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Autore: Imperfectworld01    24/12/2021    1 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Trenta.

Dopo aver studiato tutta la mattina, nel primo pomeriggio uscii con lo zaino in spalla, riempito con la mappa di Milano e una scatola di biscotti che avrei usato come scusa per farmi aprire la porta.

Avevo minacciato Vittorio per giorni interi affinché non si avvicinasse a quei biscotti al burro che avevo accuratamente preparato, senza fornirgli una vera e propria spiegazione, dato che nessuno doveva sapere quello che stavo per andare a fare, nemmeno lui.

Non perché pensavo che avrebbe cercato di fermarmi come aveva fatto Benedetta, anche perché se non era riuscita lei a farmi cambiare idea, figuriamoci se ce l'avrebbe fatta lui, ma solo perché volevo che fosse una cosa mia. Al limite gliene avrei parlato una volta tornata a casa, sempre che ne avessi voglia.

E poi anche lui, che si professava sempre sincero e capace di parlare a cuore aperto con me, aveva invece i propri segreti che non si sentiva di condividere con me.

Non lo incolpavo per questo. Anzi, forse da una parte era giusto così. Chiunque aveva i propri segreti, piccoli o grandi che fossero, qualcosa che non rivelava a nessuno per le più svariate ragioni, e andava bene così.

Feci così in fretta a pranzare e prepararmi per uscire, che mi sentivo ancora le tagliatelle al ragù in gola piuttosto che nello stomaco. Inoltre, mia mamma e Benedetta, oltre a Vittorio e Claudio, si domandarono con ogni probabilità dove mi stessi recando con così tanta urgenza, ma riuscii a evitare di fornire loro una risposta precisa.

Speravo solo di non impiegarci troppo tempo ad arrivare a destinazione: non ero più in punizione, ma ci sarei facilmente tornata se fossi scomparsa per ore e ore senza avvisare nessuno circa i miei spostamenti e per di più se fossi tornata la sera tardi, come circa tre settimane prima. Dipendeva tutto anche da quanto ci avrei messo a parlare con mio padre.

La strada sarebbe stata molto più breve se avessi preso la metropolitana, ma non avevo voglia di prenderla senza biglietto e assumermi il rischio di essere scoperta, anche perché nel primo pomeriggio i mezzi pubblici non erano mai tanto pieni e sarebbe stato più difficile passare inosservata e confondermi fra la calca di gente.

Così presi un autobus fino al capolinea, e da lì attesi l'arrivo di un tram che avrei preso per sette fermate. Da lì poi era un attimo, questione di pochi minuti di camminata e sarei giunta a destinazione.

Mi accorsi, man mano che mi avvicinavo, che avevo sempre meno bisogno di tirare fuori la mappa per controllare il tragitto, a differenza di prima che dovevo accertarmi in continuazione di non star sbagliando strada. Sapevo benissimo dove stavo mettendo i piedi, me lo ricordavo ancora.

C'erano gli stessi palazzi, quelli più vecchi sulla destra e quelli più nuovi, ricostruiti dopo la guerra sulla sinistra, la stessa piazzetta quadrata dove andavo a giocare da bambina, pure i graffiti e i pasticci sulle mura grigie del mio vecchio condominio erano rimasti gli stessi, se n'erano solo aggiunti di nuovi. C'era ancora, parcheggiato dove lo vedevo sempre, un vecchio Maggiolino cabriolet del 1949, che una volta era bianco ma col tempo aveva perso sempre di più la sua luminosità e si era ingrigito. Apparteneva a un mio vecchio vicino di casa, che a quanto pare abitava ancora lì.

Mi avvicinai allora al pannello del citofono, andando a cercare con l'indice il cartellino bianco contenente il cognome di mio padre.

Storsi il naso nel momento in cui lo individuai, Colombo, seguito da un trattino e un altro cognome, Vezzi.

Comunque cercai di non saltare a conclusioni affrettate. A breve avrei avuto tutte le risposte che cercavo. Così, con le mani che tremavano terribilmente, schiacciai il pulsante corrispondente all'etichetta e attesi un riscontro dall'altra parte, che arrivò dopo pochi secondi.

«Chi è?»

Non era una voce maschile, e inoltre non sembrava una voce adulta, a considerare da quanto fosse acuta e squillante.

«I-io... sono Nina, sono una ragazza della parrocchia di San Giovanni, sono qui per... per portare dei doni» risposi, sentendo il cuore morirmi in gola.

Diamine Nina, ti eri esercitata a casa, perché ora te ne esci con questo tono così insicuro? Come puoi aspettarti che ti aprano se ti presenti così?, mi rimproverai fra me e me.

