Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    16/08/2021    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alzai appena gli occhi verso il soffitto dell’infermeria. Soffitto che nel suo grigiore non mi era mai sembrato così bello. Sorrisi serafica. La Stella mi aveva aiutata ancora. Tecnicamente era stato Kenji a farlo, ma lei, come al solito, ci aveva messo lo zampino.
Non volevo darlo a vedere, ma il cuore mi scoppiava di felicità. Il polso aveva smesso di tremare. Certo, questo non voleva dire che sarei tornata ad essere il chirurgo che ero prima: ci sarebbe voluto tempo, impegno, fatica e tanta, tanta pazienza. Però era un inizio, adesso sapevo che c’era un metodo funzionante da poter utilizzare, che per me e per la passione che nutrivo per la medicina c’era una speranza.
Il rosso mi guardò, le sue iridi brillavano, colme di gioia. Non era uno sguardo soddisfatto o orgoglioso per il proprio operato, era semplicemente contento per me, ed era questo che apprezzavo di lui. Le sue intenzioni erano pure e sincere, come il suo cuore, e non agiva per gloria personale come molte delle persone che avevo avuto l’occasione di incontrare – in entrambi i mondi in cui ero stata – ma perché voleva davvero aiutare gli altri. Era questo che lo rendeva felice, era questo che desiderava fare. Poco prima ne avevo avuto la conferma: il suo altruismo faceva di lui un ottimo medico.
Non disse niente, però. Per qualche minuto, nessuno dei due parlò. Supponevo che fossimo troppo felici per riuscire a formulare delle frasi di senso compiuto. Avrei voluto ringraziarlo in qualche modo, ma le parole non riuscivano a uscire dalla mia bocca. Nessuno di noi sapeva come esprimersi a proposito di quella piccolissima vittoria.
«Credo che tu sia pronta per il prossimo passo,» affermò dopo qualche altro minuto di quieta gioia.
Aggrottai la fronte, perplessa. “L’ultima volta che lo hai detto non è andata troppo bene,” pensai, ma non pronunciai quelle parole. Avevo deciso che mi sarei fidata di lui. Dopotutto, sotto la sua guida avevo ottenuto dei risultati consistenti. Anche se, forse, una tregua non mi avrebbe fatto male. Avevo bisogno di tempo per metabolizzare il tutto, o almeno così credevo. Probabilmente volevo solo godermi un altro po’ la mia contentezza, avevo paura che compiendo il prossimo passo sarebbe svanita insieme ai miei progressi. No, non dovevo essere così negativa. Con Kenji a guidarmi sarebbe andato tutto bene.
Il rosso, senza aspettare la mia risposta, si diresse verso un armadietto e ne tirò fuori una specie di manichino, che mi era molto famigliare. Poi lo poggiò su uno dei lettini dell’infermeria. C’era da aspettarselo, al mio compagno non piaceva molto usare i cadaveri per fare pratica. E non era l’unico.
«È tornato Chuck,» commentai, nascondendo la mia preoccupazione dietro all’ironia. Lo osservai. Era ancora più malridotto e sporco rispetto all’ultima volta che l’avevo visto. Sospettavo che non lo pulissero mai. Era un manichino specificatamente costruito per scopi medici, e noi dottori lo usavamo per fare pratica. Lo avevo soprannominato “Chuck”, sia perché l’aspetto inquietante che aveva mi ricordava “Chucky”, la marionetta del film “La bambola assassina”, sia perché, nonostante tutte le volte in cui era stato brutalmente sventrato, era sempre rimasto – si faceva per dire – in piedi; un po’ come Chuck Norris. Io stessa in quegli anni lo avevo tagliuzzato ben bene, e mi ero pure divertita a farlo, dopo aver superato il ribrezzo iniziale che mi avevano provocato quei denti sporgenti contornati dalla bocca semiaperta e quelle pupille fisse e spalancate. Ora, però, c’era ben poco da divertirsi. Mi sembrava addirittura che i suoi occhi inespressivi e conturbanti mi stessero fissando con aria di sfida, come se stessero aspettando di vedere se sarei stata sconfitta o meno.
Kenji recuperò uno dei tanti bisturi che avevamo a disposizione e iniziò piano a recidere la “pelle” di Chuck in uno dei pochi punti in cui non era stato sfregiato. Non sapevo se fosse una coincidenza, ma tanto bene quel punto era proprio sul suo avambraccio sinistro. Quando ebbe finito, il mio compagno mi indicò il kit per suture lì accanto. Lo fissai, il cuore iniziò a battere forte e feci un passo indietro.
«Kenji...» Titubai. Non ero sicura di potercela fare. Non subito, almeno. Lui mi venne dietro, sul volto aveva un’espressione rassicurante.
«Va tutto bene, Cami. Sai perfettamente cosa devi fare e come farlo. Devi solo rilassarti ed essere convinta di riuscirci. Se avrai bisogno del mio aiuto, io sarò dietro di te e ti guiderò passo dopo passo.»
Le sue parole mi convinsero. Potevo farcela. Sapevo come fare, dovevo solo credere di riuscire a farlo. Presi un respiro profondo, poi afferrai gli strumenti chirurgici che mi servivano e feci il giro del lettino per posizionarmi accanto al braccio sinistro del manichino. Mi infilai i guanti – per rendere più realistico il tutto – e recuperai filo, forbici e pinze. La lacerazione era lunga circa dieci centimetri. Sarebbero stati i dieci centimetri più difficili della mia vita da suturare. Perché sì, Chuck era solo un manichino, e non sarebbe successo nulla se avessi sbagliato, ma quei dieci centimetri rappresentavano il mio squarcio da ricucire, quello nella mia anima, che era ben più difficile da risanare rispetto alla semplice pelle – o gomma, in questo caso – umana. In gioco c’erano i miei sogni e tutto il lavoro che avevo fatto per farli avverare.
«Possiamo evitare di anestetizzare l’area. Non credo che sentirà dolore,» commentò Kenji, strappandomi un sorriso. Aveva compreso che mi serviva una ventata di leggerezza.
