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Autore: WillofD_04    18/10/2021    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La porta della mia cabina cigolò per poi richiudersi dolcemente, svegliandomi. Era entrato qualcuno. Sbuffai. Ormai quei maleducati dei miei compagni non si premuravano nemmeno più di bussare. Forse non avevo sentito la sveglia ed erano venuti a richiamarmi. Aprii gli occhi controvoglia, girai la testa e guardai fuori dall’oblò per controllare la situazione. Feci sprofondare la nuca nel cuscino e grugnii. Certo che non l’avevo sentita, la sveglia. Non aveva ancora suonato. Era buio. Buio pesto. Totale. Nero come la pece. Adesso venivano a tormentarmi anche di notte. Che cosa avevo fatto di male per meritarmi questo?
Sollevai appena la testa – che pesava come un macigno – dal cuscino per capire chi fosse il mio disturbatore e lanciargli mentalmente tutte le maledizioni possibili. Davanti ai miei occhi assonnati apparve una figura sfocata, ma perfettamente riconoscibile. Capelli neri, occhi grigi, pizzetto, aria perennemente annoiata. Law. Era Law. E chi altri poteva essere, nel bel mezzo della notte? Senza dubbio non uno sano di mente.
Buttai di nuovo la testa sul guanciale, nella speranza che il materasso mi inghiottisse e mi evitasse qualsiasi conversazione volesse affrontare il capitano. Ero stanca e avevo bisogno di riposare per riprendermi da tutte le emozioni che avevo vissuto nei giorni precedenti. Erano settimane che mi trascinavo dietro la stanchezza, a dire la verità. Volevo solo dormire in santa pace per una notte intera. Era chiedere troppo? Cosa c’era di tanto urgente da non poter aspettare la mattina? Decisi di ignorarlo. Forse, così facendo, avrebbe intuito che volevo riposare e se ne sarebbe andato.
«La colpa è mia ché ho la chiave e non chiudo mai la porta!» piagnucolai, ancora immersa in uno stato di dormiveglia. Aprii un occhio e sbirciai la situazione. Law era ancora lì, non si era mosso di un centimetro. Si stava dimostrando più paziente – o tignoso, dipendeva dai punti di vista – del previsto.
«Almeno regalami una mascherina per gli occhi, così non sono costretta a vedere la tua brutta faccia nel bel mezzo della notte.»
«Sono le sette,» si limitò a dire. Non sembrava infastidito, però. Mi parve addirittura divertito. Non che non fosse scontato, dato il suo sadismo non mi sarei stupita se fosse venuto a darmi fastidio apposta, per puro intrattenimento personale.
«Ah...» mi lasciai scappare, per poi riaprire gli occhi di scatto e drizzare il busto. «Le sette!? Non è possibile, fuori è ancora buio,» constatai confusa. Il mondo doveva essersi capovolto senza che me ne accorgessi.
«Osserva meglio.» Fece un impercettibile cenno del capo verso l’oblò.
Quando lo vidi, capii. Non era il cielo quello che stavo guardando, ma il mare. Ci trovavamo nelle profondità dell’oceano.
«Perché siamo ripartiti così presto? Di solito non facciamo immersione fino alle otto.» Tornai a fissarlo. Anche di prima mattina era bello. Io sembravo una reduce di guerra, mentre lui... Non avrei detto che aveva un aspetto fresco e riposato, ma era bello. Nella sua complicatezza, aveva una bellezza semplice, del tipo che era capace di toglierti il fiato. Ormai, vedendolo tutti i giorni per più di due anni, ci avevo fatto l’abitudine, tuttavia non era sempre stato così. I primi tempi, quando girava indisturbato per casa mia, la mia mente andava in tilt ogni volta che i miei occhi si posavano su di lui. Mi odiavo per questo, però era più forte di me, non potevo farci niente. Proprio come con Sabo.
«Oh, mio Dio!» esclamai sgranando gli occhi, una volta che mi fui ricordata cos’era successo la sera precedente. Pensare al Rivoluzionario mi aveva indirettamente fatto ricordare del bacio che mi aveva dato Kenji. «Non puoi capire cosa è successo ieri sera!»
«Non mi interessa,» fece Law, in tono piatto. A quel punto scostai la coperta da sopra le gambe e mi misi a sedere sul bordo del letto.
«Credimi, dopo che te lo avrò raccontato ti interesserà,» dichiarai con un’espressione eloquente.
Non si trattava di un mero bisogno di fare gossip. Il Capitano aveva il diritto di sapere e il dovere di suggerirmi cosa fare. Conosceva entrambe le parti coinvolte, e avevo motivo di credere che sapesse meglio di noi quali fossero i nostri sentimenti. Perciò speravo che potesse darmi un consiglio, uno di quelli crudi e sinceri che solo lui era capace di dare.
«No. Non mi interessa,» ripeté atono.
Iniziai a infastidirmi. Perché non voleva starmi a sentire? Poteva almeno fingere che gli importasse qualcosa. Era pur sempre il Capitano.
«Fidati, ti interessa, solo che ancora non lo sai. Mi devi ascoltare, Law. Per una volta devi ascoltare quello che ho da dire, perché è importan...»
«Smettila di farmi perdere tempo,» mi interruppe, facendomi digrignare i denti. Quell’uomo metteva a dura prova i miei nervi ogni volta che dovevamo affrontare un discorso di qualsiasi tipo.
«Alzati, lavati e vestiti,» mi impose, categorico.
Lo fulminai con lo sguardo. Era piombato in camera mia di prima mattina, mi aveva svegliato e si era rifiutato di ascoltare ciò che avevo da dire soltanto per venirmi ad impartire degli stupidi ordini? No. Non era così che funzionava. Non con me. Feci per parlare, adirata ogni oltre misura, ma non potei esprimere il mio disappunto, perché lui fu più veloce di me.
