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Autore: FreddyOllow    04/11/2021    0 recensioni
Thomas Horke è un uomo depresso, apatico, imprigionato in un vuoto abissale che si porta dietro da sempre. Ogni notte, scoccata la mezzanotte, si siede sul parapetto del tetto e guarda giù.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo racconto è per te Chanel.
Tu che hai reso le mie giornate serene.
Tu che mi hai ascoltato nei tuoi sguardi.
Tu che eri lì quando tutti gli altri erano solo ombre indistinte.
Tu che sei sempre stata e sarai la mia migliore amica.
Il miglior cane del mondo.
Pensami ogni tanto.
Un abbraccio ovunque tu sia.
Ti voglio bene!

 

1
 

"Parlami di te."
"Cosa vuoi che dica?"
"Quello che ti senti di dire."
Mi raddrizzai sul divano. "Non ci riesco."
La psicologa accavallò le gambe. "Il dottor Waren mi ha detto che hai difficoltà ad addormentarti. Cosa fai prima di dormire?"
Penso al suicidio. Ecco cosa cazzo faccio! Mi siedo sul bordo del tetto e cerco di trovare il coraggio di saltare! "Dipende. Gioco a un videogioco, guardo un film."
"Per quanto tempo?"
Fino all'alba. "Un'ora, o di più. Poi cerco di dormire, ma non ci riesco."
"A cosa pensi quando non ci riesci?"
Che sono un fottuto vigliacco. Non riesco nemmeno a saltare giù! "A niente di particolare. Fisso il soffitto, ascolto il rumore delle auto che passano in strada. Cose così."
La psicologa mi fissò per un istante. "Come ti fa sentire?"
Di merda. Non so nemmeno perché sono qui. "Non saprei. Normale, credo."
"Definisci normale."
Apatia. Vuoto. Solitudine. La felicità? Un fottuto miraggio. "Normale. Nulla di particolare."
"C'è qualcosa di cui vorresti parlarmi?"
Sì, come trovo il coraggio di saltare? Scossi la testa.
Mi osservò per un momento. "Ti senti giudicato?"
Voglio ritornare sul quel cazzo di tetto e farla finita. "No, da te no."
"E dagli altri?"
Non risposi subito. "Non saprei... Credo di sì, ma anche no. Non lo so, insomma."
La psicologa socchiuse un poco gli occhi. "Continua."
Odio la gente. L'ho sempre odiata. Però ho anche amato alcuni di loro. Non tutti sono delle teste di cazzo, lo so. "Te l'ho detto, non saprei."



 

2

Uscito dal suo ufficio, andai direttamente al mio appartamento. Non volevo vedere, né sentire nessuno. Mi sentivo esausto e arrabbiato. Non sapevo da dove provenisse quella rabbia, ma ero certo che il forum di pittura in cui mi ero iscritto aveva un suo peso. Più ci pensavo, più diventava cristallino. Forse stare a contatto con altra gente mi irritava e non capivo perché doveva esserlo anche virtualmente. A volte era anche peggio di quando ero a tu per tu con gli altri.
Mentre mi dirigevo verso la metro per prendere il treno che mi avrebbe portato allo squallido quartiere di Harmony, incontrai Lea. Una ragazza che mi era sempre piaciuta, ma di cui mi tenevo alla larga. Aveva corti capelli neri fin poco sotto il mento, occhi castani, labbra poco carnose e un sorriso stupendo. Indossava una giacca nera, sotto una maglietta rosso spento, pantaloni e scarpe nere alte tre centimetri.
"Ehi, Thomas. Cosa ci fai da queste parti?" Mi strinse in un abbraccio affettuoso e mi baciò su una guancia.
"Sto tornando al mio appartamento."
"Non abitavi con i tuoi?"
"Una volta. Adesso non più."
Mi sorrise. "Io sto cercando una sistemazione. Magari posso venire da te. Possiamo fare a metà per le spese."
"Non credo sia una buona idea."
"Perché?"
Perché ti voglio! Ti desidero! "Deve venire un mio amico da Clarkville. Starà da me."
Mi guardò per un attimo. "Per quanto?"
Per sempre. "Non saprei. Vuole trovare un lavoro qui, quindi potrebbe rimanere per un bel po' di tempo."
"Va bene, ma pensa a me se si libera un posto."
Non lo farò mai. "Sì, certo."
Mi salutò con un abbraccio e un bacio sull'angolo delle labbra. È questo suo modo allegro e spensierato che mi ha fatto prendere una cotta, ma che dico, che mi ha fatto innamorare di lei. Questo mi portava anche a provare una sorta di irritazione, in quanto capii che lo faceva con tutti i ragazzi. Pensavo di piacerle, ma forse ero uno dei tanti.
Mentre la vedevo allontanarsi, pensai a come era stato facile mentirle. Non ero mai stato un ottimo bugiardo, ma tutte quelle menzogne mi erano uscite spontanee, il che mi turbò non poco.
Scesi nel metro e aspettai il treno seduto su una panca. Non c'era molta gente. Il mio sguardo si posò su una coppia di innamorati. Baci, coccole. Arricciai il naso per il ribrezzo.
Forse sono soltanto invidioso della loro felicità.
Avevo amato. Due di queste volte erano finite davvero male. Ero caduto in un abisso da cui non riuscivo a uscire. Lo stesso abisso che chiamavo casa.
L'altoparlante emise un suono acuto. "Il treno per Harmony è in arrivo. Siete pregati di rimanere dietro la linea gialla. Grazie!"



