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Autore: edoardo811    04/12/2021    3 recensioni
La Foschia è svanita. I confini del campo sono scomparsi e ora tutto il mondo può vedere i mostri per quello che sono realmente.
DANIEL non è mai stato un ragazzo socievole, per un motivo o per un altro, si è sempre trovato meglio da solo, lontano da tutti, perfino dal Campo Giove. Nemmeno i mostri hanno mai provato ad ucciderlo, come se non fosse mai esistito realmente.
CAMILLE è un pericolo, per sé stessa e per gli altri, una figlia di Trivia abbandonata in fasce, indesiderata, costretta a convivere con un lato di sé che non vuole fronteggiare, per paura di quello che potrebbe scatenare.
KIANA è una figlia di Venere, orgogliosa e testarda, che dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Tra auguri scansafatiche, eroici pretori e conflitti interiori nel Campo Giove, tre ragazzi diversi tra loro, tre nullità della Quinta Coorte, si ritroveranno con un obiettivo comune: imbarcarsi in un viaggio tra mostri, traditori, nuovi e vecchi nemici per impedire che il mondo sprofondi nel caos.
Genere: Avventura, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Ecate, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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VI

La dea in catene

 


L’ultima cosa che ricordava era un dolore atroce alle tempie, così forte da sembrare una lancia che le trapassava il cranio da parte a parte. Non aveva mai provato niente del genere, mai, e in anni e anni di addestramento e studi non aveva mai sentito o letto di qualcosa in grado di farla sentire in quel modo, come se la testa le stesse scoppiando dall’interno.

Ma studi e addestramenti non erano necessari per farle riconoscere quella cosa che sin da bambina aveva percepito scorrere dentro di lei: magia. 

Mentre era assalita da quel dolore lancinante aveva percepito la magia agitarsi nel suo organismo in maniera incontrollabile, al punto che aveva sentito la propria essenza sbriciolarsi mano a mano che tutto si faceva scuro attorno a lei. Non aveva idea di come facesse a essere ancora viva. Eppure era lì. 

O meglio, la sua mente era lì. Il suo corpo doveva trovarsi nell’infermeria del Campo Giove, o forse era ancora steso sulla riva del Piccolo Tevere, a seconda di quanto tempo fosse trascorso.

Non era morta, di questo ne era sicura. 

Okay, non ne era così sicura, ma se l’augurava almeno.

Attorno a lei c’erano soltanto tenebre. Un buio fitto e senza fine, così denso che nemmeno una luce sarebbe riuscito a penetrarlo e così spesso da poter quasi essere toccato.

Stava camminando, ma non sapeva nemmeno dove. Ogni cosa era uguale, non c’erano pavimento, né soffitto o pareti. Eppure i suoi passi riecheggiavano come se si trovasse dentro una caverna. 

Udì un tintinnio metallico all’improvviso, seguito da un gemito. Si fermò, pietrificata. Era un gemito di dolore. E il tintinnio… pareva quello di una catena. 

C’erano così tante cose che avrebbe voluto fare in quel momento. Svegliarsi era la prima tra queste. Purtroppo sapeva di non avere molta scelta: quello era un sogno, anzi, un contatto. Qualcuno l’aveva chiamata lì e non poteva andarsene finché non avrebbe visto ciò che chiunque fosse il mittente aveva da mostrarle, con o senza il suo volere.

Prese coraggio e andò avanti. Le tenebre cominciarono a diradarsi. L’oscurità su cui camminava si trasformò in un terreno roccioso, dissestato. Pareti di pietra apparvero accanto a lei rivelando una galleria, forse opera dell’uomo, o forse sbocciata da cause naturali. Era in pendenza. Stava scendendo, sempre di più. 

Un potere opprimente cominciò a permeare l’aria. Avvertì un’aura di malvagità pura provenire dal fondo di quella caverna, che la fece rabbrividire. Il desiderio di voltarsi e fuggire più lontano possibile da lì cominciò a farsi impellente, ma si sforzò di proseguire. Non correva pericoli, non era davvero lì. 

Anche questo si augurava.

Una luce cominciò a penetrare le tenebre, proveniente da più in basso. Un’altra sensazione le percorse il corpo. Avvertì di nuovo la magia scorrere potente nelle sue vene, facendosi largo in mezzo alla stretta soffocante sul suo petto. Era la stessa sensazione che aveva avvertito prima di svenire, ma molto più debole, come se perfino lei faticasse a coesistere con il potere sconosciuto che serpeggiava tra le pareti della galleria.

Ma lei la sentiva: era vicina.

Arrivo in un’ampia stanza sotterranea. Era alta, immensa, le torce che illuminavano le pareti gettavano ombre cupe sopra degli affreschi indistinguibili e, soprattutto, sulla persona inginocchiata al centro.

Una donna con una veste strappata e gambe, braccia e collo incatenati alle pareti e al soffitto da catene nere come la notte, che sembravano sorgere dall’oscurità. Attorno a lei c’era un cerchio perfetto, realizzato con qualcosa di terribilmente simile a sangue. 

«Camille» sussurrò lei, drizzando lo sguardo. La sua carnagione era di un candore innaturale, uguale a quello della ragazza; gli occhi erano neri, i capelli color oro stinti con striature bianche, che cadevano disordinati sul viso dalla bellezza fiera, ma distorta dalla sua espressione sofferente.

«Non… mi rimane molto tempo, Camille» disse ancora con voce spenta, così debole da sembrare un sussurro nel vento. 

