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Autore: Il_Signore_Oscuro    11/12/2021    1 recensioni
"Nelle complesse fila che compongono la Trama e la storia del mondo, esiste un'unica costante che - col volgere delle epoche - si ripete, pur con esiti diversi.
L'Ikvalibriam, la battaglia dell'equilibrio, è lo scontro finale fra il Bene e il Male reincarnato. Una battaglia in cui regni, nazioni, imperi si schierani in favore dell'uno o dell'altro.
Nella notte che precede l'ultimo di questi Ikvalibriam, Kudai viene convocato dalla Sua Signora. E scoprirà di rivestire nella Trama un ruolo molto più importante di quanto non abbia mai creduto..."
Se siete alla ricerca di un'epica saga fantasy d'ampio respiro, questa è la storia che fa per voi. Epiche battaglie, personaggi complessi e ricchi di fascino, ambientazioni magiche. Se per un attimo vuoi evadere dal mondo e dalle sue brutture, dammi la mano e segui con me questo viaggio...
[Aggiornamento: ogni domenica]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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PROLOGO


 
 
Il plenilunio splendeva gelido in una mezzanotte perfetta. Le nuvole erano lontane. Avevano lasciato il posto alle stelle, che gremivano il cielo nei reticolati che solo gli astronomi sapevano districare. E certo, Kudai non era un astronomo: una vita di assorta contemplazione non faceva per lui.      
Eppure, provava una sensazione di pace, quando di tanto in tanto osservava quei puntini bianchi, tutti uguali, sopra la sua testa. Se li guardava per abbastanza tempo, avvertiva una sensazione di vertigine: il curioso sentore di precipitare verso il cielo e perdersi nel vuoto. Era quando lo assaliva quella curiosa fantasticheria, che tornava immediatamente con lo sguardo per terra. Rammentando che era lì il suo posto, non fra le stelle.

Fra i due promontori che delimitavano la via verso la montagna, si estendeva una pianura brulla, dalla terra dura e nera, sotto la luce lunare. Laggiù, i millenni di feroci battaglie avevano consumato ogni possibilità che qualunque forma di vita potesse attecchire. Persino le erbacce più resilienti si erano arrese alla desolazione.   
Sulla piana, come un osservatore silente, incombeva il monte Citra, dagli spuntoni smussati dal lento lavorio dei venti. La roccia emetteva un lieve albedo, rifrangendo la luce della luna, e la pietra che componeva ogni tratto della montagna appariva all’occhio come composta di cera friabile. Nessuno conosceva la ragione dietro un simile colore, ciò che vi era di certo era che stare al cospetto del Citra dava una sensazione di profonda solennità: quasi la montagna raccontasse, con voce invisibile e senza parole, gli Ikvalibriam che generazione dopo generazione si erano consumati sotto i suoi occhi.
Del resto, ogni cosa, vivente e non, agli occhi di Kudai sembrava partecipare dell’Ikvalibriam. Il vento, pur con il nulla a ostruirlo, si rifiutava di soffiare e pareva essersi nascosto nel cuore stesso della terra. Gli animali notturni se ne stavano zitti, chiusi nelle loro tane e l’aria era così densa, così carica di tensione, da andar giù a fatica nei polmoni.

