò di pararlo, ma non appena la mazza impattò sulla spada Naito gridò per un’atroce fitta di dolore al braccio. Venne scaraventato via, perdendo la presa sulla wakizashi. Atterrò sulla schiena e rimase immobile, non sentendosi più il braccio.

«Patetico.»

Vide la mazza scendere su di lui come una mannaia. Rotolò, schivandola per un soffio, e si rimise in piedi. Dovette contorcersi per raggiungere l’elsa con il braccio sinistro, ma riuscì a sguainare la katana. Espirò, osservando gli occhi luminosi dell’oni e il suo sorriso sadico che non accennava a svanire. 

«È questo quello che il terribile Yamata no Orochi ha tirato su? Un ragazzino fragile e spaventato?»

Naito digrignò i denti, poi attaccò di nuovo. Mulinò la katana, mirando al suo collo, ma quello la deviò con il kanabō e lo colpì al petto con un calcio. Le placche di armatura si incrinarono e una chiazza di sangue gli uscì dalla bocca mentre veniva di nuovo scaraventato a terra, con un grido soffocato. Non sentì più la katana tra le mani, non riuscì nemmeno più a respirare. Si accasciò sui gomiti e tentò di rialzarsi. La voce dell’oni provenne da sopra di lui, gutturale e divertita: «Non ho mai capito perché Orochi abbia deciso di salvarti. Forse ha deciso di accontentarsi, visto che gli altri erano già tutti morti.»

Il ragazzo sentì la rabbia sgorgare dentro di lui. Fece per rialzarsi, ma il kanabō si schiantò sulla sua schiena, dove non indossava protezioni. Un urlo atroce gli uscì dalla gola, mentre gli spuntoni della mazza si conficcavano nella sua carne, bruciando come cento aghi intrisi di veleno. Non riuscì più a muoversi, paralizzato dal dolore.

Vi fu un rumore disgustoso e l’oni estrasse la mazza. Il dolore per gli aghi che venivano estratti fu peggio di quello provato quando si erano conficcati. Naito boccheggiò, l’occhio spalancato, perle di sudore scivolavano tra le corna, poi stramazzò sul suolo. Cominciò a sentire freddo, prima lungo la schiena, poi lungo tutto il corpo.

«Guardati. Non riesci neanche più ad alzarti.»

L’oni lo girò sulla schiena con un piede. Naito sussultò quando toccò la terra con la pelle martoriata. Venne afferrato per il collo e stretto con forza. Mugugnò e tentò di liberarsi, ma fu tutto inutile. Era come cercare di scansarsi di dosso una montagna. 

Sentì il proprio corpo afflosciarsi mentre veniva sollevato da terra. L’oni lo portò all’altezza del suo volto con una mano sola. Emise ancora quella risata sommessa, la collana di perle che tintinnava all’alzarsi e all’abbassarsi del suo petto. «Non posso credere che il mio sangue scorra in te, Naosuke. Non sei neanche un briciolo di quello che sono io.»

Naito spalancò l’occhio.

«Sì, Naosuke» annuì quello. «Hai sentito bene.»

Lo scaraventò verso la casa. Naito non percepì nemmeno l’aria che sferzava su di lui. Non percepì nulla, finché schegge di legno carbonizzato non esplosero addosso a lui. Quel poco che rimaneva della parete esterna crollò sotto il suo peso, investendolo. La voce dell’oni provenne in lontananza, come un ronzio nelle sue orecchie: «Sei debole, Naosuke. Hai lasciato che Akane ti plagiasse. Ti sei messo a bighellonare con dei mocciosi greci e con un samurai raggrinzito. Hai perfino salvato la vita di un mortale.» Udì anche un sospiro, quasi di delusione. «Ma dove ho sbagliato con te?»

Quella frase lo fece riscuotere. Si rimise in piedi tra i detriti e barcollò in mezzo a quella che un tempo era stata casa sua. Tornò nel giardino arido e squadrò il mostro dal basso, il respiro pesante, simile ad un ringhio, i denti serrati e i pugni contratti.

Il sorriso non svanì dal volto dell’oni. «Cos’è quella faccia, Naosuke? Speri forse di intimidirmi?»

