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Autore: edoardo811    25/09/2021    5 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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13

Le Tribune Negishi 

 

 

Quello era il luogo più strano che avesse mai visto. Era stato in templi tra le montagne, villaggi antichissimi e santuari in tutto il Giappone, ma non aveva mai visto qualcosa di simile a quelle venti case dispose a forma di U. Erano tutte completamente diverse tra loro, in mezzo ad uno sprazzo di verde tra le colline appena fuori quella città colossale che i mortali chiamavano “New York.”

Quando Orochi aveva detto che sarebbero andati in occidente, non aveva avuto idea di cosa aspettarsi. Non credeva sarebbe stato così diverso dal Giappone, ma si era sbagliato. Ogni cosa lì era più grossa, più rumorosa e più caotica. 

I mortali da quel lato del mondo erano una mandria di belve senza cervello, grasse, informi e ripugnanti. Non sembravano nemmeno in grado di parlare la loro stessa lingua. 

Non c’aveva messo molto prima di capire di odiare con tutto sé stesso i Gloriosi Stati dell’America Unita. Bastava soltanto quel nome per fargli capire quanto pomposi fossero i suoi abitanti. Voleva andarsene al più presto e tornarsene al museo dall’altra parte del paese. Là, perlomeno, si sentiva come in Giappone, nonostante tutte le sculture e i quadri dedicati agli dei che avrebbe voluto distruggere uno dopo l’altro. 

Cercava una persona. Un mezzosangue, come lui, ma il padre di quello era un dio. Naito conosceva storie di persone che discendevano dagli dei, ma non le aveva mai incontrate davvero. Giusto un paio di cialtroni che affermavano di esserlo e che erano stati fatti a pezzi da lui. All’inizio era diffidente, ma non appena aveva messo piede in quel luogo aveva capito che Orochi non gli aveva mentito. Tutti i ragazzini che vivevano lì emanavano un’aura di potere incredibile, che in nessun mortale aveva mai visto. Un’aura che ricordava molto quella dell’uomo che aveva ucciso sua madre. Non appena l’aveva percepita, aveva sentito la rabbia montargli nel corpo.

E non appena aveva percepito quel potere di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri, aveva capito di aver trovato il suo obbiettivo.

Edward Model. Orochi aveva detto che era lui a possedere Ama no Murakumo. Come fosse possibile che quell’arma fosse finita in mano ad un moccioso, Naito non poteva comprenderlo. 

Gli era bastato vederlo anche da lontano per percepire l’incredibile energia che emanava. Aveva trascorso qualche giorno a studiarlo. Se ne andava sempre in giro con una ragazza dai capelli arancioni sgargianti, il cui potere era quasi insignificante se messo a confronto con quello di Edward. Non aveva potuto avvicinarsi troppo per studiarli meglio, ma era impossibile non riuscire a notarli.

Li aveva anche visti battibeccare, qualche volta. Erano molto affiatati, l’aveva intuito con un solo sguardo. 

In un certo senso… gli ricordavano lui e Hachidori. La differenza principale però era che loro due erano fratelli, anche se non si assomigliavano per niente. Naito non ci mise molto per capire che, per quanto Ama no Murakumo potesse renderlo potente, Edward aveva comunque un punto debole: quella ragazza. 

E Naito l’avrebbe sfruttato.

La sera in cui attuò il suo piano arrivò quando vide quei due dividersi. Edward uscì da un grosso edificio circolare. La ragazza, che era entrata con lui, non lo seguì. Nessun altro oltre a loro era entrato. Il che significava che lei era ancora dentro, da sola. 

Il momento ideale per muoversi.

L’oni accanto a lui emise uno dei suoi soliti versi incomprensibili mentre si avvicinavano. Naito fece una smorfia. Non aveva idea del perché Orochi gli avesse ordinato di non andare da solo. Per poco, quell’essere senza cervello non si era fatto scoprire da un poppante. Era stanco di essere sempre affiancato dagli altri mostri. Avrebbe potuto portare a termine quell’incarico da solo. Ma come al solito, non aveva voce in capitolo. 

Dopo aver sbrigato quel compito, si augurò di tornare ad essere uno degli uomini di punta. Era stanco di obbedire a Bunzo, Hikaru e addirittura a Chioiji. 

Sfruttarono lo Yomi per teletrasportarsi dentro l’edificio senza dare nell’occhio. Le ombre si plasmarono attorno a lui, diventando un tutt’uno con il suo corpo. Percepì il mondo svanire e sprofondò nella terra, controllando quell’oscurità di cui anche il suo essere era composto per metà.

Orochi gli aveva insegnato come fare. Gli aveva anche spiegato che lo Yomi non poteva imprigionare i demoni, perché loro non avevano un’anima come quella dei mortali. Potevano diventare un tutt’uno con le tenebre e sfruttare quel luogo per muoversi molto più rapidamente del normale. Era stato così, dopotutto, che erano arrivati in America. Ed era sempre così che era riuscito a passare da San Francisco a New York nel giro di pochi minuti.

Il mondo cambiò. Erano sempre in quello strambo “campo”, ma ora era deserto, avvolto da ombre fittissime, senza nemmeno la luce della luna e delle stelle. Entrarono nell’arena e Naito si concentrò, riuscendo a scorgere la versione reale di quell’edificio. Vide la ragazza seduta in un angolo, completamente isolata, mentre suonava una chitarra. Rivolse un cenno all’altro oni, poi riemersero di nuovo. 

Rimasero nascosti nell’ombra, dietro alcune gradinate di legno. Ordinò al suo compagno di rimanere fermo e fece un passo avanti. Stava per mostrarsi, quando la voce di lei si sollevò nell’aria mentre pizzicava le corde dello strumento, creando una melodia soffusa. 

Stava cantando.

Naito si fermò senza nemmeno rendersene conto, concentrandosi su quel suono. Dopo tanto tempo trascorso ad obbedire ad ordini, uccidere, combattere per Orochi, circondato da creature ripugnanti, la voce di quella mezzosangue sembrò qualcosa di irreale, aulico perfino. Una finestra sul mondo che si era lasciato alle spalle quando aveva rinunciato a tutto per seguire Lord Yamata no Orochi. 

Quella ragazza… aveva una bella voce. Anche sua madre cantava, quando era bambino. Riusciva sempre a farlo addormentare…

Il mezzo demone si riscosse. Ma che diamine gli era preso? Aveva una missione da svolgere. Uscì dal nascondiglio e sguainò la katana. Non appena il metallo sibilò contro il fodero, la piccola dea saltò in piedi spalancando gli occhi.

Erano verdi. Come quelli di Hachidori. 

«Chi sei tu?» gli domandò. Nonostante la sorpresa, la sua voce rimase ferma. 

Naito avanzò nella zona illuminata dalle torce, causandole un sussulto non appena si palesò nelle sue fattezze. 

«Non muoverti» le ordinò, nella sua lingua, con voce piatta. «Non voglio combattere con te. Sono qui per tuo fratello

«M-Mio fratello?»

«Ti useremo come esca» proseguì Naito, mentre anche l’altro oni usciva allo scoperto, bloccandole ogni via di fuga. «Rimani immobile. Non fare niente di avventato e non ti sarà fatto nulla. L’unico che vogliamo è Edward

La vide indurirsi, mentre li scrutava entrambi. «Che cosa volete da lui?»

«Non è cosa che ti riguarda. Collabora e avrai salva la vita

L’altro oni emise uno strano ringhio. Non sembrava d’accordo con Naito, ma le decisioni spettavano a lui. Usare la ragazza come ostaggio sarebbe stato molto più semplice di affrontare Edward a viso aperto. Aveva Ama no Murakumo, dopotutto. La spada avrebbe reso un avversario pericoloso chiunque la brandiva.

La mezzosangue affondò la mano attorno al manico della chitarra. «Non ho nessuna intenzione di collaborare con voi.» Posò l’altra mano sulla cassa dello strumento e, sotto lo sguardo attonito di Naito, lo vide trasformarsi in una spada simile ad una katana, ma dalla lama molto più corta e molto più curva.

La strinse con entrambe le mani. «Non so cosa vogliate da mio fratello, ma vi assicuro che da qui ve ne andrete a mani vuote.» 