Camille non aveva mai visto quella donna. Eppure, capì subito di chi si trattava. Si sentì calamitata da lei, attratta dalla magia che il suo corpo in catene emanava. C’era un legame invisibile, quasi impercettibile, ma presente, che la connetteva a quella donna. Si diresse verso di lei, sentendo lacrime invisibili scenderle dagli occhi incapaci di sostenere quella vista. 

«FERMA!» gridò la prigioniera. Gemette e accasciò la testa sul petto. Accennò appena con il mento al cerchio di sangue attorno a lei. Camille si accorse dei simboli di cui era composto: glifi di un linguaggio che non conosceva, appartenente ad un mondo che non esisteva più, disegnati in modo da formare quel cerchio perfetto attorno alla prigioniera. 

«I… sigilli…» sussurrò la donna. «Nessuno può avvicinarsi… li tiene lontani, ma non… dureranno molto…» 

La voce di Camille si incrinò: «Mamma…» 

Aveva desiderato tante volte di incontrarla. Aveva così tante cose da chiederle. Perché avesse scelto di concepirla come Trivia, e non come Ecate, come usare il suo dono, come controllarlo per evitare che altri si facessero del male. O magari aveva desiderato di incontrarla semplicemente per abbracciarla, per avere quel contatto materno che non aveva mai avuto, per versare quelle lacrime che non aveva mai versato, per sentirsi dire almeno una volta che le voleva bene.

Tutto si sarebbe aspettata, come primo incontro, tutto meno che quello.

Conosceva le storie di Trivia, o Ecate. Sapeva di cosa fosse capace. Era una delle dee più potenti, antiche, perfino gli Olimpi la temevano e rispettavano. Tutti gli dei si erano trovati in catene in un modo o nell’altro, almeno una volta, ma non lei. Non sua madre. Lei non poteva trovarsi davvero lì, prigioniera, ferita, pallida e debole. Camille non riusciva ad accettarlo.

«La magia… hanno… hanno la magia…» sussurrò Trivia. «La Foschia… non… posso…» Gemette, come colpita da una scossa. 

Un’altra voce femminile si levò nell’aria, fredda e pungente come un coltello: «Con chi stai parlando, sorellina?» 

Proveniva dalla galleria alle spalle di Camille. Trivia trasalì di nuovo. Cercò la figlia con lo sguardo, sembrando quasi… spaventata. «Non mi resta molto tempo. Dovete liberarmi. Dovete… dovete…» Abbassò di nuovo la testa. Perfino parlare sembrava costarle una forza incredibile. «… la magia… la Foschia… ho perso il controllo… sbrigatevi…»

Gli occhi della donna incontrarono ancora una volta quelli di Camille. «Solo tu… puoi trovarmi… il legame… seguilo. Trovami, Camille. Liberami prima che… sia troppo tardi.»

«Sorellina.» 

Qualcuno apparve dietro a Camille. Una donna con un lungo vestito rosso e capelli che sembravano di inchiostro, riposti con dolcezza sopra le spalle scoperte. Il mento era sporgente, il naso appuntito, gli occhi neri e freddi tanto quanto il suo sorriso spietato. Lo sguardo scintillava di una follia crudele, ebbro della vista della dea in catene. Aveva un tatuaggio sulla spalla, nello stesso punto in cui anche Camille aveva il suo, e quella coincidenza la inquietò. Sembrava una specie di stella, un simbolo a lei sconosciuto.

E non era sola. Una figura mastodontica sbucò dalle tenebre dietro di lei, posando i riflettori di luce cristallina che aveva al posto degli occhi su Camille.

Clizio.

«Non sono… tua sorella» riuscì a gemere Trivia, fiera e collerica nonostante la voce affaticata. «Io… sono un Titano. Non ho niente da spartire con voi.»

«Continua a ripetertelo. Magari diventerà vero, prima o poi.» La donna vestita di rosso spostò lo sguardo su Camille, che trasalì. Il suo ghigno crudele si distese. «E che cosa abbiamo, qui? Una figlia di cui non ci avevi parlato, Ecate? Credi davvero che lei ti aiuterà?»

Camille indietreggiò, seguita con lo sguardo sia dalla donna che dal Gigante. Non riuscì a rispondere, a causa degli occhi di diamante di Clizio che la scrutavano con interesse, seguendola in ogni movimento. Si sentiva come in prossimità di un buco nero che stava risucchiando via ogni fibra del suo corpo. Ora le era chiaro perché l’aria fosse così opprimente, era opera sua, dell’Anti Ecate. Camille però non aveva idea di chi fosse la donna misteriosa. Sapeva solo che si era rivolta a Trivia chiamandola Ecate, quindi doveva essere greca. 

La sconosciuta fece un passo avanti, analizzando madre e figlia con le dita che formicolavano. «Mi aspettavo una rappresaglia migliore da parte tua, sorellina. Di sicuro molto di più di un cerchietto sul pavimento e di una ragazzina terrorizzata.» 

«Entrambi saranno più che sufficienti per annientarvi» sibilò Ecate, a denti stretti. Involontariamente, aveva appena detto alla figlia di fidarsi di lei molto più di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Camille sentì un tuffo al cuore, mentre l’aria attorno a lei sembrava farsi ancora più pesante.

La carceriera fece un’espressione di finta commiserazione. «Che carina. E pensare che tutto questo si sarebbe potuto evitare se solo ti fossi unita a noi. Ora è troppo tardi. Ma non preoccuparti: avrai comunque un ruolo in prima fila nella buona riuscita del nostro piano.» Fece schioccare la lingua, divertita. «Peccato solo che non vivrai per vedere il resto.»