«Stiamo per incontrare Cappello di Paglia e la sua ciurma,» disse, come per spiegarmi il perché del suo comportamento.
Mi bloccai, sulla mia faccia c’era dipinta un’espressione da ebete. Tutta la mia ira era scemata in un nanosecondo, per lasciare posto allo sconcerto. Per una decina di secondi rimasi immobile, senza capacitarmi di ciò che avevo appena udito.
«Cosa?» chiesi con un filo di voce. Non ero sicura di aver capito bene. Forse era la mancanza di sonno a farmi confondere.
«Hai capito benissimo. Preparati,» mi impose con durezza, per poi girare i tacchi e iniziare a camminare verso la porta.
Emisi un risolino nervoso. “Preparati”. La faceva facile, lui. Tanto ero io quella a cui aveva lanciato una granata in piena faccia senza avvertire. E se ne stava pure andando, lasciandomi lì, imbambolata come un’idiota. Law aveva tante qualità, ma il tatto non era di certo una di quelle.
Alzai la testa di scatto. «Quando? Quando li incontreremo?»
La risposta era chiara ad entrambi, ma volevo comunque una conferma.
«Tra un paio d’ore.»
Per una frazione di secondo, smisi di respirare. Allora era vero. Ecco perché avevamo fatto immersione così presto. Perché stavamo navigando verso la Thousand Sunny.
«Sei serio? Perché ti giuro che se questo è uno scherzo...»
Mi fissò con uno sguardo che parlava da sé, impedendomi – ancora – di finire la frase. Era serissimo. Un milione di pensieri presero a vorticarmi in testa. Uno in particolare spiccava tra tutti: non ero pronta. O meglio, ero prontissima a rivedere i miei amici, non li vedevo da tanto tempo e desideravo davvero ricontrarli, solo che non ero pronta ad affrontare le conseguenze che avrebbe portato quella rimpatriata. Perché il fatto che ci stessimo ricongiungendo alla ciurma di Cappello di Paglia stava a significare che a breve avremmo combattuto contro Kaido. E io non ero sicura di riuscire ad affrontare una guerra contro un Imperatore e il suo esercito di bestie inumane. Sapevo che prima o poi sarebbe giunto quel momento, lo avevo sempre saputo, ma adesso era diventato tutto reale. All’improvviso. Senza che avessi il tempo di prepararmi.
«Perché diavolo non me lo hai detto prima!?» gridai, facendo fermare il Capitano sull’uscio della stanza. Mi alzai in piedi, troppo nervosa per poter rimanere seduta sul materasso.
«Avevi cose più importanti da fare,» rispose, senza girarsi. Allargai le braccia in segno di resa dinnanzi alla sua tranquillità. Mi aveva tenuto all’oscuro di una cosa che per me era molto importante e nemmeno sembrava importargli. Era snervante. Certo, non potevo dargli torto, ma ciò non stava neanche a significare che avesse ragione, o che pensassi che avesse ragione.
«Me lo hai tenuto segreto!» esclamai, per metà adirata e per metà offesa. Ancora una volta, mi ritrovavo ad essere l’ultima che veniva a sapere le cose. E venivo a saperle senza margine di tempo per prepararmi psicologicamente, sempre che mi venisse concessa la grazia di essere informata. Non credevo e non pretendevo di avere dei diritti speciali all’interno di quella ciurma, però pensavo che tutti loro avessero una considerazione un po’ più alta di me. Oppure, forse, Law non mi aveva detto niente perché pensava che non fossi in grado di gestire il tutto. Quali che fossero le sue motivazioni, era il principio ad essere sbagliato.
«Eppure sei sopravvissuta lo stesso,» affermò, il tono inespressivo e privo di qualsiasi emozione.
Grugnii, incapace di formulare una frase di senso compiuto. Non potevo dargli torto neanche stavolta. La sua calma, la sua dannatissima calma, mi faceva imbestialire. Perché non capiva. Non capiva le ragioni del mio risentimento.
«Ti consiglio di sbrigarti,» fece, per poi uscire indisturbato dalla stanza.
Feci ricadere le mani lungo i fianchi e risi. Rimasi ferma a ridere per un paio di minuti. Mi sembrava di essere all’interno di una barzelletta, una barzelletta complicata, di quelle che ti lasciano l’amaro in bocca e che fanno ridere solo i pochi che la capiscono. Poi, però, mi ridestai. Mi dissi che non era il caso di prendersela troppo per la scelta che aveva fatto Law. Dopotutto, per quanto mi facesse esasperare, le sue decisioni si rivelavano essere sempre per il mio bene. E poi, non era importante il modo in cui ero venuta a sapere che i Pirati Heart stavano per incontrarsi con i Mugiwara. Era importante il fatto che i Pirati Heart stessero per incontrarsi con i Mugiwara.
Mi spogliai rapidamente e mi infilai sotto la doccia. Non c’era tempo da perdere. Dovevo prepararmi. Finalmente stavo per ricongiungermi ai miei amici.
 
Bussai alla porta dello studio di Law, per l’ennesima volta quella mattina. Non aspettai nemmeno che mi desse il permesso per entrare.
«Quanto manca?» chiesi, facendo capolino dalla porta con la testa. Lui non alzò la testa dai documenti che stava leggendo.