Naito storse il naso, mentre l’oni muoveva un passo in avanti, facendo formicolare gli artigli. Gli ordinò di fermarsi e si rivolse di nuovo alla ragazza: «Getta la spada

Quella sorrise. «Te lo puoi scordare

Sembrava davvero sicura di sé. Il suo sguardo era carico di determinazione, il suo sorriso pure. Non aveva affatto paura di loro due. Nonostante fosse appena una ragazzina, si stava mostrando molto più coraggiosa di gran parte dei samurai che Naito aveva affrontato. 

«Me ne occupo io» disse all’oni, avvicinandosi alla piccola dea. 

«Cos’era quello, giapponese?» domandò lei, prima di scattare verso di lui. «Ma che razza di mostri siete?!»

Le spade si scontrarono a mezz’aria, a pochi centimetri dal volto del mezzo demone, che rimase impassibile. La ragazza era veloce. Forte, anche. Naito fece pressione con la lama e la allontanò da sé. Lei saltò all’indietro, poi attaccò di nuovo. Mirò al suo fianco destro, ma Naito riconobbe la finta. La spada della ragazza deviò direzione all’ultimo istante, mirando invece al suo fianco sinistro, ed incontrò la katana di Naito con un clangore assordante. 

La piccola dea strinse i denti, chiaramente non si era aspettata che lui riuscisse a parare quell’attacco. Non demorse, però, perché ritirò la spada e si lanciò in una raffica di stoccate.

Era brava. Mirava ai punti deboli, rapida e precisa, al punto da far sembrare i suoi attacchi dei lampi di luce, senza dargli un attimo di tregua. Naito indietreggiò, stringendo la katana con entrambe le mani, e continuò a deviare le sue stoccate, a schivare i suoi affondi e a parare le sue sferzate, in una tempesta di tintinnii metallici.

Qualsiasi mostro comune sarebbe stato già sopraffatto da lei. Ma lui non era un mostro comune. All’ennesima parata, Naito passò al contrattacco. Scartò di lato e mirò al fianco della ragazza, che riuscì a scansarsi con un sussulto sorpreso. La piccola dea mulinò la spada verso il suo collo ma Naito la respinse con un gesto secco, prima di sferzare l’aria. La ragazza indietreggiò con un grido e alcuni ciuffi di capelli arancioni ondeggiarono sospinti nell’aria, tracciando una barriera immaginaria tra i due avversari mentre rimanevano in stallo, a studiarsi. 

«Arrenditi, piccola dea» disse Naito, abbassando la katana. «Non rendere le cose più difficili.»

La piccola dea si passò il polso sopra le labbra, la fronte madida di sudore. Strinse la presa sulla spada e non rispose, gettandosi di nuovo contro di lui. Tracciò un arco di profilo, tentando un'altra finta, questa volta mirando al suo volto, ma Naito fu più veloce. Dimenò la katana e la intercettò, abbattendo il piatto della lama sul suo polso. La ragazza gridò di sorpresa e di dolore mentre la spada le saltava via dalle mani. Si ritrovò la katana puntata al collo e strabuzzò le palpebre, rimanendo immobile. 

«Ferma» ordinò Naito, duro.

Lei strinse i pugni e serrò le labbra, osservandolo dritto negli occhi. La durezza nel suo sguardo lo colse di sorpresa. Nessuno aveva mai reagito così, prima di allora. Aveva appena perso, si trovava con una spada alla gola, eppure lo stava fissando senza alcun timore. Quella reazione lo infastidì. 

«Chi siete?» domandò di nuovo lei.

«Ti ho già detto che non è cosa che ti riguarda. Adesso arrenditi, o…»

Quella si mosse all’improvviso, così veloce da coglierlo alla sprovvista. Scostò la katana da di fronte a sé e si gettò sulla sua spada, recuperandola dopo aver eseguito una capriola sulla terra. Gliela puntò da inginocchiata. «Non sarò la vostra esca. Piuttosto preferisco la morte.»

Naito serrò la mascella, irritato. Quella mocciosa stava complicando troppo le cose. Scattò di nuovo verso di lui, mentre alle sue spalle udiva l’oni ridacchiare divertito. Sentire quel verso lo aiutò a realizzare che, se non si fosse occupato di lei in fretta, probabilmente lui si sarebbe intromesso.

Le spade cozzarono di nuovo tra loro. La piccola dea lo attaccò con rinnovato vigore, non rallentò di un solo battito, come se fosse incapace di esaurire le proprie energie. Naito capì che non si sarebbe mai arresa. Poteva ammirarla, per questo. E allo stesso tempo, gli dispiacque per lei: aveva trovato l’avversario sbagliato con cui mostrarsi coraggiosa.

In un istante si fiondò su di lei, abbattendo la katana con forza. Quella riuscì a pararla e provò a raddrizzarsi, ma Naito la investì con una pioggia di attacchi da cui lei non poté fare altro che ritrarsi, difendendosi come poteva con gesti sempre più impacciati e grossolani. 

Era veloce, era brava, era resistente. 

Ma non era al suo livello. 

Notò una vena di paura nel suo sguardo, mentre si difendeva a malapena dall’ennesimo affondo. 

«Te l’avevo detto di non rendere le cose più difficili» sibilò Naito. 

La piccola dea digrignò i denti. Nonostante avesse capito di non avere speranze, nonostante fosse spaventata, gridò a perfidiato e si gettò su di lui. Quello fu il suo primo, ed unico, errore. La spada mirò al suo petto e Naito si spostò un istante prima di essere trafitto. Si ritrovò a fianco a lei e le afferrò il polso. La ragazza spalancò quei suoi occhi così grandi e luminosi per la sorpresa, ma non poté fare altro. 

Naito le torse il braccio, spezzandoglielo con uno scricchiolio orribile. La piccola dea perse la presa sulla spada e rovesciò la testa all’indietro, emettendo un grido lancinante, ma lui la zittì sferrandole un ceffone con la parte delle nocche. La piccola dea ruzzolò a terra, il grido che si perdeva in un gemito di dolore. Tentò di issarsi sulle ginocchia con il braccio ancora funzionante, ma si fermò non appena la katana di Naito la punse appena sotto al mento.

I loro sguardi si incrociarono di nuovo. Lei lo guardò dal basso, tenendosi con forza il braccio rotto, le labbra contratte in una smorfia di dolore. Si stava ancora sforzando di sembrare determinata, ma questa volta era solo un bluff. Per Naito sarebbe stato impossibile non notare quella vena di paura che finalmente sporcò quegli occhi così familiari, eppure distanti come un ricordo sbiadito. 

Per un momento, qualcosa accadde nella sua mente. Per un istante, l’immagine di lei cambiò, e al suo posto Naito rivide Hachidori, durante quella notte dannata di due anni prima. Avevano la stessa espressione sconfitta, però la piccola dea non stava piangendo, né lo stava implorando. Forse non voleva dargli quella soddisfazione. «Che… che cosa vuoi?» gli domandò invece. 

Naito assottigliò le labbra. Sollevò la katana, costringendola a scoprire il collo. Quella non batté ciglio, reggendo il suo sguardo nonostante la paura, la testa alta nonostante il tremolio nella sua voce.

Le parole gli uscirono dalla gola come un ringhio. Voleva ciò che contava di più in assoluto: «Vendetta.»

Si mosse fulmineo e la colpì ancora una volta al volto con le nocche, tramortendola. Il gemito che fece quando stramazzò a terra rimase impresso nella sua mente, così come la sua voce spaventata, molto differente da quella melodiosa che aveva usato per cantare. 

Sentì il respiro farsi roco, mentre osservava la ragazza riversa a terra, inerme. Anche il suo corpo assomigliava a quello di Hachidori, con i capelli sgargianti e la figura snella. Avvertì un formicolio alla schiena e strizzò le palpebre, massaggiandosi la tempia. Che diamine gli stava succedendo tutto ad un tratto?

«Rosa!»

Naito sussultò. Quella era la voce di Edward. Fece un cenno all’oni ed entrambi si ritirarono nell’ombra, per ricevere il loro ospite.