Mi dissi che temporeggiare non mi sarebbe servito a niente, per cui inspirai ed espirai profondamente e mi apprestai a cominciare. La gomma era più difficile da ricucire rispetto alla pelle umana: era più dura, più sfuggevole e scivolosa, anche se di poco. Chuck era una riproduzione piuttosto accurata, come ci si sarebbe aspettato che fosse. Dopotutto, era pur sempre di Law e del suo equipaggiamento medico che si stava parlando.
Nel momento in cui inserii l’ago nella lacerazione, iniziai a sentire un gran caldo. Stavo sudando copiosamente, e anche il mio compagno doveva essersene accorto, perché si affrettò a passarmi un panno sulla fronte.
«Respira,» mi sussurrò, scandendo bene le lettere. Annuii e feci come mi aveva detto. Presi un paio di respiri profondi, poi ricominciai.
“Fuori uno,” pensai sollevata mentre tagliavo la coda del filo dopo aver fatto il primo nodo. Me ne restavano “appena” un’altra decina. Quando però arrivai a fare il secondo, il polso iniziò a tremolare. Era un tremore più leggero rispetto alle altre volte, ma c’era comunque ed era fastidioso quasi allo stesso modo. Distaccai la mano dall’avambraccio del manichino e raccolsi le dita in un pugno. Poi mi umettai le labbra con la punta della lingua e chiusi gli occhi.
«Aggrappati a quel posto con tutte le tue forze,» mi sollecitò Kenji, che aveva capito le mie intenzioni. «Immaginalo tutto intorno a te, è il tuo rifugio sicuro.»
Inspirai e mi immaginai di essere nel cielo dell’Isolachenoncè. Volavo, con il vento tra i capelli e solo le nuvole a farmi compagnia. Sotto di me, il verde dell’isola si mescolava con l’azzurro del mare e il bianco delle spiagge. Non c’era gravità, il mio peso corporeo non esisteva. Esistevano solo i miei sogni, che in quel posto erano quasi tangibili. Li potevo vedere, e avrei potuto toccarli. Erano lì, a pochi metri da me. Dovevo solo allungare la mano.
Riaprii gli occhi e gettai una rapida occhiata al polso. Era fermo. Immobile. Non tremava più. Annuii, come per premiarlo per essere stato così accondiscendente, poi mi azzardai a sollevare un angolo della bocca per fare un mezzo sorriso e mi sfregai i palmi tra loro per togliere il leggero strato di sudore che si era formato sotto i guanti, dopodiché ripresi in mano il filo da sutura e le pinze.
 
Quando finii, soffiai fuori tutta l’aria che avevo in corpo, che fino a quel momento avevo trattenuto a causa della tensione, come se avessi appena fatto la gara della mia vita, quella che mi avrebbe permesso di vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Le mie spalle si incurvarono, rilassate. Poi iniziai a ridere. Il polso non aveva più tremato, né formicolato. Ce l’avevo fatta. Avevo vinto ancora una volta io, quel giorno. A poco a poco stavo iniziando a riprendere il controllo di me stessa.
Kenji si affrettò a rimettere a posto il kit da sutura. Poi passò il dito lungo il taglio che avevo appena ricucito e sorrise soddisfatto.
«Una sutura perfetta,» commentò, dopodiché spostò lo sguardo su di me, gli occhi limpidi. «Ce l’hai fatta, Cami.»
Potevo percepire dal suo tono di voce che era orgoglioso di me. Gli sorrisi anche io e lo abbracciai. Glielo dovevo. C’era ancora tanto lavoro da fare: se Chuck fosse stato un essere umano reale probabilmente sarebbe morto dissanguato con tutto il tempo che ci avevo messo per ricucire il taglio, ma per il momento volevo solo godermi la mia ennesima piccola vittoria.
Aspettai pazientemente che il rosso riponesse l’inquietante manichino nell’armadietto e quando lo ebbe fatto gli cinsi le spalle con un braccio. Lui avvampò e io trattenni una risata. Per un po’ ci fissammo in silenzio.
«Grazie, Kenji.» Lo strinsi di più a me. Trattenni di nuovo una risata quando notai che il suo viso aveva preso il colorito di un pomodoro maturo. «Sei appena diventato il mio medico preferito.»
Non era del tutto vero, il mio medico preferito era e sarebbe per sempre stato Law, nonostante i suoi modi di fare burberi e poco delicati, ma questo non c’era bisogno che Kenji lo sapesse. In fondo, mi faceva piacere appagarlo. Mi aveva dedicato tempo ed energie che avrebbe potuto investire in altri modi, e lo aveva fatto sempre con il sorriso. Stavo semplicemente ricambiando il favore. Una parola gentile ogni tanto rendeva tutti più contenti, e di certo non gli avrebbe fatto male. Almeno, così credevo.
«E tu sei la mia paziente preferita.» Mi cinse a sua volta il fianco con il braccio. Stava iniziando a prendere coraggio. «Nonostante la tua forte predilezione per il vino,» scherzò poi. Sbuffammo entrambi una risata.
«Vino o no, sarò sempre la tua paziente preferita,» dichiarai con una punta d’orgoglio.
«Già...» sussurrò pensieroso, forse nella speranza che non lo sentissi.
Nell’udire quelle parole, ritirai il braccio e mi schiarii la voce. C’era qualcosa nel modo in cui le aveva dette che mi fece capire che forse sarebbe stato meglio retrocedere. Mi liberai dalla sua presa e mi staccai dal suo corpo, piazzandomi di fronte a lui, tuttavia a debita distanza.
«Che ne dici, ci prendiamo un caffè?» gli proposi, per togliere dall’imbarazzo entrambi. L’aria sembrava improvvisamente essere diventata pesante in quella stanza.
Lui fece un’eloquente smorfia contrariata. Roteai gli occhi, capendo subito quale fosse il problema. Mi ero dimenticata di quanto fosse salutista. Secondo lui anche il caffè faceva male. Non aveva tutti i torti, ma una tazza ogni tanto non ci avrebbe di certo ucciso.
