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Autore: Bethan__    21/12/2021    0 recensioni
“E’ una cosa talmente più grande di noi…”, mormorò, disgustata dal suo tono di voce instabile.
Si sentiva una codarda.
Sirius le scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, lasciando indugiare la mano sulla sua guancia, sfiorandola appena per qualche secondo.
“Certo che lo è. Ma c’è poco da fare, e io so di voler partecipare. Dare un contributo.”
“Ma tu sarai in grado di farlo. Guarda me, credi che riuscirei a ostacolare questa follia?”.
Il ragazzo accennò un sorriso.
“Io sarò in grado di farlo? Ho paura quanto te, Bronwen. E non sono intelligente neanche la metà di quanto lo sia tu.”
Lei sbuffò.
“Sta’ zitto, se volessi saresti tra i migliori della classe.”
“Ma guarda, l’ombra di un complimento. Sono sconvolto.”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Fieri sentio

12 Anni Dopo

 

Il rumore della pioggia scomparve insieme a quello del vento con una rapidità sorprendente. Bronwen riusciva solo a distinguere, e non senza fatica, il martellare incessante del suo cuore e il suono del suo respiro affannoso. Aveva ancora la mano serrata intorno alla maniglia della porta di casa, era quasi certa che sarebbe crollata per terra subito dopo averla lasciata ma le dita le facevano male e prima o poi avrebbe comunque dovuto schiodarsi. Lui era ancora appoggiato al muro e lei non capiva perché continuasse a guardarla in quel modo, tenendosi a distanza, senza dire una parola. Aveva il terrore di sbattere le palpebre, come se la figura smagrita che stava sgocciolando sulla moquette chiara potesse scomparire alla minima distrazione.
“Sei tu”, le riuscì di mormorare. Sentiva la bocca improvvisamente piena di sabbia. Finalmente lui si trasformò in una presenza materiale, una proiezione della sua mente non si sarebbe certo potuta muovere verso di lei. Tremava, probabilmente per il fatto di essere bagnato da capo a piedi, e anche lei si sentiva vagamente scossa da qualche fremito. Si fermò a poca distanza, togliendole il fiato.
La luce intermittente della televisione bastava a illuminare un volto mortalmente pallido, troppo magro, scavato. Le vesti erano logore e strappate, nonostante i capelli fossero bagnati era impossibile non notare che fossero incrostati di sporcizia.
“Ti prego, non piangere”, furono le prime parole che le rivolse. La voce era appena un sussurro ma non aveva perso quel timbro roco che l’aveva caratterizzata fin da quando scappava per i corridoi insieme ai suoi amici, urlando a Gazza di correre più veloce.
Bronwen lo guardò, confusa, per poi accorgersi con un tocco leggero della mano di avere le guance bagnate. Le asciugò con poca convinzione, distrattamente, riusciva a malapena a percepire un vago bruciore agli occhi e un doloroso nodo alla gola. Lui parve per un attimo voler fare un altro passo verso di lei, le sembrò di vederlo sollevare un braccio ma ci ripensò così in fretta da farle credere di esserselo immaginato. Ebbe la forza di chiedersi se fosse spaventato, se non si fidasse di lei. Se si fosse pentito di essere lì.
“Ho poco tempo ma dovevo venire. Dovevo dirtelo almeno una volta, ho aspettato così tanto tempo, dovevo…”, le parole sembrarono morirgli in gola. Continuava a tenere un tono estremamente basso, come se si fosse dimenticato cosa volesse dire avere una conversazione.
“Non sono stato io”, mormorò infine, la voe incrinata nonostante avesse provato a schiarirla.
Bronwen sbattè le palpebre un paio di volte, paralizzata dalla sorpresa. Era dunque venuto per quello? Dopo tutti quegli anni, andare da lei solo per specificare… solo per sottolineare
“Cosa?”, si ritrovò a chiedere, sconvolta. Lasciò finalmente andare la maniglia, fiduciosa nella capacità delle sue gambe di sorreggerla. Le parve di vedere il suo sguardo attraversato da un lampo di dolore, per un attimo sembrò ancora più pallido di quanto non fosse già.