 

***

 

Si risvegliò nel bosco, con la luce del giorno ad illuminarlo. Sentiva la testa pesante, ma riuscì comunque a sollevarla e ad allontanare la fronte da quella di Kairi. Attraverso i rami degli alberi, i raggi del sole filtravano pigri, gettando ombre su di lui. Assottigliò le palpebre e riportò lo sguardo su quella persona che aveva amato e perduto.

La notte prima, dopo la sua fuga da Tokyo, aveva voluto dare a Kairi una degna sepoltura, ma la stanchezza, unita al dolore per le ferite ancora aperte, aveva avuto la meglio su di lui. Era crollato, al riparo dalla pioggia sotto quel grosso albero, e doveva essersi addormentato, o forse era svenuto.

E per tutto il tempo l’aveva tenuta tra le braccia. Kairi non si era sciolta come gli altri mostri, forse perché era per metà mortale. Da un lato, sarebbe stato meglio così. Se fosse scomparsa, Naito avrebbe potuto superare la cosa più facilmente. Invece, così, più tempo passava ad osservarla e più sperava che si svegliasse da un momento all’altro come da un sonno. Sapeva che era impossibile. Non si sarebbe mai svegliata. Non avrebbe mai più sentito la sua voce, né l’avrebbe mai potuta rivedere con quel sorriso sulle labbra.

Sentì una fitta allo stomaco e si sforzò di ignorarla.

Quanto era patetico. Kairi, Hachidori, non aveva importanza, entrambe l’avevano sfruttato per avere quello che volevano. E nonostante questo, lui era ancora lì, a desiderare che tutto quello non fosse mai successo veramente, a desiderare di vederla di nuovo. Come se le cose fossero cambiate, se lei fosse stata ancora viva. Lei non l’aveva mai amato davvero. Il suo era un desiderio inutile, oltre che impossibile.

Eppure, per quanto si sforzasse, non riusciva a rinunciare a quel pensiero. Non gli importava nulla se lei non lo amava, voleva solo che si risvegliasse, che stesse bene. Voleva solo… che fosse ancora viva.

Prima sua madre, poi tutti quegli uomini che aveva ucciso, poi Hachidori. Tutti morivano attorno a lui. Persone che amava, persone che odiava, non aveva importanza: ovunque andava la morte lo seguiva come un’ombra incapace di saziarsi.

Un rumore improvviso attirò la sua attenzione. Sembrava un battito di ali. Anzi, di diverse ali.

Naito adagiò Kairi a terra e si alzò in piedi a fatica. Le ferite al ventre e al fianco, dove Kagu-Tsuchi l’aveva colpito, si stavano già rimarginando, ma bruciavano ancora terribilmente e gli dolevano ad ogni passo. E le ustioni di cui il suo intero corpo era ricoperto non erano da meno. Sentiva la pelle sussultare ad ogni spiffero d’aria. Non aveva idea di come riuscisse ancora a proseguire.

Barcollò oltre i rami dell’albero riuscendo a non inciampare, e poté ammirare il cielo ancora nuvoloso ma ben più sereno del giorno prima, finché non si accorse di due puntini tra le nuvole che si stavano facendo sempre più vicini. Assottigliò lo sguardo e riuscì a vederli meglio. Avevano gambe e braccia a penzoloni e si muovevano grazie a delle ali sotto la testa.

Erano dei tengu.

Naito schiuse le labbra e si voltò verso Kairi. Non poteva essere una coincidenza. Indietreggiò, mentre quelli atterravano proprio di fronte a lui. Uno aveva il piumaggio rosso, l’altro arancione. Entrambi avevano un aspetto quasi umano, tolti i nasi lunghi e gli artigli affilati caratteristici. Al posto delle piume i loro visi erano coperti da due candide barbe bianche e lunghe. Naito sapeva che più un tengu avesse un aspetto umano più esso era antico e potente, un po’ come le kitsune a cui invece aumentava il numero di code.

D’istinto avvicinò la mano alla wakizashi, ma il tengu rosso lo fermò con un cenno. «Calmo.» Sia lui che il suo compagno avevano uno sguardo duro, le labbra strette in un’espressione indecifrabile. «Non siamo qui per combattere. Siamo qui per la figlia del re.»

Quindi erano lì proprio per Kairi. «Che… che cosa volete farle?» domandò Naito, titubante, senza allontanare la mano dall’impugnatura della katana più corta. Dubitava di poterli battere, ma non abbassò la guardia per un solo istante.

«La riporteremo sul monte Kurama, dove la sua morte verrà onorata» disse il tengu rosso.

«Siamo stati mandati da Sōjōbō in persona» aggiunse quello arancione. «Ciò che è successo al Santuario Meiji è giunto anche a lui.»

Se Naito ricordava bene, il monte Kurama si trovava vicino a Kyoto, a centinaia di chilometri di distanza da lì. E in una sola notte, la notizia di quello che era successo a Tokyo aveva già fatto tutta quella strada. Non osava immaginare dove altro fosse arrivata. Forse anche alle orecchie di suo padre e di questo fantomatico “re” che tanto lo cercava, e a questo punto anche il Clan Tsubaki doveva essere già al corrente di tutto. Come se davvero avesse bisogno di altre attenzioni su di sé dopo quello che aveva fatto.

I tengu si avvicinarono e Naito si accorse che quello rosso aveva una coperta sottobraccio. Capì ben presto che le loro intenzioni erano genuine, e davvero non volevano combattere. Erano lì per Kairi, per riportarla a casa. Naito ritrasse la katana, incapace di usarla in ogni caso, e si fece da parte mentre i due tengu avvolgevano nella coperta la ragazza che aveva amato, celando infine il suo volto pallido che non sarebbe mai più stato capace di rivolgergli quei sorrisetti beffardi che un tempo tanto lo avevano infastidito, e che ora tanto avrebbe voluto rivedere almeno una volta.

«Come mai Sōjōbō… ha deciso di mandarvi?» domandò, mesto, mentre i due tengu finivano di avvolgere la figlia del re. «Credevo che non gli importasse nulla di sua figlia.»

«Te l’ha detto lei, suppongo» disse quello arancione. Il suo tono stanco sorprese Naito, che era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato. «Il nostro re è saggio e potente. Qualunque sia la ragione che l'ha spinto a disinteressarsi a sua figlia, noi non la metteremo in discussione.»

«E se davvero non gli fosse importato nulla di lei, non ci avrebbe mandati qui» concluse quello rosso.

«Certo, ha iniziato ad importargli dopo che è morta» sbottò Naito. Forse non avrebbe dovuto mettere tutto quel veleno nelle sue parole, ma era stanco dell’ipocrisia di tutti quelli che lo circondavano. «Sōjōbō avrebbe dovuto interessarsi a Kairi prima che finisse in quella situazione, non dopo. Avrebbe potuto evitare la sua morte, anziché onorarla.»

Per un istante, l’espressione del tengu arancione si indurì, ma quello rosso sollevò una mano: «Mantieni la calma, Hōkibō. Il ragazzo è scosso. Sono certo che non intendeva mancare di rispetto al nostro re.»

Hōkibō continuò ad osservare intensamente Naito ancora per qualche momento, prima di rilassare le spalle.

«Quanto a te, sappiamo bene chi sei, Naito, braccio destro di Yamata no Orochi. Sōjōbō ha voluto che portassimo qualcosa anche a te» proseguì il tengu rosso. Fece un cenno ad Hōkibō, che consegnò a Naito la bisaccia che portava a tracolla.

Naito la aprì confuso, trovandoci dentro dei vestiti stropicciati, fogli di carta e due lunghi cilindri neri, con la punta che si allargava come un imbuto.

«Ti serviranno per continuare il tuo viaggio verso le Tribune Negishi» spiegò Hōkibō.

Naito spalancò l’occhio per lo stupore. «Come sapete di…» Si interruppe, accorgendosi di quanto inutile fosse quella domanda. Anche Kagu-Tsuchi sapeva tutto del loro viaggio. Chissà quanti sapevano già tutto. Maledette satori, la prossima volta che ci avrebbe avuto a che fare, sarebbe stato per decapitarle una ad una.

«Perché ha voluto farmi questo dono?» domandò Naito.

«Era per entrambi, a dire il vero.» Il tengu rosso sospirò. «Immagino che il re fosse dispiaciuto con sua figlia, e che volesse aiutarla a finire il viaggio. Purtroppo, lei non gli ha mai parlato del suo reale stato d’animo. È scappata quando era ancora una bambina, e lui ha preferito lasciarla andare. La sua morte l’ha colpito molto più duramente di quanto tutti noi potessimo immaginare.»