 

3

Entrai in casa, mi feci una doccia e accesi il pc portatile. Erano le sette e mezza di sera e decisi che avrei giocato un paio d'ore prima di tentare nuovamente di suicidarmi. Giocare mi acquietava, ma solo se lo facevo da solo. Odiavo giocare insieme agli altri, non perché non sapessi giocare, ma perché lo odiavo e basta.
Staccai verso le undici e diede un'occhiata al forum di pittura. Leggere tutti quei messaggi di gente esaltata mi dava sui nervi. E mi irritava ancor di più quando altri utenti li seguivano a ruota. C'erano diverse persone talentuose che avevano postato disegni o dipinti meravigliosi, ma che nessuno si filava. Anzi, qualcuno lo faceva solo per una sorta di scambio, che per interesse. A volte anche per pietà se l'utente non se lo filava nessuno. Non so perché sentivo questo, ma una volta il mio intuito mi diede ragione.
Un utente di nome Majestic81 aveva pubblicato diversi quadri paesaggistici che ora valevano milioni. All'inizio aveva ricevuto diverse critiche per il modo di usare i colori, poi non aveva più ricevuto commenti. Nessuno se l'era filato più, pur essendo molto attivo e commentasse le altre opere con tatto. Dopo che i suoi lavori diventarono famosi, dovette chiudere l'account. Venne inondato di messaggi da quelli che prima lo avevano criticato. Io ero rimasto in contatto con lui e certe volte ci scambiavamo due chiacchiere davanti a un caffè.
Tutto questo mi fece capire che la gente, la maggioranza, non capisse un cazzo e gravitasse solo attorno al proprio ego. La cosa più odiosa era il gruppetto che si era creato in cui prediligevano alcune persone rispetto alle altre. Non parliamo poi degli utenti che si facevano stare sul cazzo gli altri senza motivo. I nuovi? Quasi tutti emarginati.
Tutto questo lo notavo, lo percepivo e non sapevo neanche io come ci riuscissi. A volte dubitavo delle mie sensazioni, ma c'erano troppe coincidenze per ignorarle.
Ora me ne stavo con i piedi a penzoloni sul parapetto del tetto e guardavo giù. Vedevo le luci, i veicoli sfrecciare sulla strada, un vociare lontano, un colpo di clacson, il vento sferzarmi il viso. Non mi restava che saltare. Dovevo solo lasciarmi andare e tutto sarebbe finito.
Ero pietrificato. Qualcosa mi frenava e non capivo cosa.
Salta! Falla finita. Buttatati da quel cazzo di tetto, codardo!
Non ci riuscivo.
Una folata di vento mi sospinse in avanti. Mi aggrappai al parapetto con le dita, un vuoto allo stomaco.
Perché non non mi sono lasciato andare? Perché? Se devo uccidermi, devo farlo io e non un colpo di vento.
Non essere un codardo! Salta!