“Mi dispiace. Puoi non credermi, hai ogni ragione. Lo avevo immaginato. Ma dovevo dirtelo ad alta voce, almeno una volta. Dovevo vederti”.
Bronwen si sentì sopraffatta dalla rabbia, un sentimento che la disorientò per diversi secondi prima che trovasse la forza di deglutire e ricordarsi di dover parlare. Di poterlo finalmente fare.
“Avevi immaginato che cosa?”, mormorò, fremente di collera. Lui, ancora scosso dai brividi, si portò debolmente una mano al viso per scostarsi i capelli scuri dagli occhi.
“Hai tutte le ragioni per credere a loro”, rispose, nella voce un’inflessione amara che non riuscì a nascondere. Bonwen sentì lo squarcio che aveva tentato così faticosamente di ricucire in quegli anni riaprirsi con una forza che le tolse il fiato. Sentì nuovamente quel dolore orrendamente familiare e lo sentì nella sua interezza, come se la ferita fosse fresca, come se non avesse ancora neanche smesso di sanguinare.
“Tutto questo tempo, tu hai pensato… come hai potuto pensarlo?”, boccheggiò, stravolta. Lui fece per dire qualcosa, l’espressione vagamente interdetta, ma venne interrotto.
Certo che non sei stato tu. Io ero… fin dal primo momento, fin da quando Remus mi ha svegliata nel cuore della notte… sei venuto qui per questo? Per tutti questi anni hai pensato che io abbia ascoltato, che mi sia fidata di loro?”, la voce le era improvvisamente diventata leggermente stridula.
In quel momento sentì con chiarezza le lacrime bruciarle sulle guance. La sconvolse il dolore che le provocò il sapere di non esserci riuscita. A cosa erano valsi il tempo passato assieme, tutto quell’amore, se non era stata in grado di essergli di conforto in quegli anni? A cosa era servito quello che avevano avuto se si era dovuto dare la pena di piombare lì solo per specificare qualcosa di tanto ridicolo, di tanto ovvio?
“Hai creduto a me?”, le chiese, la voce malferma. Nuovamente cercò di sollevare il braccio per sfiorarle il viso, asciugarlo, ma non ci riuscì.
“Ho supplicato Silente di aiutarmi per così tanto tempo che non credevo mi avrebbero mai più permesso di lasciare il San Mungo. Volevo essere arrestata, mi sarei fatta uccidere se solo fosse servito a provare che eri innocente. Ti avrei affidato la mia vita, come puoi aver pensato che io… come puoi…”, dovette interrompersi perché i singhiozzi iniziarono a scuoterle il petto con violenza. Si accasciò sul pavimento, la schiena appoggiata alla porta di casa e le ginocchia prontamente tirate al petto. Lui si inginocchiò davanti a lei, non osando toccarla, non osando neanche avvicinarsi più del dovuto.
“Ti prego, non piangere”, ripetè con una nota di disperazione nella voce.
“Ho dovuto. Dovevo pensare di avere una ragione, un giorno. L’idea che tu non mi avresti creduto era insopportabile ma mi ci sono aggrappato per avere un motivo, per restare lucido. Non sarebbe valso a niente se non avessi saputo di dover venire qui, di doverti dire almeno una volta come stavano le cose. Quel giornale non è stato che l’ultimo incentivo, ti prego… ho dovuto sperare che non mi credessi per convincermi a venire qui, per esporti a un pericolo così grande solo per dirti la verità…”.