Naito sentì la rabbia schizzargli fino al cervello. Dimenticò il dolore al corpo, il dolore per quello che era successo a casa sua, il dolore per quello che era successo a sua madre, e venne travolto da un’energia tale da farlo sentire in grado di abbattere qualsiasi avversario.

Urlò a pieni polmoni. Un urlo lancinante e disumano, che riecheggiò in tutta la valle, facendo fuggire altri corvi. Scattò con una rapidità mai avuta prima, il pensiero di spaccare la testa di quell’essere che ardeva dentro di lui, alimentandolo. Raccolse la katana da terra mentre correva e non si fermò.

Non era riuscito ad uccidere Orochi con le sue mani, ma avrebbe ucciso lui, quell’oni, suo padre.

Quando se lo ritrovò di fronte saltò e mirò al suo volto con la lama cremisi. Immaginò il suo enorme cadavere ai suoi piedi, riverso in una pozza di sangue, il sorriso svanito, la sua odiosa voce che non avrebbe più infastidito nessuno.

Invece fu colpito di nuovo. Crollò a terra con il naso rotto, mentre l’oni ancora tendeva la mano chiusa a pugno rivolta verso di lui. «Che cos’era quello, Naosuke?»

Naito serrò la mascella. Provò ad alzarsi, ancora una volta, questa volta convinto che sarebbe stata l’ultima, ma l’oni fu sopra di lui in un istante. L’ombra di un altro pugno oscuro il cielo. Le nocche del mostro si schiantarono su di lui, strappandogli un altro grido strozzato.

«Stavi forse cercando di usare il tuo lato demoniaco contro di me?»

Un altro pugno. Naito rimase schiacciato a terra. Non sentì più il volto. L’oni lo afferrò per l’incavo di una placca di armatura sul torace e lo sollevò di nuovo, incrociando il suo sguardo. «Credi forse che ti basti starnazzare come un tengu per trasformarti in un demone come me? Pensi davvero che questo possa aiutarti a sconfiggermi?!»

Il sorriso svanì dal volto dell’oni. Iniziò a scrutarlo con disprezzo. «Non hai capito proprio niente, Naosuke.» Gli sferrò un altro pugno, questa volta allo stomaco. Le placche di armatura si creparono mentre Naito boccheggiava, altri rivoli di sangue che gli scivolavano dalla bocca. «Come speri di combattere contro di me se cadi a terra a piangere come un poppante alla vista di una casetta bruciata?!»

Lo schiantò sul suolo. Naito non gridò nemmeno più quando la schiena ferita raschiò sopra la terra. L’oni abbatté un altro pugno su di lui. Gli sembrò di avere le labbra gonfie, al punto da arrivare fino all’altezza del naso. Un altro pugno allo stomaco ruppe completamente le placche dell’armatura. Udì un tintinnio metallico. Con la vista appannata e coperta di puntini neri, vide l’oni sfilarsi una catena dai polsi. Lo fece voltare, poi gliela legò attorno al collo e cominciò a strattonare.

Un gorgoglio strozzato provenne dalla gola di Naito. Il respiro cominciò a mancargli. L’oni tirò con forza la catena, strappandogli un altro gemito. «Tu non sei un demone, NaosukeSei solo un umano con le corna.»

Una lacrima solcò la guancia di Naito. L’oni lo lasciò andare di colpo. Stramazzò a terra, con il respiro affannato, non riuscendo a vedere nulla. Sentì il peso del mostro spostarsi dalla sua schiena, lasciandola libera.

«Stai piangendo. Di nuovo. Sei una vera delusione, Naosuke. Non vali nemmeno la pena di essere ucciso.»

Naito non sentì più nulla. Immagini e suoni cominciarono a mischiarsi, rendendogli impossibile capire cosa stesse succedendo attorno a lui.

«Non avresti dovuto ridurlo così, Ōtakemaru» sibilò all’improvviso la voce di una donna, infastidita. «Lui ci serviva. Anche se è solo un insetto, era comunque al servizio di Yamata no Orochi.»

La voce dell’oni giunse seccata in risposta. «Mi ha mancato di rispetto. È fortunato che non l’abbia ucciso.»

«Quindi che facciamo? Ce lo portiamo dietro?»