Sorprendentemente, però, sentii il portone scattare, segnale che mi avevano aperto.

«Secondo piano!» sentii dire in lontananza, ma non ce n'era un reale bisogno: mi ricordavo anche quello, e infatti subito dopo che si era aperta la porta ero scattata dentro e mi ero già diretta su per le scale, senza stare ad attendere che mi dessero quell'informazione.

Mi accorsi che avevo già il fiatone ancor prima di appoggiare il piede sul primo scalino. Mi fermai a metà percorso, per cercare di calmarmi, e fui quasi tentata di scendere di sotto e correre a casa.

Smettila di fare la vigliacca, ormai sei qui, quindi sali quegli stupidi scalini e vai a scoprire la verità che ti meriti dopo tutti questi anni, mi dissi.

Allora feci un respiro profondo e, infondendomi coraggio, percorsi gli ultimi scalini che mi mancavano.

Una volta sul pianerottolo del secondo piano, vidi una porta socchiusa. Mi avvicinai per leggere la targhetta sul muro, ed era quella giusta.

Nel mentre che credevo di morire per un attacco di cuore, mi accinsi a mettere via dentro lo zaino la cartina e a tirare invece fuori la scatola di biscotti. Una volta pronta, bussai educatamente alla porta.

La porta si aprì del tutto e davanti a me mi ritrovai una scena che non mi sarei mai immaginata. C'era una bambina, di dieci anni massimo, che mi fissava con occhi sorpresi e con un nasino curioso che aveva già intuito quello che fosse il contenuto della scatola che tenevo in mano. Ma ciò che mi stupì ancor di più fu vedere una ragazza, dietro la bambina, che dimostrava circa la mia età, massimo uno o due anni in più.

Avevo la pelle d'oca, i brividi lungo tutto il corpo, il respiro che mi mancava e per poco non rischiai di far cadere a terra la scatola di biscotti.

Con un filo di voce e gli occhi così lucidi da impedirmi di mettere bene a fuoco, aprii finalmente la bocca e parlai: «Questi sono i biscotti che io e... e gli altri ragazzi e bambini della parrocchia abbiamo fatto con... con a-amo... sì, amore verso il p-prossimo, e li stiamo consegnando a tutte le famiglie del quartiere... in cambio di... di una gentile offerta» proseguii con la mia recita, impiegando di certo più tempo del dovuto a pronunciare quelle parole, a causa dell'agitazione che mi faceva tremare la voce, balbettare e impappinare di continuo.

In quel momento, più che mai prima d'ora, desiderai di aver preso, così come Benedetta, gli occhi da mia madre... dato che a quanto pare non sembravo l'unica ad aver ereditato quelli di mio padre.

Chissà se anche loro se ne erano accorte nel trovarmi lì di fronte a loro.

Era l'unica spiegazione possibile, ma volevo averne la conferma. «Chiaramente mi rendo conto che voi... sì, insomma, immagino che non abbiate del denaro con voi... per caso la signora Colombo e il signor Vezzi sono in casa?» domandai, invertendo appositamente il genere associato ai loro cognomi.

«No, il signor Colombo - mio padre -, e la signora Vezzi - mia madre -, non sono in casa al momento» precisò quella più grande, e io mi sentii morire dentro, nel ricevere quella risposta così dettagliata. «E mi dispiace, perché sembri molto gentile, ma noi non abbiamo niente da darti» aggiunse.

Deglutii.

«Stai bene?» chiese la più piccola mentre io mi sentivo quasi svenire, avvicinandosi e toccandomi il braccio delicatamente. Sicuramente ero sbiancata e parevo davvero un cadavere, e forse avrei voluto esserlo. O se non altro avrei voluto essere ovunque ma non lì.

Mi scostai bruscamente e tesi le braccia in avanti, per passare a loro la scatola di biscotti. Avevo bisogno di liberarmi di quel peso, dato che sembrava aumentato di una cinquantina di chili e io non ce la facevo più ad averlo fra le mani. «Tenete! Non fa nulla, insomma, tanto ne abbiamo fatti talmente tanti di biscotti che possiamo permetterci di regalarne qualcuno» dissi a quel punto, e la bambina accolse le mie parole e il mio dono con piacere.

Stavo quasi per andarmene, e non vedevo l'ora di farlo, ma c'era ancora una cosa che volevo scoprire. Così mi rivolsi alla figlia più grande. «Tu frequenti l'Itis Feltrinelli, giusto? Mi sembra di averti vista, io sono nella 2D, tu che sezione sei?» domandai quindi.