Era difficile a dirsi, dato che era bagnato da capo a piedi, ma anche lui aveva iniziato a piangere. Vederla soffrire gli spezzava il cuore, era stato così terrorizzato dalla reazione che avrebbe potuto avere nel rivederlo che non aveva neanche pensato bene a che discorso formulare. Sapeva solo di aver sperato tanto, con tutte le sue forze, di sentirla pronunciare quelle parole. Per tutti quegli anni si era tormentato fin quasi alla follia, era stato consumato dal lutto ma soprattutto dal dolore di averla lasciata sola e dall’idea che potesse non credergli. Una parte di lui non aveva avuto alcun dubbio al riguardo, ma se avesse osato convincersi di non doverle per forza parlare per convincerla della sua innocenza, non avrebbe trovato la forza di tornare in quella casa. Non si sarebbe perdonato di averla esposta a un rischio tanto grande.
Bronwen si scostò i capelli appiccicati al viso a causa delle lacrime, cercando di regolarizzare il respiro e riordinare i pensieri.
“Non ho mai dubitato di te. Sarei morta piuttosto che dubitare di te. Ho desiderato morire”, sussurrò con voce spezzata. Era la prima volta che riusciva ad ammetterlo: neanche con Charlie o Cornelia era mai riuscita a condividere quel pensiero, nonostante fosse quasi certa che l’avessero immaginato.
Lui si sentì attraversato da una fitta dolorosa più o meno all’altezza dello stomaco. Stupidamente, egoisticamente, non voleva sapere. Non era sicuro di essere forte abbastanza da sapere cosa avesse provato durante quegli anni, non era certo di riuscire ad ascoltarla. Il senso di colpa gli gravava addosso come una scure.
Si rimise in piedi, a fatica, senza preoccuparsi di passarsi una mano sul viso per nascondere le lacrime. Lanciò uno sguardo nervoso alla finestra, chiedendosi da quanto tempo fosse lì. Non aveva neanche controllato di non essere stato seguito.
“Che stai facendo?”, la voce di Bronwen salì di un’ottava, lo guardava dal pavimento con occhi grandi.
“Devo andare”, disse lui, a fatica. Si sentiva debole, affamato, doveva trovare un luogo asciutto dove trascorrere la notte. Non poteva permettersi di restare un minuto di più, lei sarebbe stata in pericolo. Doveva farsi bastare i pochi attimi che avevano avuto, la sensazione di calore provata quando gli aveva detto di aver creduto in lui, sempre. La prima dopo così tanto tempo.
“No”, rispose Bronwen, asciutta, cercando maldestramente di camuffare il panico che la colse al pensiero di vederlo nuovamente andare via. Lui distolse a fatica lo sguardo e fece per aprire la porta ma, con una rapidità e una forza che sorprese entrambi, Bronwen lo tirò per la veste logora fino a farlo inginocchiare nuovamente per terra. Le tremavano le mani. “Non osare, non provarci nemmeno!”, sbottò, ricominciando a piangere e lottando disperatamente per sporgersi verso di lui, per abbracciarlo.
“Bronwen, ti prego. No. Non toccarmi, ti sporchi”, mormorò lui, il viso contratto in una smorfia di dolore che servì solo a farla lottare con più determinazione. Quando riuscì a circondarlo con le braccia fu nuovamente scossa da singhiozzi silenziosi. Lui non riuscì a impedirsi di stringerla a sua volta, impiegando nell’atto quasi la totalità della poca forza che gli restava. Aveva dimenticato cosa volesse dire, abbracciare qualcuno.
“Devo andare”, ripetè, angosciato. Lei si allontanò il giusto per guardarlo negli occhi, riconoscendo con sollievo la familiarità del suo sguardo grigio.
“Puoi scegliere di restare qui o portarmi con te”, scandì piano.
“Non posso esporti a un pericolo del genere”, mormorò lui.
Bronwen gli prese il viso tra le mani con delicatezza, per paura di fargli male, e di nuovo lui cercò di tirarsi indietro. Puzzava, lo sapeva. Si vergognava del fatto che dovesse vederlo in quello stato, non voleva che gli stesse così vicino. Ma quanto gli era mancato quel tocco, il suo calore. Per quante notti l’aveva sognato.
“Preferirei morire che lasciarti andare un’altra volta”, fece lei, in un tono che non ammetteva repliche. E infatti, non ce ne furono.