Naito rimase in silenzio, stringendo la bisaccia con forza. Abbassò lo sguardo, limitandosi ad annuire flebilmente. Il macigno nel suo stomaco si fece dieci volte più pesante all’improvviso.

«Non troverai nulla alle Tribune.» La voce improvvisa di Hōkibō lo costrinse a raddrizzarsi.

Il tengu rosso provò a dire: «Avanti Hōkibō, non…»

«Il ragazzo deve sapere che sta facendo un viaggio a vuoto, Saburō.»

«Che… che significa?» si intromise il ragazzo, osservando prima Hōkibō e poi Saburō, che adesso si trovavano uno di fronte all’altro, ai lati della coperta che avvolgeva Kairi.

«Non sei il primo che va a cercare cosa si cela là sotto» spiegò Hōkibō. «Sono sempre tornati tutti a mani vuote.»

«Dobbiamo rispettare la volontà di Sōjōbō, Hōkibō. Se lui vuole che il ragazzo continui il suo viaggio, allora dobbiamo lasciare che lo faccia» lo ammonì Saburō.

Hōkibō abbassò la testa e non disse altro.

«Buona fortuna, Naito» concluse Saburō prima che entrambi spiccassero il volo, reggendo il corpo di Kairi per le sue estremità.

«No, aspettate!» Naito tese una mano verso di loro, ma ormai erano già partiti. Li guardò afflitto mentre si allontanavano, e gli sembrò che il contenuto della bisaccia si fosse fatto più pesante all’improvviso.

Un silenzio irreale scese nel bosco, un silenzio a cui non era più affatto abituato dopo i due giorni trascorsi con Hachidori. Soltanto in quel momento realizzò che, ancora una volta, era rimasto da solo.

 

***

 

La prima cosa che fece fu controllare i vestiti nuovi. Erano abiti semplici, simili a quelli indossati dai due tengu, calzoni larghi color kaki e un happi grigio e stropicciato. L’idea di vestirsi come un tengu non lo allettava, ma ormai la sua divisa era ridotta a poco più che un cencio bruciacchiato. Era crivellata di buchi a causa del fuoco e delle ferite che aveva subito, ma non solo. La sera prima non ci aveva fatto molto caso, ma sembrava anche più larga. Le asole erano molto più grosse e diversi strappi, specialmente all’altezza del petto, sembravano essere partiti dall’interno, non dall’esterno, come se ad un certo punto quei vestiti fossero implosi.

Naito si osservò le mani. C’era stato un momento, durante il suo scontro con Kagu-Tsuchi, in cui gli erano parse più grosse di come lo erano in quel momento. I guanti strappati raccontavano la stessa storia. Se li sfilò e li gettò via, ormai inutilizzabili.

Ripensò a quello che era successo al santuario, a quella sensazione di forza che aveva provato. Le parole di Orochi, dopo tutto quel tempo, acquisirono significato. Non gli aveva mentito dicendogli che sarebbe potuto essere inarrestabile e che la sua rabbia fosse un’arma letale. Aveva sbaragliato da solo, ferito, un intero esercito. E aveva sconfitto un dio. Non un dio qualsiasi, ma il dio che da quando era nato aveva cercato di ucciderlo, quello che gli aveva portato via tutto quello che aveva mai avuto.

L’aveva fatto gridare, l’aveva fatto sanguinare e soffrire. Avrebbe dovuto sentirsene fiero, finalmente si era vendicato. E invece, si sentiva ancora peggio di prima.

Controllò il resto del contenuto della bisaccia, per smettere di pensare a quei bastardi che gli avevano rovinato la vita. Non aveva idea di cosa fossero i due cilindri di ferro, riuscì solo a capire che l’estremità più larga era fatta di vetro. Naito ci piantò l’occhio sopra, per studiarlo. Passò con il dito sopra una parte in rilievo del cilindro e il vetro si accese all’improvviso, accecandolo. Mugugnò e l’oggetto gli cadde dalle mani, mandando la sua luce pallida sopra i ciuffi d’erba. Lo afferrò di nuovo e passò il dito sulla superficie, riuscendo spegnerlo. Era una specie di fonte di luce, senza fuoco. Forse funzionava con l’elettricità, come le lampadine che usavano i mortali. Lo posò di nuovo nella bisaccia assieme all’altro – erano destinati uno a lui e uno a Kairi, chiaramente – e per finire controllò i fogli di carta.

Il primo era una cartina del Giappone, con segnato sopra il punto dove dovevano trovarsi le Tribune Negishi, a pochi chilometri di distanza dalla baia di Tokyo. L’altro, invece, pareva una raffigurazione delle Tribune stesse. C’erano un’immagine dell’edificio e una sorta di schema, che a Naito parve indecifrabile. In un angolo di quel foglio c’era anche un logo che riconobbe come l’Emblema del Giappone: un crisantemo color oro, con sedici petali. Quel foglio proveniva direttamente da mani imperiali. Come avesse fatto Sōjōbō a procurarselo, non voleva nemmeno saperlo.

Rimise tutto dentro la bisaccia e la chiuse. Dopodiché, contemplo il modo più semplice per sbarazzarsene per sempre. Avrebbe potuto scavare una buca e lasciarcela dentro, o magari scaraventarla in cielo con tutta la forza che aveva. Altrimenti potuto distruggerla con la sua katana, farla a brandelli a mani nude, oppure gettarla in un fiume.

Per quale motivo avrebbe dovuto continuare il suo viaggio verso le Tribune Negishi? Ormai era tutto finito. Kairi era morta. Aveva ferito un dio e ucciso tutti quegli uomini, macchiandosi le mani di molto più sangue di quanto la sua katana avesse mai assaggiato. Da quel momento in poi, Kagu-Tsuchi e i suoi seguaci non avrebbero fatto altro che desiderarlo ancora più morto di quanto già non facessero. Che senso aveva continuare quella stupida ricerca? Ormai non ci sarebbe stato più alcun perdono, per lui. Non dopo tutto quello che aveva fatto al Santuario Meiji. In ogni caso, sarebbe stato condannato.

Ammesso che l’elisir fosse davvero alle Tribune, oltretutto. Quel tengu non era stato molto ottimista, a riguardo.

Allo stesso tempo, sapeva che non poteva davvero tirarsi indietro. Se l’avesse fatto, sarebbe stato come sputare in faccia su Hachidori e su tutti quelli come lui. Lei poteva anche averlo tradito, ma era morta per colpa di quel viaggio. Tutti i mezzosangue sarebbero morti, in un modo o nell’altro, se non avesse cambiato le cose.

Poteva scegliere: andare avanti, portare a termine la missione, non per sé ma per la sua specie, per tutti quei bambini spaventati come lo era stato lui, per tutti quei mezzosangue che non volevano altro che vivere in pace, come lui, oppure poteva gettare la spugna e andarsi di nuovo a nascondere nell’attesa di essere trovato e ucciso da Kagu-Tsuchi, il Clan Tsubaki oppure il “re”, mentre il resto della sua specie veniva condannato a quell’esistenza miserabile che per millenni li aveva accomunati tutti.  

Doveva andare avanti. Doveva portare a termine quel dannato viaggio, per Kairi, per i mezzosangue. Non aveva più il Bushido, ma ricordava tutti quanti i valori scritti su di esso, e sapeva che nessuno di essi si sarebbe rispecchiato in una sua resa.

Cominciò a spogliarsi e ad indossare i vestiti nuovi. Afferrò la vecchia divisa e strappò le maniche ormai irrecuperabili per usarle come bende di fortuna, stringendole con forza specialmente sulla ferita al fianco, dopodiché indossò quel vestito ormai ridotto ad una canotta sotto all’happi di Sōjōbō, in modo da poter di nuovo sollevare il cappuccio sopra la testa. Non era abituato a starci senza.

Legò la cintura alla vita, mise la bisaccia a tracolla e batté i piedi in modo da far aderire bene gli stivali dalla punta di ferro. Il suo occhio si smarrì nel bosco mentre stringeva i pugni determinato.

Aveva un viaggio da portare a termine.