«No. Lasciamolo qui. Diremo che l’hanno catturato quelle cagne del Clan Tsubaki e che noi siamo arrivati tardi.»

«Il Re non la prenderà bene.»

«Non m’importa del Re. Se davvero ci teneva a prendersi mio figlio, avrebbe dovuto farlo di persona, non mandare me.»

Un mugugno provenne dalla donna, ma nessun’altra risposta. Rumore di passi, le voci che si allontanavano. Se n’erano andati. 

Naito rimase fermo, con il respiro debole. Tentò di controllare le dita, ma non ci riuscì. Il suo intero corpo non rispondeva ai comandi. Era paralizzato. L’unica cosa che poté fare, fu aprire gli occhi. Erano ancora appannati, ma riuscì comunque a vedere qualcosa.

Delle ombre, che spuntarono dalla boscaglia e si avvicinarono a lui, le lame delle katane che scintillavano tra le loro mani. Fiori rosa ricamati sui loro abiti scuri. Una di loro gli si accovacciò di fronte, mostrando lunghi capelli neri e una cicatrice sul volto. «Pare che la fortuna ti abbia abbandonato, Naosuke Itomi.»

Naito non trovò nemmeno la forza di rispondere. Non trovò la forza di fare niente. Rimase impassibile, ad osservare il sorriso beffardo di Meishu.

Vi fu un grido all’improvviso. Una delle kunoichi venne colpita da qualcosa e cadde in ginocchio con una mano premuta sulla spalla. Meishu si rialzò di scatto. 

Altre grida, seguite da un urlo furibondo di Meishu. Naito osservò una macchia scura che balenava in mezzo alla radura, lanciando kunai e dimenando una spada corta, ma soprattutto creando scompiglio tra le kunoichi.

Chiuse l’occhio e lo riaprì, vedendo ora Meishu, furiosa, mentre incrociava il tantō con la wakizashi della nuova arrivata, senza riuscire a scalfirla.

Chiuse ancora una volta l’occhio e quando lo riaprì la vide mentre saettava in mezzo alle kunoichi, respingendole una ad una.

Cercò di concentrarsi su quella figura che stava affrontando da sola tutte quelle donne. Sentiva di averla già vista. Aveva già visto quei balzi leggiadri, quei movimenti così rapidi e aggraziati da sembrare il volo di un colibrì.

Versi di battaglia si sollevarono, sovrapponendosi tra loro. Le kunoichi capeggiate da Meishu attaccarono tutte insieme la loro avversaria, che volteggiò in aria facendo sventolare un mantello.

Naito avrebbe voluto alzarsi, avrebbe voluto combattere, aiutarla, ma non ci riuscì. Non riuscì a fare nulla. Gli occhi gli si appesantirono. 

L’ultima cosa che vide, furono i piedi e la mano muniti di artigli della sua salvatrice. 

 

 

 

 

 

 

 

Yōkai temibile, le fattezze variano in base alle leggende, tendenzialmente sono quelle di un mostro marino con la testa da bovino e il corpo da ragno.

 2Il nome che ha la coppia delle due spade usate dai samurai, la katana, la spada lunga, e la wakizashi, quella corta. 

3Tipo di arma simile al falcetto, che può essere usato in coppia. La similitudine con il nome “Kamaitachi” deriva dal fatto che, tradotto, kamaitachi significa “donnola con le falci” (Kensuke, Nagata, Sato, mi mancate).

Un tipo di arma molto violenta, una lunga mazza coperta di punte di metallo, spesso associata a personaggi malvagi, come gli oni.

Qui lascio il disegno di Hikaru che ho fatto: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Hikaru-la-kitsune-La-Spada-del-Paradiso-888475594

 

 

 

 

Salve amici, spero abbiate passato un felice ferragosto. Io, personalmente, sì, ma sono una persona semplice e mi accontento con poco.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie per aver letto, grazie a Fenris, Farkas, Roland e Nanamin per le recensioni, ora cercherò di rispondere a quelle che mancano, e nulla, ci siamo tolti l’introduzione dai piedi, ora possiamo addentrarci nella storia, e scoprire perché cavolo si chiama “l’Elisir di lunga vita” anche se nessun elisir è stato ancora menzionato. 

Grazie per aver letto e alla prossima!

 

 

 

   
 
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