«Un tè?» avanzai di nuovo.
Il suo volto si aprì in un sorriso. «Certo.»
Uscimmo dall’infermeria in silenzio, fianco a fianco, e ci dirigemmo in cucina. In fondo, mi faceva piacere prendere una tazza di tè insieme a lui. Cominciavo ad apprezzare la sua compagnia.
 
«C’è una cosa che mi devi spiegare,» iniziai, soffiando sul liquido bollente contenuto nella mia tazza arancione. Era tè. Rigorosamente tè. Avevo sperato che Ryu, nel prepararlo, lo avesse segretamente corretto con un po’ di rum – o qualsiasi altro alcolico – invece non lo aveva fatto. Era semplice tè nero. Non potevo lamentarmi, però, perché era già tanto che il cuoco si fosse offerto di farlo, con tutte le altre cose che aveva da finire. Il poverino era così stressato che ci aveva cacciato dalla sua cucina. Alla fine eravamo ritornati in infermeria, che era stranamente deserta. Tanto perché, giustamente, vi avevo passato poco tempo nelle ultime settimane.
«Chiedi pure, sono qui apposta,» fece Kenji, cordiale e sorridente come al solito. Lui, invece, aveva optato per il tè verde, un efficace antiossidante. La cosa non mi sorprendeva affatto. Temevo che uno di quei giorni mi avrebbe buttata giù dal letto per convincermi a fare una corsetta mattutina sul ponte del Polar Tang. Se fosse arrivato a tanto lo avrei davvero ucciso.
«Perché mi hai detto di pensare ad un posto?» volli sapere, sporgendomi in avanti e posando la testa sul palmo della mano. «Voglio dire, perché proprio un posto? Perché non un ricordo, o una persona?»
Ci pensò intensamente per qualche secondo buono, sembrava davvero assorto.
«Vuoi la risposta onesta o quella fintamente intellettuale?» mi chiese a sua volta dopo essere venuto a capo dell’enigma.
«Voglio la risposta onesta.»
Esitò un altro paio di secondi prima di parlare.
«Non ne ho idea. Per me funziona e ho pensato di provare questo metodo anche con te.» Si strinse nelle spalle, quasi come se si volesse scusare per aver replicato in quel modo. Trattenni l’ennesima risata della giornata. Se non altro era stato onesto. Lui non era freddo e razionale come Law: le sue azioni erano guidate dal suo cuore anziché dalla sua mente. Era istintivo, almeno in questo. E a quanto pareva faceva bene ad esserlo. Anche se non era sicuro di cosa stesse facendo, il suo metodo improvvisato aveva funzionato.
«Credo che un posto, che sia un ricordo o una proiezione immaginaria della tua mente, rimanga sempre con te. Le persone talvolta sono destinate a svanire e i ricordi mutano con il tempo, si distorcono. Mentre i luoghi... li porterai sempre nel cuore. Nessuno può portarteli via, perché sono tuoi, e solo tuoi. Ed è lì che avviene la magia,» affermò, buttando subito dopo giù un lungo sorso di tè per lavare via l’imbarazzo che quei trenta secondi di coraggio gli avevano provocato. «E poi, tutti hanno un posto che portano nel loro cuore. È là, immobile, impresso sotto la pelle come un tatuaggio.»
Annuii con convinzione. Le sue parole mi avevano lasciato molto sorpresa, perché erano vere. Aveva ragione. Fu soltanto in quel momento che lo realizzai appieno: l’Isolachenoncè c’era sempre stata per me, fin da quando ero bambina. Nei momenti più bui, mi bastava chiudere gli occhi ed ero lì, lontano da tutto e da tutti. E non c’era stata una volta in cui mi avesse delusa.
Sbuffai una risata nel pensare che se avessi avuto la mente più lucida avrei potuto arrivare da sola alla soluzione e risparmiarmi così ore ed ore di fisioterapia. Ma in fondo, passare del tempo con Kenji non mi era dispiaciuto. Avevo avuto l’occasione di conoscere una persona bellissima, che spesso in quella ciurma veniva sottovalutata da tutti e lasciata in disparte a causa della sua timidezza. Lui era quello che aveva sempre una penna a disposizione se ne avevi bisogno, o che preparava metodi anti-sbronza dal gusto opinabile per farti stare meglio. Era il ragazzo della cabina accanto, sempre gentile e sorridente con tutti, ma per molti non era niente di più. Invece io stavo iniziando a pensare che fosse un valido amico, oltreché medico.
«Non che le persone non lo siano. Voglio dire, anche loro sono scolpite nei nostri cuori, e spesso e volentieri sono proprio i nostri cari a darci la forza di andare avanti. Però... con i luoghi è diverso. Sono posti in cui vai per dimenticarti di tutto e ricominciare. Non si tratta di trovare la forza per andare avanti, ma solo fare pace con te stesso e con il resto del mondo,» specificò poi, lasciandomi di nuovo stupita. Anche stavolta aveva ragione. E aveva descritto esattamente come mi sentivo. Non avevo bisogno di trovare la forza per andare avanti, avevo bisogno di trovare un punto da cui ripartire. E ripensandoci, non c’era una persona – se non me stessa – che poteva aiutarmi in questo.
Sospirai, poi mi portai la tazza di tè alle labbra, mentre il rosso rigirava la sua tra le dita.
«Come sei arrivato a mettere a punto questo metodo?»
«Vuoi sapere perché ne ho avuto bisogno?» domandò, continuando a concentrarsi sulla sua tazza.
Feci di sì con la testa. Avrei voluto dirgli che non doveva rispondermi per forza, se non se la sentiva, ma non feci in tempo a parlare.
«Ci tengo a premettere che io non sono come te,» iniziò, facendomi corrugare la fronte. Non capivo a cosa si riferisse. «A te viene tutto facile, quando si tratta di medicina. Hai un istinto naturale.»