 

***

 

Poche ore dopo, la meta apparve di fronte a lui. Osservò Yokohama dal tetto di quell’altissimo palazzo. Era quasi impossibile riuscire a distinguere dove finisse quella città e iniziasse Tokyo, visto che sembrava tutto quanto un unico gigantesco insieme di edifici stravaganti. Si era premurato, comunque, di evitare la capitale come un malanno. Non aveva nessuna intenzione di rimetterci piede per molto tempo.

La differenza principale tra le due città era che Yokohama era formata perlopiù da piccole case come quelle della zona residenziale. Non cercava di attirare l’attenzione come Tokyo, era molto più modesta della capitale.

Quando Panji aveva detto che le Tribune Negishi erano abbandonate, non si sarebbe mai aspettato di trovarle proprio nel bel mezzo di una città. Erano circondate da uno sprazzo verde, come il Santuario Meiji, ma molto più piccolo e meno celato. Le strade di Yokohama si trovavano a poche centinaia di metri di distanza, affollate di automobili come sempre. A differenza del santuario, quel luogo non era isolato e avvolto nel silenzio.

Le Tribune altro non erano che tre grosse torri affacciate sopra delle tribune vere e proprie, fatte di legno ormai marcito. La torre di destra era completamente ricoperta di edere, tanto da essere verde nella sua interezza. Una recinzione di filo spinato teneva i pochi mortali nei paraggi alla larga, anche se nessuno sembrava molto interessato a quell’edificio in ogni caso. Pareva quasi che fosse stato creato con l’unico scopo di essere dimenticato lì.

Avvicinarsi fu semplice. Scavalcare la recinzione e infilarsi nell’edificio lo fu ancora di più. Il portone era bloccato da una catena così arrugginita che bastò un colpo di spada per spezzarla.

I problemi iniziarono non appena entrò.

L’intero edificio sembrò sussultare quando spifferi di aria si insinuarono al suo interno dopo quelli che dovevano essere anni se non decenni. Un odore ripugnante gli invase le narici; quella puzza di chiuso, muffa, ratti morti e anche vivi era micidiale perfino per qualcuno che ne aveva viste e passate tante come lui.

Avanzò nell’atrio d’ingresso, facendo vagare lo sguardo lungo le pareti scrostate e sporche, coperte di polvere e ruggine. Il pavimento era tappezzato di cocci di vetro e calcinacci, con la maggior parte delle piastrelle rotte o mancanti. Ad ogni suo passo susseguiva un rumoroso scroscio di ciottoli.

Ogni stanza era uguale. Pareti un tempo bianche ormai marroni, finestre con le sbarre rotte, topi che squittivano negli angoli e che fuggivano via da lui e ruggine. Molta ruggine. Naito controllò la mappa dell’edificio, rigirandola tra le mani diverse volte, cambiando angolazione, non sapendo nemmeno cosa stava guardando con esattezza. Era un insieme di quadrati, righe, cerchietti e una miriade di altri simboli che nemmeno conosceva.

Abbassò il foglio con un sospiro esausto. Di quel passo non sarebbe andato da nessuna parte. Forse assieme ad Hachidori avrebbe avuto una possibilità maggiore di…

Controllò di nuovo la mappa, le mani che tremolavano. Non poteva pensare a Kairi proprio in quel momento. Ci mise diversi istanti, poi riuscì a capire che quei quadrati in realtà raffiguravano proprio le stanze, ma viste dall’alto. Riconobbe l’ingresso in cui era stato, i corridoi che aveva attraversato e individuò anche la stanza in cui si trovava in quel momento. C’erano delle scale che conducevano al piano superiore, ma non se ne curò. Non doveva salire, ma scendere.

Entrò in un’altra stanza, in una zona interna della struttura, dove la luce delle finestre faticava ad arrivare. Fitte ombre apparvero attorno a lui tutto ad un tratto, gettando una sfumatura ancora più tetra su quel luogo già tetro di suo. Fece diversi passi e si accorse di una parete gialla ricoperta di strani disegni. Erano sbiaditi e sfigurati, ma era impossibile non riconoscerli: erano volti umani, con naso, occhi e bocca. Ed erano piuttosto inquietanti. Mentre si avvicinava al muro per studiarlo meglio, qualcuno parlò con voce annoiata: «Dannati esploratori urbani.»

Naito si voltò di scattò, avvicinando la mano alla wakizashi. Spalancò l’occhio per la sorpresa. Di fronte a lui erano apparsi due uomini, con indosso strane uniformi decorate con le bandiere del Giappone. I loro corpi emanavano bagliori bianchi, anzi, erano proprio loro ad essere bianchi. I loro piedi non toccavano neanche terra, stavano fluttuando nell’aria, e poteva perfino vedere attraverso di loro. Naito rimase senza fiato. Erano degli yūrei1.  

«Quando la smetteranno di venire ad importunarci?» disse uno dei due, scuotendo la testa con disappunto.

«Era da un po’ che non se ne vedevano, però» obiettò l’altro. «Ricevere qualche visita di tanto in tanto è gradevole.»

«Bah!»

«Come… come mi avete chiamato?» domandò Naito, inghiottendo lo stupore. «Esploratore… urbano?»

Entrambi spalancarono gli occhi. «Ma… ma mi ha sentito?» domandò il primo, con un sussurro di voce.

«Io… non credo ti abbia solo sentito.» Il secondo sollevò una mano e cominciò a muoverla. «Credo… credo che riesca anche a vederci…»

Naito scrollò la testa, rendendosi conto di essere rimasto a seguire con lo sguardo quella mano come un cagnolino ammaestrato. «Certo che vi vedo!» sbottò. «Sto cercando l’ingresso dei tunnel sotterranei. Sapete dirmi dove sono?»

Due espressioni di puro sconforto apparvero sui loro volti trasparenti. Non risposero alla sua domanda: gridarono terrorizzati, come se il fantasma l’avessero visto loro, e si tuffarono nella parete più vicina, svanendoci dentro.

Per un istante Naito rimase pietrificato da quella reazione. «Ehi! Tornate qui!» gridò quando riuscì a riscuotersi. Uscì dalla stanza e provò a fare il giro della parete per inseguirli. Vide le luci guizzare in mezzo a corridoi e pareti e li udì parlare ancora, lanciandogli perlopiù maledizioni e sbottando qualcosa a proposito dei “cacciatori di fantasmi” che non li avrebbero più lasciati in pace, qualunque cosa significasse.

Provò a raggiungerli, ma non ci mise molto capire che si trattava di una battaglia impossibile. Non avrebbe mai potuto rimanere al passo di qualcuno capace di attraversare quelle mura labirintiche. Le luci svanirono in un anfratto completamente buio e da lì non riemersero più.

Naito soffocò un’imprecazione. Guardandosi attorno, realizzò di non avere idea di dove fosse finito. La luce era quasi assente lì, le stanze erano tutte uguali e la mappa non gli fu di alcun aiuto, perché non ricordava che strada avesse fatto.

Sospirò pesantemente, dandosi dell’idiota. Osservò l’anfratto oscuro di fronte a lui e pensò che a quel punto poteva anche fare un tentativo lì dentro. Tirò fuori il cilindro di ferro dalla bisaccia e lo accese. Era avvero comodo, doveva ammetterlo. Avanzò tra le tenebre facendosi luce grazie a quell’affare e trovò un corridoio basso e stretto, con un cartello illeggibile che penzolava dal soffitto. Lo percorse, arrivando ad un vicolo cieco. A quel punto lasciò cadere le braccia a peso morto lungo i fianchi. Per un istante contemplò l’idea di rinunciare. E poi la scacciò via con la stessa velocità con cui era arrivata. Non si sarebbe fermato ad un palmo dall’arrivo.

Ritornò sui suoi passi, pensando di rientrare nelle stanze con più luce, quando un rumore si alzò in aria all’improvviso. Basso, quasi impercettibile, ma lui l’aveva sentito.

Toc. 

Abbassò lo sguardo, osservando il pavimento impolverato e perfettamente liscio, con le piastrelle intatte. Strano, perché erano distrutte ovunque meno che lì. Fece un passo indietro. E poi un altro di nuovo in avanti.

Toc.