Trovò strano il fatto che non usasse la magia ma non fece domande. Aveva aspettato che gli preparasse un bagno, poi l’aveva guardata scendere al piano di sotto per mettere insieme qualcosa da mangiare. Le mani non le tremavano più, la sensazione di spossatezza era stata sostituita da un elevato tasso di adrenalina. Mentre riscaldava gli avanzi del giorno prima, passò velocemente in rassegna le opzioni a disposizione. Scrivere a Silente, mettersi in contatto con Remus? No, si disse, l’avrebbero di sicuro cercata loro appena avessero letto il Profeta del giorno dopo. Quella notte, solo per quella notte, avrebbe finto di non dover affrontare le conseguenze della sua decisione. Non le importava cosa sarebbe successo, se restare con lui fino alla fine avesse significato essere sbattuta ad Azkaban, tanto meglio. Non si poteva comunque dire che in quegli avesse condotto una vita soddisfacente.
Quando la raggiunse in cucina aveva un aspetto decisamente migliore. I capelli erano più corti e puliti, la barba sparita, le unghie non più incrostate di sporcizia. I vestiti che gli aveva fatto trovare sul letto, però, gli stavano talmente larghi da sembrare più grandi di almeno due taglie. Avrebbe voluto dirle quanto gli avesse riempito il cuore notare che avesse tenuto molte delle sue cose. In bagno c’era ancora il profumo che Lily gli aveva regalato per il suo compleanno, in camera da letto aveva ritrovato le riviste di motociclette che un tempo aveva amato collezionare, nell’armadio c’erano ancora tutti i suoi vestiti. Sembrava impossibile che fossero passati più di dieci anni, la casa era quasi totalmente identica a come l’aveva lasciata. Un po’ gli fece male constatare che fosse sola, che probabilmente l’avrebbe aspettato per sempre, sacrificando la possibilità di essere felice con qualcuno. Tuttavia ne fu allo stesso tempo sollevato.
La osservò trafficare con i fornelli e riempire i diversi piatti che aveva ordinatamente disposto sulla tavola.
“Mangia quello che vuoi. Ho preparato il tè, so che è tardi ma magari ti andava. Per scaldarti”, disse piano, facendogli segno di sedersi.
Prese posto con cautela, allungandosi per accettare il pezzo di pane che gli stava porgendo. Non era più abituato al cibo, riuscì a mandare giù quantità minime di ciò che gli aveva preparato. Il tè gli fece bene, si era ricordata come lo preferisse: con latte, senza zucchero.
“Di chi sono questi?”, chiese, alludendo ai vestiti.
“Di Remus. Per un po’ abbiamo vissuto insieme, ne ha lasciato qualcuno”, rispose lei, stringendo appena le dita attorno alla sua tazza. Non riusciva a fare a meno di guardarlo, avrebbe voluto abbracciarlo ancora, sfiorargli il viso, baciarlo. Ma non sapeva, non sapeva se per lui fosse rimasto tutto com’era allora. Non sapeva se dopo tutto quello che aveva passato potesse ancora desiderarla, volerla al suo fianco. Volere chiunque. Aveva così tanto da dirgli, da chiedergli, ma non aveva il coraggio di esporsi. Si costrinse alla cautela, alla pazienza. Si sarebbe adattata: di qualsiasi cosa avesse avuto bisogno, lei lo sarebbe stata. Un’amica, una confidente, solo un posto in cui stare, in cui nascondersi. Non le importava, avrebbe fatto male ma nulla era più fondamentale del tenerlo al sicuro. Figurarsi i suoi sentimenti.
“State insieme?”, chiese lui. Sarebbe stato ovvio, sarebbe stato naturale. Non se la sarebbe presa, non aveva il diritto di prendersela. Ignorò la piccola scheggia di ghiaccio che già minacciava di attraversargli il petto.
Bronwen abbassò lo sguardo. “Non dire sciocchezze”, rispose, più aspra di quanto avrebbe voluto.