A quel punto risi di gusto e scossi la testa con convinzione. Non ero d’accordo. Non ero una Dea della Chirurgia, non ero Meredith Grey, o Cristina Yang. Se solo avesse saputo di tutte le insicurezze e i dubbi che avevo avuto in quegli anni...
«No, Cami, davvero. Tu hai un dono. Ed è mio dovere assicurarmi che il tuo talento non vada sprecato,» affermò deciso, sbattendo piano entrambe le mani sul tavolo.
«Ok, fingiamo che sia così. Vai avanti,» lo sollecitai, tradendo un certo fastidio. Non mi andava di parlare di quell’argomento. Non quando la situazione con il polso era ancora in sospeso. Apprezzavo che la pensasse così, lo apprezzavo davvero, solo che non ne potevo più di parlare di quello. Non avevo fatto altro per giorni. Avevo bisogno di un attimo di pausa.
«Hai ragione, scusa,» fece Kenji, quasi mortificato. «Comunque, come ti dicevo, ci ho messo molto tempo per imparare ciò che so adesso. Molte volte ho dubitato di me stesso e ho desiderato mandare tutto all’aria. In parte non sono stato neanche troppo fortunato, non ho avuto un mentore bravo come il Capitano che mi insegnasse le varie procedure. Spesso e volentieri mi sono ritrovato a leggere tomi interi di medicina senza capirci niente. Mi sentivo stupido, incapace ed ero molto frustrato per questo. Anziché fare progressi, regredivo. Ero arrivato al punto che non riuscivo più neanche a centrare la vena con l’ago.»
Fece una pausa, mentre io mi meravigliai di ciò che mi aveva appena detto. Stavamo parlando dello stesso Kenji che settimane prima con tanta maestria mi aveva prelevato il sangue? Lo stesso Kenji che non avevo visto vacillare nemmeno una volta in quegli anni quando si trattava di somministrare medicine e operare?
Forse aveva ragione, come al solito. Ero stata fortunata, sia nell’avere Law come guida sia nell’avere la capacità di comprendere le procedure più o meno in fretta. Non mi ero mai resa conto che potesse non essere così, per qualcun altro. Io avevo dovuto lavorare sodo per arrivare al punto in cui ero, ma c’era chi aveva dovuto farlo ancora più di me e magari non aveva ottenuto i miei stessi risultati.
«Ma avevo un sogno: volevo diventare medico, volevo aiutare le persone a stare meglio, e non potevo mollare. Così mi sono detto che avevo bisogno di un metodo efficace che scacciasse la paura e il senso di inadeguatezza.» Si sistemò meglio la visiera del cappello, già perfettamente in ordine. «Il resto è venuto da sé. Ho creato una dimensione che fosse mia e solo mia, fatta di pace e momenti felici.»
Quando finì di parlare, per parecchio tempo nessuno dei due aggiunse altro. Io mi limitai a fissarlo con l’aria furba ed un sorrisetto beato mentre lui finiva di bere il suo tè. Non sapevo nemmeno cosa dire. Mi sembrava che lo stessi guardando per la prima volta, come se fino ad allora fosse stato solo una fotografia sulla mensola di un parente lontano che non sapevo nemmeno di avere. Era incredibile cosa celasse dentro di sé. C’era un intero universo fatto di storie, ricordi, emozioni. E in quei giorni me ne aveva fatto scoprire una piccola parte. Si era mostrato a me in tutta la sua fragilità e il suo splendore. Riuscivo solo a pensare a quanto fosse una bella persona. E, all’improvviso, qualcosa dentro di me scattò. Sentivo di doverlo proteggere, non volevo che la luce che aveva dentro di lui svanisse. Volevo che i suoi occhi color acquamarina continuassero ad essere limpidi.
«C’è la musica, nel tuo posto speciale?» volle sapere ad un certo punto, interrompendo le mie riflessioni.
«Come?» gli chiesi, non del tutto sicura di aver capito bene.
«C’è la musica, nel tuo posto speciale?» ripeté, sorridendo appena.
«Ehm... No. No, non c’è,» risposi una volta che ci ebbi pensato. Non c’era la musica. Non c’era mai stata la musica, lì, perché stavo così bene che non avevo nemmeno bisogno di essere accompagnata da una melodia di sottofondo. Gli unici rumori che sentivo erano quello del vento che avvolgeva il mio corpo e quello del mio cuore, che batteva rapido, bramoso di vita. Per qualche strano motivo, ripensai a Sabo. Un po’ mi mancava. Lui avrebbe capito. Io e lui, quando si trattava di queste cose, ci capivamo al volo. Perché eravamo due sognatori, cercavamo entrambi la libertà in posti lontani, in posti che non avevamo mai visto ma che in qualche modo portavamo nel nostro cuore. E non ci serviva la musica, tutto ciò di cui avevamo bisogno era la speranza che un giorno avremmo davvero visitato quei luoghi, nascosti al resto del mondo. Il nostro era una sorta di segreto taciuto, che custodivamo gelosamente per noi.
«Nel mio c’è.» Ghignò fiero.
Gli rivolsi un mezzo sorriso, nonostante fossi sicura che non potesse vedermi. Aveva lo sguardo assente, proiettato in un luogo lontano e paradisiaco.
«Sai,» iniziò, riscuotendosi dai suoi ricordi. «Ho sempre visto la medicina come se fosse una danza. Una danza in cui le mie mani si muovono a ritmo di musica per creare l’armonia giusta per ogni paziente, come se seguendo la giusta coreografia e muovendo le mani a ritmo si potesse ripristinare l’equilibrio delle persone.»
La sua espressione tradiva una certa reticenza, quasi avesse paura di essere preso per pazzo. Ma perché mai avrei dovuto prenderlo per pazzo, quando io avevo usato una metafora simile per spiegare a Jasper cosa significasse essere un medico? Le famose meccaniche della chitarra e l’armonia del corpo umano. Nemmeno in questo io e Kenji eravamo tanto diversi, entrambi consideravamo la medicina come un’arte.
«La musica che risuona nella mia testa quando mi immagino nel mio posto speciale mi aiuta molto in questo,» confessò poi, spezzando il silenzio che si era venuto a creare.