Spostò di nuovo lo sguardo su Camille. «Coraggio, nipotina. Vieni a cercare la mamma. Direi che…» Puntò un palmo verso di Trivia, e un fiume di energia oscura si riversò contro la donna in catene. Camille gridò, ma sua madre non venne scalfita: l’energia si abbatté contro un muro invisibile, attorno alla dea, e poi si dissipò senza aver arrecato alcun danno. La ragazza si accorse del cerchio sul pavimento, ora illuminato di un rosso acceso, i segni che sfrigolavano incandescenti. 

«Sì. A giudicare dalle condizioni di quei sigilli…» La donna vestita di rosso rivolse a Camille un ultimo, freddo, sorriso. «… non ti rimane molto tempo. Una settimana, cinque giorni, forse? Ti consiglio di sbrigarti. Mi divertirò un mondo con te e i tuoi amici.»

Camille sentì un brivido percorrerle il corpo che non aveva. Cercò sua madre con lo sguardo, ma Clizio sollevò una mano; la nebbia nera cominciò a salire da terra, avvolgendo tutto quanto.

Lo sguardo smorto di sua madre e il sorriso sadico della carceriera furono le ultime cose che Camille vide prima che tutto svanisse.

 

***

 

Un mugugno infastidito le scappò quando venne accecata dall’inconfondibile bianco delle pareti dell’infermeria. I suoi occhi erano molto più sensibili alla luce di quanto avrebbe voluto, per via del loro colore così chiaro.

Il dolore alla testa si palesò per primo, subito seguito da nausea e vertigini. In breve, si sentiva un vero schifo e avvertiva ancora addosso i residui della battaglia. Sollevare quella barriera magica contro la nebbia di Clizio le era costato molto più caro di quanto avesse dato a vedere, tanto che aveva creduto di poter svenire proprio in quel momento. Era stato come se ogni sua energia fosse stata risucchiata via non appena era entrata in contatto con il potere del gigante. Non aveva mentito affatto dicendo di essere l’anti magia, e le voci sul suo conto non erano affatto esagerate, anzi, le era parso pure il contrario. 

Sbatté le palpebre, cercando di scacciare macchie che baluginavano davanti ai suoi occhi. Un brusio sommesso di voci indistinte e ovattate arrivò alle sue orecchie. Riuscì appena a drizzare la testa, ma non vide altro che una tendina che circondava il suo letto, dietro la quale poteva scorgere alcune ombre muoversi, andando avanti e indietro, di sicuro gli altri occupanti dell’infermeria.

Tentò di scendere dal letto, ma un’altra ondata di vertigini la costrinse a rimanere ferma: le sembrava di avere il cervello ridotto a una mousse.

Il suo sguardo scese lungo il lettino e si accorse di non essere sola. Si ritrovò a sorridere intenerita, osservando Kiana accasciata in maniera scomposta sulla sedia al suo capezzale, intenta a russare con la testa rivolta all’indietro e due rivoli di bava che le sgorgavano dagli angoli della bocca spalancata.

Non era proprio un bello spettacolo Kiana, quando dormiva. Purtroppo ai semidei non erano concessi i cellulari, sennò avrebbe avuto un album pieno delle pose ed espressioni assurde che faceva di notte, nei dormitori. Però era rimasta con lei. Quel pensiero le infuse gioia da una parte, e tristezza da un’altra. Però magari Daniel aveva preferito non rimanere lì, mentre era priva di sensi, o magari gli avevano dato altro da fare e non era riuscito a fermarsi. 

Per un attimo valutò se lasciare dormire la sua amica, visto che sembrava davvero crollata in un sonno profondo, però cominciò a sentire le vertigini allentarsi e il senso di nausea venire meno, quindi presto avrebbe potuto alzarsi di nuovo, e in ogni caso non aveva un attimo da perdere. 

«Ehi, Kiana» la chiamò, allungando appena il braccio verso di lei. Posò la mano sul suo ginocchio e cominciò a scuoterlo. «Sveglia.»

Kiana chiuse la bocca ed emise un mugugno che sembrava il verso di un affamato di fronte ad un piatto fumante di spaghetti. E la bava rendeva il paragone ancora più verosimile.

«Sveglia, Kiana!»

«Ah…»

«Kiana!»

«Ah! Sì, sì, sono…» Gli occhi ancora appannati dal sonno di Kiana si schiusero a rallentatore, poi si strofinò le palpebre e sbadigliò senza coprirsi la bocca, prima di asciugarsi la bava con il dorso della mano, da vera damigella quale era. «Cam!» 

Ogni traccia di stanchezza svanì quando si accorse che era desta. Si sporse verso di lei, quasi sdraiandosi sul materasso, e le stritolò le guance. «Stai bene!» 

La sua voce sorpresa e gioiosa si tramutò presto in una infastidita. «Non azzardarti mai più a svenire in quel modo! Mi hai fatto prendere un colpo, lo sai?!»

Camille provò a liberarsi dalla stretta, ma le sembrò di essere un gattino che provava a sfuggire dalle zampone di un alano. 

«Scusa» cercò di dire, riuscendo comunque a ridacchiare. «Ti prometto che non lo farò più.»

Kiana piantò i suoi occhi multicolore sui suoi. Era corrucciata, ma era chiaro che sotto quella maschera arrabbiata nascondesse del sollievo. Emise un grugnito e si allontanò da lei. «Bene.» 