Lei corrucciò la fronte, piuttosto confusa e stranita. Be', era ovvio che non ci avessi preso, dato che avevo sparato a caso, inventandomi tutto. Ma mi serviva per sapere una cosa nello specifico, e la sua risposta spiegò tutto perfettamente: «No, direi che non è possibile. Vado al liceo Brera e, anche se non si direbbe perché sembro più piccola rispetto alle mie coetanee, sono al quarto anno» disse con un piccolo sorriso, e io mi sentii ancora peggio di come già mi sentivo.

Era più grande di me e più piccola di Benedetta.

«Allora forse sarà stato qualcuno che ti somiglia. Grazie tante e scusate il disturbo. Buona giornata» dissi con voce rotta, prima di voltarmi e andarmene da lì al più presto.

Ero sotto shock, con la vista annebbiata, e me ne stavo lì a vagare senza una meta vera e propria nei dintorni di Milano.

Non potevo crederci. Avevo già messo in conto che qualsiasi cosa avessi scoperto mi avrebbe scossa, anche perché già rivedere mio padre dopo tutti quegli anni sarebbe stato qualcosa di a dir poco sconvolgente... ma quello era stato ancora peggio, ed ero certa che non avrei mai più sentito il bisogno di vedere quel mostro per il resto della mia vita.

Del resto quasi metà dei miei anni li avevo passati standogli lontana, ed ero sopravvissuta. Ce l'avrei fatta così come avevo fatto fino a quel momento.

Solo che non ce l'avrei fatta da sola, non dopo ciò di cui ero venuta a conoscenza. Avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, ma non volevo né potevo farlo con Benedetta, perché mi aveva avvisata, e solo allora le sue parole mi sembravano finalmente sensate; non potevo parlarne neanche con mia madre, poiché non volevo che lo scoprisse; né tantomeno con Vittorio, più che altro perché non avevo voglia di tornare a casa.

Avevo bisogno di starmene fuori da quelle quattro mura ancora per qualche ora. E quindi c'era solo un posto dove sarei potuta andare.

*

Era stata una fortuna che proprio il giorno precedente mi fossi segnata sulla mappa l'indirizzo di casa delle mie amiche, non pensavo che mi sarebbe servito così presto.

Irene mi accolse a braccia aperte, senza fare domande sul perché mi fossi precipitata a casa sua senza preavviso. Le corsi incontro non appena mi aprì la porta di casa e la abbracciai forte: «È stato il giorno più brutto della mia vita!» esclamai, lottando con tutta me stessa per evitare di piangere.

Probabilmente mi avrebbe fatto bene piangere, ma mi ero stancata di farlo per lui, ne avevo versate a sufficienza di lacrime nel corso degli anni.

Irene sciolse l'abbraccio e mi fissò preoccupata, prima di chiudere la porta di casa alle mie spalle e prendermi per mano per portarmi con lei in cucina. Mi disse di accomodarmi sulla sedia e dopodiché prese un bicchiere e lo riempì velocemente con l'acqua del rubinetto, prima di passarmelo.

Bevvi il tutto in un sorso solo, che mandai giù deglutendo pesantemente. Allora Irene mi prese con cautela il bicchiere dalle mani e me lo riempì nuovamente.

«Che succede, Nina? Non ti ho mai vista così...»

Aprii la bocca per rispondere, e poi la richiusi.

Una parte di me voleva scoraggiarmi dal confessarglielo, mi ripeteva di lasciare perdere e che tanto a Irene non sarebbe fregato niente dei miei problemi, anzi, che avevo pure fatto un errore madornale a presentarmi a casa sua da gran maleducata; l'altra parte di me però mi diceva che non era ignorando la cosa e tenendomi tutto dentro che sarei stata meglio, e che inoltre Irene non avrebbe mai pensato quelle cose di me perché era una vera amica e mi voleva bene.

Quella volta lasciai quindi che la piccola e fragile Nina prevalesse sulla grande e dura Nina. Presi un respiro profondo e, dopo aver bevuto anche il secondo bicchier d'acqua, un po' più lentamente rispetto alla prima volta, riaprii la bocca. «D'accordo. Ti racconterò ogni cosa.»

*

Irene era molto brava ad ascoltare. Rimase in silenzio a sentire il mio racconto fin dal principio, le raccontai in dettaglio di mio padre e di quello che era successo otto anni prima, dato che prima di allora mi ero solo limitata a dire che i miei si erano separati e non avevo mai parlato della storia per intero; dissi di come per tutti quegli anni avessi sempre sentito la mancanza di mio padre come un vero e proprio tassello mancante nella mia vita, e infine raccontai di quel pomeriggio e di ciò che ero venuta a sapere.