«Chiederlo ogni cinque minuti non farà passare il tempo più in fretta.» Non era infastidito dalla mia agitazione, sapeva quanto significasse per me rivedere tutti loro. E poi non poteva irritarsi più di tanto, dato che me lo aveva detto a poche ore dall’incontro. Mi ero lavata, vestita e preparata a tempo record. Per l’occasione avevo scelto un abbigliamento sobrio, più comodo che elegante, che consisteva in una canottiera bianca, una giacca nera e degli shorts dello stesso colore. Ai piedi, ovviamente, avevo sempre i miei fedelissimi stivali con i pugnali incorporati. Dopo un lungo dibattito interiore con me stessa, avevo deciso di lasciare i capelli sciolti: volevo che i Mugiwara notassero il mio cambio di look. Quel giorno niente divisa, per me. Non c’era stato bisogno che io e il Capitano ci mettessimo d’accordo, sapeva che non l’avrebbe mai avuta vinta. Non l’avrei messa neanche se mi avesse minacciato di farmi pulire i bagni da sola per un anno.
«È colpa tua. Evitando di dirmelo, non mi hai permesso di prepararmi psicologicamente. Ergo, sto vivendo tutte in una volta le emozioni che avrei dovuto provare gradualmente,» gli spiegai, con una calma teatrale e un tono da saputella. In un’altra vita avrei potuto fare l’attrice di opere drammatiche.
«Cosa volevi dirmi?» chiese, sempre senza alzare gli occhi dai fogli che stavano sulla sua enorme scrivania.
Ci pensai un attimo, nel trambusto generale di quelle ore mi era passato di mente. Quando mi ricordai, osservai il corridoio con circospezione per accertarmi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, poi entrai nello studio e mi richiusi la porta alle spalle. Mi compiacqui nel notare che quella stanza non era cambiata di una virgola. Era da parecchio che non entravo lì dentro, eppure era rimasto tutto uguale, ordinato e asettico.
Mi appoggiai alla parete alla sua destra e incrociai le braccia.
«Ieri sera Kenji mi ha baciata,» dissi tutto d’un fiato, come se pronunciare quelle parole rapidamente potesse renderle meno reali.
Law alzò appena gli occhi su di me e mi guardò con uno sguardo per niente sorpreso. Anzi, avrei detto persino che se lo aspettava, quasi avesse saputo fin dall’inizio che sarebbe andata a finire in questo modo tra me e il rosso, al punto che ritornò a concentrarsi sui suoi documenti come se nulla fosse.
«Hai intenzione di dire qualcosa?» mi spazientii, iniziando a picchiettare un piede per terra.
«Non c’è bisogno che io ti dica nulla. Sai già cosa fare.»
Sospirai. Aveva ragione, come al solito. Lo adoravo e lo odiavo allo stesso tempo quando era così, perché con poche parole riusciva a farmi capire ciò che c’era da capire.
Adesso che avevo il quadro completo della situazione, sapevo già quello che dovevo fare, dovevo solo trovare il modo di renderlo il più indolore possibile per il povero Kenji. Accidenti a lui, però. Poteva anche evitare di complicarmi ulteriormente la vita stampandomi un bacio sulle labbra. La sera precedente non avevo dato troppo peso a quel bacio, più che altro a causa dello stato di euforia in cui ero, ma era proprio l’euforia ad avermi messa in quel guaio e adesso mi rendevo conto di doverne affrontare le conseguenze.
Il rumore di un cassetto che si chiudeva mi distrasse dai miei pensieri. Quando tornai alla realtà, notai – non senza una certa sorpresa – che il Capitano aveva rimosso i documenti dal tavolo. Non sapevo se preoccuparmi o meno. Se aveva deciso di interrompere la sua lettura poteva significare solo una cosa, una cosa che mi turbava in particolar modo: la faccenda era più seria del previsto.
Il chirurgo incastonò le iridi alle mie, la sua espressione divenne torbida.
«Non spetta a me dirti come comportarti. Ma qualunque cosa tu decida, non lo ferire.» Quando pronunciò le ultime parole della frase il suo tono di voce si ammorbidì, e dentro di me sorrisi. A modo suo, stava cercando di proteggere uno dei suoi sottoposti.
«Non è mai stata mia intenzione farlo.» Lo pensavo davvero, Kenji era l’ultima persona che avrei mai voluto ferire.
«Lui non è come gli altri,» continuò Law, distogliendo lo sguardo per appena un paio di secondi. Quando faceva così stava a significare che si stava ricordando di qualche episodio particolare. Molto probabilmente aveva ripensato al giorno in cui lui e Kenji si erano incontrati per la prima volta. Il rosso me lo aveva raccontato. Come ci si aspetterebbe dal Chirurgo della Morte, il loro era stato un incontro un po’ particolare, ma alla fine, in qualche modo, si erano trovati. Erano stati entrambi fortunati.
«Lo so. Lui è... buono. E gentile, e premuroso, e altruista,» dissi, in un sospiro. Certe volte mi chiedevo che cosa ci facesse con una banda di pirati come la nostra. Per quanto la sua aria apparisse minacciosa durante una battaglia, l’etichetta da criminale non gli si addiceva per niente. La sua sensibilità era così tangibile che tantissimi avversari lo sottovalutavano e rimanevano fregati dalle loro stesse convinzioni. Proprio come me, non era un asso nei combattimenti, ma quando si trattava di combattere per proteggere quelli a cui voleva bene, non si risparmiava. Era una bella persona, dovevo salvaguardare la sua anima.
«Come si può evitare di spezzare il cuore a qualcuno?»
Pregai che Law potesse darmi ancora una volta la risposta che stavo cercando.
«Non si può,» replicò, totalmente inespressivo. Non fui capace di nascondere la mia delusione. Non erano le parole che avrei voluto sentire. «I deboli non possono...»