Tornò a sedersi composta sulla sedia, liberando il suo corpo gracile dalla pressa di quel fisico da body builder. Doveva essersi cambiata dopo la battaglia, perché aveva indosso dei leggins neri e un top grigio fumo, che lasciava scoperta la pancia scura e piatta, con un accenno di addominali, e le spalle ampie e tonde seguite da quei bicipiti con cui avrebbe potuto spaccare un’anguria. I capelli invece erano raccolti in una coda che però non aveva incluso anche la frangia, che invece cadeva scomposta sulla sua fronte.

Anche Camille avrebbe voluto cambiarsi gli abiti strappati e maleodoranti, magari farsi pure una doccia, ma prima doveva andare da Ashley. Provò a mettersi seduta sul materasso, ma venne travolta da un’altra scarica di vertigini. 

«Aspetta, Cam! Devi dirmi che cavolo ti è preso!»

«Non… c’è tempo» riuscì a farfugliare lei, di nuovo annebbiata dalla nausea. «Prima…»

Tentò di alzarsi dal letto e per tutta risposta le gambe la abbandonarono, facendola precipitare in avanti. Kiana la prese al volo prima che tirasse una facciata al pavimento, senza battere ciglio. Per lei doveva essere come raccogliere un pupazzo di peluche. 

«Ma dove vuoi andare, ridotta così?» la sgridò, prima di afferrarla sotto la schiena e le ginocchia e sollevarla come una principessa. Camille gridò, reggendosi al collo dell’amica, e si ritrovò sospesa a mezz’aria sopra il materasso. 

«Stai giù» ordinò Kiana, lasciandola andare. 

Cam atterrò sul lettino con un altro gridolino a metà tra lo sconvolto e l’indispettito. Lanciò un’occhiataccia alla figlia di Venere, che le sogghignò beffarda dall’alto. «E resta lì. Ti cerco dell’ambrosia.»

Svanì dietro le tende prima che Camille potesse urlarle dietro. La figlia di Trivia mugugnò infastidita e sprofondò nel materasso. Sì, aveva davvero bisogno di quell’ambrosia. Rimase a osservare il soffitto, mentre al di là delle tende poteva sentire Kiana che sbottava contro qualcuno, forse proprio nel tentativo di mettere le mani sul medicinale.

Più tempo trascorreva così, più si sentiva inquieta. Doveva correre da Ashley per avvisarla del sogno che aveva fatto. Aveva bisogno di raccontare quello che aveva visto. Clizio, la donna misteriosa, Trivia, anzi, Ecate in catene… rischiava di impazzire tenendosi tutto dentro. 

Camille cercò l’orecchino a forma di triquetra con la mano. Quei gioielli con il simbolo della madre erano il suo porto sicuro, ogni volta che si sentiva male per qualcosa le bastava sfiorarli e si sentiva subito meglio. 

Quando aveva scoperto di essere una semidea, aveva pensato alle volte in cui quando era bambina si era sentita da sola, smarrita, senza un luogo dove andare o dove stare; ogni volta che aveva creduto di non avere vie di scampo, aveva sempre trovato una nuova strada da percorrere. E strada dopo strada era arrivata al cospetto di Lupa, che l’aveva indirizzata verso la sua nuova casa.

All’inizio aveva pensato di essere stata fortunata, ma dopo aver saputo che Trivia era anche la dea delle scelte e dei percorsi, aveva capito che la fortuna non c’entrava un bel niente: era stata sua madre ad aiutarla, guidandola con la sua mano invisibile.

Per questo motivo, nonostante tutto, si sentiva orgogliosa di essere una figlia di Trivia e aveva accettato a testa alta tutte le implicazioni che la cosa portava: essere figlia di una dea vergine, l’unica in tutto il campo, e possedere il dono della magia, qualcosa che i romani non vedevano proprio di buon occhio. La magia era un’arma pericolosa, volubile e imprevedibile, che andava contro ai principi su cui si basava la legione. 

Trivia l’aveva aiutata e l’aveva protetta. Adesso, però, era lei ad avere bisogno di sua figlia. E Camille l’avrebbe salvata, a qualsiasi costo.

Si rese conto di avere solo un orecchino, quello sinistro. L’altro, quello che si trasformava nella daga, mancava all’appello. Trovò la sua spada poggiata a terra, contro il comodino accanto al letto, e si sporse per raccoglierla. Quell’arma era come lei, l’unica in tutto il campo. Se la girò tra le mani, accarezzando la lama di pregiato Oro Imperiale. Sfiorò poi il simbolo inciso sull’elsa, la Ruota di Ecate, per riconvertirla in orecchino, ma non accadde nulla. Camille corrucciò la fronte, confusa. Riprovò svariate volte, ma la spada continuò a non cambiare forma. 

«Non funziona.» La voce di Kiana la fece trasalire. Era appena rientrata, con un incarto di ambrosia tra le mani. Lo posò sul comodino, poi accennò alla spada con il mento. «Le armi non si trasformano più in oggetti. E gli oggetti non si trasformano più in armi. Ce ne siamo accorti poco dopo la battaglia, mentre ci occupavamo dei feriti» spiegò, tornando a sedersi.