Ricontrollò la mappa. In quello che doveva essere un corridoio notò qualcosa: un quadratino, posto al centro di esso. Questa volta sbatté il piede con forza.

TOC.

Si accovacciò e diede una spolverata al pavimento, insudiciandosi le mani. Batté le nocche sopra le piastrelle, continuando a sentire quel suono sordo in risposta. C’era un doppio fondo.

Il cilindro di ferro sobbalzò in aria quando sferrò un pugno contro il pavimento, così forte da crepare le piastrelle. Le pareti, abituate al silenzio da chissà quanti anni, sembrarono gemere. O forse erano quei due yūrei che ancora girovagavano.

Non fu difficile sfondare il pavimento: gli bastò pensare ai volti di Orochi, Kagu-Tsuchi e suo padre al posto di quelle piastrelle. Quando, infine, con l’ennesimo pugno aprì un piccolo cratere, realizzò di averci visto giusto. Allontanò la mano sanguinante dalle macerie e afferrò di nuovo il cilindro di luce, puntandolo nella voragine. Vide degli appigli di ferro conficcati nel cemento scendere in profondità, inghiottiti nel buio. Sorrise. L’aveva trovato.

Finì di scoperchiare quella botola nascosta e puntò di nuovo la luce. L’aria avvizzita uscì fuori con uno sbuffo. La scala sembrava scendere per chilometri e chilometri, tanto che non poteva vedere il fondo di quel baratro. Non appena si affacciò avvertì qualcosa: le ossa fremettero e la pelle si accapponò, mentre i suoi sensi si animavano tutti in un istante, intimandogli di stare alla larga da quel luogo.

Il messaggio era chiaro: pericolo.

Naito sorrise di nuovo. Sì, era vicino. Molto vicino. Strinse il cilindro tra i denti e afferrò i pioli, calandosi nelle tenebre.

 

***

 

I tunnel erano tutti uguali. Erano di cemento, con pareti lisce e levigate coperte di muffa. Dal soffitto penzolavano delle luci rotte e spente. L’unica fonte di illuminazione era il cilindro di ferro.

I suoi passi riecheggiavano nel vuoto, smarrendosi nelle tenebre come gemiti in quel luogo desolante e chiaramente non più abituato alla presenza della vita. Non aveva idea di dove stesse andando. C’erano dei cartelli con delle indicazioni, ma erano tutte sbiadite e illeggibili. Sōjōbō gli aveva dato anche una mappa dei tunnel, ma era così intricata e complessa da essere indecifrabile per lui. C’erano almeno cento corridoi che si intersecavano tra di loro, così tanti sbocchi, vicoli ciechi e bivi che era impossibile riuscire ad orientarsi, non al buio, almeno. Con le luci accese e i cartelli leggibili, forse, avrebbe avuto una possibilità.

Trovò diverse porte sigillate. Aprirle non fu un problema, ma non portavano da nessuna parte, solo a stanze spoglie con l’eccezione di assurdi macchinari arrugginiti pieni di schermi rotti. Quel luogo era stato una base militare, forse quelli erano equipaggiamenti ormai perduti della seconda guerra mondiale.

Il tanfo era insostenibile. Non aveva idea di cosa fosse, magari era la puzza di chiuso, ma non ne era sicuro. Era troppo forte per essere solo l’odore della muffa e degli escrementi di topo.

Entrò nell’ennesimo corridoio e tutto ad un tratto sentì di nuovo la pelle arricciarsi. Si guardò attorno, muovendo la luce in mezzo alle tenebre, sentendosi osservato, ma non vide nessuno. Non c’era niente, là sotto.

Serrò le labbra e proseguì, domandandosi se la puzza non lo stesse facendo impazzire. Sentì il ticchettio di alcune gocce d’acqua. Alzò la luce e si accorse di alcune tubature gocciolanti, attaccate al soffitto come edere. Cominciò a seguirle. Se serviva acqua là sotto, doveva esserci un motivo valido. Lo condussero ad altre stanze chiuse, perlopiù bagni, o infermerie deserte, ma niente di utile.

Mentre procedeva a tentoni nell’ennesimo corridoio, udì lo squittio di un topo. Abbassò la luce e vide quella bestiolina correre dentro una spaccatura nella parete, una fessura di pochi centimetri di larghezza e alta quasi due metri. Lo ignorò e proseguì, ma non appena passò di fronte a quella crepa la pelle gli si accapponò all’improvviso, scuotendolo da capo a piedi. Spostò di nuovo la luce e spalancò l’occhio: la crepa era cresciuta da sola all’improvviso. Ora era abbastanza larga da permettergli di passarci attraverso.

Naito indietreggiò fino a sbattere contro la parete opposta, trattenendo il respiro. Rimase immobile e puntò la luce nel crepaccio. L’oscurità non si diradò. Era come guardare un mantello nero, delle tenebre così fitte da non cedere nemmeno al bagliore del cilindro di ferro. Non sembrava nemmeno che ci fosse qualcosa lì dentro, eppure quel topo l’aveva appena attraversato.

Ancora una volta, un brivido gelato gli scosse l’intero corpo. Forse aveva visto male, forse non era passato nessun topo. Mosse un passo, avvicinando la luce verso quelle tenebre che non lasciavano alcuno scampo. Di nuovo, non vide nulla attraverso di esse. Guardò a terra, in cerca di qualcosa da lanciare, ma non trovò nulla. Accartocciò la cartina del Giappone che gli aveva dato Sōjōbō, ormai inutile, e la scagliò dentro la crepa. Non appena la pallina di carta venne inghiottita Naito indietreggiò di nuovo, sbattendo la schiena con forza. Sentì le gambe tremargli.

Una sensazione orribile cominciò ad assalirlo, ma non era la stessa che aveva sentito prima, quando si era sentito osservato. Si sentì come se si trovasse al cospetto di Orochi, Kagu-Tsuchi e Ōtakemaru allo stesso tempo. Che stava succedendo? Perché era così spaventato all’improvviso?

Poi, un odore penetrante riempì l’aria. Era forte, così forte da cancellare ogni altra cosa. Si insinuò nelle sue narici con prepotenza, dandogli alla testa. Arrivava dal crepaccio. Non appena lo riconobbe, Naito spalancò le palpebre.

Greci. Era lo stesso odore che aveva sentito avendo a che fare con loro, con quel gigante e i suoi sgherri in particolare, ma anche nel bosco del campo dei piccoli dei.

Com’era possibile? Come faceva ad esserci puzza di greci lì sotto, in dei sotterranei a Yokohama, in Giappone?!  

In un gesto quasi disperato, controllò la cartina dei tunnel, anche se era ben consapevole che non gli sarebbe servito a nulla. Qualcosa gli suggeriva che quella spaccatura di fronte a lui non fosse presente su nessuna mappa.

Abbassò il foglio, realizzando quanto fosse inutile il suo gesto, e riportò la luce sul crepaccio. Non appena lo fece, per poco il cilindro non gli cadde dalle mani. Il varco era sparito. L’odore dei greci aleggiò in aria ancora per qualche istante, prima di dissolversi anch’esso.

Per un istante, pensò di essersi sognato tutto. La pelle d’oca che gli ricopriva il corpo intero, però, raccontava una storia diversa. Espirò profondamente, per darsi un contegno. Qualunque cosa fosse successa, qualunque cosa fosse quel passaggio nascosto, non voleva saperne altro.

Con il cuore che batteva all’impazzata nel petto, si allontanò da quel corridoio.

 

***

 

Seguì altre tubature, tentando in tutti i modi di scacciare quella sensazione orribile che aveva cominciato ad attanagliarlo. Non era da lui provare paura, non così immotivata, almeno. Quel crepaccio, quell’oscurità, quel vuoto… non aveva idea di che cosa si trattasse, ma era bastato trovarsi in sua presenza per capire che era qualcosa di oltre la sua comprensione, di antico e potente.

Aveva sentito il desiderio improvviso di addentrarsi in quelle tenebre. Era stato come se lo stessero chiamando. Il passaggio si era perfino allargato in modo da farlo passare, quasi ad invitarlo a proseguire, come se fosse stato… vivo. Una creatura pronta ad inghiottirlo. Ma Naito aveva sentito che, se davvero l’avesse fatto, se davvero fosse entrato là dentro, non ne sarebbe mai uscito vivo.