«Scegliere come morire,» completai la frase per lui, che subito dopo ghignò, sorpreso dalla mia prontezza. L’avevo sentita così tante volte che ormai ero capace di pronunciare automaticamente le parole prima che il mio cervello le metabolizzasse. Non per niente, feci un po’ di fatica a trovare il nesso tra un cuore spezzato e il fatto che i deboli non potessero scegliere come morire. Quando ci arrivai, mi chiesi se il temibile Chirurgo della Morte si fosse mai innamorato di qualcuno. Se si fosse mai innamorato veramente di qualcuno. Il – tragicomico – fatto che la pensasse come Doflamingo mi portava a credere di no. Law era convinto che provare dei forti sentimenti per un’altra persona rendesse fragili. Come si sbagliava. Avere un cuore infranto non era di certo una cosa piacevole, ma precludersi la gioia che dava l’amore era molto peggio. Maya ed Omen ne erano l’esempio vivente, nonché quello più vicino a noi. Per quanto fastidiosi potessero essere gli sguardi languidi che si scambiavano, finivano sempre per allietarci la giornata, e tutti noi un po’ li invidiavamo per quello che avevano, perché rappresentavano l’incarnazione della felicità. Ogni volta che erano insieme sembrava che avessero entrambi trovato il senso della vita. Perché era questo che faceva l’amore: dava un significato anche alla più insulsa delle vite.
«Quindi... secondo te è colpa di Kenji, perché è caduto nella trappola dell’amore e così facendo si è reso vulnerabile,» considerai, alzando un sopracciglio e fissando Law con aria enigmatica.
«Non ho detto questo,» fece scettico, appoggiando la schiena allo schienale della sedia. Sul mio volto comparve un sorrisetto vittorioso. Pronunciando quelle parole mi aveva dato implicitamente ragione.
«Sì, ma...»
«Parla con lui,» tagliò corto. Non capii se il suo fosse un ordine oppure un consiglio. «Il prima possibile.»
Presi un respiro profondo e mi imposi di chiarire la questione quello stesso giorno. Non potevo aspettare oltre. In tutto quel trambusto, una cosa l’avevo capita: non ero ancora pronta per innamorarmi, che si trattasse di Kenji o di qualsiasi altro essere vivente. Decidere di stare con qualcuno richiedeva impegno, significava prendersi cura dell’altro e giungere a compromessi quando necessario. E io non volevo farlo. Prima di poter pensare di prendermi cura di un altro essere umano avevo bisogno di focalizzarmi sui miei bisogni e su ciò che volevo dalla vita. Dovevo imparare ad amare me stessa. Perciò non potevo continuare a dare al rosso false speranze, non potevo continuare ad illuderlo. Era meglio mettere le cose in chiaro fin da subito e prendere le dovute distanze da lui. Perché conoscevo i suoi sentimenti e conoscevo i miei, e dopo il bacio della sera precedente avevo realizzato che lui si era perdutamente innamorato di me. Dopotutto, non era il tipo di ragazzo che si metteva a baciare persone a caso solo per il gusto di farlo. Quel modo di essere apparteneva a un altro tizio di mia conoscenza, che con Kenji non aveva nulla da spartire.
«Hai intenzione di rimanere qui tutto il giorno?» La voce di Law mi distrasse dai miei pensieri. Tornai a guardarlo, cercando di nascondere l’espressione da cane bastonato che era comparsa sul mio viso.
«Probabile.» Lasciai che la mia schiena aderisse completamente al muro al quale ero appoggiata.
«Non fare la codarda,» mi rimproverò lui, con un ghigno di scherno.
Stavo per rispondergli per le rime, ma qualcosa alla mia destra catturò la mia attenzione.
«Oh, mio Dio. Non ci credo,» mi lasciai sfuggire. Sulla parete opposta a lui c’era appeso un bersaglio nero e rosso, nel quale erano conficcate tre piccole frecce.
«Hai comprato le freccette!» esclamai ridendo. “Non gli sfugge niente,” pensai, ricordandomi della conversazione – o più correttamente dello scambio di vedute – che avevamo avuto durante il banchetto allestito per il mio ritorno. Gli avevo consigliato di provare il tiro al bersaglio. Continuai a ridere di fronte ad un chirurgo noncurante. A quanto pareva aveva seguito il mio consiglio, e lo aveva anche preso alla lettera. Non me lo aspettavo, era una piacevole sorpresa, che un po’ mi scaldava il cuore. Ma questo non c’era bisogno che lo sapesse.
«Spero che tu sappia farne buon uso. Converrai con me che le freccette sono un ottimo metodo per allentare la tensione e sfogare la propria frustrazione,» affermai, con una punta di malizia negli occhi. Era passato abbastanza tempo perché potessimo entrambi scherzare di nuovo su quell’argomento delicato. «Certo, sempre che tu sappia come lanciare i dardi. Se hai problemi, conosco un paio di trucchetti che potrei insegnarti.» Accompagnai le mie parole con una sapiente alzata di sopracciglia.
«Non c’è niente che tu mi possa insegnare,» replicò, ghignando sfrontatamente. Sogghignai anche io, e per qualche secondo rimanemmo così, a fissarci l’un l’altra con due espressioni arroganti e piene di complicità dipinte sul volto. E capii che quelli che mi erano mancati di più durante la mia permanenza dai Rivoluzionari erano i momenti come questo. Momenti tra me e Law che non avevano bisogno di parole, perché bastavano gli sguardi complici a dire tutto quello che c’era da dire. Adoravo quando era così: mi sembrava di aver trovato l’interlocutore perfetto, quello che mi avrebbe capito sempre e comunque, anche senza comprendermi del tutto. Lo avevo pensato anche di Sabo, ma con lui era diverso. Tanto per cominciare, non era Law. E poi, con il Rivoluzionario era tutto più semplice. Io e lui eravamo anime affini, eravamo alla ricerca della stessa cosa e ci capivamo al volo. Con il chirurgo, invece, era più complicato. Ecco perché facevo tesoro di ogni attimo di affiatamento che vivevamo.