Camille fu scossa da un brivido. Ripensò a quello che Clizio aveva detto dopo la battaglia, sul fatto che avevano la dea, e il controllo della Foschia, e anche e a quello che aveva sentito da Ecate, nel sogno. Un’idea di quello che stava succedendo prese forma nella sua mente e si augurò con tutta sé stessa di starsi sbagliando. Agguantò l’ambrosia e la divorò senza troppi complimenti. Mentre il sapore della mousse al cioccolato si diffondeva nel suo palato cercò di nuovo di alzarsi, senza nemmeno aspettare che l’ambrosia facesse davvero effetto. Non c’era più un solo istante da perdere.

«Aiutami, Kiana. Devo… vedere Ashley.»

«Non esiste Cam, prima devi…»

«Adesso, Kiana» ordinò. Cercò di apparire determinata, ma era sicura di essere apparsa più angosciata che altro. E anche l’amica sembrò accorgersene, perché si fece seria e la aiutò ad alzarsi senza perdere altro tempo. 

«Ma che succede, Cam?» le domandò, reggendola al fianco mentre faceva i primi passi.

«Te lo spiego strada facendo» sussurrò Cam. Non le andava di parlarne lì, con il rischio che qualcun altro la sentisse. Anche se il rischio era minimo, constatò, perché nell’infermeria erano tutti presi dalle loro faccende, o dai loro amici feriti. Vide Kyle Greenwood in compagnia di alcuni figli di Apollo e Asclepio, intenti ad occuparsi di un ragazzo che non conosceva, della Prima Coorte forse, coperto di bruttissimi tagli. E poco distante vide anche David, seduto al capezzale di Travis, che aveva la testa fasciata e il viso gonfio e tumefatto, sfumato di nero, blu e viola. Per un attimo rimase immobile, a osservare il suo compagno della Quinta Coorte, dimenticandosi perfino del problema più urgente.

«Cosa… cosa gli è successo?» domandò a Kiana, con un soffio di voce.

Anche lei stava guardando il figlio di Mercurio, mesta. Scosse la testa. «Un ciclope l’ha colpito con un masso. Gli si è accartocciato l’elmetto sulla testa. Il metallo ha…»

«Basta.» Camille non volle sapere altro, sentendosi in procinto di scoppiare a piangere. E la sensazione peggiorò quando si accorse dello sguardo devastato di David, che aveva gli occhi arrossati. Si era rimesso la medaglia che Ashley gli aveva dato, la stessa che Travis ancora indossava, e quel dettaglio le lacerò il petto.

Ricordava Travis sempre con quel sorrisetto beffardo, da figlio di Mercurio, che però era sempre stato molto diverso da quello dei suoi fratelli più grandi. Non aveva mai tradito alcuna cattiveria, o malizia, era sempre divertito, rilassato, e soprattutto entusiasta. Vederlo così, fasciato, ferito, quasi irriconoscibile… non riusciva ad accettarlo.

«Dai, vieni» mormorò Kiana, avvolgendole le spalle e parandosi quasi di forza tra lei e il letto, per nasconderlo alla sua vista. Camille era certa che se non ci fosse stata lei sarebbe crollata. 

Mentre attraversavano l’infermeria, nessuno le fermò per domandare nulla. Erano tutti troppo impegnati. Una cosa che Camille notò, era che, a parte Travis e Allen, non c’era nessun altro ricoverato della Quinta Coorte. Non appena lo fece notare a Kiana, lei riuscì a sorridere di nuovo. «La Quinta Coorte non ha riportato nessun decesso o ferito durante la battaglia. Solo Allen e Travis sono ricoverati.»

Camille rimase genuinamente sorpresa. Sapeva che la quinta era valida, proprio come tutte le altre, ma non si sarebbe aspettata una simile notizia nemmeno dalla prima. Sapere che tutti i suoi amici stessero bene riuscì a rincuorarla un po’. 

C’era un’aria grigia nel campo, come Camille mai aveva visto. A giudicare dal cielo al di sopra della Via Principalis, doveva essere tardo pomeriggio. Tutti i passanti non le degnarono di una seconda occhiata, continuando per la loro strada. Nonostante avessero ricacciato gli invasori, c’erano comunque state perdite, ed era evidente dalle espressioni cupe di tutti i legionari che nessuno credeva che quell’attacco sarebbe stato l’unico.

I fauni giravano senza meta come sopravvissuti dall’apocalisse. Kiana le disse che anche diversi di loro non ce l’avevano fatta. Gus si avvicinò per chiedere notizie di Travis e se ne andò con aria mesta dopo aver saputo delle sue condizioni. Almeno anche lui stava bene.

I lari fluttuavano in aria come spiriti in pena, questa volta in tutti i sensi della parola. Nemmeno Vitellio sembrava in vena di urlare contro i passanti della Quinta Coorte. Sembrò “ravvivarsi” soltanto quando vide Camille.

«Oh, grazie agli dei, almeno lei sta bene!» gridò, inchinandosi di fronte a lei. «È un vero sollievo, principessa!»

«Principessa?» domandò Kiana, con una vena di divertimento nella voce. 

Camille seppellì il volto tra le mani. «Ti avevo detto di non chiamarmi così, Vitellio…»

«Le mie umili scuse!» Il lare chinò così tanto la testa che per poco non la infilò nel terreno.

«E non essere così formale!»

«Chiedo umilmente perdono!»

Vitellio si defilò, mentre Kiana faticava a trattenere una risatina. Man mano che si avvicinavano alla Principia, Cam raccontò il proprio sogno a Kiana. Strinse la presa sulla daga, facendo fatica a trovare le parole, mentre parlava di sua madre incatenata. 

L’espressione divertita di Kiana svanì molto in fretta. «Quindi… quindi senza Ecate… è scomparsa la Foschia?»