Cominciava ad avere perfino dei dubbi su quei dannati tunnel, a dire il vero. Ormai si era perso, non aveva idea di dove fosse ed era stato un vero idiota a non segnare il percorso per trovare la strada del ritorno. Se non altro, quelli non puzzavano di greci e non scatenavano in lui quel terrore viscerale.

Quel posto era un labirinto. Ora capiva perché erano tutti tornati a mani vuote da lì. E quel pensiero, non faceva altro che renderlo ancora più determinato ad essere il primo a trovare la stanza nascosta.

Qualcosa si mosse all’improvviso al fondo del corridoio. Puntò la luce e avvicinò la mano alla wakizashi. Altri topi uscirono dalle tenebre, squittendo all’impazzata. Erano almeno una decina e correvano spediti. Gli passarono accanto senza nemmeno curarsi di lui. Riconobbe il loro comportamento: erano spaventati.

Naito puntò la luce verso la direzione da cui erano provenuti e abbozzò un sorrisetto. Lui non era un topo. Avanzò con rinnovato vigore, incappando in altri ratti in fuga, che gli mostrarono la strada giusta da percorrere.

L’ultimo ratto che vide sbucò fuori da un anfratto buio al termine di un lunghissimo corridoio. Non appena posò lo sguardo su quelle tenebre, sentì di nuovo la pelle formicolare. Non provò la stessa sensazione che aveva provato dinnanzi al crepaccio, però. Era diversa. Avvertì una strana energia provenire da laggiù, gli sembrò familiare, ma non riuscì a riconoscerla.

Affrettò il passo e la luce forò le tenebre, rivelando qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere: un portone di ferro a doppio battente, spesso mezzo metro e alto tre, completamente scardinato e riverso sul pavimento. Si avvicinò incredulo, notando la sua superfice deformata e divorata dalla ruggine. Era squarciata a metà, con così tante ammaccature da far pensare che fosse stata buttata giù da un esercito di oni.

Qualcuno era già stato lì.

«Maledizione…» sibilò, riaprendo bocca dopo tanto tempo. Superò il portone ridotto ad un tappeto ed entrò in una stanza gigantesca, così grande da sembrare un edificio a sé stante. Al centro di essa, avvolto nelle tenebre, c’era un piedistallo vuoto. Naito avvertì di nuovo la pelle formicolare. Non era lì.

L’elisir non era lì.

Per un attimo, pensò che quella non fosse la stanza che cercava. Fece per controllare di nuovo la mappa, quando una luce accecante divorò le tenebre, penetrandogli l’occhio. Strinse le palpebre con forza, mentre macchioline rosse e arancioni si diradavano di fronte a lui.

Quando si calmarono, riaprì tremolante l’occhio. La stanza era illuminata da diverse luci sfarfallanti e sfrigolati. Notò le pareti tappezzate di macchinari mortali e schermi spenti, armadi sigillati e mensole impolverate. E soprattutto ebbe una visione più nitida di quel piedistallo squadrato.

«Sei arrivato tardi» disse una voce all’improvviso.

Naito avvertì un’altra scarica di brividi scuotergli l’intero organismo. Quella voce… l’aveva già sentita. Si voltò di scatto, sguainando la wakizashi, e rimase a bocca aperta.

Qualcuno era apparso di fronte a lui. Qualcuno. Naito non aveva idea di che cosa fosse. Aveva il corpo umanoide, avvolto in un kimono blu, giallo e rosso che arrivava fino a toccare terra. I capelli erano lunghi e ingialliti come steli d’erba appassiti. Il volto era allungato e coperto di rughe, la mascella sporgente e due grosse corna viola che spuntavano dalla fronte, di cui una più lunga dell’altra, biforcuta. Un occhio era giallo, l’altro rosso, un terzo occhio, un ovale verticale, era dipinto in mezzo ad essi.

Sembrava un oni. Il suo fisico largo e possente suggeriva proprio quello. Ma un oni non si sarebbe mai truccato come quello. La pelle pallida del suo viso era inzaccherata di aloni colorati. Le labbra erano arancioni e carnose, l’occhio giallo era circondato da una macchia azzurra, quello rosso da una verde.

Gli sorrise, e fu la cosa più orripilante che Naito avesse mai potuto vedere. Aveva i denti lunghi e affilati, proprio come quelli degli oni. Eppure, c’era qualcosa che non quadrava. Anche i lineamenti del suo volto, non sembravano affatto quelli di un oni. Di un oni maschio, perlomeno.

«Questo luogo è stato già depredato molto tempo fa. Se si considerano vent’anni “molto tempo”» gli disse, con quella voce profonda, femminile, che si conficcò nella mente di Naito come un pugnale. «Per quelli come me, non sono altro che un battito di ciglia.»

Naito spalancò l’occhio, indietreggiando contro il proprio volere. All’improvviso capì. Era una kijo, una femmina di oni. Non ne aveva mai incontrata una prima di allora. Erano rarissime, come i maschi delle kitsune. «Chi… chi sei tu?» domandò, con un sussurro di voce.

«Mi chiamo Ibaraki» cominciò a dire lei, unendo le mani dietro la schiena. «Abbassa la spada, Naito. Non sono qui per combattere.»

Lui non ascoltò. Soprattutto perché non aveva detto il suo nome a quella donna. «Dov’è l’elisir?»

Ibaraki lo scrutò con una scintilla di divertimento nello sguardo. «Non è qui. Non c’è mai stato, a dire il vero. Sopra quel piedistallo, era stato riposto un oggetto ben più potente dell’elisir. Un’arma, per l’esattezza. Un’arma così potente da squarciare il cielo e la terra.»

«Che… che arma?»

«Credo che tu la conosca bene. Ti sei già imbattuto in essa.»

La cicatrice sull’occhio di Naito cominciò a formicolare. Quella strana energia che avvolgeva l’aria gli fece di nuovo accapponare la pelle. Schiuse le labbra, atterrito. Erano dei residui. I residui del potere di quella spada con cui si era scontrato una volta. «Ama no Murakumo…» sussurrò, incredulo.

La kijo annuì soddisfatta. «Sì, Naito. L’imperatore Shōwa voleva usare Ama no Murakumo per vincere la guerra. Ma Amaterasu non voleva che si facesse un uso così improprio della sua spada. Quell’arma non è fatta per uccidere i mortali, per quanto crudeli e spietati essi possano essere. Così, delusa dal comportamento dell’imperatore ormai accecato dalla guerra e disgustata dalle atrocità che erano state commesse, recise ogni legame con lui e la famiglia imperiale.»

Naito osservò di nuovo il piedistallo deserto. Non era stato l’imperatore, quindi, a recidere il legame. Non di sua volontà, perlomeno.

Ibaraki fece alcuni passi avanti. «Amareggiata per quello che era successo, Amaterasu decise di lasciare la spada qui, sperando che il mondo si dimenticasse di essa. Un simbolo del suo potere, utilizzato per scopi così nefasti, per lei era inaccettabile. Perciò, Ama no Murakumo rimase qui per molto tempo, dal giorno in cui l’imperatore Shōwa venne privato dal legame con Amaterasu, fino a vent’anni fa, quando una persona è riuscita a trovarla.»

Naito avvertì un tuffo al cuore. Le parole gli uscirono come un sussurro intimidito, mentre l’ultimo pezzo di quel puzzle che Orochi aveva tentato di ricomporre per tanto tempo andava finalmente al suo posto: «Kate Model…»

«Sì.» Ibaraki si passò la lingua tra i denti, come se trovasse quel nome delizioso. «Kate Model… non era donna mortale qualsiasi. Lei… riusciva a vedere. Era intelligente, informata, una vera esperta della nostra storia. E sapeva come spostarsi in fretta, passando dal Giappone all’occidente in un battito di ciglia. È stato così che ha trovato questo luogo. Ha fatto esplodere quelle porte e ha preso Ama no Murakumo.»

Ibaraki lanciò un’occhiata al portone distrutto. «Una donna con molte risorse, appoggiata da un’organizzazione che la pagava profumatamente per i suoi lavori. Ci ha depredati per anni in questo modo, eludendo mostri e perfino dei, lavorando nell’ombra. I pochi che l’hanno scoperta e che hanno provato ad inseguirla non sono mai tornati.»