 

4

Restai lì fino alle sei del mattino. Ero infreddolito, ma non me ne fregava niente. Se avessi preso la febbre sarebbe stato tutto più facile. Mi avrebbe ucciso quella e fine dei giochi, ma era raro morire così al giorno d'oggi. E poi ci tenevo a spiaccicarmi contro il marciapiede. Volevo morire in quel modo. Volevo che la gente vedesse cosa mi avevano spinto a fare. Volevo che si sentissero in colpa.
A chi cazzo vuoi che importa se muoio? Nessuno piangerà e soffrirà per me. Sono invisibile. Non conto un cazzo.
Scesi dal parapetto. Apatia. Vuoto. Solitudine. Invece di invogliarmi a togliermi la vita, quelle parole avevano sorto l'effetto contrario.
Non c'è posto per me qui. Perché insisto a voler vivere? Tanto vale saltare.
Mentre scendevo la rampa di scale del condominio, incontrai Derek e il suo piccolo meticcio di nome Toby. Era un anziano signore che aveva perso sua moglie, anche se non avevo capito come.
Stava chiudendo a chiave la porta, quando mi vide. Mi sorrise. "Di nuovo mattiniero?"
"Sì."
Toby scodinzolò sotto le mie gambe. Gli accarezzai il muso e la testa, e lui ricambiò leccandomi la mano.
Derek mise la chiave in una tasca interna della giacca di lana. "Perché stasera non vieni da me? Cucinerò pasta a sugo. Ti piace?"
"Grazie dell'invito, ma ho da fare."
"Insisterò finché non accetterai." Mi salutò con un sorriso e scese le scale insieme a Toby.
Rientrai in casa, mangiai un brioche e mi feci una doccia. Indossai la camicia del Joe's Market e, scoccate le otto, andai a lavoro. Presi la bici e pedalai tra le strade trafficate. Numerosissime buche puntellavano l'asfalto.
Se cadessi e mi spaccassi la testa, non sarebbe un brutto modo di morire. Spero solo di morire sul colpo.

Venti minuti dopo arrivai al negozio e lasciai la bici in un angolo del magazzino.
"Thomas!" urlò Seth Gonzales. Sulla cinquantina, grassoccio, dal ventre prominente e il doppio mento. "Porta il tuo culo qui!"
Lo raggiunsi dietro uno scaffale di tre piani.
"Carica queste casse nel furgone e portale da Loretta."
Mi guardai intorno. "Si occupa Ian del trasporto."
"Ian si è licenziato. Ora tocca te." Si voltò e uscì dal magazzino.
Il Joe's Market era gestito da un uomo affiliato a una famiglia mafiosa di Harmony. Un sicario che aveva messo in piedi una catena di supermercati. Non lo avevo mai conosciuto, ma Ian me ne aveva parlato in maniera vaga e senza mai nominarlo.
Sospettai che lo avessero fatto fuori, in quanto parlava troppo. Due settimane prima lo avevano pestato a sangue, ma non aveva sporto denuncia. Era improbabile che se ne fosse andato di punto in bianco. Aveva una moglie e due bambine piccole a cui pensare.
Caricai le otto casse nel furgone e ingranai la prima. Sapevo che non trasportavo ammorbidenti, saponi e via dicendo. Ma droga o armi, o entrambe le cose. Non m'importava, anche se essere beccato dalla polizia non mi sarebbe piaciuto per niente. La prigione era l'ultimo posto in cui volevo andare. Non era la prima volta che guidavo un mezzo del genere, ma era la prima volta che trasportavo merce delicata.