Sorrisi per l’ennesima volta, per fargli capire che aveva il mio totale appoggio e che lo capivo, quando con la coda dell’occhio vidi una figura venire con calma verso di noi. Mi voltai. Era Bepo, che a quanto pareva era venuto ad interrompere quella conversazione idilliaca.
Chinò leggermente il capo in segno di rispetto.
«Mi dispiace disturbarvi, ma vorrei ricordarvi che è quasi ora di cena. Se non vi sbrigate, arriverete in ritardo e rimarrete senza mangiare. Vi suggerirei di accomodarvi a tavola, nel frattempo,» ci fece sapere l’orso, ritirandosi ed uscendo subito dopo.
Io e Kenji ci guardammo per un attimo e concordammo silenziosamente che fosse meglio avviarci in cucina: nessuno dei due voleva ritardare e rischiare di rimanere senza cena. Mentre attraversavo il lungo corridoio, dietro a Kenji, pensai che il tempo che avevo passato in sua compagnia era volato. Non mi ero resa conto che fosse così tardi.
 
***
 
Sospirai soddisfatta dopo aver completato la sutura.
«Ecco qui. Adesso sei come nuovo, Chuck,» scherzai, fissando il manichino e dandogli una simbolica pacca sul torace. “Come nuovo” si faceva per dire, ovviamente, dato che di nuovo aveva solo l’ennesima cucitura che gli avevo fatto.
«Stai facendo progressi rapidamente,» commentò Kenji, intento a tagliare il filo della sua terza sutura. Quel giorno aveva deciso di unirsi a me nel tagliuzzare il povero manichino, mi aveva detto di voler fare un po’ di pratica. Non glielo avevo di certo impedito, dopotutto, in quanto medici, entrambi sapevamo che gli avrebbe fatto bene. Solo che questo aveva portato ad un inevitabile paragone tra il mio lavoro ed il suo.
«Non direi. Nel tempo che ci ho messo per finire una sutura tu ne hai fatte tre...» gli feci notare, con una punta di amarezza nella voce. Stavo migliorando, era vero, ma ancora ero ben lontana dal tornare al vecchio splendore.
«Non ti scoraggiare. Tornerai ad essere veloce come un tempo. Anzi, anche di più.» Mi sorrise. «E a quel punto io tornerò a sentirmi nettamente inferiore. Non si può competere con la Dea delle Suture.»
Sbuffai una risata. “Dea delle Suture”. Di certo era un appellativo migliore di quello che mi aveva affibbiato la stampa, sebbene non fosse del tutto veritiero.
«Mi dipingi come se fossi una macchina da guerra,» lo rimproverai, abbassando lo sguardo per controllare ancora una volta di aver svolto un lavoro preciso e pulito sul povero Chuck. Kenji rise.
«È perché lo sei,» fece, scrollando le spalle.
Mi schiarii la voce, leggermente a disagio. Se io ero la Dea delle Suture, lui lo era dei complimenti. Non smetteva un attimo di complimentarsi con me per meriti che spesso e volentieri non avevo, o non pensavo di avere.
«Comunque, tu non sei inferiore, né a me, né agli altri. Non sei inferiore a nessuno,» gli feci sapere, gettandogli un’occhiata di rimprovero. Non poteva e non doveva sminuirsi in quella maniera. Lui era bravo, tanto quanto lo era il resto dei medici dell’equipaggio. Anzi, probabilmente lo era anche di più, perché lui possedeva una qualità che gli altri non avevano: l’empatia. Avevo avuto modo più volte di vedere all’opera i miei compagni in quegli anni, e avevo notato che tutti loro si limitavano a somministrare medicine e richiudere ferite. Certo, era questo ciò che doveva fare un dottore, ma un bravo dottore si prendeva cura del paziente. Lo confortava se aveva paura, ascoltava ciò che aveva da dire e cercava di stabilire un contatto con lui. Kenji, in questo, era un vero e proprio maestro. Avevo imparato molto da lui sul modo in cui andavano trattati i malati.
«Grazie per la considerazione che hai di me.» Sospirò e sorrise contento.
«Te la meriti. Te la sei guadagnata,» affermai convinta. Ormai avevo capito che lui era un ragazzo che aveva bisogno di continue rassicurazioni per “funzionare” bene. Non che io non ne avessi bisogno, solo che il Chirurgo della Morte mi aveva insegnato a farne a meno e andare avanti comunque. Non potevo che ringraziarlo per questo.
«Che dici, continuiamo a fare pratica?» propose il rosso, risistemando il kit da sutura.
«Certo.» Feci un ampio sorriso. Non ero stanca e avevo bisogno di fare quanta più pratica possibile. Volevo tornare ad essere quella di prima, quella capace di ricucire una ferita ad occhi chiusi, al più presto.
Girammo il manichino di schiena. Era l’unica parte del corpo sulla quale si potessero praticare altri tagli. Avrei dovuto notificare a Law che sarebbe stato meglio comprare un altro “fantoccio da macello”, anche se dovevo ammettere che per quanto raccapricciante fosse, un po’ mi ero affezionata a Chuck.
Presi il bisturi e mi apprestai a lacerare il tessuto epidermico del manichino con l’intenzione di ricucirlo, ma prima che potessi farlo, una forza invisibile mi sbalzò in avanti. Lo strumento mi cadde di mano e io grugnii infastidita. Il sottomarino doveva essere stato soggetto ad una turbolenza piuttosto violenta. Capitava, ogni tanto: il mare del Nuovo Mondo era imprevedibile e talvolta finivamo dentro ad una corrente intensa che ci trascinava dove non saremmo dovuti finire. Poi però Bepo e Jean Bart riuscivano a tirarci fuori dai pasticci in pochi minuti. Non era niente di grave e il Polar Tang non riportava quasi mai danni, era più il fastidio che tale turbolenza causava a quelli che vi navigavano dentro, costretti a interrompere momentaneamente le proprie attività. Una volta Ryu si era inferocito perché si erano rotti un paio di piatti, ma gli era passata quando aveva capito di non poter incolpare una corrente oceanica per quanto successo.