La mia amica mi ascoltò con pazienza e attenzione, senza fare nessun commento fino a che non terminai il discorso.

Era stato un enorme passo avanti per me e mi aveva costato molta fatica, ma mi sentivo bene dopo averne parlato con qualcuno, e in particolare dopo averne parlato con lei.

Mi abbracciò forte un'altra volta, dandomi delle piccole carezze sulla schiena mentre io singhiozzavo.

Perché sì, nonostante ciò che mi ero imposta, era inevitabile che alla fine avrei pianto. Mi ero rivista scorrere davanti tutti quegli anni alla velocità dalla luce, migliaia di ricordi che riaffioravano, il tutto unito al nervoso, alla tristezza, alla delusione e alla rabbia... era un misto di emozioni così intense che non ero riuscita a trattenermi.

«Mi dispiace tanto, Nina, davvero. Vorrei trovare il modo di aiutarti, ma non posso far altro se non starti vicino, anche se mi rendo conto che non sia sufficiente, e che...»

«Lo è, invece. Per me conta tantissimo» la interruppi con un piccolo sorriso, prima di soffiarmi il naso sul tovagliolo di carta che mi aveva passato poco prima. «E scusa se mi sono presentata così a casa tua senza neanche chiederti il permesso, ma non ce la facevo proprio a tornare a casa mia e fare finta che non fosse successo niente... ora però mi sento meglio, quindi posso togliere il disturbo, anche perché credo che si stia quasi facendo ora di cena, e i tuoi torneranno a casa a breve.» Mi alzai in piedi dalla sedia e feci per dirigermi verso la porta di casa, ma Irene mi afferrò per il polso per trattenermi: «Perché non resti a cena qui? E magari anche a dormire. Tanto domani è domenica, anche se facciamo tardi non è un problema, dato che non c'è scuola» propose ed era un'idea allettante, ma avrei prima dovuto avvisare mia madre e chiederle il permesso. «Cioè, mia madre mi romperà sicuramente se non vado a messa, ma magari chiuderà un occhio se ci sei tu come ospite» aggiunse e io sogghignai.

Non avevo mai fatto un pigiama party, chiaramente, non avendo mai stretto un vero rapporto d'amicizia con nessuna.

Andammo in salotto per prendere il telefono e poter chiamare mia madre, che stando a quanto segnava l'orologio appeso alla parete era tornata a casa da una decina di minuti. «Pronto?» rispose.

«Ehi mamma, sono io, Nina. Sono a casa di una mia amica, Irene» dissi.

«Chi?» domandò confusa.

«Ma dai, mamma, te ne parlo sempre! Irene, la mia compagna di classe!» esclamai, convinta per qualche ragione che alzare il tono di voce servisse a scuotere la memoria di mia madre e far sì che si ricordasse.

Trascorsero una decina di secondi, e poi mia madre si espresse nuovamente: «Ah, ma certo: Irene, quella di Como che è nata due giorni prima di te» disse, rimembrando ciò che le avevo detto i primi giorni di scuola. «E senti, quando torni a casa?» chiese. «È quasi ora di cena» aggiunse.

«In verità noi... ecco, Irene mi ha invitata a rimanere qui a cena e a dormire. Posso? Ti prego, ti supplico, ti scongiuro!»

Io e Irene ci scambiammo uno sguardo complice e sorridemmo.

«Ma dai, Nina, domani è anche il compleanno di tua sorella...» iniziò a dire, e io la interruppi: «Appunto, domani, non oggi. Tanto torno domani mattina prima di pranzo, Irene non abita tanto lontano da noi, tempo di svegliarmi e fare colazione e sarò a casa» spiegai, sperando di riuscire a convincerla.

In fondo non le chiedevo quasi mai dei piaceri.

Passarono altri secondi di silenzio, che mia madre si prese per riflettere, mentre io e Irene ce ne stavamo lì a incrociare le dita.

«Mmh... dai, d'accordo. Comportati bene, mi raccomando. E ringrazia i suoi genitori per l'ospitalità. E non state alzate fino a troppo tardi a schiamazzare come delle oche, potreste infastidire i suoi familiari oppure i suoi vicini, e inoltre...»

Non le diedi il tempo di finire la lunga lista di raccomandazioni, perché ero troppo al settimo cielo per poter starmene lì ad ascoltarla. «Grazie, grazie, grazie! Ti voglio bene, mammina, sei la mamma migliore del mondo e finché avrò te so che non mi mancherà mai nulla!» esclamai, ed era la verità, era quello che sentivo davvero dentro di me.

 

   
 
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