Naito ripensò a quel crepaccio che aveva visto poco prima, la puzza di greci che aveva intasato l’aria. Che… fosse collegato in qualche modo a tutta quella storia?

«Questo almeno…» proseguì la sconosciuta. «… finché il Re non l’ha catturata.»

«Il… il Re?» domandò Naito, con un bisbiglio, prima di comprendere, finalmente, perché la voce di quella kijo fosse così familiare: era la stessa della donna che aveva sentito parlare con suo padre.

Si dimenticò di Kate Model e sollevò di nuovo la wakizashi, strappando una smorfia a Ibaraki. «Suvvia, Naito, ti ho già detto che non sono qui per combattere. Ho solo un messaggio per te. Da parte del Re.»

Naito non abbassò la guardia nemmeno per un istante. «Che genere di messaggio?»

«Per prima cosa, ti porge le sue scuse per il comportamento di tuo padre.»

La schiena gli fece male all’improvviso. Nonostante fossero passati alcuni giorni, quelle ferite ancora non erano guarite. «Non me ne faccio niente delle scuse» sibilò.

Ibaraki ridacchiò. «Sì, lo immagino. Ti farà sentire meglio sapere che Ōtakemaru è stato punito severamente per ciò che ha fatto.»

«No invece. C’è altro?»

«Sì, c’è. Il Re vorrebbe incontrarti. Ci sono molte cose che vorrebbe chiederti, riguardo Yamata no Orochi, Ama no Murakumo e la vergine.»

«La… vergine?» sussurrò Naito, sperando di aver capito male.

Ibaraki gli tolse subito quella speranza. «Quella che stavate per sacrificare a Yamata no Orochi.»

La gola di Naito si riempì di sabbia. «Perché… perché vuole sapere di lei?»

«Te lo dirà lui stesso, se vieni con me.»

Naito affondò le dita nel manico della wakizashi. Quella storia non gli piaceva per niente. «Non so cosa vi aspettate da me, ma vi posso assicurare che non ho le risposte che cercate. Non so nulla né di Orochi, né della spada, né della vergine.»

Gli occhi bicolore di Ibaraki lampeggiarono. Lo scrutò per diversi istanti con interesse, sembrava che si stesse domandando quale tortura l’avrebbe fatto gridare di più. «Anche se non avessi le risposte che cerchiamo…» cominciò a dire, lasciando intendere molto bene il fatto che non gli credeva minimamente. «… il Re desidera che tu ti unisca a noi. È rimasto molto… colpito, da ciò che hai fatto a quello schifoso dio del fuoco.»

Anche il Re aveva saputo, quindi. Nonostante se lo fosse aspettato, averne la conferma fece comunque irrigidire Naito.

«Tutti i guerrieri più forti del Giappone si stanno unendo a noi. Perfino tuo padre, che è sempre stato solitario, ha giurato fedeltà al Re. Non sarebbe mai successo se non fosse stato sicuro di fare la scelta giusta» proseguì Ibaraki. «E adesso che la povera Hachidori è morta, anche Sōjōbō si mobiliterà. Non lascerà che i responsabili della morte di sua figlia rimangano impuniti.»

Naito sentì una stretta allo stomaco. Il pensiero di quello che era successo a Kairi avrebbe continuato a tormentarlo per molto tempo, forse non se ne sarebbe mai più andato. E il re dei tengu si era già mobilitato, per fargli avere le risorse che l’avevano condotto fino a lì. Era chiaro che pure lui non sarebbe stato uno spettatore silente ancora per molto.

«Presto, molto presto, dichiareremo guerra alla razza umana. E tu saresti una risorsa molto preziosa per le nostre fila.»

«Che… che cosa?» domandò il ragazzo, con un sussulto.

Il sorriso della kijo gli ricordò quelli che aveva visto in Orochi: i sorrisi di un pazzo, folle, assetato di sangue e potere. Ormai sapeva riconoscerli. E sapeva anche che doveva tenersene alla larga. «Gli dei sono divisi. Amaterasu non è mai stata così vulnerabile. Ha chiesto aiuto ai greci, perché sa di non potersi fidare della sua gente. E noi abbiamo alleati potenti, anche in occidente. I tempi sono maturi, Naito. È giunta l’ora che gli yōkai si riprendano il controllo del Giappone. E giunta l’ora che i mortali svaniscano e gli dei cadano. Una nuova era, Naito, sta per avere inizio. E quando arriverà, ti converrà trovarti dalla parte giusta.»

Naito serrò la mascella. «È una minaccia?»

«Consideralo più un monito.» Ibaraki parlò con voce più apprensiva: «Lo so cosa desideri. Vorresti che la tua specie venga trattata con maggiore rispetto. Ma questo non accadrà mai, non nel modo che speri tu, almeno. Trovare l’elisir, compiere gesta nobili, niente di tutto questo servirà a qualcosa. Agli occhi degli dei, sarete sempre mostri. E se pensi che Kagu-Tsuchi smetterà di darti la caccia, ti sbagli di grosso. Se davvero vuoi cambiare le cose, unisciti a noi. Solo così potrai avere quello che cerchi.»

Ibaraki gli diede le spalle e cominciò ad allontanarsi. «L’epoca degli dei sta per giungere al termine. Presto, tutti loro e i tutti quelli schierati dalla loro parte verranno spazzati via. Rifletti bene sulla nostra proposta, Naito. Se accetti, ci troverai sul monte Ōeyama.»

«E se non accettassi?»

Ibaraki si fermò, lanciandogli un’occhiata sottecchi. Le file dei denti si strinsero tra loro in un ghigno orribile. «Vorrà dire che la prossima volta che ci incontreremo non sarà in termini così amichevoli.» Fece ancora qualche passo, poi la sua figura tremolò. Un istante dopo, era scomparsa.

Le spalle di Naito si rilassarono solo in quel momento. Buttò fuori una grossa boccata d’aria e rinfoderò la wakizashi, mentre pensava a che razza di disastro quel viaggio fosse stato.

Le Tribune Negishi si erano rivelate un buco nell’acqua. Hachidori non c’era più. E adesso, quello. Una nuova guerra, gli dei divisi e vulnerabili, e il Re che voleva conoscerlo per fargli domande su Orochi e la vergine.

Il pensiero che fossero interessati a Rosa lo fece rabbrividire. Che cosa volevano quei mostri da lei?

Dalle parole di Ibaraki, era chiaro che presto o tardi si sarebbero incontrati ancora. Avrebbe mentito se avesse detto che tutta quella faccenda non lo intimoriva almeno un po’.

E poi… Kate Model. Quello che aveva scoperto sulla madre di Edward lo aveva sconvolto quasi quanto tutto il resto. Lei era arrivata alle Tribune per prima e aveva trovato Ama no Murakumo.

E il Re l’aveva catturata.

Mentre si allontanava dalla stanza deserta, sentì lo stomaco farsi pesante. Grazie alle luci di nuovo accese riuscì a ritrovare la strada che aveva fatto con molta più facilità. Quando arrivò alle scale che conducevano all’uscita cominciò a salire controvoglia, conscio del fatto che, una volta fuori da lì, il suo fallimento sarebbe diventato più reale che mai.

 

 

 

 

 

 

1 I fantasmi della mitologia giapponese. Yurei è il termine generico, ma in realtà ne esistono molti tipi, in base a come avviene il decesso e a chi era la persona deceduta, alcuni sono spirti che cercano vendetta, altri anime che sono semplicemente “intrappolate” nel nostro mondo e che prima di andarsene devono risolvere le loro turbe. Questi nel capitolo erano due semplici soldati giapponesi che si sono abituati alla quiete delle Tribune Negishi. 

A proposito delle Tribune, la questione dei tunnel sotterranei l’ho recuperata da una leggenda metropolitana, facendo ricerche su luoghi abbandonati e/o infestati, ho anche dato un’occhiata ad alcune pagine di esploratori urbani per farmi un’idea degli interni dell’edificio e cose così, insomma, giusto per rendere un po’ più “reale” il tutto (lol, realtà, in una storia del genere, vabbé va). 

E niente, scusate le precisazioni inutili, spero che il capitolo vi sia piaciuto e grazie per aver letto!

 

 

 

 

 

   
 
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