Nel ripensare al biondo mi venne in mente una cosa importante e tornai seria.
«A proposito di freccette...» iniziai, schiarendomi la voce e richiamando l’attenzione del Capitano. «Non una parola.»
Fece una finta espressione interrogativa. Sapevo che aveva capito benissimo, eppure, dato il suo sadismo, voleva obbligarmi a dire su cosa desiderassi che tacesse.
Sbuffai esasperata ed alzai gli occhi al cielo. Il momento “magico” era finito. Era buffo come potessi passare in appena un paio di secondi dall’adorarlo al volergli stringere le mani attorno al collo.
«Su Sabo,» specificai infastidita. «Non una parola. Nessuno di loro deve saperlo.»
Il moro mi fissò con il volto inespressivo, poi un guizzò di divertimento attraversò le sue iridi, facendomi intuire che mi avrebbe fatto sudare per avere il suo silenzio e che forse non l’avrei neanche avuto.
«La cosa non deve venire fuori. In alcun modo e in nessuna circostanza. Non devi farne parola con nessuno,» gli imposi, guardandolo con la massima serietà.
Se si fosse saputo sarebbe stata una vera e propria tragedia. Rufy non avrebbe capito, ma Sanji ne sarebbe stato devastato. Tuttavia, a preoccuparmi di più, era la possibile reazione di Nami. La malizia che aveva quella ragazza era pericolosa, e visto il suo amore infinito per i soldi non mi sarei stupita se mi avesse ricattata. A parte questo, i Mugiwara molto probabilmente si aspettavano di incontrare la stessa ragazzina spaventata e innocente che avevano conosciuto tempo prima, e non volevo che il loro modo di vedermi cambiasse repentinamente. Era vero, ero cambiata, ma desideravo che vedessero solo i cambiamenti che riguardavano me stessa. Non volevo che si sapesse in giro ciò che avevo fatto nel mio “tempo libero”. Erano affari miei.
«Io sono il Capitano. Al contrario di te, non sono costretto a seguire i tuoi ordini.» La voce del chirurgo mi riportò alla realtà e mi fece roteare gli occhi. Avrei voluto rispondergli che più che un ordine la mia era una supplica, ma non volevo perdere quel poco di dignità che mi restava. Invece, assottigliai gli occhi, la palpebra di quello destro tremava dal nervoso. Poi, però, mi venne in mente una cosa e mi calmai, sulla mia faccia era comparso un piccolo sorriso.
«D’accordo. Hai ragione. Non posso darti ordini.» Mi finsi accondiscendente. Mi girai e staccai una freccetta dal bersaglio, la rigirai tra le mani e la soppesai per qualche secondo. Era liscia e leggera. «Però, proprio come tu hai fatto amorevolmente con me, posso darti qualche incentivo. Per esempio, potrei dirti che se dalla tua bocca uscisse qualche parola su ciò che è accaduto tra me e Sabo, io rivelerei a tutti il nostro piccolo segreto.»
Alzò un sopracciglio, scettico, contribuendo a far allargare il mio ghigno.
«Come, non ti ricordi? Nei mesi passati abbiamo vissuto dei momenti davvero romantici, intimi e pieni di poesia. Ci siamo praticamente baciati su Tekashi, e poi, un paio di mesi dopo, mi hai tenuto per mano. Hai perfino cantato per me,» rimarcai, sogghignando con arroganza e un pizzico di malizia. «Ovviamente cambierei un po’ la versione dei fatti, tanto non sarei io a perdere la reputazione. Diventeresti lo zimbello di tutti i Mugiwara e, se qualcuno di loro spargesse la voce, anche degli altri pirati.»
Mi strinsi nelle spalle e simulai una certa nonchalance. Il Capitano mi fissò quasi con disgusto. Non poteva prendersela troppo, però, perché avevo imparato dal migliore a rigirare la frittata. Senza rendersene conto aveva creato un piccolo mostriciattolo, e di questo dovevamo essere entrambi fieri.
«Allora, che ne dici? Abbiamo un patto?» chiesi, facendo il giro della scrivania per ritrovarmi accanto a lui. Volevo osservarlo da vicino, speravo di vederlo vacillare almeno per un nanosecondo.
«Io non stringo patti, con nessuno,» affermò, calmo. «Non sei nella posizione di potermi dare incentivi
Mi chinai verso di lui e gli poggiai una mano sulla spalla, avvicinando la bocca al suo orecchio.
«Smettila con le tue vuote minacce, Law. Non mi faresti mai del male,» gli sussurrai, la voce decisa e suadente.
«Lo vedremo,» sibilò infastidito.
Sorrisi, mi rimisi in posizione eretta e sollevai un braccio mirando al bersaglio dall’altra parte della stanza. Mi concentrai e lanciai la freccetta, per poi ghignare soddisfatta. Centro. Era migliorata anche la mia mira.
«Non dire niente e non dovrai preoccupartene,» avvisai il Capitano, dandogli le spalle e aprendo la porta.
Uscii senza lasciargli il tempo di replicare e feci qualche passo in corridoio, compiacendomi di me stessa. Facevo progressi anche nel campo dei ricatti e delle estorsioni. Però mi resi conto che c’era un’ultima cosa che dovevo ribadire al chirurgo, per cui feci inversione e tornai indietro.