Camille abbassò lo sguardo. «Ho paura di sì.»

«Questo… è un bel casino.»

Nessuno avrebbe potuto trovare parole migliori.

«Significa che… che i mortali possono vedere i mostri, ora?! E che possono vedere il campo? E che…»

«Non lo so» tagliò corto Camille, inorridita al solo pensiero di quali conseguenze la scomparsa di sua madre avrebbe potuto avere. «Non voglio nemmeno pensarci.»

Le guardie della Principia sbarrarono loro la strada, incrociando le lance di fronte alla porta. 

«I centurioni e i pretori sono in riunione. Nessuno può entrare» asserì una di loro, un ragazzino esile tutto sommato, con l’armatura che sembrava grossa il doppio di lui. Stringeva la lancia con forza, la testa alta, il petto all’infuori, ma sembrava nervoso. E il suo collega non era da meno. Non facevano altro che lanciare occhiatine a lei e a Kiana, ad intermittenza. 

Certo, erano la strega e la figlia di Venere con l’abitudine sgradevole di alzare le mani, il loro nervosismo era comprensibile. Camille tentò di spiegare di avere un’urgenza, di dover parlare con Ashley al più presto, ma quelli non sentirono ragioni. 

«I pretori non hanno tempo da perdere con quelli della Quinta Coorte» sbottò l’altra guardia, dopo essere rimasta in silenzio.

Camille storse il naso, molto più punta dal commento di quanto avrebbe voluto. Kiana, invece, sospirò e fece un passo avanti. Non disse una parola: afferrò i due per gli elmetti, strappandogli dei gemiti sorpresi, e poi li fece scontrare in un riverbero metallico. Entrambi stramazzarono come manichini da allenamento, le lance che rotolavano sul pavimento, sotto lo sguardo atterrito di Cam. Rimasero a terra a tenersi per gli elmetti e a mugugnare storditi. 

«Entra, forza, io rimango a fare compagnia a questi due» mugugnò Kiana, accennando con la testa alla porta. 

«Ma… ma hai… hai…»

«Sbaglio o avevi fretta?» la interruppe la sua amica. «Muoviti, me la vedo io qua fuori.» 

Camille lanciò un altro sguardo angosciato a quei due poveretti riversi a terra, che con tutta probabilità erano stati messi lì in fretta e furia per via della situazione straordinaria in cui erano capitati. Si augurò che Kiana non avesse fatto loro troppo male, e soprattutto che Kiana stessa non finisse nei guai per averli stesi. 

Farfugliò delle scuse e passò oltre. Infilò la daga nella cintura e spalancò la porta, entrando così nel quartier generale del Campo Giove. Sopra la sua testa, l’immenso affresco di Lupa assieme a Romolo e Remo sembrò scrutarla severa.

Al fondo della stanza vide i centurioni disposti di fronte al tavolo a cui sedevano i pretori, da cui poteva chiaramente udire la voce di Ashley. Erano tutti quanti lì, gli unici a mancare all'appello erano Kyle Greenwood e Allen. Poco distante, appoggiato contro la parete, con la testa bassa ed estraneo a tutta la discussione, c’era anche Dante.

Non appena il portone si richiuse alle sue spalle con quel tonfo secco che riecheggiò in tutta la stanza, Camille cominciò a sentire la mancanza del mondo esterno. Otto centurioni, i due pretori e l’augure si voltarono verso di lei. Ventidue paia di occhi diversi che la scrutarono con stupore, diffidenza e disgusto.

«Gray.» Ashley si alzò dal suo scranno. «Che ci fai qui? Perché Amedeo e Ian ti hanno fatto passare?»

«I-Io…» Camille esitò. Ora conosceva i nomi di chi Kiana aveva steso. Mentre osservava tutti i presenti le sembrò di essere di nuovo nella galleria angusta e soffocante del suo sogno, solo che quella era la realtà, ed era molto peggio: quei centurioni delle coorti più alte non si sarebbero fatti scrupoli a farla a brandelli per davvero. Cercò lo sguardo amico di Marianne, ma pure lei sembrava confusa. 

«Ho… ho bisogno di parlare con te ed Elias» riuscì a dire.

«Ma sei cieca?» sbottò una ragazza con una coda di capelli castani e un bustino d’armatura. Cassie Collins, figlia di Marte, centurione della Prima Coorte. La numero uno dopo Elias e Ashley. «Non vedi che siamo in riunione?»

Un brusio di approvazione si sollevò in aria, ma Ashley lo zittì sollevando una mano. Cercò di usare un tono più amichevole: «Gray, adesso non possiamo parlare. Ho cose urgenti di cui discutere con i tuoi compagni. Ma se tu…»

«So come hanno fatto a varcare i confini.»

Il silenzio scese all’improvviso. Ora tutti la squadravano come se fosse pazza. Camille deglutì, poi prese coraggio e cominciò ad avvicinarsi a tutti loro. 

«Ho… fatto un sogno» cominciò, incerta. «Ho visto Clizio. E una donna con i capelli neri e un tatuaggio sulla spalla. Non so chi fosse, però erano chiaramente alleati, e avevano…»

«Tatuaggio?» si intromise Dante, che aveva gli occhi arrossati. Pareva essersi appena ripreso da una pennichella. «Che tatuaggio?»

Camille si interruppe, sorpresa dalla domanda. «Ehm… era una specie di stella, non so bene come descriverlo.»

«Carino» fu l’unico commento dell’augure, prima che se ne tornasse a fissare il pavimento come se fosse la cosa più incredibile che avesse mai visto.