Mi aggrappai al lettino e, quando la turbolenza fu finita, mi affrettai a raccogliere il bisturi. Udii un lamento di dolore e mi ritirai su per capire cosa fosse successo. Quando lo vidi, lo strumento cadde di nuovo a terra.
«Oh, merda!» esclamai, sgranando gli occhi. Sulla mano di Kenji si era formato uno squarcio che gli attraversava tutto il palmo per obliquo. Quando c’era stato l’impatto con la corrente, lui aveva già iniziato a incidere. Il bisturi doveva essergli scivolato di mano ed essergli finito nell’altra mano, la sinistra, con la lama dalla parte sbagliata.
Mi alzai in piedi e mi guardai intorno, alla ricerca delle garze. Il sangue zampillava come se fosse uscito direttamente da una fontanella. Molto probabilmente si era reciso una vena. Non c’era tempo da perdere. Recuperai in fretta e furia le garze e gli tamponai la ferita come meglio potevo, per fermare l’emorragia.
Accidenti a me! Perché ogni volta che mi trovavo in un’infermeria con qualcuno, quel qualcuno doveva farsi male!? Non ero preparata a questo, maledizione. Non un’altra volta.
«Vado a chiamare un medico.» Schizzai verso l’ingresso dell’infermeria. «Tu continua a tamponare la ferita.»
«No,» protestò lui, tuttavia calmo. Mi rigirai, fissandolo interrogativa. Si alzò dalla sedia e venne verso di me, continuando a tamponarsi la mano con le garze. «Tu sei un medico. Non hai bisogno di chiamarne altri.»
Sbuffai infastidita, con le dita che stringevano la maniglia della porta.
«Kenji, non abbiamo tempo per metterci a fare questi giochetti,» lo ammonii, mentre la preoccupazione cresceva in me. Non mi sembrava il caso di giocare all’Allegro Chirurgo.
«Non sono giochetti. Si tratta della tua riabilitazione. Vuoi tornare ad operare come facevi prima? Allora hai bisogno di stimoli reali. Di carne umana da ricucire, di vera carne umana da ricucire,» affermò perentorio, corrugando appena la fronte e fissandomi con un’espressione che non gli avevo mai visto prima. Lo fissai a mia volta, gli occhi pieni di confusione.
Girai la maniglia, sopraffatta dalla paura di non riuscire a fare ciò che mi stava chiedendo. A quel punto, Kenji smise di tamponare la ferita ed il sangue ricominciò a zampillare. Spalancai gli occhi, sconcertata, e mi fiondai verso di lui.
«Che stai facendo!?» gli gridai, cercando di recuperare le bende. Sarebbe potuta andare a finire male, accidenti a lui!
Mi piazzò la sua carne lacerata sotto il naso, nelle iridi si intravedeva una fermezza che non era da lui.
«Non tamponerò la ferita finché non ti deciderai a suturarmela.»
C’era da dire che quel ragazzo era pieno di sorprese. Mai mi sarei aspettata che potesse essere così autoritario.
Osservai il taglio. Sembrava piuttosto profondo. Era necessario intervenire in qualche modo. Il sangue continuava a sgorgare copioso, al punto che si stava iniziando a formare una minuscola chiazza magenta sul pavimento immacolato dell’infermeria. Sospirai.
«D’accordo. Ci penso io,» asserii infine, sconsolata. «Però non intendo pulire il macello che hai fatto, che sia chiaro.»
Il rosso si abbandonò ad una piccola risata, poi piazzò di nuovo le garze sopra la ferita. Gli feci cenno di andare a sedersi su una delle sedie e tirai quello che mi sembrava un sospiro di sollievo.
“È l’attimo buono per scappare,” la mia mente tentò di sollecitare la parte razionale che c’era in me mentre andavo a disinfettarmi le mani. Ci provai anche, a fuggire, ma i miei piedi non rispondevano a ciò che comandava loro la testa. Era come se loro sapessero che non potevo continuare a darmela a gambe di fronte al primo ostacolo che incontravo. Avevo scelto io di rimanere lì e questo significava che non potevo più essere la ragazzina impaurita che ero un tempo. Dovevo affrontare le mie paure e vincerle, era questo l’unico modo per sopravvivere, in quell’universo come in qualsiasi altro universo. Perché era questo che era la vita. Era questo che voleva dire avere un sogno e combattere per esso.
Recuperai tutto l’occorrente e mi lasciai cadere sulla sedia di fronte a quella sulla quale era seduto Kenji. Mi infilai i guanti mentre lui allungava il braccio con un sorrisetto idiota stampato sulla faccia. Non capivo proprio cosa ci fosse da sorridere. Aveva uno squarcio che gli attraversava il palmo della mano e pretendeva che fossi io, che mesi prima avevo avuto problemi perfino ad applicare un fottuto cerotto, a suturarglielo. Forse avevo sopravvalutato la sua sanità mentale.
Pulii con cura la ferita con il disinfettante e quando il sangue si fu fermato presi la siringa anestetizzante e spinsi l’ago nella lacerazione. Il rosso fece una smorfia di dolore.
«Mi dispiace,» mi scusai, sebbene fossimo entrambi consapevoli che quella dolorosa procedura fosse necessaria.
«A quanto pare, dopo oggi, la stima che hai di me diminuirà drasticamente,» provò a sdrammatizzare, senza ottenere i risultati sperati.
«Stai zitto e lasciami concentrare,» lo sgridai. Fino a lì non c’erano stati intoppi o problemi. Quella, però, era la parte facile. Adesso che arrivava il difficile avevo bisogno della massima concentrazione e del silenzio più assoluto. Kenji obbedì.
Prima di cominciare a suturare chiusi gli occhi per appena un paio di secondi. Visualizzai me stessa nel mio posto speciale e mi impressi bene nella mente le sensazioni che mi dava quel luogo. Presi un respiro profondo; l’unico che potessi permettermi. Non c’era nulla da temere. A parte un’altra turbolenza. Quella poteva essere fatale.