«E comunque sappi che non ti perdonerò per non avermi detto che stavamo per incontrare Rufy,» gli dissi una volta che ebbi fatto per l’ennesima volta capolino nello studio.
Law non si curò della mia esclamazione. Era troppo intento a prendere la mira verso il bersaglio appeso al muro. Probabilmente nemmeno si era accorto della mia presenza. Aveva l’aria assorta, il braccio sollevato e una delle freccette in mano. Richiusi la porta in tutta fretta per evitare di scoppiargli a ridere in faccia, poi mi abbandonai ad una lunga e grassa risata. Risi così tanto che dovetti appoggiare le mani alle ginocchia per non collassare sul pavimento. Mi ero scelta un Capitano pieno di sorprese.
 
Mi torturai nervosamente le dita, alla ricerca del coraggio che mi serviva per parlare con Kenji. Quel malinteso andava chiarito, e andava chiarito subito. La sera prima, dopo quel fantomatico bacio, il rosso aveva biascicato una buonanotte imbarazzata ed era corso via, lasciandomi lì come un’ebete. Alla fine, dopo aver passato cinque minuti buoni in totale immobilità e con l’espressione incredula, mi ero decisa a tornarmene in camera. Lì, avevo mandato a quel paese tutti i miei buoni propositi e avevo aperto la bottiglia di vino. Dopo un paio di sorsi, però, mi ero fermata e mi ero addormentata, stremata da tutte le emozioni che avevo vissuto nell’arco della giornata. Almeno ero scampata alla “serata scacchi”, era già qualcosa.
Presi un respiro profondo e alzai il pugno un paio di volte prima di bussare davvero. Per fortuna la porta dell’infermeria era chiusa. Quando la aprii, i miei sospetti vennero confermati: Kenji era chino sulla scrivania, intento a fare l’inventario. Nel momento in cui i suoi occhi incrociarono i miei si spalancarono terrorizzati. Si bloccò e impallidì visibilmente, mentre io trattenevo il fiato. Ero piuttosto sicura che l’impulso di scappare dal sottomarino con la prima scialuppa disponibile avesse attraversato la mente di entrambi. In un certo senso, sarebbe stato molto più comodo fare così. Ma non era quella la soluzione ai nostri problemi, avevamo bisogno di parlarne con calma e risolvere la situazione da persone adulte quali eravamo. Era passato il tempo di giocare a nascondino.
«Ciao,» lo salutai, cercando di sembrare il più naturale possibile.
«Buongiorno,» ricambiò lui, nella voce un po’ di timore.
«Come va la mano?» gli chiesi, ricordandomi della sua ferita nel momento in cui vidi le garze che gli avvolgevano il palmo.
«Oh, ehm...» Fece un mezzo sorriso. «Bene, grazie. Hai fatto un ottimo lavoro.»
«Grazie.» Gli sorrisi imbarazzata. «Se dovessi sentire dolore, fammelo sapere.»
Annuì, poi distolse lo sguardo e si concentrò sui fogli che aveva davanti.
Boccheggiai. Prima o poi avremmo per forza dovuto affrontare la questione, soltanto che non volevo farlo; non solo perché avrebbe causato un grosso imbarazzo a tutti e due, ma anche perché il nostro rapporto avrebbe potuto incrinarsi irreparabilmente e sarebbe stato un peccato. Discuterne significava renderlo reale, significava che non potevamo più fingere che tutto quello non fosse mai successo. E, cosa più importante e terribile di tutte, significava che avrei spezzato il cuore a Kenji. Non avrei mai pensato che saremmo arrivati a questo, né avrei mai voluto che accadesse. Eppure era successo, e qualcuno avrebbe sofferto.
“Non fare la codarda,” ripetei le parole di Law nella mia testa come monito. Magari mi sbagliavo. Magari non si era innamorato di me, magari quel bacio era stata soltanto un’azione impulsiva dettata dall’euforia del momento, un atto di passione che per il rosso non aveva significato niente. Qualsiasi fosse il motivo che aveva guidato le sue azioni, non potevo saperlo se non gli parlavo.
Richiusi la porta dell’infermeria e mi feci seria.
«Kenji...» Abbassai lo sguardo e ricominciai a torturarmi le dita. «Riguardo a quello che è successo ieri sera...»
«Lo so.» Mi interruppe. Le sue iridi verdi, da limpide quali erano sempre state, si fecero torbide e la sua espressione si incupì. Mi si strinse il cuore nel vederlo così. Non mi ero sbagliata, provava sul serio qualcosa per me. Lo stavo facendo soffrire e mi sentivo terribilmente in colpa, sebbene sapessi di non essere responsabile per il suo dolore. Non troppo, almeno. Io avevo avuto il mio ruolo nella vicenda, certo, ma gran parte degli ingranaggi li aveva smossi lui, da solo.
«È stato un errore, non so davvero cosa mi sia preso, e...» Si alzò dalla sedia per venirmi incontro.
«No, Kenji, ti prego, lasciami finire,» lo rimproverai tenuemente, piazzando una mano di fronte a me. Prima di andare lì mi ero preparata un discorso preciso da fare e se avessi perso il filo sarebbe stata la fine. Non potevo permettere che mi interrompesse.
Il rosso si fermò all’istante, la faccia mortificata. Sentii di nuovo una morsa al cuore. Non se lo meritava. Ma cosa potevo farci? Lui provava dei sentimenti verso di me che io non provavo verso di lui, e non volevo illuderlo.
«Io... Forse è colpa mia, forse ti sono arrivati dei segnali sbagliati da parte mia, però è giusto che questa situazione venga chiarita. Io e te... siamo amici. Tu sei una persona fantastica, davvero, ma non credo che...»