Lui tacque per qualche secondo, poi si schiarì la voce.
“Sai, l’ho visto”.
“Chi?”.
“Harry”.
Bronwen sollevò di scatto lo sguardo, improvvisamente presa dall’ansia.
“Cosa? Quando? E se ti riconoscesse, se lo dicesse a qualcuno?”.
“Va tutto bene. Ha solo visto di sfuggita un cane un po’ troppo grosso”, cercò di sorriderle con poca convinzione, sperando che ricambiasse.
Lei si limitò a sospirare, ritraendosi sulla sedia.
“Non mi hanno mai permesso di vederlo. Come… com’è?”, domandò con voce malferma.
“Identico a suo padre”.
Bronwen distolse nuovamente lo sguardo appena sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Quanto avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente, che fossero potuti diventare la famiglia che avevano immaginato di essere un giorno. In quegli anni si era concessa così poche volte di pensare a loro, eppure sia lei che Remus non avevano mai smesso di sentirne la mancanza. Quasi non lo sentì alzarsi per raggiungerla al di là del tavolo, inginocchiandosi perché lo guardasse. Lei azzardò un sorriso poco convinto, scostandogli con delicatezza i capelli dalla fronte. Le mani le tremavano di nuovo.
“Sarebbe così fiero di te. Sono sicura che in questo momento ti stia guardando con quella sua insopportabile aria orgogliosa, come ogni volta che combinavate qualcosa che io e Lily non avremmo dovuto scoprire”.
Lui ricambiò il sorriso, gli occhi appena velati di lacrime.
“Sarei stato un buon padrino, avrei fatto del mio meglio. Spero lo sapesse”.
“Certo che lo sapeva. Ti avrebbe affidato la vita, eri suo fratello”.


Per quanto avesse insistito, non riuscì a impedirgli di aiutarla a lavare i piatti. Era ormai notte fonda e sarebbe stato molto più semplice recuperare la sua bacchetta dal cassetto in cui l’aveva abbandonata diversi anni prima, eppure non lo fece. Si lasciò travolgere dalla sensazione di familiarità e di straordinaria normalità che sprigionò quel momento così strano, così intimo. Lui in piedi accanto a lei, intento ad asciugare le stoviglie della cena. Così avevano vissuto già una volta, il ricordo si fece vivido al punto da farle male. Era quella la normalità che avrebbero dovuto avere alla fine della guerra, la stessa che avevano già sperimentato durante la resistenza. Serate passate a leggere, litigi per il disordine, i dolci di Lily, camino e candele profumate, discussioni per qualcosa di stupido che quasi sicuramente aveva ideato James, la radio accesa, una giornata passata in spiaggia come quella che aveva fatto tanto infuriare Alastor Moody. Il ricordo della serata passata a casa dei Potter, con Harry che sgambettava felice sul tappeto del soggiorno, le spezzò il cuore per l’ennesima volta.

Quando si alzarono per rientrare in casa, chiamati a gran voce da Lily che stava servendo la torta, la fermò un attimo prima che potesse aprire la porta.
“Che c’è?”, domandò la ragazza.
Lui prese un paio di respiri profondi prima di aprirsi in un mezzo sorriso emozionato.
“Quando questa guerra sarà finita, mi sposerai?”.
Bronwen rimase pietrificata per qualche secondo, poi sbattè le palpebre un paio di volte e ricambiò il sorriso, gli occhi pieni di lacrime.
“Naturalmente.”


Il bicchiere le sfuggì dalle mani e si ruppe nel lavandino, il rumore la fece sussultare.
“Scusa”, disse automaticamente, affrettandosi a raccogliere i pezzi di vetro. Si tagliò il palmo della mano destra ma sentì a stento il bruciore, si accorse del sangue solo quando lui le prese il polso con delicatezza.