La ragazza corrucciò la fronte, confusa.

«Gray» cercò ancora di dire Ashley, con voce tesa. «Sei davvero sicura di non poter aspettare?»

«Non posso» affermò Camille, affondando le unghie nei palmi. «Non c’è un solo attimo da perdere.»

Il pretore la osservò in silenzio, mentre i centurioni borbottavano tra di loro, in dissenso. «Andiamo, Ashley» disse uno di loro. «Vuoi davvero darle retta? È soltanto…»

«Camille ha contrastato i poteri di Clizio» asserì Marianne, lanciandogli un’occhiataccia. «Se c’è qualcuno che dovremmo ascoltare, quella è proprio lei.»

«Certo, tu e i tuoi amici della Quinta Coorte dite così, ma chi ci dice che invece non vi siete solo svegliati per primi?»

Marianne strinse i pugni. In quel momento, assomigliò molto a Kiana. Soprattutto per lo sguardo omicida che lanciò a quel tizio.

«Basta» ordinò Ashley, alzando di nuovo una mano, prima di riportare lo sguardo su Camille. «Ti ascolterò, Gray. Voialtri, uscite tutti.»

I centurioni fecero dei versi sorpresi. 

«Ma…» provò a dire Cassie, prima che Ashley la liquidasse. 

«Andate, forza. Riprenderemo la riunione questa sera.»

Vi furono altri mugugni di dissenso, poi i centurioni cominciarono ad allontanarsi. Rivolsero diverse occhiatacce a Camille, mentre le passavano accanto. Marianne le posò una mano sulla spalla, cercando di esserle di conforto, poi anche lei seguì gli altri. 

«Tu rimani, D’Amico» sbottò Ashley, rivolta a Dante, che si era infilato in mezzo ai centurioni. Difficile non notarlo, visto che era un altro dei pochi ad essere alto come Kiana. 

L’augure si voltò con un sorrisetto colpevole e si massaggiò dietro la testa. «Avevo capito male, mea culpa.»

Ritornò sui propri passi con la stessa energia di un morto vivente. Sembrava Daniel di mattino presto, anzi, pure peggio. Camille sollevò un sopracciglio, sempre più stranita da quel tizio, poi sussultò quando il portone si chiuse di nuovo alle sue spalle, lasciandola sola con Ashley, Dante, e anche Elias, che era rimasto seduto per tutto il tempo, senza dire una sola parola.

«Siediti, forza.» Ashley indicò una delle sedie rimaste vuote di fronte al tavolo, prima di riaccomodarsi con un sospiro. 

Camille si avvicinò seguendo Dante, che invece tornò a rimettersi con la schiena al muro, le braccia conserte e un’espressione di sconforto puro dovuta a chissà che cosa. Cam si chiese cosa gli passasse per la testa. Non aveva parlato spesso con lui, lo conosceva giusto di nome, e di fama, o infamia. Sapeva però che il ruolo dell’augure era malvisto da quando uno di loro, impazzito per il potere, per poco non aveva causato una guerra tra greci e romani. Magari Dante era dispiaciuto per quello, ma non poteva saperlo con certezza.

Si sedette di fronte ai due pretori e venne scrutata dalla testa ai piedi da entrambi. Avvampò, realizzando che quella doveva essere la prima volta in assoluto in cui Elias la degnava di uno sguardo per più di un secondo. 

Ashley appoggiò le mani sui braccioli dello scranno. «Ciò che ha detto il tuo centurione è vero, Gray. Hai resistito al potere di Clizio, ed è grazie a te se ora siamo in possesso di informazioni preziose, quindi ti ascolterò. Parlami di questo sogno.»

Camille inspirò profondamente, poi raccontò ogni cosa, senza tralasciare nulla. Come con Kiana, sentì una fitta al petto parlando di sua madre imprigionata, ma si fece forza e andò fino in fondo. Credeva che i due pretori avrebbero accolto con più coraggio la notizia, ma anche loro sembrarono sconvolti tanto quanto lei. Quando finì di parlare, un silenzio pesantissimo si abbatté sulla Principia. Una sfumatura di angoscia sembrò baluginare perfino sul volto sempre impassibile di Elias, mentre la sicurezza di Ashley vacillava. 

«E al richiamo della dea imprigionata…» Dante fu il primo a rompere il silenzio, sporgendosi dal muro e allungando il collo verso Camille. Si grattò la barba, scrutandola dall’alto con espressione quasi spiritata. «… dovrà accorrere la figlia abbandonata. Ma certo! Ora è tutto chiaro!»

Ashley cercò di intromettersi: «Aspetta, Dante…»

«Con la sparizione del velo invisibile, apparirà la minaccia più temibile. E al richiamo della dea imprigionata, dovrà accorrere la figlia abbandonata! Tutto combacia, Ashley! Dobbiamo subito…»

«D’Amico!» esclamò Ashley, alzandosi in piedi. Ogni traccia di entusiasmo svanì dal volto dell’augure, che si ammansì come un cagnolino spaventato.

«Non possiamo esserne certi» disse la figlia di Giove, grave, mentre Dante indietreggiava. Il pretore riportò lo sguardo su Camille, e annuì. «Grazie per avermene parlato. Ne proferirò anche con i centurioni, e cercheremo di capirne di più. Puoi andare.»