La porta dell’infermeria si spalancò, facendo entrare nella stanza una folata di vento.
“Potrà esserci altro tra di noi, almeno per il momento,” completai la frase nella mia mente. Contrariamente alle mie aspettative, non ero affatto infastidita da quell’interruzione imprevista. Anzi, in parte ero grata a chiunque ci avesse interrotto.
Mi voltai: Penguin. Se da un lato mi aveva tolto dall’imbarazzo, dall’altro mi aveva fatto perdere il filo del discorso. Aveva ancora la mano sulla maniglia della porta e sembrava elettrizzato.
«Sì?» lo incitai a parlare.
«Ci siamo,» ci comunicò, in totale estasi.
Trattenni il fiato e sgranai gli occhi.
«Intendi...» provai a dire, senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto.
«Sì! Jean Bart dice che riesce a scorgere la nave di Cappello di Paglia.»
Il mio cuore saltò un battito, o forse due. O tre. Non poteva essere vero, era troppo presto. Il tempo era davvero passato così velocemente?
«Il Capitano ha detto di farsi trovare sul ponte. Subito.» Penguin si accompagnò con un’alzata di sopracciglia e un sorrisetto furbo. Sapevo già che la sua mente era proiettata su Nami e Robin.
Mi girai verso il rosso, che fino a quel momento era rimasto immobile e in silenzio. Ci guardammo, le iridi di entrambi erano indecifrabili ma allo stesso tempo colme di significato. Non sapevo che fare. Non sapevo se impormi di restare lì e finire di parlare con lui, oppure se precipitarmi sul ponte del Polar Tang senza perdere nemmeno un secondo.
«Sbrigatevi,» ci incitò il nostro compagno, per poi scomparire nel corridoio.
Sospirai e mossi un passo in avanti, lo sguardo fisso verso la porta. Ero combattuta. Non volevo perdermi per nulla al mondo il momento dell’incontro, ma dovevo anche chiudere la faccenda una volta per tutte. Rimandare la discussione avrebbe significato peggiorare ulteriormente le cose. Però...
«Finalmente vedremo altre donne! Altre bellissime donne!» Le urla del Pinguino risuonarono per tutto il sottomarino, strappandomi una risata. Poverino, non sapeva a cosa stava andando incontro. Non avevo dubbi: gli sarebbe presto arrivato in testa il pugno della temibile Gatta Ladra.
Le mie gambe fremevano, tutto il mio corpo fremeva, pronto a scattare.
«Dobbiamo andare,» dissi a Kenji, lanciandogli un’occhiata eloquente.
«Già.» Fece un piccolo sorriso, più di rassegnazione che di sollievo.
Vacillai. Non volevo che si sentisse ancora una volta messo in secondo piano, e non era così, in realtà. Tuttavia non potevo evitarlo. Era una situazione complicata.
«Ti assicuro che non succederà più,» dichiarò deciso, lo sguardo serio. Aveva capito che ero impaziente di rivedere tutti i miei amici. Aveva compreso le circostanze e mi stava implicitamente dando il permesso che mi serviva per interrompere la conversazione e correre a salutare la ciurma di Cappello di Paglia. Lo guardai un’ultima volta, grata, poi non persi tempo.
«Sì, ne... ne riparleremo,» feci distratta, catapultandomi fuori dalla stanza. Quello sarebbe dovuto sembrare un avvertimento, ma ero troppo presa dall’imminente incontro con Rufy e i suoi compagni per pensare alla giusta intonazione di voce da usare.
Corsi, corsi all’impazzata per il corridoio, che d’un tratto mi sembrava lungo chilometri e chilometri. Stavo per rivederli dopo un’infinità di tempo.
Nell’aria c’era profumo di libertà.
 
Il vento accarezzava dolcemente la mia pelle. C’era il sole e il mare scintillava calmo sotto i suoi raggi, proprio come il giorno in cui li avevo lasciati. Respirai appieno l’aria salmastra e sorrisi, con lo stesso sorriso di una bambina che aveva appena ritrovato il proprio giocattolo preferito dopo averlo perso per tanto tempo. Di fronte a noi si ergeva la magnifica e maestosa Thousand Sunny. Non era cambiata di una virgola, era sempre fiera e splendente, proprio come suggerivano il nome e la polena. Sospettavo che in quegli anni avesse preso parecchie botte, ma i Mugiwara disponevano di un carpentiere formidabile, in grado di rimettere a nuovo la loro preziosa nave. Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere nessuno, ma non avevo bisogno di vederli per sapere che erano lì. Il solo immaginarmi che a breve sarei di nuovo stata faccia a faccia con loro mi fece dimenticare di tutto. Mi dimenticai che dietro di me c’era una schiera di persone che si aspettava che in un momento solenne come quello mi comportassi con una certa serietà, una serietà che in realtà quasi nessuno di noi aveva mai avuto o mostrato, e che per questo dovevo almeno cercare di contenere le mie emozioni. Mi dimenticai dei casini con Kenji, della difficile riabilitazione che avevo fatto in quelle settimane, della guerra che avremmo dovuto affrontare a breve. Di tutto. Desideravo solo stare di nuovo in loro compagnia.
Mi asciugai i palmi delle mani – sudati per l’eccitazione – sui pantaloncini. Poi guardai Law, quasi a chiedergli il permesso di poterlo fare, anche se entrambi sapevamo che non ce n’era bisogno, perché l’avrei fatto comunque. Vidi il suo volto aprirsi lentamente in un ghigno e mi sentii avvampare dall’emozione. Il cuore stava facendo le capriole nel petto, sembrava perfino più impaziente di me.