“Lasciali”, fece lui con tono morbido, alludendo ai pezzi del bicchiere. Bronwen obbedì e subito si voltò per cercare un canovaccio ma sentì qualcosa sfiorarle la mano. “Epismendo”, mormorò Sirius, per poi riporre la bacchetta nella tasca posteriore dei pantaloni. La ferita si rimarginò all’istante, sembrando già vecchia di un paio di giorni.
“Grazie”, fece lei, sopprimendo a stento un altro ricordo. Aveva usato quello stesso incantesimo su di lui, tanto tempo prima, una notte di luna piena.
“Stai tremando”.
Bronwen sentì un nodo doloroso serrarle la gola ma raccolse tutta la forza necessaria per non ricominciare a piangere.
“Scusa”, ripetè a fatica. Lui, che non le aveva ancora lasciato andare il polso, lo accarezzò delicatamente con il pollice.
“Se vuoi che me ne vada, ti prego, dimmelo”, mormorò.
Bronwen tirò via la mano più bruscamente di quanto avrebbe voluto.
“Perché continui a ripetere di volertene andare?”.
Smettila, mi fa male, avrebbe voluto aggiungere.
“Sei nervosa, non mi guardi. Non hai neanche pronunciato il mio nome. Voglio solo che tu stia bene”, c’era una nota di amarezza nel tono di lui.
Lei sollevò lo sguardo per incontrare il suo, il viso contratto in un’espressione afflitta. Se solo immaginassi cos’ha significato vivere senza di te. Se solo sapessi quanto è stato difficile impedirmi di andare in pezzi.
“Non voglio fare niente che possa turbarti. Ho paura di dire la cosa sbagliata, di toccarti, di farti stare male. Non voglio fare domande, non voglio farti pressioni, non… sono dodici anni che non pronuncio il tuo nome perché non ce la faccio. Ogni volta è come se mi si squarciasse il petto”, si stupì di quanto fosse risultato faticoso pronunciare quelle parole.
Era tanto tempo che non diceva a qualcuno come si sentisse, l’ultima volta Charlie ne era rimasto così turbato che si era ripromessa di tacere e basta. Remus era l’unico al quale, di tanto in tanto, si concedesse di scrivere una o due frasi a proposito del suo stato d’animo.
Lui increspò le labbra per un attimo, indeciso, poi le prese delicatamente il viso tra le mani per baciarla con casta dolcezza. Ricordava poche altre occasioni in cui gli era sembrata fragile e spaventata allo stesso modo. L’ultima cosa che voleva era che si preoccupasse per lui: era lì, era tornato, era riuscito a scappare. Avrebbe rimesso tutto a posto, l’avrebbe protetta, avrebbe protetto Harry, avrebbe scovato lui. Non le avrebbe permesso di angosciarsi un minuto di più, la sofferenza che le aveva causato in quegli anni era stata abbastanza.
Gli scaldò il cuore il modo in cui ricambiò il bacio, sporgendosi il più possibile verso di lui, circondandogli il collo con le braccia, le guance nuovamente umide. Si allontanò con l’intenzione di asciugargliele ma lei gli prese le mani, tenendole giù.
“Non sentirti in obbligo. È passato tanto tempo, capirò se non è più lo stesso. Non è la condizione necessaria per restare qui”, disse, gli occhi grandi e limpidi.
Lui non riuscì a risparmiarsi una piccola risata incredula: era assurdo quanto poco fosse cambiata.
“È ancora straordinaria la tua abilità nell’avere sempre convinzioni sbagliate”, disse, liberando una mano per portarle una parte di capelli dietro l’orecchio sinistro.


Il buio della camera da letto le rendeva impossibile metterlo a fuoco, ragion per cui fu facile fingere che non se ne fosse mai andato. La voce era più profonda e lui era più alto, più magro, ma il resto era eccezionalmente familiare. Aveva ancora lo stesso modo di abbracciarla, di passarle un braccio attorno la schiena per accarezzarle distrattamente i capelli mentre l’ascoltava parlare. E anche lei si scoprì a nascondere il viso nello stesso punto, nell’incavo tra il collo e la spalla di lui. Nonostante il buio, si vergognò di come avesse dovuto vederla. Dimagrita al punto da sembrare malata, capelli in disordine, spenti e crespi, già leggermente striati di bianco.