Il negozio di Loretta distava tre chilometri e parcheggiai il furgone nel retro. Una giovane donna uscì dalla porta di servizio. Doveva avere la mia stessa età, sui trent'anni, fisico slanciato, lunghi capelli biondi fino alle spalle. Indossava un pantalone attillato e una scollata maglietta nera, un cappotto e stivaletti neri. Sembrava in tutto e per tutto una donna in carriera. Mi venne incontro mentre aprivo le portiere posteriori del furgone.
"Sei Thomas, vero? Sono Loretta Anderson."
Le strinsi la mano. "Thomas Horke."
"Lo so." Mi guardò con fare freddo. "Aspetta qui. I miei uomini stanno arrivando." Rientrò dentro.
Il mio cellulare squillò. Era Lea. "Sì?"
"Hai da fare?"
"Sto lavorando."
"Ah, ok. Volevo... Io... Sì, ecco, volevo chiederti se conosci qualcuno in cerca di una coinquilina."
"Per adesso non mi viene in mente nessuno."
"Va bene... Se te lo ricordi, fammi sapere."
"Ok." Lasciai il cellulare in tasca.
Tre uomini uscirono dalla saracinesca del negozio. Mi guardarono, torvo, e cominciarono a scaricare il furgone.
Quando finirono, entrai nel furgone e mi diressi al Joe's Market. Lasciai il veicolo nel retro e iniziai la mia noiosa giornata lavorativa.



 

5

Staccai alle cinque. Salii sulla bici e pedalai fino al mio appartamento. Mi feci una doccia, presi la metro e andai dalla psicologa.
Nella sala d'attesa, una ragazza mi fissava da più di dieci minuti. Non sbatteva nemmeno le palpebre. Mi stava dando sui nervi.
La psicologa aprì la porta e ne uscì un uomo di mezza età. La salutò con una stretta di mano e andò via.
La donna guardò la ragazza. "Fiona, cosa ci fai qui? L'appuntamento è per domani alle sei."
Fiona annuì e continuò a fissarmi.
La psicologa mi disse di entrare con un cenno della mano.
Una volta seduti, lei mi guardò. "La conosci?"
"No."
Aprì il taccuino. "Come ti senti oggi?"
Da schifo! Come vuoi che mi senta? Faccio un lavoro di merda e la mia vita stessa è una carrellata di merda. Voglio soltanto trovare il coraggio di saltare da quel cazzo tetto! "Chi è quella ragazza?"
"Una paziente."
"Sì, ma come si chiama?"
"Non posso dirtelo."
"L'hai chiamata Fiona, no? Quindi si chiama così."
"Parliamo di te."
"Perché mi fissava?"
La psicologa corrugò la fronte, preoccupata. "Chi?"
Indicai l'ingresso. "Fiona. Perché mi fissava?"
Si alzò, aprì un poco la porta e sbirciò fuori. Si voltò verso di me. "Resta seduto." Uscì.
Mi accigliai, perplesso.
Parlarono per un momento, finché partì un grido. Era Fiona. Scattai in piedi, corsi alla porta e l'aprii un poco.
Fiona rannicchiata in un angolo, le braccia strette attorno alle ginocchia.
La psicologa in piedi al centro della stanza, il cellulare appoggiato a un orecchio. "Sì, è qui... È agitata. Ho paura che si possa fare del male... Credo da un'ora, non saprei..."
Fiona alzò lo sguardo, gli occhi serrati, il volto paonazzo. Balzò in piedi e si lanciò contro di me. "Ti ammazzo! Ti uccido!"
La psicologa la fermò col corpo. "Calmati, Fiona. Calmati."
La donna si dimenò, urlò indemoniata.
La psicologa si voltò verso di me. "Chiudi la porta. Chiudila!"
La chiusi e indietreggiai, turbato.
La ragazza smise di gridare e scoppiò in un pianto sommesso.
Che cazzo è successo? Perché vuole uccidermi? Nemmeno la conosco.
Mi sedetti al mio posto e restai lì per una ventina di minuti.
Dalla sala d'attesa giunse un mormorio. Qualcuno aprì la porta. Altre voci, altre grida di Fiona.
Silenzio.
La psicologa entrò nell'ufficio e tornò al suo posto.
Corrugai la sopracciglia. "Cosa è successo?"
La psicologa mi fissò per un attimo. "Torniamo a dove siamo rimasti."
"Voleva uccidermi... Perché?"
"È una paziente. Non posso parlartene."
"È schizzata? È pazza?"
"Signor Horke, la prego. Non continui."
Cominciammo la seduta, svariate domande a cui risposi a monosillabi.

   
 
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