Kudai allungò lo sguardo al basso promontorio che accoglieva gli accampamenti del Nakhtife: fuochi da campo gremivano il terreno e fuochi di ben altra natura rollavano in aria.     
Con l’oscurità e a quella distanza, gli era impossibile distinguere il colore e i simboli che fregiavano insegne, padiglioni e stendardi dell’esercito nemico. Ma le voci correvano fra il popolino, giungendo sino alle orecchie dei più alti gradi del Circolo – lui compreso. 
I popoli nomadi de le Steppe del Vento, città indipendenti dell’Arcipelago del Tartaro e persino una rappresentanza di quei bastardi dell’Impero di Falconia. Al solo pensiero l’ira risalì alle tempie come una fitta e Kudai sputò in terra, maledicendoli con tutto il cuore.        
“Come ci si può schierare al fianco di una creatura maligna e abbietta come il Nakhtife? Lui che è il male assoluto e irredimibile.”  
In tempi più antichi e più nobili, quando il Nakhtife si palesava nel mondo, non c’era essere senziente, regno, impero o nazione che non si schierasse al fianco del Gilmorgen per ricacciare quel mostro nell’ombra che l’aveva vomitato fuori. Ma ora i tempi non erano più antichi, né più tanto nobili; e i sovrani – dimentichi della salvezza della propria anima – preferivano schierarsi con colui o colei che prometteva maggiori vantaggi e migliori possibilità di vittoria.       
Come se l’Ikvalibriam fosse soltanto l’ennesimo, banale, banco per i loro effimeri giochi politici, e non invece la battaglia finale fra il Bene e il Male.       
E vano era ogni appello del Circolo, ahimè…   
Fu in preda a simili ragionamenti e contemplazioni che Kudai giunse alle soglie della tenda della Gilmorgen: il padiglione, di un bianco latteo venato di ricami d’oro, era stato posto ad una certa distanza dal resto del campo. Spessi tendaggi di tessuto argentato sigillavano l’unica entrata, dalla quale non proveniva neanche una singola lama di luce.
“Ti sta aspettando” rimuginò Kudai, controllando che le fasce del kimono fossero ben chiuse sul petto e saggiando che la lama della sua spada ricurva avesse ad uscire agevolmente dal fodero, all’occorrenza. Era assai improbabile che il Nakhtife o i suoi seguaci si arrischiassero ad una sortita notturna, ma era sempre bene esser pronti ad ogni evenienza.  
Kudai passò le dita sugli otto anelli in filo d’oro, ricamati ad arte sulla falda sinistra del kimono. Quasi che ricordare il suo grado servisse, in qualche modo, a placare il timore, degno di una recluta, che lo attanagliava ad ogni convocazione della sua Signora.     
Riconosciuto che tutto era in ordine, si inoltrò nella tenda della Gilmorgen.     
All’interno il buio copriva ogni cosa. Le tenebre sembravano essersi fatte più fredde e fitte. Le loro dita incombevano sulla pelle, viscide come spire di serpe e scavavano con artigli crudeli sin dentro le ossa.
Fu ciò che per un attimo sentì Kudai, quando i tendaggi ricaddero alle sue spalle, prima che in un angolo della tenda scorgesse lei: una sagoma tratteggiata dal lume di una candela.       
Il Bene reincarnato. L’ultimo bastione contro l’oscurità.         
La Gilmorgen.