Dopo una ferrea insistenza, le permise di mettersi a sedere con la schiena appoggiata alla testiera del letto perché potesse tenerlo stretto, lasciando scorrere le dita tra i capelli scuri e disordinati come aveva già fatto tante volte. Prima a scuola, quando il dolore dei litigi con suo fratello bastavano ancora a tenerlo sveglio la notte, poi in quello stesso letto, quando l’angoscia della guerra non gli permetteva di chiudere occhio fino all’alba.
Parlarono a lungo e sottovoce, si dissero tante cose ma tutte rivestite di una superficialità spensierata. Ci sarebbe stato tempo per esplorare il resto, per condividere il dolore.
“Hai rinunciato alla magia”, osservò lui, incapace di trattenersi oltre.
Bronwen si strinse appena nelle spalle.
“Ho rinunciato a molte cose. La magia non era poi così indispensabile”.
“Sarà stato contento tuo padre, hai lasciato che riordinasse tutti quegli scaffali da solo?”. “Non posso credere di dovermi già difendere da quel tono accusatorio”.
“È davvero con me che vuoi parlare di difenderti dai toni accusatori altrui?”.
Per un istante le si spezzò il respiro.
“Sirius, non cominciare”.
Lui accennò un sorriso. Quanto gli sembrava più bello il suo nome ogni volta che lo pronunciava lei. Quella sensazione, negli anni, non era mai cambiata.
Il silenzio che seguì era calmo, pregno di tranquillità. Il respiro leggero e regolare gli fece pensare che si fosse addormentata, ma la scoprì ancora sveglia quando ricominciò ad accarezzargli i capelli. Lui le strinse appena una mano, gli occhi chiusi. Era la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, che si sentiva così in pace. Sarebbe durata poco, il giorno dopo avrebbero dovuto affrontare la realtà, le persone. Avrebbe dovuto metterla al corrente dei fatti, lo sapeva. Eppure era grato per quella notte, fosse stata l’ultima a essergli concessa. Non avrebbe desiderato niente di diverso, non sarebbe potuto esistere niente di migliore.
“Dovresti riposare”, gli disse in un sussurro.
“Voglio avere ancora un po’ di tempo”. Non voglio che arrivi domani.
Bronwen gli accarezzò una guancia, sfiorandola con delicatezza.
“Lui è ancora vivo, non è vero?”, chiese con voce più ferma possibile. Il solo ricordo la faceva fremere di rabbia, tutti i tentativi che lei e Remus avevano fatto in quegli anni non avevano portato a nulla. Non aveva mai osato chiedere a Silente, il quale era sembrato fin troppo incline a crede alla versione del Ministero. Dovette controllarsi per tenere a bada l’odio viscerale che le scatenò l’improvviso pensiero di Crouch.
Sirius sollevò appena la testa per guardarla, riuscendo a malapena a metterla a fuoco. “Non devi preoccupartene”, sentenziò nel modo più autoritario possibile.
“E tu non devi osare sobbarcarti questa storia da solo”.
“Bronwen, se ti succedesse qualcosa, se anche solo ti sfiorasse…”.
“Quello che ha fatto Peter va oltre me, lo sai benissimo”, tagliò corto lei.
Sirius sospirò. È davvero ancora identica.
“Possiamo non parlarne adesso?”.
“Certo, ma non pensare che lascerò perdere”.
Lui le appoggiò nuovamente la testa in grembo, gli occhi chiusi, la mano ancora nella sua. E come potrei?


 

Sorpresa! Non so se c'è ancora chi si ricorda di questa storia ma, dopo tutto questo tempo, mi è sembrato giusto darle una conclusione più definitiva. Spero che a qualcun* possa far piacere. Un abbraccio a distanza e alla prossima.

  
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