Senza perdere altro tempo prezioso, piegai le gambe per darmi la spinta per saltare sul tetto del sottomarino, ma prima che potessi compiere il balzo che mi separava dai miei amici, fui fermata dalla mano gelida del chirurgo, che si avvinghiò al mio polso. Lo guardai interrogativa e sperai che non avesse deciso tutto a un tratto di precludermi quel momento di giubilo che tanto avevo aspettato.
«Chiamami “Capitano” e rivolgiti a me con rispetto,» mi impose autorevole, per poi ammorbidirsi appena. «E il tuo piccolo segreto sarà al sicuro.»
«Te l’avevo detto che il tiro al bersaglio porta consiglio,» scherzai ridacchiando. Lui sollevò un sopracciglio, scettico.
«E da domani ti metti la divisa. Non è negoziabile.»
«Hai la mia parola. E io ho la tua.» Tornai seria. Annuimmo entrambi e il Capitano lasciò la presa su di me.
Finalmente riuscii a darmi la spinta e balzai sul tetto del sottomarino. Con un’altra spinta arrivai con i piedi sopra alla ringhiera bianca della Thousand Sunny.
Rimasi piacevolmente sorpresa quando notai che tutti i componenti della ciurma avevano smesso di praticare le loro consuete attività e si erano allineati di fronte a me. Ci avevano messo meno di mezzo secondo per accorgersi del mio arrivo. Ci stavano aspettando. Mi stavano aspettando.
Mi guardai intorno. Il ponte della Sunny era rimasto esattamente come me lo ricordavo, come lo avevo lasciato. Era impressionante. L’erba era sempre ben curata, corta e di un verde vivace. Gli alberi di mandarino di Nami crescevano rigogliosi, il legno dei pavimenti era liscio e lucido e la vernice, per quanto fosse consumata, sembrava sempre fresca. Quella nave era pristina e indistruttibile, proprio come i sogni di chi navigava insieme a lei.
Dieci facce mi guardavano allegre e curiose allo stesso tempo. Tuttavia, prima che io o loro potessimo dire o fare qualsiasi cosa, persi l’equilibrio e mi sbilanciai all’indietro. Perché non potevo fare bella figura per una volta, le mie dovevano per forza essere grosse, grasse figure di merda.
Una mano forte e sicura mi afferrò prontamente la caviglia della gamba che ero stata costretta a sollevare, impedendomi di cadere dall’imbarcazione. Alzai la testa per vedere chi fosse e, quando vidi che quello che si era allungato per riprendermi era Zoro, che stava ghignando, ghignai di rimando. Mi lasciò solo quando mi fui rimessa dritta in piedi ed ebbi recuperato il mio equilibrio, e proprio nell’attimo in cui scesi dalla ringhiera scoppiò il finimondo.
«Brutto marimo! Dovevo salvarla io Cami-chan!» Sanji si era messo a gridare.
«Non prendertela con me se oltre ad essere ritardato sei anche incredibilmente lento, cuoco di merda!» urlò a sua volta lo spadaccino.
«Come hai detto, stupida testa di muschio!? Prova ad avvicinarti, e vediamo chi è lento! Ti cambio i connotati a suon di calci!»
«E io ti taglio in strisce così piccole che non si vedranno più neanche le tue stupide sopracciglia a ricciolo!»
Seguirono imprecazioni, ringhi, grugniti e insulti. E i due continuarono per qualche minuto buono. Me lo aspettavo, visti i soggetti in questione, ma a me non importava, perché nel momento in cui i miei piedi si posarono sulla morbida erba del ponte della Thousand Sunny, nel mio corpo si irradiò una sensazione di pace e sicurezza che non provavo da parecchio tempo, tanto che per qualche secondo mi sembrò di fluttuare.
«Fatela finita, idioti!» esclamò la navigatrice in preda ad un attacco di rabbia, appena prima di dare un pugno in testa ben assestato ai due malcapitati.
«Hai ragione, Nami-swan! Scusami, mia stupenda dea!» Il tono del biondo si era alzato di un paio di ottave. Ora era diventato più docile di un agnellino.
«Strega...» sussurrò Zoro, girato dalla parte opposta in modo tale che la ragazza non potesse sentire, mentre si massaggiava la testa. C’era da dire che più passava il tempo più i pugni della cartografa erano potenti. Tanto di cappello – di paglia – a lei.
«Come ti permetti, marimo!? Ti infilo la testa nello spremiagrumi!» Il cuoco aveva ricominciato a gridare. Se la rossa per fortuna non aveva sentito il verde, tutti gli altri lo avevano udito chiaramente; e fu così che i due si misero a litigare un’altra volta, causando un senso di agitazione nel piccolo Chopper.
Usop sospirò, con l’aria da persona vissuta.
«Certe cose non cambieranno mai,» constatò rassegnato, poi indicò me. «E a quanto vedo, nemmeno tu sei cambiata.»
In un’altra occasione mi sarei offesa per la sua affermazione, o perfino alterata: se c’era una cosa sicura in mezzo a tutte quelle incertezze era che ero cambiata, a partire dal mio taglio di capelli. Ma questo avrei avuto tutto il tempo di dimostrarlo alla ciurma di Cappello di Paglia.
Per quella volta, però, mi portai le mani ai fianchi e sorrisi. Ero tornata.
«Vi ho detto di farla finita!» strillò sgraziatamente la rossa. Altri due pugni partirono dalle sue mani e arrivarono in fronte a cuoco e spadaccino, che finirono stesi per terra.
Risi di gusto alla vista di quel siparietto – per Zoro e Sanji non troppo – comico. Sì, supponevo che alcune cose non sarebbero mai cambiate.
   
 
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