Le brache di tela le cingevano mollemente i fianchi, tenute ferme da un laccio d’argento sottile; il petto era nudo, se non per le strette fasciature di lino che da sempre le comprimevano il seno. Il capo, rasato con cura, era una grigia calotta uniforme. 
«Mi avete convocato, Gilmorgen’Aniku?» Esordì Kudai, mettendosi sull’attenti.         
«Sì, Kudai.» Replicò lei, senza voltarsi. La sua voce era soave e morbida come velluto.
«Siediti di fronte a me e, te ne prego, lascia da parte le formalità. Almeno per questa notte.»   
Egli ubbidì, con un cenno del capo. Si sforzò di rilassare le spalle, mentre sedeva dinanzi alla sua Signora. A dividerli c’era solo la fiammella di una candela, tremolante sul ciglio dello stoppino.           
Kudai osservò il viso della Gilmorgen: era quello di una donna shinbu nel fiore degli anni, con pelle candida come porcellana e due occhi a mandorla che accoglievano un paio di iridi castane, cesellate ai bordi da pagliuzze dorate. Forse la Gilmorgen s’era svegliata da poco, poiché la sclera era un poco arrossata e qualche rimasuglio di lagrimazione risaltava sugli zigomi rotondi.  
A cavalcioni delle gambe, giaceva la zuwarden, infilata nel fodero di bianca magnolia. Su ciascun lato erano incastonati otto anelli: uno d’oro e sette d’argento, uniti da un singolo filo iridescente al lume della candela.      
«Si dice che per un Gilmorgen non esista nulla di più vicino ad un amico, che la sua Alta Sfera. Credo sia per questo che, per tradizione, spetta a noi nominarla.» Disse la Gilmorgen. «Posso dunque considerarti un amico e parlarti liberamente, Kudai?»  
«Senza alcun dubbio,» rispose prontamente, per poi aggiungere – non senza imbarazzo - «Aniku.»           
Lei sorrise, con un sorriso che gli appariva sincero. «Mi riconfermi la giustezza della mia scelta. Ricordi quel giorno, Kudai?»   
“Sto davvero rispolverando vecchie memorie con la Gilmorgen?!”
«Come potrei mai dimenticarlo? È stato il giorno più felice della mia vita!»     
Lei fece un cenno d’apprezzamento. «Quel che più mi è rimasto impresso è stata la faccia del Generale Gundera: sembrava posseduto dal Nakhtife in persona.» La Gilmorgen sorrise, sardonica.           
Quell’espressione sul suo viso parve quasi irreale a Kudai.       
«Vederlo ad un tempo infuriato e costretto a contenersi. Ah, sì, non lo dimenticherò facilmente.»           
«Diciamo pure che le reclute non passarono un bell’anno…»   
Bastò quello scambio a farli ridere, a far sciogliere un poco quel ghiaccio che il codice e la disciplina avevano sempre interposto fra loro. E forse perché più a suo agio, Kudai si arrischiò a porre una domanda a sua volta.   
«Devo ammettere, Aniku, che non ho mai davvero capito perché hai scelto me come tua Alta Sfera. Voglio dire, Gundera – anche se rigido e severo – ha alle spalle una lunga esperienza. E anche se non proprio lui, chiunque altro fra le Sfere sarebbe andato bene. Io ero ancora fresco di nomina, dunque… perché?»     
Lo sguardo della Gilmorgen si scaldò di un calore quasi materno.
«Perché hai un animo buono, prima che giusto, caro Kudai. E questo nonostante la rigida disciplina che ti è stata impartita.» La sua voce sembrò tingersi di eco antiche. «Un’educazione molto severa rende giusto un uomo, ma raramente lo rende buono. Piuttosto, rancore e scontento fermentano sotto la superficie, fino ad esplodere in modi incontrollati e imprevedibili. Non volevo trovarmi di fronte ad una simile eventualità, con la mia Alta Sfera.»          
«Capisco.» Replicò lui, anche se non era certo di aver compreso fino in fondo cosa la Gilmorgen volesse dire: cosa, di fatto, lo rendeva un uomo buono ai suoi occhi? Come chiunque altro in lui c’erano luci ed ombre, che combattevano costantemente le une per prevaricare le altre. In questo Kudai non percepiva alcuna differenza fra sé stesso e le altre Sfere.      