Mi agitai sulla sedia, fissando con ansia la porta dell’infermeria. Forse sarebbe stato meglio andare a chiedere delucidazioni sulla situazione a Jean Bart, per evitare rischi.
«Ce la puoi fare. Sai cosa devi fare,» affermò il rosso, notando la mia crescente angoscia, che si era manifestata con un lieve tremolio al polso. Annuii distrattamente. Certo che sapevo cosa dovevo fare. Il problema era farlo.
“Smettila di tremare, ti prego,” supplicai la mia mano tra me e me, invano. Continuava a tremare come una foglia, e non sapevo come fare per fermarla.
«Trova il tuo ritmo,» intervenne Kenji, posando la mano sana sulla mia spalla. Puntò le iridi nelle mie e strinse appena le dita sulla mia scapola, per incoraggiarmi.
“Trova il tuo ritmo.” La faceva facile, lui che lo aveva già trovato da tempo. Io neanche sapevo dove iniziare a cercare. La stanza era piombata in un silenzio assordante, tanto che riuscivo a sentire il mio cuore che batteva. Era tanto rapido che sembrava stesse fuggendo da qualcosa. Magari tentava di scappare dal mio corpo. Come biasimarlo, anche io avrei voluto farlo. Mi concentrai sulle pulsazioni, sul mio respiro, sui tremolii che faceva la mano. Fu lì che capii: non avevo bisogno di trovare il mio ritmo, lo avevo già fatto. Il mio corpo era il ritmo. Un ritmo che mi comunicava che ero viva. Dopo tutto quello che avevo passato, ero viva.
Il polso tremava ancora e Kenji stava iniziando a diventare pallido, dovevo sbrigarmi. Ritornai con il pensiero sull’Isolachenoncè e lasciai che quel posto mi calmasse. Mi resi conto che il mio corpo e la mia mente stavano combattendo l’uno contro l’altro, invece di aiutarsi. Mi portai la mano sinistra sul petto, nel punto in cui i battiti cardiaci erano più forti. Pian piano, il cuore rallentò e il polso smise di tremare, come se avessero capito che la soluzione era collaborare. Adesso avevo un luogo immaginario che mi tranquillizzava e una melodia solo mia che mi ricordava con orgoglio che ero viva. Sorrisi e mi apprestai a cominciare. Potevo farcela.
 
Non appena ebbi finito di fasciare la ferita mi accasciai sulla sedia, appoggiando la schiena allo schienale e gettando indietro la testa, sfinita. Tuttavia il mio momento di riposo durò poco, perché mi ricordai che di fronte a me c’era una persona che aveva un taglio sulla mano. Un taglio lungo e profondo, che io ero riuscita per miracolo a suturare. Mi ritirai su controvoglia e guardai Kenji.
«Stai bene?» gli chiesi, leggermente preoccupata. Lui sorrise ed annuì.
«Io sì. Mi hai rimesso a nuovo,» affermò soddisfatto. «E tu?»
Quella domanda mi spiazzo un po’. Mi alzai, allargai le braccia e feci un’espressione sorpresa.
«Sì!» esclamai mettendomi a ridere. Stavo bene! Certo che stavo bene. Avevo appena effettuato una sutura impeccabile e non mi ero dovuta interrompere perché il polso tremava. La paura e l’angoscia se ne erano andate. Ero tornata in pista.
«Ce l’ho fatta.» Mi piegai in avanti per poggiare le mani sulle ginocchia. All’improvviso sentivo sulle spalle tutta la fatica che avevo fatto in quelle settimane. Tuttavia era un peso dolce da sopportare, perché pochi minuti prima tale fatica era stata ripagata.
Io e Kenji ci fissammo. Per qualche minuto, entrambi ridemmo di gusto. Poi, quando avemmo finito di sghignazzare come due bambini, gli corsi incontro d’istinto e lo abbracciai. Gli appoggiai il mento sulla spalla e lo tenni stretto a me per diversi minuti. Le sue braccia avvolgevano il mio corpo, creando un involucro caldo e sicuro. Potevo sentire il battito rapidissimo del suo cuore contro il mio petto. In quel momento, probabilmente, lui era molto più contento – e imbarazzato – di me. Mi staccai da lui, gli rivolsi un sorriso incerto e gli diedi un’amichevole pacca sulle spalle.
«Bentornata,» fece, una volta che ebbe ripreso il controllo di sé.
«Grazie.» La mia espressione era fiera e gli occhi luccicanti. Ovviamente, il mio ringraziamento si estendeva a tutto ciò che il rosso aveva fatto per me in quelle lunghe e dure settimane, e lui ne era più che consapevole. Annuì impercettibilmente, come se volesse farmi capire che avevo il suo rispetto, e io ricambiai il suo cenno.
All’improvviso, la sua faccia si illuminò, come se di colpo si fosse ricordato di qualcosa di importante.
«Aspetta qui.» Uscì dall’infermeria senza darmi il tempo di ribattere. Non sapevo se dovevo preoccuparmi o meno.
Tornò qualche minuto dopo, nella mano – in quella buona – aveva qualcosa. Spalancai la bocca, piacevolmente sorpresa. Era... la mia bottiglia di vino! Cercai di trattenere la mia gioia, anche per rispetto verso di lui e la sua storia travagliata, ma ero più contenta di quanto volessi dare a vedere. Perché il fatto che mi stesse restituendo la bottiglia di vino significava che ero riuscita nel mio intento. Ero guarita. Non del tutto, certo, ma era un enorme passo avanti. E quel successo meritava di essere festeggiato in maniera adeguata.
«È tua. In quanto tuo medico curante, ti do il permesso di celebrare la tua vittoria. Ce l’hai fatta, Cami.»
Sorrisi e mi affrettai a prendere la bottiglia. Avevo paura che potesse cambiare idea da un momento all’altro e decidere di negarmi di nuovo il vino. La fissai con occhi sognanti. Quanto mi era mancata, l’avevo persino sognata un paio di notti.