Camille schiuse le labbra. «Ma… e mia madre? Mi ha detto di trovarla, che ho un legame con lei, che…»

«Gray.» Ashley appoggiò i palmi al tavolo, rivolgendole un sorriso stanco. «Non preoccuparti per tua madre. In quanto pretore, è mio dovere farmi carico di questa faccenda. La troverò, e risolverò questa situazione. O forse non hai fiducia in me?»

«Sì, certo che mi fido, però…»

«Che cosa? “Però” che cosa?» Il tono di Ashley assunse una strana sfumatura. «C’è qualche problema, Gray?»

Quella voce dura fu come una sassata. Camille rimase in un silenzio attonito, sotto l’esame degli occhi severi del pretore. Non c’era più alcuna traccia del suo sorriso, mentre nelle sue iridi celesti stava lampeggiando una durezza che Camille aveva scorto soltanto quando il campo si era trovato sott’attacco.

«Siamo appena stati attaccati, Gray, e abbiamo scoperto che una dea molto importante è stata rapita. L’ultima cosa di cui ha bisogno il Campo Giove in questo momento, è insubordinazione.»

«I-Insubordinazione? Ma… ma io…»

Un colpo di tosse la zittì. Si voltò verso di Dante, che si stava battendo il pugno sul petto, tossicchiando e schiarendosi la gola.

«Oh, perdonami» le disse, abbozzando un sorriso di cortesia, ma il suo sguardo tradì la sua emozione di reale angoscia. Scosse la testa impercettibilmente. «Non volevo interromperti. Davvero.»

Camille schiuse le labbra, sempre più confusa dal comportamento assurdo di tutti quanti.

«D’Amico» lo richiamò Ashley infastidita. «Potresti sforzarti di essere professionale almeno in una situazione di emergenza come questa?»

«C-Chiedo scusa.» Dante chinò la testa con fare nervoso.

Ashley alzò gli occhi verso il regno di suo padre, poi riportò l’attenzione su Camille. «Che stavi dicendo, Gray?»

Sembrava quasi che la stesse sfidando con lo sguardo a ripetere la stessa frase di prima. Camille, però, non era affatto in vena di accettare quella sfida. «N-Niente.»

«Bene.» Ashley annuì soddisfatta. Sorrise di nuovo, ma non fu uno dei suoi sorrisi abituali. Parve invece che si stesse sforzando di mantenere l’immagine gentile di sé intatta. Si lisciò gli abiti sotto il corpetto d’armatura e tornò a sedersi composta. Per tutto il tempo, Elias era rimasto immobile come una statua.

«Siamo tutti nella stessa barca, Gray. Se ci intralciamo a vicenda, finiremmo soltanto con l’affondare. Lo capisci, vero?»

Camille non capiva proprio niente, invece. Lei non voleva intralciare proprio nessuno! Stava per parlare di nuovo, ma si rese conto di avere gli occhi di Dante puntati su di lei. Ripensò al modo in cui l’aveva interrotta poco prima e deglutì. «S-Sì… capisco, Ashley.»

«Allora non hai niente di cui preoccuparti, Gray. Mi occuperò di questa faccenda, puoi stare tranquilla. Sono stata contattata anche io da mio padre, questa mattina. Mi ha detto che qualcosa di importante stava per accadere, e deduco che parlasse proprio di questo.»

Elias mostrò finalmente un’altra traccia di emozione. Corrugò la fronte e rivolse alla sua collega uno sguardo interrogativo.

«Davvero?» domandò anche Dante. «Ma non ce ne hai…»

Un’occhiataccia da parte di Ashley lo zittì all’istante.

«In ogni caso…» proseguì lei, con un tremolio nella voce. «… presto farò in modo che tutti voi riceviate direttive su come comportavi in questa situazione di emergenza, e mi aspetto che le seguiate alla lettera. Ma terrò conto del tuo prezioso contributo, Gray. Ora puoi andare a riposarti. Hai fatto e subito molto, di certo sarai stanca. Ti chiedo solo di non parlare del tuo sogno con nessun’altro. Non possiamo rischiare di seminare il panico tra le nostre fila. Posso avere la tua parola?»

Ancora una volta, Camille sapeva che c’era solo una risposta che poteva dare. Dopo aver avuto la sua parola, Ashley si rivolse al ragazzo accanto a lei: «Elias, accompagnala fuori.»

Il figlio di Plutone rimase fermo per qualche istante, a osservare ora Camille, ora Ashley.

«Elias? Che cosa stai aspettando?» lo incalzò ancora una volta la sua collega.

Elias serrò le labbra, ma si alzò comunque in piedi, cupo in volto. Si avvicinò a Camille, che si sentì piccola come mai era stata in vita sua. Le gambe cominciarono a tremarle e il cuore minacciò di schizzarle fuori dal petto, ma non era per via della gigantesca cotta che aveva per lui. Cominciò a sentirsi di troppo in quella stanza, come se l’aria fosse diventata ostile all’improvviso.

Il pretore le indicò con il mento la porta e lei non poté fare altro che voltarsi e obbedire. Mentre usciva, incrociò ancora lo sguardo di Dante, rimasto in disparte, e si accorse delle sue spalle rilassate, ma anche dei suoi occhi tristi e angosciati.

«D’Amico» lo chiamò ancora Ashley, facendolo sussultare. «Dobbiamo parlare.»

La reazione dell’augure fu la stessa che avrebbe avuto un condannato al patibolo. L’ultima cosa che Camille vide, prima che Elias chiudesse la porta della Principia di fronte a lei, fu Dante che si sedeva a testa bassa di fronte ad Ashley.

   
 
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