«C’è una domanda che vorrei porti, Kudai. E vorrei che rispondessi con sincerità. Senza tentare di compiacermi.» Riprese a un tratto la Gilmorgen.          
«Chiedi pure, Aniku.» Replicò lui, abbozzando un sorriso. «Risponderò in tutta franchezza.» O, perlomeno, si augurò di esserne capace.           
«Cosa pensi del mio operato? Intendo dire: cosa pensi del mio operato in qualità di Gilmorgen?»            
Quel quesito lo colpì come una ramazzata in testa. Cercò di rispondere con tale fretta che per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. 
«Perché me lo chiedete, mia Signora? Io- io non sono nessuno per giudicare ciò che voi fate o le vostre decisioni. Io sono solo un-» le mani della Gilmorgen, d’improvviso chiuse sulla sua, frenarono il torrente di parole. 
Kudai la guardò, tanto stupito da non emettere un suono: quelle palme, pure irruvidite dall’esercizio con la spada, erano gentili al tocco come petali di ciliegio.          
Lei sorrideva, ma i suoi occhi erano così tristi. 
La voce, tuttavia, risuonò priva di ogni tremore, calda e limpida come sempre. «Guardo indietro, a chi mi ha preceduto, e quel che ho fatto sino ad oggi mi sembra così misera cosa. Gilmorgen’Kudai, di cui porti il nome, mise fine in una sola notte alle guerre che dividevano i regni di Falconia, riunendoli poi in un impero. Gilmorgen’Brunja fondò decine di enclave nelle ostili terre dei Nor. E convinse quel popolo ad abbandonare i loro falsi dei di ferro e sangue, per abbracciare la nostra fede. Gilmorgen’Albier debellò le pestilenze che per quasi un decennio infuriarono nell’Arcipelago del Tartaro. E questi non sono che alcuni. Loro hanno lasciato al mondo un’eredità che è tangibile ancora oggi. Guardo d’altra parte a ciò che ho fatto io e ne vedo l’assoluta inconsistenza.»      
“Mi sta confessando le sue insicurezze o vuole mettermi alla prova?” Pensò Kudai, incerto e col cuore galoppante. “Cosa dovrei dirle? Dannazione!”    
«Io, ecco» si schiarì la voce, cercando le parole «credo che tu sia troppo dura con te stessa, Aniku. Molte delle imprese che hai citato, i tuoi predecessori le hanno compiute solo dopo aver sconfitto il Nakhtife. Ad un’età più avanzata della tua. È ingiusto mettersi a paragone con loro adesso. Sono certo che dopo l’Ikvalibriam compirai opere alla loro altezza, se non superiori! Imprese per cui tutti ricorderanno il tuo nome.»      
«Le tue parole sono così gentili, Kudai.» Il sorriso sulle sue labbra si ampliò, ma gli occhi rimasero tristi. «Temo però di non avere tempo a sufficienza per portare a compimento la mia eredità. Ho paura che dovrò passare ad un altro il fardello della sua realizzazione.»
Kudai fu folgorato dalle implicazioni di quelle parole.  
“Dunque lei ha visto… ha visto la propria morte.”       
Una goccia di cera scivolò, silenziosa come una lacrima, lungo il fusto della candela, spalmandosi contro il piattino di peltro. L’aria si fece densa come fango e Kudai provò la netta sensazione che muovendo un muscolo, le sue ossa sarebbero andate in mille pezzi.
Per un attimo la vista gli si annebbiò e sentì gli occhi pizzicare.           
“Non è possibile, no!” 
«Non permetterò che vi accada nulla di male, mia Gilmorgen. Anche se mi costasse la vita, anche se dovessi oppormi contro i disegni della Trama, io vi proteggerò!» La sua voce venne incrinata dai singhiozzi.      
«Oh, dolce Kudai.» La sua mano destra gli salì al viso, calcando lo zigomo col pollice. «Sono certa della sincerità insita in ogni tua singola parola. E proprio per questo, domani non mi accompagnerai all’Ikvalibriam; partirai invece verso ovest, per compiere il mio disegno.»        
Quelle parole lo ferirono come freddo acciaio nella carne. Kudai si ritrasse da quella carezza. «Cosa?!» Ebbe appena la forza di mormorare. «No! Non se ne parla! Il mio posto è al vostro fianco!» 
Lei sospirò, come se avesse a che fare con i capricci di un bambino. Le sue dita si aggranchirono contro il palmo e la mano tornò lentamente a posarsi sulle ginocchia.  
«Prima del tuo arrivo ho scrutato nelle fila della Trama, lì dove solo il mio sguardo può avventurarsi. Ed è lì che l’ho vista… ancora non lo capisci Kudai, ma questa missione è più importante di ogni altra cosa.» 
Egli si corrucciò, sentì la voce raschiare contro la gola, mentre si sforzava di non scoppiare in urla furiose.
«Cosa potete aver mai visto che sia più prezioso della vostra vita? Della vita di una dea?!»       
Non se ne capacitava. Come poteva essere così sciocca da scegliere di morire, quando esisteva una possibilità di aver salva la vita. Cosa c’era di più importante della sopravvivenza di una Gilmorgen?           
«La fine, Kudai.» Rispose lei, alle sue parole come al suo pensiero, con la voce intrisa della potente eco di ogni sua vita passata. «La fine della più sanguinosa fra le guerre. Niente più Nakhtife, niente più Gilmorgen. Bene e male in equilibrio, in un mondo che finalmente apparterrà ai mortali. L’ultima Ikvalibriam.» 
«Non potete dire sul serio, mia Signora. Come può l’umanità sopravvivere senza la vostra guida?» Protestò, senza più contenere la propria animosità.      
«Può farlo e lo farà, mio dolce Kudai. La tua visione è miope, ma non posso fartene una colpa. Se solo vedessi le alternative, saresti già in sella verso occidente e giudicheresti più che accettabile il sacrificio della mia vita e del tuo nome.» Ricusò la Gilmorgen.
«Non lo credo possibile, ci sarà di certo un altro modo.»          
«Allora che sia tu a giudicare, una madre non può muovere i passi di un figlio, può solo indicargli la direzione. Lascerò che sia tu a giudicare, dopo che avrai visto ciò che ho scorto io… ma adesso basta parole. Dammi la mano.»
   
 
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