«Penguin e Shachi stanno aspettando questo momento da più tempo di te,» affermò il mio compagno, ridacchiando. Risi anche io nell’immaginarmi quei due con la bava alla bocca che attendevano di darsi alla pazza gioia in una delle nostre serate all’insegna dell’alcol. Era da tanto che non ce ne concedevamo una.
Guardai ancora una volta la bottiglia, che stavo cullando dolcemente tra le mani come se fosse un bebè. Se fosse stato per me l’avrei aperta subito, ma c’era qualcosa che me lo impediva.
Passai a osservare il rosso, in piedi a un paio di metri da me. Sembrava sinceramente contento per me, eppure... il modo in cui mi guardava quasi mi faceva sentire in colpa. E non era solo per la mia intenzione di tracannare senza ritegno l’intera bottiglia di vino, c’era qualcos’altro. Sentivo di doverlo ripagare in qualche maniera per tutto quello che aveva fatto per me. Non era giusto che dopo tutto il tempo e le energie che mi aveva dedicato io lo lasciassi lì, da solo, per andare a festeggiare la nostra vittoria, la vittoria che avevamo ottenuto insieme, con i miei amichetti, soprattutto se per “festeggiare” si intendeva “sbronzarsi come se non ci fosse un domani”. Sarebbe stato come dargli due delusioni in una volta sola, sarebbe stato un colpo basso, da parte mia.
Sospirai. Avrei pur sempre potuto sbaciucchiare – e bere – la bottiglia di vino più avanti, in pace e lontano da occhi indiscreti.
«Allora immagino che dovranno aspettare un altro po’.» Mi strinsi nelle spalle. «Per questa sera potremmo fare qualcos’altro.»
Le sue iridi si illuminarono.
«Vuoi dire... io e te?» mi chiese speranzoso. Arrossì più del dovuto. Decisamente più del dovuto. Aveva assunto lo stesso colorito del body di Emporio Ivankov.
«Sì, io e te. Che ti piacerebbe fare?»
Se fossimo stati nel mio mondo di provenienza gli avrei proposto di guardare un film, ma lì – e soprattutto su quel sottomarino – non c’erano molte cose da fare per ricrearsi. Non in due, almeno. O meglio, le attività ricreative da fare in coppia non mancavano, il problema era che nessuna di esse comprendeva il rimanere con i vestiti addosso. E mai e poi mai avrei svolto tali attività con Kenji. Io e Sabo, però, ci saremmo divertiti.
«A me piace giocare a scacchi.» Aveva le iridi sempre più colme di gioia e speranza.
«A scacchi, eh?» Cercai di mascherare la mia disapprovazione con un sorriso fintissimo. Non mi andava molto di trascorrere la serata a giocare a scacchi. Se prima li odiavo, dopo aver fatto varie partite con Marco li odiavo ancora di più. Era semplicemente un gioco di una noia mortale, per quanto mi riguardava. Però lo dovevo a Kenji, perciò tutto ciò che potevo fare era ingoiare il rospo e fingermi entusiasta. E poi ero così contenta che niente avrebbe potuto minare il mio buonumore.
«E va bene,» acconsentii infine, più rassegnata che entusiasta.
«Davvero?» Il suo tono di voce uscì più acuto di almeno due ottave. Era felicissimo, sprizzava allegria da tutti i pori, tanto che faceva tenerezza. In quel momento impersonava l’innocenza. Il mondo aveva bisogno di più persone come lui.
Fu un attimo. Non me ne accorsi nemmeno. Mi ritrovai semplicemente la sua mano sana sulla guancia e le sue labbra pressate sulle mie.
Quando si staccò da me eravamo entrambi stralunati, incapaci di articolare una parola o un pensiero. Feci l’unica cosa che riuscii a fare. Aggrottai la fronte, completamente spiazzata. A quanto pareva mi ero sbagliata. Innocenza un corno.
Dopo che ebbe realizzato cosa aveva fatto si fece piccolo piccolo e avvampò. Poi sbiancò e diventò pallido come un cadavere. Iniziò anche a sudare. Io, invece, sbattei più volte le palpebre per assimilare il tutto. Me ne stavo lì, immobile, ancora troppo scossa per poter fare qualcosa. Non ero arrabbiata, né mi sentivo violata, dopotutto era di Kenji che si stava parlando, non aveva cattive intenzioni e non ero nemmeno sicura che sapesse cosa fosse la malizia. Molto probabilmente aveva agito d’impulso, sfruttando quei dieci secondi di coraggio che gli erano stati regalati dall’euforia del momento che aveva offuscato la sua lucidità. No, non ero infastidita, ero solo... sorpresa. Non me lo aspettavo da lui, tutto qui.
Era stato un bacio che era durato un istante, ma supponevo che avesse lasciato l’amaro in bocca – quasi letteralmente – ad entrambi. Perché anche il più piccolo degli istanti può causare un danno irreparabile. Io lo sapevo bene. Certe cose non si potevano più cancellare.
«Oddio, mi... mi dispiace! Io non... non so cosa mi sia preso!» balbettò il rosso. Era in confusione totale. Era così mortificato che temevo che sarebbe corso sul ponte del Polar Tang per buttarsi in mare. Doveva calmarsi, dovevo fare qualcosa.
«Sai che c’è?» iniziai, ritrovando a stento la mia compostezza. «Per stasera va bene così,» lo rassicurai, sorridendogli materna.
Lo pensavo davvero. Per quella sera andava bene così. Avevo raggiunto il mio tanto agognato obiettivo, ero riuscita a completare una sutura senza che il polso tremasse e avevo riavuto il vino. Vino che a quel punto non avrei esitato a tracannare per dimenticarmi di quella piccola disavventura. In ogni caso, ero contenta, e niente, niente avrebbe potuto scalfire il mio buonumore.
Per quella sera, glielo concedevo. Ma ciò non significava che non avremmo dovuto chiarire la questione in seguito.
   
 
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